Helena Janeczec - La parola agli scrittori: Cinque domande su letteratura e storia

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Helena Janeczec

1.

Sembrano

passati

secoli

da

quando

neoavanguardisti

e

sperimentatori

polemizzavano contro La storia di Elsa Morante. Nel frattempo varie tendenze artistiche si sono accavallate nel tentativo di archiviarsi l’un l’altra, con gran dispendio di prefissi su cui si ironizza anche nel titolo di questa rivista: Trans-, Post-, Cross-, Iper-… In questo contesto, sia in Italia che all’estero, riprende vigore il romanzo storico (o neostorico, secondo alcuni), con esiti commercialmente molto vistosi, dopo che il Novecento l’aveva collocato in una zona abbastanza marginale. E una volta tanto, produzione narrativa e riflessione critica sembrano muoversi di concerto, come dimostrano tanto gli scaffali delle librerie quanto le bibliografie accademiche. La prima domanda è quindi banale ma inevitabile: perché si scrive tanto di storia? Perché la storia fa problema, proprio in un’epoca spesso descritta in termini di “eterno presente” e in cui la coscienza storica, nel migliore dei casi, viene confusa con l’ ossessione della memoria? C’è un nesso tra questo interesse e l’anelito a una nuova funzione politico -sociale della letteratura, dopo la (presunta) “fine del postmoderno”? Si scrive tanto di storia, vero. H o l’impressione che la tendenz a abbia due poli. C’è un tipo di romanzo storico per cui la storia, in effetti, fa problema. Ma ce n’è un altro per cui la storia è un baule da cui estrarre un mondo più ricco di colori, passioni, avventure . Il fascino che è sempre stato del romanzo storico , inteso come roma nzo di genere e talvolta anche di ambizioni letterarie . Hanno successo romanzi ambientati in epoche lontane come l’antichità o il medioevo che forniscono ai lettori il piacere di un’immersione in mondi lontani dal nostro tempo , mondi leggendari non dissimili a quelli del fantasy o delle sempre più dilaganti narrazioni distopiche. Penso a Ken Follett, Valerio Massimo Manfredi o La Cattedrale del Mare di Ildefonso Falcones: giusto per chiarire che sto parlando di letteratura commerciale . Poi c’è un tipo di ro manzo che mescola elementi di feuiletton con ingredienti di quella letterarietà commestibile che viene 1


definita midcult, come è il caso di L’ombra del Vento e dei successivi bestseller di Carlos Ruiz Zafón, romanzi tutti ambientati nel secolo passato. Qui la questione si fa più complicata perché l’immaginario legato al Novecento, soprattutt o al nazismo e alla guerra , appartiene a un passato prossimo che è percepito come collegato con il presente . Direi che è percepito al tempo ste sso come lontano e vicino, collocato in una dimensione che assume un valore pressoché mitico, ossia fondativo per la collettività odierna. Parliamo di “memoria collettiva” per indicare proprio quella funzione. La nostra ”ossessione della memoria” è quindi sostenuta anche da una convenzione sociale, cosa che magari non nutre solo l’inflazione di narrazioni dedicate a certi periodi , ma anche il fatto che molte di esse assumano delle caratteristiche convenzionali. Quale differenza percepisce il lettore medio tra L’ombra del Vento e Le Benevole, a parte il dive rso impegno di lettura ?

Nel primo romanzo, la

storia che fa da sfondo ne rafforza il fascino vicino -lontano e l’aura colta , mentre nel secondo fa da protagonista: grandiosa e terribile, di nuovo vicina e lontana , e senza dubbio fascinosa perché esplora il fascino del Male. Il romanzo di Littell si distingue per letterarietà e impressionante ricostruzione storica ma questo basta per essere sicuri che in esso “la storia fa problema”? Immagino che uno delle tante ragioni per cui è d iventato un bestseller risieda nel possibilità di offrirsi a una ricezione midcult, cosa diversa dall’essere midcult “per costituzione”. Una ricezione tesa a d avvalorare

