Quer pasticciaccio brutto della Grande Guerra: il Giornale di guerra di Carlo Emilio Gadda

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Quer pasticciaccio brutto della Grande Guerra: il Giornale di guerra di Carlo Emilio Gadda Maggio 1915. A Milano si susseguono manifestazioni a favore dell’entrata in guerra dell’Italia che portano in piazza circa trentamila persone. Tra i manifestanti c’è una cospicua componente di giovani e, fra questi, uno studente del Politecnico meneghino appena ventunenne, Carlo Emilio Gadda. La fortunata concomitanza di eventi che il giovane Ingegnere intravedeva nell’ipotesi di guerra coinvolgeva soprattutto questioni personali: il conflitto sarebbe potuto essere un regolamento di conti con se stesso, un banco di prova, ma anche una contingenza irripetibile per potersi dimostrare - fuori dall’ambiente familiare, lontano dalla madre, in un sistema di vita organizzato - quell’uomo volitivo, coraggioso e determinato che sognava di essere. Egli considererà sempre dirimente quel momento di esaltazione giovanile, pur con tutte le ritrosie e le vergogne ad esso connesse. L’interventismo di Gadda presenta infatti un aspetto solipsistico ed esistenziale, fondato su motivazioni individuali, benché poggiato anche su ragioni patrie e familiari, di servizio al Regno d’Italia. Ma la guerra, per quanto vissuta come possibilità di riscatto dal senso d’inadeguatezza ed inelezione che Gadda avvertiva propri, sarebbe stata invece l’esperienza che fissò in drammatiche certezze quei sentimenti, generando in lui una lancinante scissione interiore: «Tuttavia io voglio affrontare con serenità la rabbia delle palle nemiche, perché solo allora il mio paese avrà in me un figlio non indegno, non degenere: in mille modi potrei ancora sottrarmi al fuoco, ma non vi penso neppure»1. Carlo Emilio è un giovane che associa all’entusiasmo per la grande ed utile avventura della guerra un’abitudine alla disciplina, un’attitudine al fare concreto, una repulsione per l’approssimazione, per il vano parlare, per le affermazioni prive di fondamento e per il vivere disordinato. Ed ecco che, attraverso il minuto annotare di ogni atto ed episodio, si fa avanti nei suoi taccuini bellici un analista che ricerca costantemente i segni di quell’ordine, la necessità della gerarchia, ma soprattutto i sintomi di una dispersa austerità. Non li troverà, chè anzi rinverrà in ogni dove segnali opposti: quelli della leggerezza e del dilettantismo, della faciloneria e dell’improvvisazione. Frammezzo alla catalogazione dei moti d’insofferenza verso l’insulsaggine dei suoi colleghi ufficiali, si fanno luce le predisposizioni gaddiane: egli stesso si autorappresenta come un «minchione»2, un ragazzo beneducato e bruciante d’attivismo, ma che non ci sa fare né coi gesti né con le parole, denunciando con ogni proprio comportamento la canonica condizione di un uomo senza qualità. Ma sa scrivere. Ed il Giornale di guerra e di prigionia si presenta in sostanza come un’esemplare conferma di quella perniciosa convinzione, da cui è così difficile svincolarsi, secondo cui la guerra, nonostante tutto, è pur sempre qualcosa di glorioso, come sostiene anche George Orwell in Omaggio alla Catalogna del 1948. Per l’immediatezza espositiva, la scarsa o impercettibile elaborazione e per la puntigliosa raffigurazione della vita di trincea offerta, il diario di Gadda si pone credibilmente come una delle testimonianze più immediate e sostanziose, dal punto di vista della resa rappresentativa e della quantità di informazioni, della Grande Guerra italiana. Pubblicato nel 1955 dall’editore Sansoni di Firenze, Gadda si oppone per anni alla divulgazione del Giornale di guerra e di prigionia, dichiarandone contestualmente l’inattualità e le costitutive deficienze di apporto interpretativo dentro un involucro frammentario e letterariamente imperfetto. Scriveva, Gadda, con la sincerità di un uomo che non aveva motivo per non dire la verità, in un quaderno che nessuno - pensava - avrebbe mai letto: manìe, coazioni a ripetere, ed infine urla rabbiose e parossistiche. Incomincia così la tragedia delle ossessioni gaddiane. I propositi iniziali del diario appaiono modesti, per stare alla dichiarazione d’intenti che viene subito esplicitata: «Le note che prendo a redigere sono stese addirittura in buona copia, come viene viene, con quei mezzi lessigrafici e grammaticali e stilistici che mi avanzeranno dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè»3. Ma siamo invece di fronte ad una vera e propria dichiarazione di poetica: quella dell’esibizione di una scrittura immediata, cui però la novità della guerra in atto dà i caratteri di una registrazione fuori dalla banalità e dalla comune routine giornaliera. E subito la prosa di Gadda comincia a incidere la realtà, annotando senza posa situazioni e incontri, corroborando il tutto con una serie di giudizi stringenti su fatti e persone, con una minuzia unica nel suo genere. E tutto in lui acquista plastica 1

