Alfano, il morto stringe il vivo, ovvero l'albero di famiglia nell'opera di gipi

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Il morto stringe il vivo. Ovvero l’albero di famiglia nell’opera di Gipi Giancarlo Alfano

1. Nel 2006 Gipi (Gianni Pacinotti) pubblica S., un graphic novel dedicato al padre Sergio, la cui controfigura narrativa è nominata, appunto, S. La storia è distinta in quattro ca pitoli, o sezioni, rispettivamente intitolate «S. mi dice», «31 agosto 1943», «counterstrike», «domeniche», e precedute da una tavola a pagina intera che mostra un ordinato panorama urbano stilizzato da cui si levano tre colonne di fumo. Fuori storia, con valore di sintesi e al tempo stesso come preludio narrativo, vi è dunque un’immagine che si accampa muta. Si gira la pagina, e inizia il racconto, che subito chiarisce

la

natura

di

quel

fumo

come

la

conseguenza

di

un

bombardamento aereo: «S. mi dice che da l fumo che in quel momento sta avvolgendo il ponte...»; «Poi un’altra bomba, dice S., e un’altra (mamma mia) e allora si deve scappare»; «S. corre fino a quando non è fuori dalla nuvola di polvere e fumo. A quel punto si ferma e cosa succede? Succede che la città, dopo il bombardamento, non si riconosce più» 1. Così, con la consueta trasmissione dell’esperienza di padre in figlio, inizia la storia di un padre raccontata dal figlio. La voce di S. e le immagini che si produssero nella mente dell’ascoltatore fa nciullo, il quale adesso si fa Narratore grafico restituendo al Lettore quelle stesse immagini. E per raccontare la storia del padre, storia che è prima di tutto racconto ascoltato, trasmissione di esperienza e di immaginazione, il Narratore decide di partire da un bombardamento della Seconda guerra mondiale, quando s’infranse l’antica logica degli spazi bellici, che distingueva in maniera rigida tra prima linea e fronte interno, rendendo il conflitto totale, con fatali conseguenze sull’inerme popolazione c ivile.

Gipi, S. [2006], Coconino Press, Bologna 2014. In quest’edizione le pagine non presentano numerazione: le citazioni saranno pertanto riportate senza ulteriore rimando in nota. 1

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La prima apparizione di S., dunque, è prodotta dal bombardamento: perché non solo S. è una delle vittime superstiti di quell’evento, ma anche perché egli se ne fa testimone, decidendo di raccontare al figlio (e non una sola volta, si deve immaginare ) quella storia. Ma l’apparizione di S. è prodotta dal bombardamento soprattutto perché quel bombardamento ha davvero a che fare con la famiglia, avendo portato S. ad assumere la posizione di padre. L’evento bellico, orribilmente distruttivo, si rivela allora quel che ha reso possibile la costituzione della famiglia, anzi ha reso possibile la possibilità stessa che si dia una famiglia. E questo nel momento in cui essa rischia di dissolversi: in quello stesso bombardamento, infatti, muoiono i genitori della fidanzata di S., futura madre del Narratore, verso la cui casa il suo futuro padre si è diretto di corsa per assicurarsi delle condizioni dell’amata. È il 13 agosto 1943. I graphic novels di Gipi si muovono di frequente tra più sequenze temporali. Spesso, come appunto in S., le sequenze sono tre, così distinte: 1. Un passato cronologicamente distante rispetto al momento in cui la storia viene narrata, il cui rapporto con il Narratore, o con il Personaggio principale non è necessariamente diretto (nel caso d i S. invece la relazione è stretta, trattandosi di un episodio decisivo nella vita del personaggio); 2. Un passato più recente, nel quale si colloca un evento che riguarda sempre il Narratore, o il Personaggio principale (e che può riattivare elementi del passato “1”); 3. Il “presente”, ossia il tempo collegato alla vita del Narratore, o del Personaggio principale. Nel caso di S. i tre tempi sono 1) la fase della Seconda guerra mondiale che va dal 31 agosto 1943 all’arrivo delle truppe americane; 2) un epis odio della prima giovinezza del Narratore, quando S. è un uomo maturo, con una gita in barca che si evolve in maniera drammatica; 3) la morte di S., la sua cremazione e gli eventi che conducono al presente dell’enunciazione (del racconto, o della decisione di raccontare). Come si vede, il tempo “3”, che è il tempo dentro il quale si stabilisce l’evento del racconto, e che (tra l’altro) giustifica la nostra stessa esistenza di lettori, è il tempo del lutto: è la morte del padre che ha portato il figlio a far si narratore. Ma questo lutto, per svolgere il suo lavoro, deve misurarsi con il tempo “1”, che è il tempo della guerra