gli

elementi

di

fascino

e

vicinanza-lontananza,

elementi

sostenuti da alcune scelte, per esempio il punto di vista onnisciente e l’elitarismo décadent del protagonista. Credo che sia soprattutto lo statuto ambivalente della storia del Novecento – vicino e lontano, attuale e “mitico” – a porre dei problemi al narratore che voglia occuparsene , problemi che riguardano le strategie narrative e le opzioni stilistiche con le quali affronta la sua materia. In Italia, tuttavia, alcuni scrittori che coltivano i l romanzo storico con successo e intenzioni politico -sociali dichiarate, hanno abbandonato l’idea che un testo letterario sia tanto più scomodo o addirittura rivoluzionario

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quanto più si affida a tecniche capaci di costringere i lettori a vedere sotto una luce inedita ciò che viene rappresentato . Nei libri di Wu Ming e Valerio Evangelisti la funzione politica è rivendicata a partire dai periodi e temi trattati (Evangelisti racconta p.e. delle lotte operaie e sindacali; i Wu Ming si concentrano su momenti di conflitto tra istanze progressiste e reazionarie) e s’accompagna a grande cura nella ricerca storiografica. Ma quei romanzi sono concepiti come “narrativa popolare ”, romanzi che proprio grazie alla leggibilità divulgano un contenuto storico-politico. Nel caso dei Wu Ming , a questo si aggiunge un a militanza in rete che unisce la promozione e discussione dei propri romanzi all’intervento su temi politici di attualità, alla possibilità di scaricare i libri gratis, alla stessa pratica della scrittura collettiva che in Ital ia continua a fare scuola – penso al romanzo resistenziale

In

territorio

nemic o

di

SIC,

ossia

“ Scrittura

Industriale

Collettiva”. I Wu Ming sono forse l’esempio pi ù emblematico di una concezione postmoderna

che

vede

il

libro

come

veicolo

principale

ma

non

autosufficiente per assolvere una funzione politico -sociale. Da un certa prospettiva è comprensibile la critica che ritiene quei romanzi equivalenti ad altri simili, fatta eccezione per la “strategia di marketing ” che li promuove come produzioni dell’impegno. Però nessuno, tantomeno i Wu Ming, s’illude che la semplice lettura di un romanzo possa “formare le coscienze”. Il collettivo bolognese sembra anzi molto consapevole che oggi i prodotti di consumo traggono valore dalla capacità di offrirsi come specchio dell’”identità” in cui l’acquirente ama riconoscersi, inclusa l’identità politica. Per questo ha deciso di gestire anche la comunicazione, resa più efficace e credibile dal fatto che la parte promozionale è inglobata in un contesto di comunicazione non finalizzata alle vendite che testimonia dell’impegno. Restano però delle domande alle quali è impossibile dare una risposta certa. Mentre affronta un romanzo ambientato nel Settecento , qualche lettore si inter roga davvero sulle dinamiche della storia, comincia a maturare una coscienza storica politicizzata? Qualcuno immagino di sì, così come qualcuno si so ffermerà a riflettere più a fondo sul nazismo leggendo