C. E. Gadda, Giornale di prigionia e di guerra, Garzanti, Milano 2002, p. 82. Ivi p. 23. 3 Ivi, p. 11. 2

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evidenza. Il Giornale di guerra rivela infatti un acerbo e inquieto rigorismo, non esente da suggestioni classiche che a volte si increspa e raggruma in asperità ascetiche, a smussare le quali persino l’incessante e ribelle interferenza degli umori dell’autore si dimostra impotente. Un senso antico della dignità e dell’onore e lo «spirito cavalleresco e mistico della vita» 4 travalicano continuamente i confini della disciplina e dell’etica militare per invadere il territorio della moralità e della condotta civile. Ma in queste pagine Gadda riconosce, di fronte all’incontrollabile urgere degli eventi e alle loro tragiche conseguenze, l’inadeguatezza degli schemi etici e psicologici che aveva inizialmente accettato. Ne deriva un senso di lacerante frustrazione, appena alleviata dalle immagini e dai sogni che la sua mente delusa subito appresta a conforto delle umiliazioni patite. Scrive ininterrottamente questo ragazzo, per certi versi ancora infantile, ma che si esprime già con ammirevole ricchezza di vocaboli, con duttile sintassi e con precoce maturità intellettuale. Quando ha un po’ di tempo, Gadda si siede al suo tavolino da campo e annota quello che ha visto o udito. «Sono salito in camera a finire questo giornale con queste quattro notizie insulse: ma mi preme che sia fermato sulla carta, per potermene sempre ricordare, se vivrò, questo finale del 1915» 5. Il diario descrive paesaggi e ambienti, analizza problemi, sintetizza questioni lunghe e complicate, registra battute di dialogo e le commenta, rievoca eventi passati e persone lontane, esamina il carattere di un popolo, fa congetture sul futuro, esprime emozioni, enuncia principi generali e si spreca in particolari: «Come sono poco osservatore delle cose che non mi interessano!»6. Nella condizione nuova ed abbrutita dei primi mesi dell’arruolamento, nonchè privo di quei ristori mentali di cui ha spiritualmente bisogno, Gadda entra in depressione, accenna già ad alcuni pensieri suicidi e medita gesti autolesionisti: «È stata questa una giornata tragica: una di quelle giornate in cui mi domando perché vivo, e se non sarebbe meglio farmi scoppiar la testa con un colpo di revolver»7. Ma bastano un po’ di sole e un romanzo giallo - si tratta di una prima attestazione dell’interesse di Gadda per il genere: un preludio al suo Pasticciaccio? - per mettere le cose a posto. Ogni considerazione su superiori e colleghi passa per il vaglio di una meditazione scritta, una nota che ferma nel tempo un’impressione generale di segno negativo o positivo, ma non tale da non poter essere corretta da sviluppi ulteriori. Nella prima parte del Giornale le parole non deflettono mai dalla direzione impressa loro dall’autore, irriducibili e taglienti nel fendere giudizi. Un furore freddo lo sommuove e alimenta la sua prosa che dà fiato ripetutamente ad improperi. È implacabile la sua acrimonia nei confronti della flagrante scoordinazione dell’autorità militare: «L’ignoranza degli alti comandi, la loro assoluta incapacità, la negazione di ogni buon senso logistico, son fatti che si palesano anche al più idiota»8. In presenza del suo io esasperato, intrusivo ed umorale, ci si può interrogare sui rapporti fra oggettività e soggettività, storia e letteratura, fatti e memoria: lo spettacolo circostante non può lasciarlo indifferente e non basta più il vocabolario della comunicazione civile. Così, quando Gadda per rabbia o indignazione diventa incivile, emergono le parole proibite dalla buona educazione borghese, come nel caso degli epiteti ingiuriosi ed osceni che si attirano i generali, i ministri, gli industriali, financo il Re. Non esiste più alcun reato di lesa maestà. In apparenza le parole sono fedelissime esecutrici del mandato espressivo affidato loro, ma in effetti faticano sempre di più a dare una traduzione esatta del reale. Le pagine del Giornale registrano con puntigliosità incontri e conoscenze: le descrizioni fisiche si abbelliscono di note umane e caratteriali, al punto che la scena quotidiana in cui si aggira il giovane Gadda appare come un teatro in cui si muovono molti personaggi, ognuno brevemente tratteggiato con gusto romanzesco, che si segnala per la mimesi del parlato di taluni effigiati, per la rapidità ed efficacia dello schizzo e l’idiosincratica adesione alle figure rappresentate. Qui non si tratta più della semplice registrazione dei fatti, ma si entra concretamente nella sfera più complessa della loro rielaborazione artistica, con l’attenzione rivolta soprattutto ai tic verbali dei singoli, alle loro peculiarità comportamentali ed espressive. I personaggi della vita si trasformano con naturalezza in personaggi di un racconto, trasfigurati e come animati da un sorprendente congegno: quello della mente del resocontista, sagace osservatore delle loro individualità e prensile registratore del loro strumentario verbale. «Quante coserelle interessanti avrei a notare! Ma la mia schifa pigrizia me le ha fatte lasciar nella penna nei sette giorni passati, onde scriverò solo le più importanti. La più notevole è il battesimo del fuoco avvenuto l’altro ieri (6 gennaio)»9. Ora finalmente Gadda avrebbe 4