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(per ragioni che

qui non interessano,

il tempo

“2”

è

tra

l’altro

dimostrazione che la guerra continua anche in tempo di pace).

2. Nel 2013 Gipi ha pubblicato Unastoria, un altro notevole graphic novel in cui vengono intrecciati un episodio della Prima guerra mondiale e il percorso esistenziale del protagonista, Silvano Landi, «uno scrittore che alla soglia dei cinquant’anni vede la sua v ita andare in pezzi» 2. Anche nel caso di Unastoria la vicenda è scandita su tre tempi: 1. Un episodio della Grande Guerra che riguarda Mauro, il padre del nonno del Personaggio principale; 2. La crisi matrimoniale che porta alla separazione di Silvano, il Personaggio principale, dalla moglie (che lo abbandona, facendolo scendere dall’automobile a una stazione di servizio): questo periodo corre parallelo alla scoperta delle lettere di Mauro e al progetto di scrivere un libro sulla sua storia; 3. La permanenz a del Personaggio principale presso una casa di cura in seguito a un grave episodio di dissociazione mentale. I tre tempi sono collegati dalla presenza della figlia di Silvano, il Personaggio principale: è infatti a partire dal punto di vista della giovane donna (bambina all’inizio del tempo “2”) che si misura il tempo “1”, giacché l’uomo che ha partecipato alla Prima guerra mondiale viene sin dall’inizio indicato come il «bisnonno», in quanto, come viene esposto accuratamente in alcune vignette essenziali, quel soldato è il «nonno del nonno»: questa indicazione vale però solo se si contano le generazioni a partire dalla figlia (per il protagonista Mauro è invece il padre del nonno) 3. Il ruolo della figlia di Silvano come “ponte” tra le generazioni (e fondamentale elemento di raccordo nella vicenda) vale non solo per la cronologia, e anzi per la stessa scansione familiare, giacché è sempre la figlia a recuperare il padre quando, nel momento più drammatico della sua crisi, egli esce di casa nudo per raggiunger e la stazione di servizio dove è finita la sua storia matrimoniale; ed è ancora lei a condurlo poco dopo nella casa di cura. La figlia si colloca in questo modo all’incrocio delle Cito dalla quarta di copertina: Gipi, Unastoria, Coconino Press, Bologna 2013. Ivi, pp. 68-69. Preciso che la figlia di Silvano è contraria al progetto del padre, e alla stessa storia di Mauro, in cui forse vede, oscuramente, l’origine del disastro famigliare. 2 3

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sequenze temporali, stabilendo la distanza rispetto al tempo “1” e mettendo in relazione i tempi “2” e “3” 4. Oltre a questa importante analogia che riguarda la temporalità, S. e Unastoria presentano un’evidente analogia tematica, che è poi il vero e proprio fondamento dei due racconti: entrambi, infatti, hanno inizio con la guerra, stabilendo un collegamento diretto tra guerra e struttura familiare. Certo, in S., la storia d’amore del protagonista S. con la sua fidanzata, cioè con la madre del Narratore, evidentemente inizia già prima della guerra, o almeno prima del bombardamento del 31 agosto 1943; allo stesso tempo, abbiamo però visto, è quell’evento a stringere il loro legame, facendo sì che la scomparsa dei genitori della fidanzata lasci spazio all’avvento di una nuova famiglia (“la” famiglia, bisognerebbe anzi dire, in quanto si tratta di quella

del

Narratore).

