Adelchi Battista - La parola agli scrittori: Cinque domande su letteratura e storia

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Adelchi Battista

1. Sembrano passati secoli da quando neoavanguardisti e sperimentatori polemizzavano contro La storia di Elsa Morante. Nel frattempo varie tendenze artistiche si sono accavallate nel tentativo di archiviarsi l’un l’altra, con gran dispendio di prefissi su cui si ironizza anche nel titolo di questa rivista: Trans-, Post-, Cross-, Iper-… In questo contesto, sia in Italia che all’estero, riprende vigore il romanzo storico (o neostorico, secondo alcuni), con esiti commercialmente molto vistosi, dopo che il Novecento l’aveva collocato in una zona abbastanza marginale. E una volta tanto, produzione narrativa e riflessione critica sembrano muoversi di concerto, come dimostrano tanto gli scaffali delle librerie quanto le bibliografie accademiche. La prima domanda è quindi banale ma inevitabile: perché si scrive tanto di storia? Perché la storia fa problema, proprio in un’epoca spesso descritta in termini di “eterno presente” e in cui la coscienza storica, nel migliore dei casi, viene confusa con l’ossessione della memoria? C’è un nesso tra questo interesse e l’anelito a una nuova funzione politico -sociale della lett eratura, dopo la (presunta) “fine del postmoderno”? Posso rispondere a questa domanda solo in maniera personale: la mia indagine sulla storia è dettata in modo esclusivo (e vagamente ossessivo) dalla scoperta improvvisa della mia ignoranza. Ho rilevato ci oè che importanti segmenti di tempo storico non erano stati elaborati a sufficienza durante gli anni della mia formazione, vuoi per deficienza di metodo, vuoi per negligenza, vuoi per un interesse non supportato da atti di pura volontà. Quando ho riaperto per la prima volta, a distanza di anni rispetto ai miei studi, una pagina ancora vibrante di controversie come quella dell’attentato di Via Rasella del 23 marzo 1944, ho avuto a che fare non solo con la mia nebulosa confusione di fatti e persone, ma soprattutto con quel tentativo (secondo me gravissimo) di mistificare, travisare, omettere o anche solo evitare sezioni di realtà, tentativo

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messo in atto da vari sistemi mediatici, che basava la sua forza dirompente proprio

sulla

confusione

generalizzata,

sull’ accavallamento

e

sulla

moltiplicazione delle fonti, sul difficile ristabilimento di una qualche verità. Perciò ho sentito come un dovere sociale il tracciare un sentiero entro il quale difendersi, una strada lastricata di fatti incontrovertibili su cui cam minare con un grado minimo di stabilità; sia ben chiaro, non “dogmi”, ma elementi certi, scevri da interpretazioni e ideologie. Mi è sembrato un passo necessario per acquisire quella lucidità necessaria ad impedire a qualunque autorità di prevaricare i singoli, attraverso censur e o artefatte liberalizzazioni. Il nesso tra la storia, il suo materialismo, e la funzione politica e sociale della letteratura sta in parte anche qui. (Resta naturalmente il dubbio ontologico

di

fondo

che

rappresenta

la

crisi

in

c ui

sono

caduti

i

postmodernisti). Personalmente non credo che sperimentazioni e movimenti vari abbiano aumentato né diminuito questo legame, pur condividendo il dubbio del Manzoni maturo, ovvero la perdita di senso del romanzo storico nei confronti della sto riografia. Buona parte del postmodernismo, spesso utile dal punto di vista della destrutturazione di linguaggi e concetti, ha presto esaurito la sua spinta propulsiva anche per mancanza di recettori in grado di comprenderne la complessità. Alle volte il di battito si è chiuso in una sua autoreferenzialità un poco ottusa che ha impedito ogni iniezione teorica, uccidendo nella culla ogni proiezione sulle realtà circostanti. Il punto cioè non era “il metodo” della costruzione del romanzo, ovvero secondo la tecn ica “ottocentesca” della Morante o quella più avanzata dei postmoderni, ma quanto con il romanzo si potesse ancora fare azione sociale. Ancora oggi esistono autori e critici che insistono nel voler teorizzare spinte innovatrici, e anche di regolarle dal pu nto di vista formale, ma, a parte l’anacronismo di ritornare ad usare delle “regole”, non sembra potersi più nulla di fronte al progressivo imbarbarimento della comunità dei lettori, dovuto ad una molteplicità di fattori che in questa sede sarebbe troppo l ungo analizzare. In Italia, poi, c’è l’aggravante del polo editoriale nella sua quasi totalità, che di fatto oggi impedisce quasi ogni rigurgito sperimentale, ogni digressione 2