Ivi, p. 286. Ivi, p. 85. 6 Ivi, p. 58. 7 Ivi, p. 38. 8 Ibid. 9 Ivi, p. 86. 5

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dimostrato che di eroico sprezzo del pericolo sarebbe stato capace anche un ragazzo considerato da tutti un vile. «Io sono un archiviòmane» 10 , afferma di sè il cronista del Giornale, accennando alla propria abitudine di conservare in un archivio personale i duplicati delle circolari degli Alti Comandi. L’analisi dei dettagli, proprio come la ricerca delle cause, si rivela una tela di ragno che rischia d’imprigionare non la mosca per cui è stata filata, ma il suo scrupoloso e improvvido costruttore. Il tempestoso mondo gaddiano e il fervido inferno della sua solitudine sono illuminati con violenza dalla sua lingua bizzosamente figurativa. La figura che si delinea è quella di un moralista solitario e intransigente, puntiglioso, conservatore e militarista. Il calligrafismo gaddiano emerge specialmente nel tentativo di castigare la retorica, come una necessità di rigore, oltre all’intersezione dei piani - narrativo, descrittivo, satirico, idiomatico - che sarà caratteristica della scrittura del Gadda più maturo. La scelta delle modalità di scrittura era già stata fatta, su basi operative semplici e insieme positivamente produttive: registrazione quasi quotidiana degli accadimenti, anche minimi, della vita di trincea, senza alcuna sublimazione eroica; introspezione, assai spietata, dentro le piaghe della propria psiche; scrittura immediata e priva degli artifici della rielaborazione stilistica, con l’esibizione schietta - anche perché non guastata inizialmente da propositi editoriali - di talune particolarità caratteriali e ideologiche, non proprio comuni o comunque ricevibili. Si può insomma già certificare la nascita simultanea di uno scrittore - e di un esito pieno, “letterario” e documentario -, benché né in linea con l’ufficialità corrente della fazione pacifista, né con gli assertori dell’inevitabilità della strage: posizioni entrambe presenti negli altri memorialisti di guerra. Gadda è lacerato profondamente, ed è furioso. Spesso si abbandona già in questa prima fase ad urla selvagge e ad un’ira bestiale. Il 24 luglio 1916, venuto a sapere che la pratica per il suo passaggio a tenente di complemento era andata persa, lo scrittore reagisce così: Che porca rabbia, che porchi italiani.- Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impareranno a tener ordinato il proprio tavolino da lavoro? a non ammonticchiarvi le carte d’ufficio insieme alle lettere della mantenuta, insieme al cestino della merenda, insieme al ritratto della propria nipotina, insieme al giornale, insieme all’ultimo romanzo, all’orario delle Ferrovie, alle ricevute del calzolaio, alla carta per pulirsi il culo, al cappello sgocciolante, alle forbici delle unghie, al portafogli privato, al calendario fantasia? Quando, quando? Quand’è che questa razza di maiali, di porci, di esseri capaci soltanto di imbruttire il mondo col disordine e con la prolissità dei loro atti sconclusionati, proverrà alle attitudini dell’ideatore e del costruttore, sarà capace di dare al seguito delle proprie azioni un legame logico?11