Analogamente,

in

Unastoria

è

l’azione

del

“bisnonno”, Mauro Landi, a instaurare la famiglia che culmina in Silvano Landi; azione con la quale il protagonista (o co -protagonista?) deve misurarsi per passare attraverso la sua crisi.

3. Il trauma, è stato detto, non è semplicemente un effetto della distruzione, ma anche, fondamentalmente, un enigma della sopravvivenza 5. Così è in S., dove sopravvissuti al bombardamento sono i genitori, e soprattutto la madre, seppellita so tto le macerie di una gabbia per conigli ma incredibilmente rimasta illesa salvo per la «punta di un gomito sbucciato», al contrario della madre e della sorella incinta, che si trovavano nella casa di fronte, còlta in pieno da una bomba, e al contrario del padre, che, alla vista della bomba, ha lasciato la conigliera e si è lanci ato verso la moglie, rimanendo anch’egli ucciso dall’esplosione. Esistenza enigmatica (“perché io non sono morto?”), il sopravvissuto ha sempre un impegno col Tempo “1”, “2”, “3”: patiamo forse qui una certa gergalità dell’analisi, ma mi sembra in ogni caso essenziale distinguere queste sequenze temporali. Le graphic novels di Gipi si basano infatti sull’intreccio delle sequenze e sulla loro mutua implicazione, ribadita visivamente sia dall’alternanza di tecniche differenti sia dal rapporto tra immagini e didascalie (che a loro volta possono essere o incluse nell’immagine – come nel classico “fumetto” –, o scorrere al di sotto). Ne sortisce una sorta di “metrica aritmica” della memoria, che è tra gli aspetti stilistico-strutturali più interessanti dell’opera di questo autore. 5 Cathy Caruth, Unclaimed Experience. Trauma, Narrative, and History, The Johns Hopkins University Press, Baltimore and London 1996, p. 58. 4

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morto, come mostra la straordinaria sintesi immagine/testo dell’opera di Gipi, in cui l’inquadratura degli occhi della giovane donna, impegnata a identificare i cadaveri uccisi dal bombardamento nella speranza di trovar traccia del padre, introduce al commento di una frase util izzata in una precedente didascalia: «Lei non ce la a sollevare il lenzuolo [che ricopre i volti dei caduti, n.d.r.] » . Che cosa buffa ho scritto. «Non ce la fa a sollevar e il lenzuolo » . Devo rivedere il concetto di peso. Riflettere. Prendere nota. Non dim enticare.

L’impossibile dimenticare della madre (la «sepoltura» sotto le macerie «non la abbandonerà mai») diventa così, nel momento in cui il Narratore racconta quell’episodio, mònito a non dimenticare di cui il figlio viene investito (si osservi la sequ enza di ingiunzioni, «devo rivedere [...] riflettere [...] prendere nota», conclusa dall’imperativo negativo: «Non dimenticare»). Belatedly: “tardivamente”. Secondo Dori Laub, grande esperto della narrazione dello Sterminio degli Ebrei e fondatore del «Fortunoff Video Archive for Holocaust Testimonies », sarebbe questa la natura temporale del trauma, che arriva a essere storicamente percepito ( grasped and seen ) solo dopo che è accaduto 6. Se non se ne può dare propriamente “conoscenza” – e infatti si tratta d el non-conoscibile, del non -appropriabile per eccellenza –, c’è però un venire alla coscienza del trauma dopo il suo accadimento. Così è per le vittime della Shoah da cui partono le considerazioni di Dori Laub, così è in generale per la guerra, e in partic olare per la Seconda guerra mondiale. Come ha osservato Margaret Norris, quando il fronte interno (home front) divenne il principale teatro di guerra, i confini che separano la guerra e la pace si fecero così confusi sino a collassare; la “guerra totale” assume allora, oltre alla dimensione ope rativa (si combatte ovunque), anche