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Le Benevole. Il libro, in ogni caso, offre una forma di narrazione che di autenticamente popolare ha sempre meno. Q uindi il compromesso tra vocazione pop e intenzi one divulgativo -formativa, proprio perché mai troppo sbilanciato a vantaggio del primo termine , forse è soltanto il tentativo di mantenere la soglia d’accesso relativamente bassa. Infatti il successo commerciale dei Wu Ming non è paragonabile a quello d ei romanzi storici che sono diventati dei blockbuster . Per quel che resta di un pubblico di massa, i loro libri appaiono difficili e magari anche noiosi, lontani come sono dall’immaginario già formato. Eppure pongono la questione sino a che punto la storia “faccia problema” non per come viene raccontata (secondo la rivisitazione delle poetiche moderniste), ma per come viene letta. 2. Una porzione rilevante di narrazioni storiche novecentesche si iscrive in quella che Annette Wieviorka ha chiamato «l’èra del testimone», sopr attutto in rapporto alle tragedie del «secolo breve» e al suo epicentro traumatico, paradigma interpretativo di un’intera fase storica, la Shoah. Ora, per ovvie ragioni anagrafiche, quell’èra si sta avviando al tramonto, mentre si affacciano sulla scena le tteraria scrittori di generazioni successive che non hanno esperienza diretta dei fatti ma che si dedicano a un minuzioso lavoro di ricostruzione storiografica o di evocazione “negromantica”, per risuscitare i fantasmi di epoche più o meno lontane (un caso letterario internazionale, qualche anno fa, è stato Jonathan Littell con Le benevole ). In questo, c’è forse un ritorno parziale ai metodi e ai paradigmi del romanzo storico classico, che si è sempre fondato su uno scrupoloso lavoro di documentazione. Ma d a allora molte cose sono cambiate, incluse le forme di circolazione delle (e di accesso alle) informazioni, nonché il loro stesso statuto. Siamo ormai nell’«èra dell’archivio», dove il confronto non è tanto con l’esperienza accumulata ma con un repertorio sempre più vasto di documenti, rappresentazioni, testimonianze mediate. Quali sono dunque le sfide e le strategie di un narratore che lavora in questo nuovo contesto? Non c’è il rischio di cadere in ciò che Fredric Jameson chiama «nostalgia» (di cui tanto oggi si torna a parlare), cioè «il disperato tentativo di appropriarsi di un passato perduto» attraverso immagini, simulacri, stereotipi, citazioni neutralizzate in una forma di pop history?

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Credo sia inevitabile che l’”era dell’archivio” influenzi la sc rittura. Siamo immersi in quel mondo, utilizziamo i suoi strumenti senza più accorgerci che stiamo facendo qualcosa che solo qualche anno fa sarebbe stato inimmaginabile – cercare su l telefonino l’orario del treno per Ro ma o controllare una certa data. Confesso che il mio romanzo Le rondini di Montecassino non avrei potuto scriverlo senza quell’archivio digitalizzato. Ho fatto diverse camminate nei luoghi della battaglia ma mi sono inventata una storia maori senza poter mettere piede in Nuova Zelanda. Per fo rtuna quella piccola nazione mette online intere biblioteche , foto, cinegiornali, articoli, documentari, vocabolari; a lla consultazione di quelle fonti ho aggiunto la perlustrazione di forum di discussione maori, filmati amatoriali su YouTube e altro materiale che poteva insegnarmi qualcosa sulla vita quotidiana dei maori di oggi. Tutto questo è stato magnifico e anche molto divertente ma poi si trattava di assimilare quelle informazioni e trasformarle in qualcosa che avesse vita prop ria. I due protagonisti neozelandesi – il ragazzo Rapata e Charles Maui Hira, il nonno veterano del Maori Battalion – sono ispirati a persone che non hanno nulla di maori . C’è quella cosa denominata “sospensione dell’incredulità” che richiam a la nozione che la narrativa, il romanzo in particolare , è un arte illusionistica. Cosa fa diventare un bravo mago? La quantità di fazzoletti , carte e conigli bianchi che tiri fuori dal cilindro, ossia dall’archivio virtuale o cartaceo? La bravura nel farli apparire veri? Il mio problema con Le benevole è che non mi convince quel tipo di bravura. Leggendo continuo a pensare di trovarmi davanti all’opera di uno straordinario illusionista e proprio per questo mantengo una distanza anche emotiva. Non dubito che Littel l fosse profondamente appas sionato alla sua materia, ma penso che abbia avuto troppa fiducia di poter ripristinare il grande romanzo storico senza rendersi conto che assumeva quella postura da negromante cui alludi . O, meglio, una postura da primo della classe degli apprendisti stre goni cui l’aspetto funereo del rito officiato sfugge di mano.