Quanta verve linguistica nel rappresentare il tavolino dell’italiano disordinato! Alcuni strumenti stilistici sono fin da ora ben evidenti: in particolare l’uso ironico dell’enumerazione di oggetti disparati accostati insieme, che forgerà molte delle pagine più trascinanti di Gadda. Qui, sulla montagna disboscata dalla necessità dei soldati, […] si vede il solito villaggio delle retrovie, pieno d’uomini, di carri, di tende, di quadrupedi, che sulle ripide falde dei monti si ammucchiano in un disordine non scevro di una pittoresca spiritualità. […] Fu una fatica improba il decifrare le note fatte dai sergenti, il risolvere tutte le piccole questioni che nascono dal pasticcio, dal disordine e dalla trascuratezza 12.

Il pasticcio, dunque. Cioè la negazione dell’ordine, la constatata ed ineliminabile refrattarietà del reale ad ogni tentativo di organica ed integrale sistemazione. È una delle prime volte, se non la prima, che s’incontra nell’opera di Gadda questo vocabolo eponimo della sua “poetica”, eppure ne appare già chiara la componente psicologica, di reazione ad una realtà oggettiva di concreta e tecnica disfunzione: «Il pasticcio e il disordine mi annientano»13. Tutto dovrebbe avere nel mondo un luogo e uno scopo; la disfunzione di quest’ordine dà origine al pasticcio. Alla radice del disordine c’è un principio di attività, di creatività, di ordine possibile: c’è insomma l’incoercibile pulsare della vita e spetta all’autore il compito di un deciframento. Ma l’unica “pesca” possibile nel mare magnum di contraddizioni della guerra sembra, alla fine, la scoperta di un’inevitabile smagliatura della rete.

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Ivi, p. 153. Ivi, p. 142. 12 Ivi, pp. 149 - 151. 13 Ivi, p. 138. 11

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L’inviolabile ordine degli oggetti disposti nella sua cassa di legno ostenta un’armonia così manifestamente velleitaria e pretestuosa da far sorgere il sospetto che chi se ne dichiara intransigente custode, lo faccia proprio perché, in fondo, dubita della funzionalità e della stabilità dell’ordine naturale delle cose: la nevrastenìa, vista sotto questa luce, è la reazione dell’individuo che si scopre inserito in un sistema in continua deformazione e disgregazione. La guerra è ordinariamente guazzabuglio, ma l’esperienza militare si rivelò davvero per Gadda un dramma sacro usque ad finem. È questo principio del groviglio a rendere sempre più labirintica l’argomentazione. Per Gadda la pagina diaristica resta un punto di sutura tra partecipazione bellica e momento riflessivo, tra impresa e subitanea sua rievocazione. In ciò è visibile il seme fruttificato dell’interventismo, il suo riflesso più immediato: il dannunzianesimo come esibizione patriottica di azione e pensiero. Da questa intransigenza - ed anche indefettibilità ideologica - nascono l’aporìa gaddiana del dopoguerra e le riserve dell’autore sui suoi stessi scritti di guerra. L’Ingegner Gadda con questo Giornale non costruisce un tempio, ma rischia di erigere un’architettura traballante. Il suo scandaglio capriccioso ed inesauribile fende l’incatalogabile e folgorante varietà della realtà bellica circostante. Il testo è strutturalmente parcellizzato, e dentro il frammento il singolo termine spicca e spesso punge. D’altronde in trincea la carta non abbonda e non c’è tempo per sottilizzare, ci si limita perciò ad appuntare: «Questo diario non è ormai che un seguito di frammenti» 14 . L’unicità di quest’opera sta nel suo non essere filtrata dalla letteratura: l’autore ne iniziò le prime pagine quando aveva 22 anni e ne scrisse le ultime a 26. Pregnante è comunque l’ammirazione per Manzoni, del tutto inconsueta rispetto ai paradigmi letterari di quegli anni, e già non più scolastica, ma motivata da ragioni storiche e umane15, non meno evidenti di quelle che diversi anni dopo staranno alla base dell’Apologia manzoniana: Quanto è lontano, questo spirito libero che ha voluto la guerra per schiacciare in aeternum il militarismo tedesco, quanto è lontano dalla sapienza e dal metodo dell’analisi, di cui il Manzoni è insigne maestro e profondo esemplificatore, che soli ci porgeranno il modo di correggere, di districare, di lenire con spirito equanime e con acutezza di vedute pratiche ed etiche i mali presenti degli uomini!16