intellettuale, insistendo su una “semplicità” a tutti i costi che dovrebbe persino – nella sua fuorviante e mostruosa poetica – voler dire “bellezza”, o nei casi di furore estremo, “realtà”. Tutto questo per dire che se è ormai decaduta l’idea della fine della storia, potrebbe benissimo crollare anch e quella della fine del postmoderno. Quando un mondo fisico scivola verso l’incorporeità, allora ecco che l’attenzione conta più del consenso, e perciò la forma sarà sempre più sostanza, finché si dovrà di nuovo usare la forma per incidere profondamente sulla sostanza. La prima evidenza di questo processo è che non solo la storiografia usa elementi “letterari” ma la letteratura stessa deve attingere a metodi e modelli storiografici ed epistemologici. Si evince quindi, alla fine di tutto, che se la storia ha perso buona parte del suo carattere di “scienza” dal punto di vista epistemologico, l’iniezione di teorie appartenenti ad altre discipline – medicina, antropologia, psicologia, economia – l’hanno avvicinata sempre di più alla letteratura. Insomma, se davv ero siamo di fronte a una non scienza, che se ne faccia arte: non si può più fare storia senza letteratura. 2. Una porzione rilevante di narrazioni storiche novecentesche si iscrive in quella che Annette Wieviorka ha chiamato «l’èra del testimone», soprattutto in rapporto alle tragedie del «secolo breve» e al suo epicentro traumatico, paradigma interpretativo di un’intera fase storica, la Shoah. Ora, per ovvie ragioni anagrafiche, quell’èra si sta avviando al tramonto, mentre si affacciano sulla scena let teraria scrittori di generazioni successive che non hanno esperienza diretta dei fatti ma che si dedicano a un minuzioso lavoro di ricostruzione storiografica o di evocazione “negromantica”, per risuscitare i fantasmi di epoche più o meno lontane (un caso letterario internazionale, qualche anno fa, è stato Jonathan Littell con Le benevole). In questo, c’è forse un ritorno parziale ai metodi e ai paradigmi del romanzo storico classico, che si è sempre fondato su uno scrupoloso lavoro di documentazione. Ma da allora molte cose sono cambiate, incluse le forme di circolazione delle (e di accesso alle) informazioni, nonché il loro stesso statuto. Siamo ormai nell’«èra dell’archivio», dove il confronto non è tanto con l’esperienza accumulata ma con un repertorio s empre più vasto di documenti, rappresentazioni, 3


testimonianze mediate. Quali sono dunque le sfide e le strategie di un narratore che lavora in questo nuovo contesto? Non c’è il rischio di cadere in ciò che Fredric Jameson chiama «nostalgia» (di cui tanto o ggi si torna a parlare), cioè «il disperato tentativo di appropriarsi di un passato perduto » attraverso immagini, simulacri, stereotipi, citazioni neutralizzate in una forma di pop history ? Premesso che non trovo affatto nostalgico il tentativo di riappro priarsi di un passato perduto, è chiaro che la rivoluzione paradigmatica dell’accesso alle informazioni ha trovato fertile campo di applicazione nella narrazione del tipo storico, ovvero i componimenti misti di storia e invenzione. Il passaggio ha però creato nuovi problemi di responsabilità agli autori. La moltiplicazione esponenziale delle fonti apre prospettive straordinarie e problemi molto seri. Prendiamo ad esempio il modello nomologico -deduttivo di Hempel e proviamo ad applicarlo alla storiografia: l’avverarsi di un Explanandum viene forgiato dall’insieme delle condizioni e delle leggi che regolamentano queste condizioni. Condizioni e leggi, ricordiamolo, che non sono storiche in sé: esse appartengono a tutte le altre discipline, ovvero economia, politica, geografia, psicologia, antropologia. Fino a pochissimi anni fa la cosiddetta interpretazione si ricavava proprio dalla scelta di alcune tra queste condizioni, anche perché l’accesso era piuttosto limitato, cioè se ne conoscevano molte di meno. La scelta era quindi quasi automatica, ed era facile per lo storiografo lasciar trasparire

le

proprie

opinioni

grazie

alla

successione,

articolazione

e

concatenazione di tutte le sue argomentazioni. Le possibilità della letteratura, in un’epoca nella quale si comincia a conoscere istantaneamente la produzione culturale dell’intero pianeta, risultano affascinanti: ne consegue un metodo quasi investigativo, da inchiesta giornalistica, da indagine preli minare, e lo si pratica fino al limite delle proprie possibilità, di tasca, di me moria, di capacità tecnologica. Per quanto concerne la mia personale esperienza, solo in un secondo momento si accede a percorsi strutturali di concetto, spaziali o temporali, tematici, politici, filosofici. In questo senso sono perfettamente d’accordo con 4