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Scrivere di storia può non esserlo, non essere perlomeno un’attività da impresario delle pompe funebri? Forse non del tutto. Però ci sono scrittori che non as sumono posture negromantiche, che trasmettono con forza anche vitale perché si occupano di una certa porzione di passato. Il primo libro a venirmi in mente è Soldati di Salamina, vuoi perché è uno dei miei preferiti, vuoi perché rispetto a Le Benevole si presenta come una lancia da contrabbando in confronto con una nave corrazzata . E infine perché ha avuto una vicenda particolare proprio sul piano storico -politico. In Spagna erano innumerevoli gli scheletri dei repubblicani buttati nelle fosse comuni che per ragioni di pacificazione nazionale non venivano toccati . Sarà stato il libro giusto nel momento giusto, in ogni caso Soldati di Salamina è riuscito a vivacizzare un dibattito al quale sono seguite decisioni politico-giuridiche circa quell’eredità ancora letteralmente sepolta . Anche Javier Cercas usa parecchi trucchi ma non fumi da negromante . Soldati di Salamina , a mio avviso, è un piccolo capolavoro d’astuzia narrativa, e immagino lo sia anche perché l’autore sapeva di dedicarsi a un passato storico -politico da maneggiare con circospezione. Finge (magari è vero ma non importa) che il testo sia nato da un’inchiesta giornalistica , tiene i piedi nell’oggi, e alla fine, dopo e ssersi occupato per due terzi del romanzo di uno scrittore falangista, introduce il personaggio antagonista di Miraill es, l’ex soldato repubblicano, i l vero eroe che rovescia la prospettiva sulla narrazione antecedente e con il quale il libro si chiude. Io invece sono una scrittrice che non sa pressoché mai in quale impresa si è andata a imbarcare e credo che i miei li bri, nel bene e nel male, risentano di questo work-in-progress. Le Rondini all’origine doveva essere

un

semplice

racconto

ambientato

durante

la

battaglia

di

Montcassino, racconto centrato su tre soldati del contingente alleato . Ma non appena mi resi conto che stava prendendo la dimensione di un romanzo, anch’io avvertii che senza un narratore in prima persona e piani nel presente non potevo rappresentare perché mai le vicende di quei soldati costituissero un lascito ancora attuale e problematico . Chi se ne infischiava

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di tre o quattro soldatini che cercavano di conquistare sempre la stessa maledetta altura? Ma non credo che rendere esplicito il legame tre passato e presente, tra soggettività dell’ autofinzion e e oggettività della storia, sia una sorta di formula magica. Mi vengono in mente alcuni romanzi italiani , tutti affidati a un narratore in terza persona e calati nella storia recente, la cui qualità letteraria origina, a mio avviso, dall’adesione sentita, riflettuta, molto personale, alla materia di cui trattano: La vita in tempi di pace di Francesco Pecoraro, La Gemella H di Giorgio Falco, Stati di Grazia di Davide Orecchio e 1960 di Leonardo Colombati. Romanzi, per altro, diversissimi: ma dove la storia, mi sento di dire, in qualche modo “fa problema” . 3. Un «componimento misto di storia e d’invenzione»: la vecchia formula di Manzoni metteva l’accento sullo statuto ibrido del romanzo storico, genere fondato su un «assunto intrinsecamente contraddittorio», a indicare che già nella versione classica la distinzione tra realtà e finzione era meno pacifica di quanto si pensi abitualmente. Sta di fatto che, nella narrazione storica contemporanea, la commistione tra fact e fiction è giunta alle estreme conseguenze, anche perché i paradigmi di verità e la stessa autorevolezza della conoscenza storica si sono indeboliti. Quali sono le opportunità e i rischi di questa indistinzione? Ha ancora senso parlare di verità (storica, poetica, finzionale)? E quel che un narratore guadagna, in termini di penetrazione

stori ografica,

non

rischia

di

costeggiare

facili

mode

alimentate

dall’industria culturale (alla Dan Brown, tanto per intendersi)? Sembrano i due storpi che cercano di sostenersi a vicenda. La storia che si narrativizza perché non si crede più dete ntrice di una verità da “scienza umana”, la narrativa che si appoggia alla storia perché ha perso la fiducia che sia capace di trasmettere qualche verità senza andarla a pescare da un’altra parte. Venghino siore e siori, vi raccontiamo una storia vera! Penso una cosa fin troppo semplice: che pur con tutto l’inevitabile relativismo uno storico debba credere ai parametri della sua disciplina e uno scrittore di romanzi debba credere nella letteratura e nell’arte del