Manzoni non costituisce quindi un modello letterario, ma semmai un esempio di anti-retorica. L’atteggiamento di Gadda verso la realtà è infatti di caricatura e di indulgenza, di crudeltà e insieme di complice simpatia, di sarcasmo e di giustificazione, di diffidente distacco e di pietà: «Sono nato alla vita collettiva: a una vita collettiva di miei pari, intendo dire di persone che avessero il mio animo: e ne ho incontrate, sopra tutto fra gli umili»17. Con gli umili Gadda ci sa parlare ed il linguaggio umile è anche un fecondo modello espressivo per il futuro narratore. Alla verità, anche se sgradevole, si arriva attraverso la realtà più dimessa e concreta: un bravo soldato, Gadda, che aveva paura ma anche sprezzo del pericolo, un uomo buono e però iracondo, puerile e tuttavia saggio, concreto ma nondimeno sognatore. Dalla pianura nebbiosa alle cime luminose, la sua prosa mescola il sublime e le turpitudini della guerra. Nella vita di trincea ci sono entrambi gli aspetti: allora li si appunta subito sul diario, nella pagina di ciascun giorno, così effimero eppure così denso. In questi anni Gadda si muove tra le piccole soddisfazioni di una trincea ben costruita e la consolazione solitaria offerta dalla lettura di un libro, ma non sembra aver preso alcuna decisione netta sul suo futuro. Eppure la sua scelta è stata di fatto compiuta redigendo un diario, inconfessabilmente scritto per essere letto, prima o poi. Si può dire che la sua scrittura, fin dall’inizio, è tutta organica e funzionale a quella vicenda umana, che è anzi materiata della sua esperienza di umiliato e offeso. Gadda, del resto, parte da questa constatazione di fallimento militare, quasi che egli decida di spostare sul terreno del lavoro intellettuale e letterario quella stessa ricerca di un alto equilibrio tra fare e pensare. Il ritmo della sua prosa, anche nei momenti più felici, non si modella mai su quella realtà contro la quale sembra accanirsi per aderirvi, ma sempre sullo scatto di un’irritazione, come nel gesto di un graffio. All’improvviso nella sua prosa prorompono folgori e saette, e la pagina di diario si trasforma in un campo magnetico i cui cortocircuiti si danno reciprocamente la scossa. Per questo non è semplice far luce su questo linguaggio, tanto svettanti sono gli ictus che emergono dalla sua scrittura. La carica iperbolica, irridente, deformante, caricaturale, che nel diario è quasi sempre interna all’indignazione e all’ira, in molte lettere inviate a casa si trasforma invece in rappresentazione ironica, autoironica, divertita. 14

Ivi, p. 380. «Ma io sono un po’ il vaso di terracotta che viaggia coi vasi di ferro. Tuttavia cercherò di farmi animo» (Ivi, p. 163). 16 Ivi, p. 24. 17 Ivi, p. 431. 15