Dori Laub, An Event Without a Witness, in Shashama Felman and Dori Laub, M.D., Testimony. Crises of Witnessing in Literature, Psychoanalysis and History, Routledge, New York and London 1992, pp. 75-92: «it is not by chance that it is only now, belatedly, that the event begins to be historically grasped and seen» (p. 84). 6

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una dimensione temporale: «its effects perduring into the future, and into the lives of ensuing generations» 7. La guerra occupa dunque lo spazio e il tempo del dopo . Ma per quanto a lungo? Quanto dura questo “dopo”? A leggere le ricerche psicoanalitiche di Sergio Finzi, e in particolare un libro a mio avviso fondamentale come Nevrosi di guerra in tempo di pace (1989), il trauma si trasmetterebbe attraverso le generazioni (le ensuing generations di cui parla la Norris): al pari delle macchie e degli ocelli che Darwin riconosceva negli animali come segno della discendenza dal capostipite (una manipolazione genetica del manto, del piumaggio, del tegumento dell’individuo, che reca su di sé il segno della materia spermatica elaborata nel cors o delle generazioni), Finzi ha proposto che i sogni e i sintomi degli analizzanti (e dunque in generale di tutti gli esseri umani) rivelino un trattamento del vissuto

traumatico

dei

padri.

Belatedly

diventa

così

un

après

coup

generazionale: incrociare la storia di un individuo (il suo rapporto col padre, la sua storia matrimoniale) con la storia della guerra (vissuta attraverso l’esperienza di un familiare, non semplicemente conosciuta come fatto culturale) significa fondare la famiglia a partire dal fatto bellico e parlare del trauma come di qualcosa che si trasmette.

4. In un convegno di non molti anni fa, Raine Emig ha dedicato un breve ma prezioso intervento a False Memories: the Strange Return of th e First World War in Contemporary British Fiction . Interrogandosi sullo “strano ritorno” della Prima guerra mondiale in numerosi romanzieri britannici (Pat Barker, Rebecca Nicholson, Julian Barnes, Sebastian Faulks), Emig ha osservato che nei loro scritti «memory has become an area of contest». Si tratta di una gara, una contesa, un conflitto, di natura non tanto psicologica, quanto politica: «un conflitto costruito intorno a un centro vuoto, giacché la memoria

collettiva

è

altrettanto

una

co struzione

quanto

lo

è

l’apparentemente concreta [ seemingly substantial ] esperienza individuale», la 7

Margaret Norris, Writing War int the Twentieth Century, University of Virginia Press, Charlottesville and London 2000, p. 32.

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quale può diventare memoria soltanto venendo integrata in «una cornice altrettanto convenzionale» 8. Alle false memories di quegli autori che hanno inventato dei reduci del la Prima guerra mondiale attribuendo loro un certo insieme di esperienze (raccontate da loro stessi o da loro parenti o amici in un tempo successivo) si contrappongono , così, sia il sistema della propaganda del ritorno, con la nascita – tra l’altro – di quei sites of mourning su cui ha giustamente insistito la ricerca storica di Jay M. Winter 9, sia la stessa organizzazione della memoria individuale del sopravvissuto, il quale a sua volta non può che riferirsi a un quadro di riferimento, se non mendace, certo inautentico. Le memorie possono quindi essere false anche in un altro, e più profondo modo. Se il trauma è, come abbiamo visto, inappropriabile, se l’esperienza traumatica della guerra (vissuta al fronte o nelle retrovie, cambia poco) non solo non può es sere compresa nel momento in cui avviene, ma nemmeno essere avvertita (così abbiamo letto in Norris), è allora evidente che il racconto della guerra non potrà che essere parziale, monco, fallimentare, forse addirittura fallace. Del

resto,

come

ha

scritto

J anine

Altounian

in

un

libro

straordinariamente intenso, l’enigma della sopravvivenza si collega ai disturbi della rappresentazione dell’Io nello spazio, connessi anche a una perdita del senso di continuità nel tempo, esattamente come aveva osservato Sandór Ferenczi in un appunto del Diario clinico (27 luglio 1932), dove l’allievo ungherese di Freud faceva riferimento all’esperienza del trauma come a un «buco» nella memoria cui corrisponde un «buco nella personalità» 10. Questo «buco» è, per tornare alla rifle ssione di Cathy Caruth, una latenza interna all’esperienza stessa, che produce una rottura nella rappresentazione mentale del tempo (del tempo -proprio, della propria