Wu Ming: «dove le fonti di storia e di cronaca sono i materiali di partenza della macchina narrativa » 1 . La trama invece, intesa come luogo della fiction pura, che muove gli o ggetti e le persone create ad arte dallo scrittore, mi interessa meno. Molto più affascinanti le ramificazioni minori della realtà, i personaggi secondari ma realmente vissuti. La grande maggioranza dei percorsi porterà al nulla, qualcun o sarà più prolific o. Di certo in questo crogiolo di informazioni c’è un cuore estatico della ricerca, un Aleph meraviglioso, carico di possibilità letterarie. Il passo successivo è il più difficile: si tratta di eliminare con colpi pesanti di accetta tutto quello che non è necessario né funzionale alla storia che si racconta: gli stereotipi e i simulacri della storia “pop”, ma senza intaccare il rumore di fondo, senza sbiadire l’immagine totale, quella che gli anglosassoni chiamano the big picture. Bisogna conoscere le ling ue e non fidarsi, per quanto possibile, di tutte le traduzioni, meno che mai di quelle automatiche. Bisogna imparare ad archiviare, ad indicizzare, a ricercare spesso su documenti corrotti o illeggibili, a volte falsi. Il grado di falsità dei documenti nel secolo breve si è innalzato molto per via dei conflitti. Ma i falsari erano alacremente al lavoro anche nei monasteri d el secolo XI come nelle cancellerie del XVII. Per quanto riguarda l’esperienza diretta sono ben felice che si torni alla regola del roma nzo storico classico, quella della Historical Novel Society: i 50 anni (come minimo) di distanza dalla storia che si va scrivendo restano per me l’idea necessaria creata ad arte per impedire la testimonianza diretta. Questo non toglie che si possa scrivere della nonfiction documentale che integri la storia orale o la testimonianza diretta, ma che abbia taglio letterario o cinematografico. È una possibilità. Ma lasciare un mezzo secolo di interpretazioni è necessario per fare in modo di avere materiale a suf ficienza per documentarsi.

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Wu Ming, New Italian Epic, Einaudi, Torino 2009.

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3. Un «componimento misto di storia e d’invenzione »: la vecchia formula di Manzoni metteva l’accento sullo statuto ibrido del romanzo storico, genere fondato su un «assunto intrinsecamente contraddittorio », a indicare che già nella versione classica la distinzione tra realtà e finzione era meno pacifica di quanto si pensi abitualmente. Sta di fatto che, nella narrazione storica contemporanea, la commistione tra fact e fiction è giunta alle estreme conseguenze, anche perché i paradigmi di verità e la stessa autorevolezza della conoscenza storica si sono indeboliti. Quali sono le opportunità e i rischi di questa indistinzione? Ha ancora senso parlare di verità (storica, poetica, finzionale)? E quel che un narratore guadagna, in termini di penetrazione storiografica, non rischia di costeggiare facili mode alimentate dall’industria culturale (alla Dan Brown, tanto per intendersi)? La commistione tra fact è fiction è ormai ovunque, nella narrazione del presente prima ancora che del passato e perciò è un mostro con il quale bisogna fare i conti tutti i giorni. Ma mentre in una produzione artistica essa è in qualche modo dovuta, e anzi il suo

giusto amalgama è un indice della qualità del

romanzo storico, nell’infor mazione giornalistica dovrebbe essere totalmente bandita. Il punto è ch e oggi chiunque può attingere a una enorme mole di nozioni su qualsiasi periodo storico. Perciò di una cosa si può essere certi: il numero di indagini storiografiche aumenterà in modo e sponenziale; resta da capire perciò quali forme verranno prese in considerazione dagli autori, tenendo fermo il concetto che la quantità è spesso nemica della qualità. Un rischio è che la letteratura si accartocci sul mercato, e un rischio ben peggiore è che la storiografia diventi materiale per edicole o per documentari scadenti. La speranza è che in questo momento di grande fermento il romanzo possa riguadagnare una sua dignità di “lettore di realtà ”, e che questo approccio resti svincolato dal suo grado di realismo. Non è nuova del resto l’idea che l’attendibilità di trama e personaggi si possa raggiungere spesso in modo disgiunto se non diametr almente opposto dall’aderenza a una qualche “verità storica” che questi riescono a rag giungere.