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Il giudizio di Gadda su Caporetto matura invece nel clima di tetro disinganno, di cupido e impotente desiderio d’azione che caratterizza l’atteggiamento psicologico dello scrittore deportato e prigioniero a Cellelager, esprimendosi con grida d’atroce rancore ed imprecazioni esplosive contro i «cani assassini» che hanno «consegnato al nemico tanta parte della patria»18. Gadda grida al tradimento, senza addurre prove, ma col tono perentorio di chi si porta dentro un’immedicabile ferita. Caporetto opera in lui uno stacco brutale: con la rotta cominciava il tempo opaco dell’inerzia e bisognava dimenticare la gioia dolorosa dell’azione in cui l’io attua se stesso e si afferma. Tuttavia una tale associazione, che ritorna costantemente nel Giornale da un lato gloria, eroismo, progresso e giustezza della causa; dall’altro i massacri anonimi, gli ordini ottusi e micidiali, le vane morti, le agonie atroci -, impone e costa mostruose antinomie. L’intima dinamica della scrittura del Gadda maturo risiederà in quest’ossimoro che, dalla prima all’ultima pagina, edifica il Giornale: l’aver preso come primo tema estetico e pietra miliare di ogni gloria e bellezza ciò che sarebbe stato quel carnaio; l’aver approntato le armi del bello scrivere per - e con - una guerra talmente orrenda, senza curarsi, almeno per tutta la durata del conflitto, della sofferenza degli uomini. Ecco un controsenso che Gadda dovrà poi a lungo rimasticare nella sua opera, non riuscendo a liberarsene attraverso un esplicito e lucido ritorno autocritico. Si consideri, ad esempio, l’intenzione di Gadda di «notare» dopo un bombardamento ogni dettaglio, affinchè «anche l’immagine esterna, pittorica dell’episodio possa essere risuscitata» 19 . Colpirebbe molto meno una simile asserzione se a quell’anche corrispondesse effettivamente qualche contrappunto, che invece latita, circa la sofferenza interna, carnale, vissuta dai bombardati. Probabilmente Gadda si era prefissato di guardare alla guerra con l’occhio dell’ingegnere - equazioni, curve, schizzi, mappe si incontrano di frequente -, escludendo perciò dal proprio discorso quanto le formule imparate al Politecnico non potevano afferrare, fra cui il martoriarsi della carne e della mente del combattente, che però emerge all’insaputa dell’autore nella scelta di una parola: nell’augurio, non potendo far rivivere i morti, di almeno risuscitare l’episodio. Lo smarrimento di un suo quaderno, fondendosi con gli eventi traumatici di Caporetto, significa per Gadda il diniego dello stesso tentativo di riscatto: Mi pare che il disprezzo vinca la pietà, che lo sdegno superi l’amore; che nel profondo del loro pensiero i nostri cari stessi ci maledicano, nella città ardente e resistente. Questo pensiero, di cui ho segnato una traccia, ma di cui non m’è riuscito di riprodurre l’orrore e l’intensità, è esso pure una rievocazione, in quanto riguarda un’immagine dello scorso ottobre. Eppure è così vivo e feroce, che nel turbamento al quale mi porta sono i caratteri d’una prostrazione mortale. Allora muoio con lo spirito. […] Nessuno è stato così generoso da lasciarmi un documento della vita di soldato. Si direbbe che, in guerra, chi cerca non trova 20.

La lacuna diaristica mutila l’integrità spirituale dell’autore soldato, più che se fosse rimasto invalido nel corpo. La metafora del documento perso, che equipara le stigmate belliche ai segni scritti, evidenzia il paradossale martirio postbellico di Gadda. Dei giorni di Caporetto l’autore offre un quadro estremamente vivo, capace di rendere la concitazione dell’attesa e il relativo senso di smarrimento. È proprio il 25 ottobre 1917 che il tenente Carlo Emilio Gadda viene travolto con la sua compagnia di mitraglieri nella grande disfatta: mentre la battaglia infuriava, nel momento stesso della resa, al di là della passerella sull’Isonzo, Gadda segnò sul taccuino alcuni appunti. Dieci giorni dopo, nel campo di concentramento di Rastatt, cominciò a redigere il diario-cronaca di quei giorni e della sconfitta. Un testo, questo su Caporetto, il cui interesse per gli studi storici è assai notevole, soprattutto perché si tratta di una cronaca in cui la già sconvolgente capacità d’osservazione del futuro scrittore è unita alla passione del coscienzioso ufficiale che rileva ogni minuzia del terreno, degli apprestamenti, dei fatti militari e delle reazioni che ne seguono - sue e dei soldati -, rafforzato dal corredo di conoscenze tecniche - topografia, logistica, balistica - tipico di un ingegnere. Dalle analitiche pagine di questo taccuino si ha un’ulteriore conferma che la dissoluzione del fronte sull’Isonzo fu il frutto della sconfitta militare, e non il contrario. La storia di quell’evento segnò per sempre la vita e i pensieri di Gadda: sinonimo di sconfitta, simbolo della resa, allegoria della vergogna, Caporetto è una parola che lo farà arrossire per tutta la vita. «Tutto in questo diario potrà parermi o parere ad altri melodrammatico»21. Ma nelle lunghe giornate di prigionia Gadda non è solo preda di abulici automatismi: intanto continua a scrivere il suo diario. Nel 18