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romanzo. Penso persino che chi scrive narrativa ricorrend o alla storia dovrebbe, a suo modo, credere anche nella storia. Qualche settimana fa sono andata a vedere la prima parte di Lehman Trilogy, l’ultima regia di Ronconi, e dato che il testo messo in scena mi ha destato delle perplessità ho voluto leggerlo. Lehman Trilogy sviluppa un’idea tanto semplice quanto di presa immediata : raccontare ascesa declino e catastrofe del capitalismo come una saga di famiglia . Henry Lehman sbarca in America poverissimo e , con i primi soldi guadagnati , si fa raggiungere dai due fratelli più p iccoli nella sua botteguccia in Alabama . I Lehman si trasformano in broker di cotone , si trasferiscono a New York e diventano banchieri. La seconda generazione continua l’espansione lanciando titoli in borsa, mentre l’ultimo erede - pur capace di salvare la banca nel crash del ’29 e puntare sui beni di consumo -

ama più i cavalli da corsa e la sua

collezione d’arte che il suo lavoro. Con la morte di Robert Lehman – nevrotico, pluridivorziato e senza figli - la banca subisce l’arrembaggio di un trader spericolato ed è

l’inizio della fine. C on un salto di qualche

decennio il testo si chiude con i

Lehman-fantasmi che presenziano al

funerale della loro banca fatta fallire . Volendo conferire un alone leggendario alla narrazione, Stefano Massini fa ampio uso di stereotipie e moduli ripetitivi isp irati all’epica e dichiara

nelle

interviste

che

non

era

interessato

a

un

approccio

documentaristico. Lehman Trilogy è concepito come una sorta di requiem, quindi

partecipa

della

nostalgia

postmoderna

dei

gi orni

di

gloria

tramontati. Racconta i Lehman come personaggi il cui élan vital e spirito d’impresa è puntellato e al contempo contenuto dalla loro identità ebraica, identità che di generazione in generazione si affievolisce sino a far prevalere “la religione del capitalismo”. Qui è simbolicamente rilevante che, a un certo punto, i Lehman smetto no di osservare il lutto e non chiudono più la banca. Non so se per rafforzare quella chiave di lettura o per un istinto più superficiale, Massini

calca la mano sulla caratterizzazione dei suoi

protagonisti secondo l ’immaginario corrente dell’ebreo dell’Est che parla yiddish e osserva la tradizione ortodossa . Ma dato che i Lehman erano

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ebrei tedeschi, quella licenza mi creava un fastidio simile a quello che provano gli italiani quando si vedo no raffigurati tutti pizza e mandolino. In più, mi metteva a disagio l a sensazione che insistere tanto sulla tipicità ebraica di quei banchieri ottenesse l’effetto ambivalente – ambivalente perché i Lehman sono gli eroi della favol a - di confermare lo stereotipo tutt’altro che obsoleto della finanza pluto -giudaica. Per reazione mi è venuto il ghiribizzo di approfondir e fino a che punto Massini si fosse discostato dalla fedeltà storica . Quindi mi sono procurata un libro sui Lehman Brothers dove ho trovato la conferma che già i fratelli-fondatori aderirono al più borghese culto riformato e coltivavano un’identità di German-Jewish Americans sempre più elitaria . Poi ho

continuato

a

leggere

perché

quel

saggio

mi

appassionava.