Raine Emig ha dedicato un breve ma prezioso intervento a False Memories: the Strange Return of the First World War in Contemporary British Fiction, in Pilar Martínez-Vasseur (a cura di), Mémoire et écriture, Université de Nantes, Nantes 2002, pp. 59-63: p. 63. Pur non citandolo, lo studioso sembra qui riprendere le riflessioni di Maurice Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire [1925], postface de Gérard Namer, Albin Michel, Paris 1994 (ricordo che il sociologo francese morì a Buchenwald il 16 marzo 1945). 9 Jay M. Winter, Sites of Memory Sites of Mourning. The Great War in European Cultural History, Cambridge University Press, Cambridge-New York-Melbourne 1995. Ovviamente si deve ricordare Pierre Nora (a cura di), Lieux de mémoire, 3 voll., Gallimard, Paris 1997. 10 Janine Altounian, La survivance, Dunod, Paris 2000. 8

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continuità nel tempo). Essere sopravvissuti senza saperlo: è questa la natura del trauma 11. “Essere senza”: tutto ciò trova una straordinaria sintesi nel grande episodio della Gerusalemme liberata , in cui Tancredi, dopo averlo ridotto in fin di vita, si accinge a battezzare un cavaliere dell’esercito nemico che gli ha chiesto, in punto di morte, di essere convertito alla fede cristiana. Tancredi attinge dell’acqua a una fonte vicina, slaccia l’elmo del cavaliere, glielo toglie... ed ecco che appare il volto di Clorinda. Egli «la vide, la conobbe, e restò senza / e voce e moto» (XII, 67). Lo stupendo enjambement di Tasso dipinge il suo eroe immobile e incapace di parlare («senza e voce e moto»), còlto per sempre nel suo restar senza l’amata («la vide, la conobbe, e restò senza»): un’ assenza fissata in una scena da cui non potrà più staccarsi, costretto alla «coazione a ripetere», cioè, come spiegò Sigmund Freud (prendendo spunto proprio da questo episodio letterario) , a subire «passivamente un’esperienza sulla quale egli non riesce a influire» 12.

5. Vividezza del trauma e falsità (o parzialità) del la memoria: sono gli stessi due aspetti che credo si possano individuare nelle storie di Gipi, innanzitutto in S. e in Unastoria. Non si tratta solo di una questione tematica, ma del vero e proprio assunto, della ragione strutturale che ha ispirato queste storie, al di là della loro “verità” biografica e della stessa pietas famigliare che pure è senza dubbio la matrice esplicita del primo dei due libri. Da un lato abbiamo dunque la rappresentazione del trauma come qualcosa che è vivido, perfettamente stagli ato, e al tempo stesso sempre sfuggente, indeterminato, inappropriabile perché non può esser chiuso nei limiti di un racconto. Dall’altro abbiamo una concezione della memoria come qualcosa di fallace, di parziale e semmai di artificioso, almeno quando deve tradursi nelle forme linguistiche del discorso umano (i racconti paterni, in S.; le lettere dal fronte, in Unastoria ). Alla saldatura di Ho sintetizzato riflessioni che si leggono in Cathy Caruth, Unclaimed Experience, cit., alle pp. 17, 61, 64. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Id., Opere, vol. 9, edizione diretta da Cesare Luigi Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1977, pp. 189-249. 11 12