Ivi, p. 347. Ivi, p. 153. 20 Ivi, pp. 349 - 350. 21 Ivi, p. 364. 19

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campo di Cellelager l’autore trova anche le energie intellettuali per leggere e redigere le germinali note preparatorie di un romanzo intitolato Retica. Colui che scalpitava per entrare in azione, ora è in un lager. Non può scappare, ma medita sempre la fuga: prigioniero di una cultura che ha perso, di una lingua disarmata, di una sintassi impotente, di un lessico denutrito. Eppure egli scrive per raccontare un’esperienza per cui forse non ci sono affatto parole adeguate. È questa una prosa già in fiamme che si alimenta con ogni materiale culturale che incontra sul proprio cammino. Prende fuoco anche il dato più insignificante della realtà. Gadda allora tenta, se non di spegnere, quantomeno di circoscrivere l’incendio, ed ogni suo sforzo è volto ad imprigionare il fuoco attizzato dal profondo di un’anima, la sua, che si sente già all’inferno. Gadda è anche un narratore ad alto tasso di cerebralità: la verità è fatta di particolari e per questo l’autore non sublima niente e nessuno; lascia ardere i fatti per interrogarne le ceneri. Il giovane tenente bestemmia contro un destino che gli assicura una futura vita cenciosa, ed è costantemente sull’orlo della follia: come è povera la lingua che deve esprimere quello spettacolo di devastazione! E tuttavia questo sarà d’ora in poi il suo destino: limitare l’incendio, contenerlo, nasconderlo. Gadda non vorrebbe travolgere ogni cosa, ma far distinguere i dettagli, i detriti trascinati da una prosa talora scatenata, che tritura, mastica e mescola le parole. La prigionia appare come un punto a cui non segue un “a capo”. È la vergogna e l’umiliazione. Le condizioni materiali di vita sono infime: migliorano solo quando viene nominato ufficiale di cucina dopo il trasferimento da Rastatt a Cellelager. La titanica esagitazione stilistica di questo scritto attesta una dolente nostalgia di certezza, la lacerante delusione di un uomo d’ordine smentito dalla storia propria e di tutti. Non troverà, Gadda, quella purgatio animi che bramava, quella catarsi che l’agone bellico avrebbe dovuto favorire. Il solo bene dell’autore è il presente, l’esaltante epidermide delle cose, che egli perciò infrange e movimenta nel caleidoscopio dell’espressività, convocando ecletticamente i materiali utili da ogni punto dell’orizzonte. Il suo scrivere però non è più tangibile, nitido e mordente, come nelle pagine del 1916. Considerando la trama linguistica del diario si ha infatti la percezione di trovarsi di fronte ad un mosaico in cui si inseriscono espressioni gergali e termini militari, forestierismi e parole dialettali, neologismi e tecnicismi, voci letterarie e hapax peregrini. Anche la sintassi segue un andamento mosso, discontinuo: a brani lineari, di carattere memorialistico che si fanno quasi lirici nei passaggi descrittivi, si alternano pagine sincopate, telegrafiche, sul modello dei bollettini di guerra. In qualche modo la scrittura di questo diario assorbe e riflette la realtà linguistica in cui il giovane Gadda, interrotti gli studi politecnici, si è volontariamente catapultato. È una realtà fatta di parole e suoni diversi, dove convergono accenti di soldati d’ogni estrazione sociale, d’ogni grado di cultura e competenza, che parlano dialetti differenti, ma anche dove arriva la secca prosa dei comunicati di guerra, quella grigia dei fogli d’ordine e quella retorica dei giornali di propaganda. Più tardi arriveranno in soccorso le metafore, parole di confine che trascendono il materico, ma per ora l’incarico è affidato alla lettera del discorso. Ed essa, sentendosi inadeguata, va in affanno ed urla. Il grido dello scrittore è così alto che non sempre si distinguono le parole, e sovente il significante si allontana dal suo significato. Questa atmosfera linguisticamente così varia e multiforme è senz’altro congeniale a Gadda, il quale vi attinge per arricchire le sue molteplici risorse espressive e per sperimentare un ampio ventaglio di possibilità lessicali, di registri linguistici, di varianti fraseologiche. La parola gaddiana è sempre al limite: sconfina e rientra nei propri territori, ma solo dopo averli estesi il più vastamente possibile. È una logorrea rumorosa la sua: lingua impastata di un narratore insaziabile. Ed anche il dialetto, strutturale dissonanza fonetica, torna a far orchestra nella sua lingua. L’italiano non ha abbastanza parole per raccontare l’incenerente pasticciaccio che è la guerra. La miscela deformante dei diversi dialetti e la torsione che l’autore imprime alla lingua non può allora che produrre un gergo composito, in una sorta di combustione naturale. Per gli ermetici il mistero suggeriva la propria presenza ma impediva che si penetrasse nel suo territorio. Gadda invece urla, porta al di qua il rimosso. La parola è un’alternativa o è un’aspirazione alla cosa? Nella lussureggiante scrittura gaddiana, spesso minuscola è la cosa ma immensa è la parola. Naturalmente all’inizio Gadda non aveva la grande maestria nella creazione o nell’impiego inedito della parola: nel diario non è ancora l’artista della parola, la quale potrebbe passare inosservata, se così spesso l’autore non la gridasse. L’eccesso fonico e l’accento sul significante cercano allora di ovviare ad un significato che è troppo povero in relazione a quanto l’autore vorrebbe dire. Dove più tardi arriverà la densità figurativa della metafora, ora c’è insomma la smodata intensità del suono.