Mi

appassionava molto di più di Lehman Trilogy che mi aveva comunque introdotto a quella storia così straordinaria, così esemplare dell’evolversi del capitalismo. E ra un libro con quella capacità d’unire precisione a scorrevolezza in cui eccelle la saggistica divulgativa anglosassone; ci metteva quindi del suo nel “farsi leggere come un romanzo” . In ogni caso , ero entusiasta di scoprire nuovi dettagli, risvolti, collegamenti ; vedere come i personaggi dell’opera letteraria acquistavan o corpo, complessità, contraddizioni, sfumature . Perché a me del racconto storiografico piace la grana fine, la dovizia di particolari, la possibilità di conoscere e capire quel che non so già.

Per questo cerco di documentarmi il più possibile , di

qualunque cosa scriva . Ciò che mi sta stretto non è tanto un senso di eterno presente quanto la percezione che sia diventato difficile far vivere sulla pagina personaggi che appaia no come altri, non importa se storici o contemporanei. Giocoforza uno scrittore li immagina a partire da se stesso, secondo quei meccanismi di rispecchiamento e scarto nel rispecchiarsi che guidano i nostri sforzi di conoscere le persone. Se vogliamo è il tentativo di sostituire un “narratore intersoggettivo” a un narratore oggettivo ottocentesco. Penso che forse ci sia anche qualcosa di politico nel cercare di aderire all’assunto che il mondo umano sia più ricco e complesso di un materiale risucchiato dal “mio” immaginario, immaginario che magari non è nemmeno tanto “mio” quanto quello pervasivo e dominante. Però in fondo

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faccio quello che mi riesce meglio . Non sono capace di raccontare storie con piacere e fiducia nello storytelling. Sono curiosa delle vite degli altri che hanno una loro storia , storia che non aderisce alle regole del romanzesco neanche quando è molto dra mmatica. Per questo la Storia può essere una fonte a cui attingere e l’ideale di una verità o perlomeno fedeltà storica viene incontro al mio bisogno di precisione e ricchez za nel dettaglio. 4. Vorrei spostare decisamente l’accento sulla posta in gioco p olitica della narrazione della storia. Moltissimi romanzi contemporanei condividono infatti un assunto che potremmo riassumere con una nota massima di Don DeLillo, prestata al personaggio più paranoico di Libra: «la storia è la somma totale delle cose che ci tengono nascoste». Non si tratta esattamente di una novità, se già un adepto del segreto come il Vautrin di Balzac diceva che «ci sono due storie, la storia ufficiale, menzognera, che viene insegnata, la storia ad usum Delphini; poi la storia segreta, i n cui ci sono le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa». Ma anche in questo caso, l’immaginario contemporaneo ha amplificato e radicalizzato un’idea tradizionale, rischiando di gettarla nel meccanismo usurante del luogo comune e disinnescarne il potenziale critico. Come bisogna lavorare, da scrittori, per evitare che perfino la controstoria diventi una moda? Quale intelligenza strategica può decostruire la master fiction di un sistema economico -culturale sempre più pervasivo, capace di metabolizzare e di volgere a suo profitto anche le espressioni di dissenso? Perdona se qui taglio corto. Credo sia molto interessante andare a perlustrare gli angoli meno illuminati della storia e anche quelli oscuri. M a non credo alla visione della “somma delle cose che ci tengono nascoste”. Una narrazione incentrata su nodi oscuri o problematici è altra cosa dalla “controstoria” narrativa che presenta le sue illazioni come certez ze e crea un quadro d’insieme dove finalmente tutto torna. Non credo neppure a una visione troppo ricomposta quando non ha un fondamen to dietrologico e mi vengono di nuovo in mente Le benevole. Preferisco una narrazione che sappia presentare anche i propr i dubbi, le proprie incertezze, che renda a sprazzi visibile l’artificio del lavoro di finzione e d’invenzione: magari