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questi due aspetti collaborano la struttura narrativa e la pluralità delle tecniche di disegno. Per il primo aspetto, abbiamo già visto che la moltiplicazione dei piani temporali e il loro intreccio costringe il lettore a una sintesi memoriale sempre compromessa dalla instabilità del momento ora a partire dal quale si svolge il racconto. Per il secondo aspetto, il passaggio dalle chine all’acquarello all’acrilico, semmai reso più complesso dall’adozione di tecniche miste e soprattutto unito a un’abile e spesso sorprendente costruzione della tavola (rapporto tra disegno e testo verbale; ripetizioni linguistiche o grafiche; fenomeni di disturbo della lettura progressiva; etc.) fa sì che l’oscillazione temporale sia visualizzata come compresenza. Ciò accade mirabilmente in Unastoria con l’immagine dell’albero secco, posta come emblema già in copertina, il quale appartiene al t empo “1” e ritorna in forma allucinatoria nel tempo “3”, collegando le due differenti “crisi” di Mauro e di Silvano. Lo stesso accade, sempre in Unastoria, con la stazione di servizio, cui è dedicata la prima tavola a colori (p. 8) del libro, la quale appartiene al tempo “2” (è il luogo in cui finisce il matrimonio) e che appare allucinatoriamente al protagonista Silvano nel tempo “3”, dopo che, all’inizio del suo collasso nervoso, ha cercato di ritornarvi, in un tentativo disperato di fermare il tempo e co sì tornare a una mitologica Origine della purezza perduta 13. Se le false memories , abbiamo visto con Emig, sono l’inevitabile effetto del racconto postbellico, sia quello ufficiale dell’apparato politico, semmai nazionalistico, sia quello privato dei supers titi, tuttavia questi falsi ricordi riescono talvolta a illuminare il volto reale della guerra. Così è in S., dove la storia dei due tedeschi fuggitivi, aiutati dal padre e dall’amico ma uccisi dai soldati, alla fine si rivela una versione abusiva di S., p erché – al contrario di quel che lui ha raccontato al figlio per tutta la vita – i due tedeschi si sarebbero invece salvati restando poi per anni, un volta tornati in Germania, in rapporto epistolare coi loro amici italiani. L’enigma della sopravvivenza (e ssersi salvati dal bombardamento americano prima, essere È probabilmente per questo motivo che Silvano vi si incammina nudo sotto la pioggia, cercando di ricollegarsi alle creature edeniche del mito delle lacrime raccontato dal Personaggio alla figlia (pp. 62-66). E si noti che lo stesso volto, «forma pura» (p. 62), ci guarda dal frontespizio del libro. 13

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scampati al rastrellamento tedesco poi) agisce però proprio in questa inversione del significato, che è poi innanzitutto una contraddizione della stessa sequenza degli eventi, il cui “effettivo” svol gersi non può essere ricostruito da chi ascolta, cui resta solo l’insegnamento dell’orrore della guerra come pura violenza sterminatrice. E tuttavia, se il padre ha mentito sui due tedeschi, potrebbe aver mentito sul bombardamento: salvo che il corpo della madre, incapace di restare chiuso in ascensore o in spazi stretti dopo aver passato delle ore sotto le macerie della casa distrutta, è la vera pièce à conviction , come ha scritto Dulong a proposito dello statuto della testimonianza dopo la Shoah 14: il corpo, che non sa mentire il suo essere bucato, mancante di un segno di continuità. Rispetto alla “autenticità” del corpo, la falsificazione della memoria personale può allora essere riconosciut a come il modo col quale S., il Padre (la maiuscola è dovuta), ha passato al figlio il testimone della violenza subita. E infatti è così che comincia S., la cui prima parte, abbiamo già detto, s’intitola «S. mi dice». Sono dunque le parole del Padre a dar vita al Narratore, spingendolo a raccontare che cos’è stato, per l ui, suo padre (la minuscola è voluta). E false memories, ancora, ritroviamo in Unastoria, che è la rivelazione progressiva del motivo per cui esiste la famiglia Landi, incarnata adesso in Silvano, l’ultimo discendente maschio, a partire non da un gesto di eroismo, ma da una drammatica violenza, da un crimine che è all’estremo opposto

della

grande

retorica

patriottica

con

cui

tutte

le

nazioni

belligeranti hanno ricoperto le vicende della Prima guerra mondiale sin dai primi giorni della sua conclusione (novem bre 1918). Del resto, come ha spiegato Jean Kaempfer, le opere dedicate alla Grande Guerra a partire dagli