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In questo senso distinguiamo perfettamente la differenza, per dire, tra Il pendolo di Foucault e Il Codice da Vinci, pur essendo due romanzi non direttamente impiantati in altra epoca. Dan Brown è esattamente il tipo di autore messo alla berlina nel romanzo di Eco, con le stesse manie, gli stessi stereotipi metodologici, lo stesso dogmatismo e, riguardo alle fonti, una tendenza alla manomissione, alla sovrapposizione arbitraria, alla generazione di connessioni inesistenti. Quel genere di studioso, per intenderci, che dà pe r certa una cosa adducendo il solo fatto che non sia stata mai smentita. Può succedere che, al di là del puro entertainment, tante volte il pubblico preferisca questo tipo di approccio – neanche Eco avrebbe potuto prevederlo: nel suo libro questi autori so no definiti come “a proprie spese”, mentre invece sono veri e propri fenomeni commerciali – ma ripeto: il romanzo è per il suo autore una buona scusa per studiare, e perciò, aspettando un recettore con aspettative più alte, affrontare la scrittura per descrivere il passato, se non si è animati dall’ossessione del mercato, sarà sempre un buon viatico per speculare sul presente. 4. Vorrei spostare decisamente l’accento sulla posta in gioco politica della narrazione della storia. Moltissimi romanzi contemporanei condividono infatti un assunto che potremmo riassumere con una nota massima di Don DeLillo, prestata al personaggio più paranoico di Libra: «la storia è la somma totale delle cose che ci tengono nascoste ». Non si tratta esattamente di una novità, se già un adepto del segreto come il Vautrin di Balzac diceva che «ci sono due storie, la storia ufficiale, menzognera, che viene insegnata, la storia ad usum Delphini; poi la storia segreta, in cui ci sono le vere cause degli avvenimenti, una

storia

vergognosa ». Ma

anche in

questo caso, l’immaginario

contemporaneo ha amplificato e radicalizzato un’idea tradizionale, rischiando di ge ttarla nel meccanismo usurante del luogo comune e disinnescarne il potenziale critico. Come bisogna lavorare, da scrittori, per evitare che perfino la controstoria diventi una moda? Quale intelligenza strategica può decostruire la master fiction di un sistema economicoculturale sempre più pervasivo, capace di metabolizzare e di volgere a suo profitto anche le espressioni di dissenso? 7


Questa è una domanda alla quale non so rispondere, poiché per molti versi ignoro il contenuto della controstoria. L’unico m odo per combattere la barbarie è dissotterrare il massimo grado di conoscenza, e oggi ci sono possibilità che Balzac non poteva avere. L’operazione di scelta del materiale è sempre la più difficile, ma verrà, come detto, in un secondo momento. Prima c’è bisogno del materiale in sé. Il

Novecento, nella sua espressione

documentale, va lentamente declassificandosi. In questo senso non riesco a cogliere l’esistenza di alcuna controstoria. Con (eccessiva) lentezza si solleva il velo di segreto sui grandi eventi di conflitto e di pace, e a saper cercare bene tra i documenti, molte occorrenze sono già evidenti. Naturalmente questo non ci permetterà di arrivare alla verità, storica o meno che sia, ma di certo si riusciranno a cogliere più condizioni e più leggi per spiegare determinati fenomeni. In quest’ottica, strombazzare di segreti nascosti e complotti mai rivelati risulta uno sterile esercizio retorico di chi non fa alcun lavoro serio di ricerca. Ciò non toglie che studiando a fondo la miriade di fonti a disposizione, si possano intercettare alcune pieghe nascoste che in precedenza erano state poco analizzate o deliberatamente taciute. Non smetto mai di sorprendermi del fatto che ci sono migliaia e migliaia di documenti ancora del tutto sconosciuti non solo al gr ande pubblico, ma anche agli addetti ai lavori. Non credo si tratti di complottismo né di controstoria. È lì, sotto gli occhi di tutti, ma bisogna avere tempo e pazie nza, verificare, leggere tutto. Venendo alla contemporaneità, sono troppo poche e troppo g randi le intelligenze che possono storicizzare il presente saltando a piè pari le critiche popperiane con autorità: un esempio che mi pare molto forte è Giuseppe Genna nelle sue ultime due produzioni. Poi poeti, artisti, non necessariamente scrittori di pr ofessione. Ha senso chiedersi dove va la forma e fino a che punto la forma inciderà sulla sostanza: trovo che siamo ancora fermi in una fase di studio, perché il progresso tecnologico aumenta con grado davvero vertiginoso. Verrà il momento di governare que sta nuova conoscenza, 8