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anche perché, per contrasto, mostra che ci sono anche i punti fermi di ciò che si può sapere e conoscere. Molto però dipende dalla qualità formale di un romanzo perché a quella è affidata l’ inquietudine e la smania rabbiosa di rompere la finzione, insomma ciò che di più vero, a mio avviso, traspare dalle parole di Don DeLillo. Libra non fa l’effetto di certi no ir, fiction o film italiani dedicati alle trame oscure della nostra storia recente , effetto forse non dissimile a l Codice da Vinci (sperando che i lettori non lo prendano troppo sul serio). Il problema non è i l paradigma del complotto, ma il ricorrervi in modo da creare un appagamento superficiale in chi ha sempre sospettato le macchinazioni del Potere e di quelle conferme romanzesche a buon mercato si accontenta. 1960 di Leonardo Colombati , ambientato a Roma durante l’estate delle Olimpiadi, è un romanzone costruito attorno a un complotto del

Sisde , a cui si uniscono vecchi

fascisti e militari. Solo che è una congiu ra di imbecilli scatenata per sbaglio da un ufficiale dei servizi che agisce per motivi quasi frivoli. Colombati fa un’operazione a metà tra l’omaggio ai suoi maestri americani e la demistificazione comica dell’ingranaggio complottista postmoderno : come se DeLillo e Pynchon fossero andati in trattoria con Dino Risi e Monicelli. Il suo romanzo è un trionfo della nostalgia batesoniana, di sperazione travestita da divertissement maniacalmente attento al dettaglio storico: ma proprio per questo sa far ballare dei fantasmi molto vivaci. 5. Vorrei chiudere tornando alla nostalgia. Mi chiedo cioè se il ritorno a un passato più o meno remoto possa funzionare (anche) come meccanismo compensativo, come apparato di risarcimento simbolico con cui surrogare una pienezza di senso che manca nel presente. La Storia come forma possibile di un vuoto? Lo storico e il narratore come negromanti? Le gesta di vecchi fantasmi come esorcismo della nostra impotenza? Tesi troppo provocatoria e tendenziosa? O forse solo bisogno di trov are i nostri miti (anche) nel presente? No, non mi sembra provocatorio e tendenzioso. Direi anzi che è quasi un denominatore comune delle narrazioni storiche ma proporrei una piccola correzione. Non so fino a che punto questa tendenza nasca sempre da un

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senso d’impotenza, vuoto, vischiosità stagnante del presente. Coloro che creano un buon biopic hollywoodiano non condividono l’atteggiamento con cui gli spettatori lo vedon o al cinema o sul divano , il frisson di inseguire le gesta di qualche eroe – il giorno dopo potrebbe essere uno della Marvel – godendosi anche la comodità e relativa tranquillità della propria vita quotidiana? D’altra parte, il bisogno di miti e eroi non è certo un’esclusiva dei nostri tempi più o meno noiosi e impaludati ma pacifici. La novità sta probabilmente nel fatto che ci viene tanto facile appagarlo con storie di un passato così recente. Però non tutti i fantasmi sono vecchi , non tutti gli eroi rispondono a un bisogno interscambiabile. Vedi l’ex soldato reppubli cano di Javier Cercas che, non a caso, ha le sembianze di un personaggio affatto e roico. Un vecchio operaio panciuto che torna dall’esilio come cliente abituale di un campeggio catalano . I miei compagni sono morti ma io sono qui, dice quel personaggio. Di quelli come me cosa volete fare? Penso che una cosa analoga si possa dire dei due libri di Benedetta Tobagi che, partendo dalla propria storia, la storia della perdita traumatica del padre, ha cercato di conoscere e capire il periodo delle stragi e del terrorismo. Si mett e a ricostruirlo e interrogarlo con rigorosi metodi storiografici, convinta che le vittime di una violenza senza giustizia (e nell’immaginario popolare i fantasmi sono esa ttamente questo) abbiano almeno diritto a una verità storica dove quella giudiziaria è stata preclusa o enormemente ostacolata dalla manipolazione delle prove. In Una stella incoronata di buio non fa il romanzo del “io so ma non ho le prove” ma al contrario tenta una ricostruzione meticolosa della strage di Piazza della Loggia. Percorre il labirinto di piste false, indagini, processi, nuovi elementi, possibil i collegamenti e retroscena , senza semplificarlo e, nelle sue parti più delicate, senza narrativizzarlo più di quanto è consentito a uno storico capace di divulgare . Non ho idea se la risonanza di quel libro – in linea con le indagini più recenti degli avvocati di parte civile - possa aver contribuito alla sentenza in extremis della Cassazione c he ha annullato l’assoluzione dei due maggiori imputati per la strage di Brescia. Ma sono