anni

Ottanta

del

Novecento

si

distinguono

perché

vi

riconoscerebbero «un espace de pure violence, que le sens a déserté» 15. Mentre infatti la Seconda guerra mondiale costringe a prender partito con chiarezza tra i Fascismi e i paesi democratici, o tra il Fascismo e il Renaud Dulong, Transmettre de corps à corps, in Esthétique du témoignage, ouvrage cordonnée par Carole Darnier et Renaud Dulong, Éditions de la Maison des Sceinces de l’homme, Caen 2005, pp. 241-52. 15 Jean Kaempfer, Continuations récentes du “roman de 14-18”, in Écrire la Guerre. Études réunies par Catherine Milkovitch-Rioux et Robert Pickering, Presses Universitaires Blaise Pascal, Clermont-Ferrand 2000, pp. 453461: p. 460. 14

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Comunismo, e impone di affrontare in maniera determinata la questione della barbarie assurda dello sterminio degli Ebrei, avendo quindi i n ogni caso

un

profondo

carattere

assiologico

in

cui

Bene

e

Male

si

contrappongono, invece la Prima guerra mondiale, col suo carattere di grande officina del massacro , permette di considerare la guerra nel suo esclusivo carattere umano elementare. Di quest a guerra territoriale, di questa macelleria bellica, usinière 16, vorrebbe parlare Silvano ripercorrendo le lettere del nonno: salvo scoprire, alla fine, la verità nascosta della guerra.

6. Voler sopravvivere fa parte di questo carattere elementare, come appunto vuole Mauro Landi, il capostipite della famiglia, che nelle lettere alla giovane moglie esprime tutto il suo desiderio di tornare a casa. Ho fatto riferimento all’importanza strutturale del rapporto tra immagine e testo linguistico nell’opera di Gip i, qui assolutamente decisivo per creare il necessario contrasto tra la retorica elementare dell’amore per la donna, che è innanzitutto amore della propria vita (e si veda la splendida tavola a p. 32 con la sequenza di abbozzi di lettera scritti e poi canc ellati), e l’azione necessaria per poter effettivamente tornare a casa: l’uccisione di Luca, il commilitone rimasto ferito, le cui urla permetterebbero ai nemici di individuare la buca dove i due militari italiani si sono nascosti (si veda l’impressionante serie di vignette – concepita in realtà come un’unica tavola – a p. 119). È nota la teoria del sopravvissuto formulata da Elias Canetti in Massa e potere. Proprio ispirandosi alle condizioni belliche della Grande guerra, Canetti ha scritto che «il sopravv issuto è il privilegiato, il favorito dalla sorte», mentre i «morti giacciono inermi», «egli si erge fra essi». La posizione eretta è dunque dialetticamente rapportata all’essere steso, per sempre, dell’altro; anzi, spiega Canetti, degli altri, giacché il gran numero di caduti è necessario: egli «entra in rapporto [dialettico] con molti morti», Kaempfer parla di guerre usinière; lo storico Daniel Pick è invece ricorso all’immagine della macellazione, che proprio con la Grande Guerra raggiunge una straordinaria potenza organizzativa: cfr. War Machine. The Rationalisation of Slaughter in the Modern Age, Yale University Press, New Haven & London 1993. 16