controllarla, e a quel punto si troveranno piattaforme che regoleranno anche le vere e proprie azioni sociali. Per ora, e in termini più generali, la questione politica che mi interessa di più è la vera trasformazione antropologica, q uella che davvero storicizza il presente in tempo reale: essa riguarda il distacco tutto occidentale, ma ormai evidente anche in larga parte dell’estremo Oriente, tra il decollo del mondo delle idee e il crollo, il disagio dei corpi fisici, che non reagisc ono più e di conseguenza non sono più in grado di combattere alcuna battaglia rilevante. La lotta di corpo, fisica, appare sempre più

appannaggio

di

altre

culture.

Le

guerre

occidentali

sono

ormai

elettroniche, sugli stessi binari su cui corre la finanza i nternazionale e nessuno appare in grado di prevedere se davvero in futuro il mondo delle idee riuscirà ad emancipare i corpi fisici, i cui diritti si stanno assottigliando a vista d’occhio. 5. Vorrei chiudere tornando alla nostalgia. Mi chiedo cioè se il ritorno a un passato più o meno remoto possa funzionare (anche) come meccanismo compensativo, come apparato di risarcimento simbolico con cui surrogare una pienezza di senso che manca nel presente. La Storia come forma possibile di un vuoto? Lo storico e i l narratore come negromanti? Le gesta di vecchi fantasmi come esorcismo della nostra impotenza? Tesi troppo provocatoria e tendenziosa? O forse solo bisogno di trovare i nostri miti (anche) nel presente? Mi piace molto l’idea del risarcimento, almeno quel lo del diritto alla conoscenza, perché bisogna conoscere per deliberare. Ma in fondo l’accostarsi alla narrazione del passato è un istinto atavico, imprescindibile, scritto nel Dna umano da migliaia di generazioni di ogni latitudine del globo. Il raccontare la storia, dei padri, delle popolazioni, delle tribù, è l’operazione iniziale della quasi totalità delle religioni. L’esercizio della storia compensa il presente in ogni forma, s emiotica e cognitiva, sebbene dal punto di vista cognitivo esistano manipolazioni successive, anacronismi, forzature, e su questo tornerò più avanti. Ma la storia rispolvera relazioni concettuali di oggi, 9


poiché oggi può aiutare, attraverso leggi biologich e, psicoanalitiche, fisiche, a leggere fenomeni che fino a poco tempo fa non erano del tutto chiari. Certo, la

letteratura

negromanzia,

aggiunge: o

forse

mitologia, sì,

di

sentimenti

certo

è

umani,

racconto,

epifanie:

educazione

e

non

è

scuola,

apprendimento di base, estensione di radici, quindi di identità, per chi scrive o racconta e per chi legge o ascolta. Le sole e uniche motivazioni di tutto questo sono la ricerca della felicità e l’emancipazione, la liberazione dalla schiavitù, in due parole benessere e progresso. In questo senso non vi è alcuna nostalgia nella Storia. Essa è guardare avanti, materiale incandescente di costruzione di senso e di futuro: non esiste, a mia conoscenza, alcuno scrittore di romanzi storici che non abbia la malcelata intenzione di parlare del presente scrivendo del passato. Non sono in grado di dire se ci riesca, ma in un romanzo ben riuscito il lettore cerca di capire la propria epoca, prima ancora di quella raccontata nel libro. Questo genera purtroppo alcuni anacronismi, a nche nei romanzi di grande livello. Si tratta di aspetti di trama e personaggi filtrati da modelli successivi, se non addirittura contemporanei. È difficilissimo, in sede editoriale, saper rinunciare a questi artifizi, che concedono tanto al lettore medio, ma non sono filologicamente corretti. Certo, si può obiettare che essendo la storia una scienza imperfetta, siano altrettanto imperfetti tutti i tentativi di descrivere un ambiente, uno stato d’animo che dia luogo ad un’azione politica, la temperatura sen timentale prima di una battaglia. Ma qui entrano in gioco altri due fattori, che sono il gioco del teatro, della scena, l’accordo con il pubblico che decide di stare al gioco, e la correttezza e la capacità del narratore per rendere credibile il suo lavoro . In tal senso mi pare calzante la metafora liquida della storia che tenta di riempire il vuoto, il vuoto lasciato da religioni e ideologie che lavorano e funzionano ancora in quei luoghi dove c’è ancora forte presenza di corpi. Prima c’erano una teoria e una teologia della liberazione, oggi l’unica arma contro la barbarie resta la conoscenza.

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