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abbastanza certa che un’opzione alla Romanzo Criminale (libro tra l’altro di un magistrato) non avrebbe sortito alcun effetto. Sì, c’è della nostalgia. N el mio caso e credo anche in quello di qualcun altro è però anche una nostalgia nutrita dal legame affettivo con persone molto vicine che appartenevano a un altro tempo - come se quell’affetto anche difficile e doloroso avesse fatto da matrice - non nostalgia generica di un passato pieno sepp ur pieno di violenza e conflitto . Penso a Stati di grazia di Davide Orecchio, romanzo che convoca una storia di lotte e tragiche sconfitte in una sorta di coro spettrale . Passa dalla Sicilia postbellica all’Argentina della junta di Videla, alla Roma p opolata dagli esuli argentini, per chiudere il cerchio in Sicilia. Fantasmi che migrano di continente in continente, fantasmi anche quando sono rimasti vivi perché schiacciati dal peso della storia, del senso di colpa, dal dolore. Davide Orecchio si è confrontato con Daniele Giglioli che gli chiedeva come mai avesse mostrato quasi solo la violenza subita e non anche la violenza esercitata dai suoi militanti nella lotta contro il regime . E soprattutto ha risposto a critiche da parte di qualche lettore argentino che gli diceva all’incirca: “ma noi eravamo anche felici di lottare per ciò in cui credevamo e abbiamo con tinuato a provare gioia e voglia di combattere anche in esilio.” Rispose che gli dispiaceva sinceramente ma , da scrittore, non sapeva che esprimere il proprio sentimento e la propria visione delle cose. Orecchio, che si è formato come storico, ha addirittura elaborato un sistema per distinguere le citazioni inventate da quelle vere, insomma si è sforzato in maniera quasi programmatica a rendere trasparente l’ossimoro del “componimento di storia e invenzione”. Ma nonostante la fedeltà storica il suo romanzo è stato accusato di un tradimento più ineffabile che riguarda lo spirito dell’epoca . E questo mi fa ri flettere. Perché se devo sintetizzare ciò che mi ha irritato in Lehman Trilogy forse è proprio il fatto che una stirpe di uomini dell’Otto - e Novecento, forte delle diverse declinazioni di fede nel progresso

- l’ascesa borghese e l’avventura

espansiva del capitalismo ma anche le politiche social i alle quali, divenuto braccio destro di Roosevelt, collaborò l’ex banchiere H erbert Lehman -

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sia diventata veicolo di una favola nostalgica che si gingilla con qualche identità perduta. Un sentimento tipico del nostro tempo e, a mi o parere, piuttosto reazionario di cui l’autore – credo – non è nemmeno vagamente consapevole. Quanta differenza fa che Orecchio rispetti la storia e Massini, pur servendosi dei nomi di personagg i storici, non se ne senta vincolato, se entrambi finiscono per trasmettere un sentimento contemporaneo ? Alla fine ti do’ una risposta estetica e soggettiva. Per me sono belli quei testi letterari dove la storia è fonte di complessità e lascia trasparire che l’autore non la frequenta tanto per attingere a repertorio fascinoso qualsivoglia. C he poi la nostalgia viri sul tragico come in Davide Orecchio o si camuffi da divertissement pirotecnici come in Leonardo Colombati è secondario: basta che sul nostro senso di perdita dica qualcosa di vero .

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