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nel momento in cui si realizza il «confronto con l’ucciso», che «colma il sopravvissuto di un tipo di forza del tutto particolare». 17 La disamina di Canetti resta fon damentale, e tuttavia non manca di lasciare insoddisfatti proprio sui due piani che per lui erano fondamentali. Dal punto di vista antropologico, infatti, un amplissimo numero di ricerche (a partire dalle prime relazioni “etnologiche” dell’Antichità) mostr a che il problema dei vivi è separarsi dal morto ingraziandoselo. Dal punto di vista psicologico, invece, la ripetuta osservazione, almeno a partire dall’inizio del primo conflitto mondiale, dello shell shock e di quel che si chiama ordinariamente post traumatic stress disorder permette di concludere che la sensazione positiva di essere sopravvissuto non solo non è facilmente separabile dal senso di colpa, ma soprattutto è strutturalmente collegata – come abbiamo ricordato in precedenza – alla sensazione di non essere riusciti a controllare l’evento traumatico. Un disturbo morale e cognitivo, che Cesare Pavese sintetizzò nella formula: «ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione» 18. Le mort saisit le vif , verrebbe da dire, riprendendo l’antica f ormula francese che sintetizza la saisine, cioè l’istituto giuridico che regola l’immediato prolungarsi del possesso dei beni dal defunto nell'erede senza ulteriori atti formali. Al pari di questa procedura giuridica che ancor oggi regola l’eredità famigli are francese, anche in queste storie di guerra e di fondazione della famiglia il morto afferra il vivo e lo stringe, restandogli attaccato addosso insieme a tutte le sue proprietà. Ed ecco allora il significato dell’immagine dell’albero in Unastoria, che costituisce sì – dal punto di vista narrativo – la ragione per cui il fante Luca Marini si ferma sorpreso durante la ricognizione nella terra di nessuno, osservando che «non è caduto» (p. 47: e quan te risonanze in questa semplice battuta...), ma ancor più c ostituisce l’icona principale della narrazione e del suo contenuto narrativo (abbiamo già detto che questa immagine campeggia sulla copertina): l’albero, insomma, da un alto è l’albero nel quale s’imbattono due soldati durante un’azione militare della 17 18

Elias Canetti, Massa e potere (1960), Rizzoli, Milano 1972, p. 246. Cesare Pavese, La casa in collina, in Id., Prima che il gallo canti (1949), Einaudi, Torino 1954, p. 310.

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Grande Guerra, ma dall’altro è anche, e direi è soprattutto, l’albero genealogico, figurazione per eccellenza del transito generazionale e della trasmissione ereditaria. Le mort saisit le vif significa dunque che l’eredità bellica (in entrambi i libri di cui h o provato qui parlare) rende evidente il disturbo strutturale con cui ogni vivente deve confrontarsi: il fatto di venire da un morto, da una sequenza di morti. E si comprendono così le ultime, commoventissime, tavole conclusive di Unastoria, dove le immagi ni che chiariscono definitivamente il gesto del «bisnonno» sono accompagnate da un breve testo che, in terza persona, presenta uno che, «perdonandosi [...] per vivere [...] tutto farà» (p. 119: anche soffocare a mani nude il proprio commilitone ferito). Te sto che, girata la pagina (p. 120), diventa invece in prima persona, «Tutto farai», mentre il paesaggio ancora bruno si rischiara progressivamente alle prime luci dell’alba, accompagnando il ritorno a casa di Mauro, fino all’incontro con la moglie amata. Le ultime tavole lasciano la parola alla donna, riportando quelli che sembrano brani di una lettera indirizzata al marito, in cui immagina il suo ritorno. Così il racconto procede, f ino all’ultima tavola, straziante, divisa in tre strisce: nella prima si ve de la cucina, vuota, con la lanterna ancora accesa; nella seconda è rappresentata la donna, di spalle e col bambino in braccio, quando, uscita dalla porta, vede il marito che lascia cadere a terra la sacca; la terza, infine, è un’immagine rasoterra, in cui sono visibili solo i piedi e le gambe dei due sposi, la donna in posizione eretta, l’uomo invece in ginocchio. Col suo gesto, Mauro chiede dunque perdono alla moglie di essere sopravvissuto: a qualunque costo, pur di creare una famiglia. Un costo che – le mort saisit le vif – è destinato a ricadere infine su Silvano, incapace di conservarla, la sua famiglia. 19

Le pagine che precedono sono il frutto del mio incontro tardivo con l’opera di Gipi, autore nostro contemporaneo che mi pare di grande importanza, e che merita certo di essere studiato con gli strumenti adatti all’arte del graphic novel, che io però non possiedo. L’orizzonte del ragionamento che ho proposto si trova in un mio libro: Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Franco Cesati editore, Firenze 2014. 19

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