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Intanto il 4 novembre 1918 arriva anche in Germania la notizia dell’armistizio. Il Giornale termina con la citazione virgiliana con cui si era aperto - «Prospexi Italiam summa sublimis ab unda»22 - e realmente lo scrittore può già intravedere la sua patria, ma come dall’alto di un’onda, ancora in mezzo al gorgo, lontana. Non vuole annotare più nulla: la memoria è terribile, fonte di dolore e di vergogna. Anche la vittoria non riscatta nulla: il premio del ritorno a casa, per Gadda, consiste nel vedere i suoi dolori crescere ogni giorno di numero e di intensità. L’attività dello scrivere permette però di elaborare i vari lutti. Tuttavia l’intitolazione desolata dell’ultima sezione del diario, «Vita notata. Storia», suggerisce che, ridotta a mera cronologia, l’esperienza postbellica risulta a Gadda caduca e vana: «Ho tralasciato ormai le mie note, le quali non potrebbero contenere se non la storia di una inutile, monotona vita»23. Eppure il fatto di svolgere per iscritto il conflitto tra letteratura e ingegneria significa già scegliere pragmaticamente la prima: Pencolo tra la matematica e il lavoro morale e letterario. Quale sarà il futuro della mia intelligenza e del mio lavoro? Forse nullo. Se avessi una decisa avversione per la matematica, sarei un uomo felice: mi getterei freneticamente sul lavoro filosofico e letterario: ma tanto mi piace la matematica, e la meccanica razionale, e la fisica, e tanto più là dove più si elabora e si raffina l’analisi. Così l’un lavoro mi distrarrà dall’altro e non concluderò mai nulla 24.

«La grammatica zoppica»25. Qualche pagina a Gadda risulta claudicante. Zoppica anzitutto la sintassi mentale per tanti fattori di squilibrio: «La penna arriva a stento a seguire il mio pensiero»26. Come si fa a bloccare una frase che si lancia negli improperi e nelle contumelie documentate? «Questo mio disgraziato diario va avanti come un asino frusto a digiuno: gli è che anche il mio spirito mi pare una barca scucita in un angolo di cattivo porto, dove la risacca sciaguatta ogni cosa»27. Le ultime pagine del Giornale non prendono più il largo e Gadda se ne sta in prossimità di un appiglio concreto: non inventa nulla, non sa più dove dirigersi, il discorso non fa un passo lontano dall’approdo. C’è ossessione in questa risacca del pensiero in cui ancora si odono i marosi della tragedia bellica, ma l’autore preferisce il naufragio ad una paralisi che lo immobilizzasse sempre sulle stesse idee. Alla fine di molto è cambiato il patriota Gadda. L’interventista filodannunziano non ha scritto un’opera come il Notturno, ma il Giornale sarà un testo non meno “accecato”. Gadda da terra ha visto una guerra meno celeste di quella del Vate aviatore: in questo diario non si vola con la fantasia, anzi semmai è la realtà della guerra a dare a Gadda gli incubi. La Grande Guerra sarebbe stata la prima manifestazione della sua guerra universale, una guerra su tutti i fronti combattuta in prima linea: una scrittura della sopravvivenza con la quale si strappa il massimo possibile di vita da una condizione precaria che è quotidianamente minacciata dalla morte. In un sistema che costringe l’uomo a battersi, pur se abulico, indolente ed egoista, prigioniero di una scacchiera nella quale si gioca il destino di tutti i suoi simili, Gadda rifiutò sempre di essere una semplice pedina nelle mani di un’autorità. «Non occorre tanta letteratura»28, e non tutto è linguaggio: per Gadda la realtà esiste ed ha la forza del destino. Si deve approntare un linguaggio che la restituisca così com’è. Il Giornale si chiamerà “libro” solo a conflitto terminato, segno che lo era divenuto in corso d’opera, tanto sono cresciute le note con cui concludere per iscritto le sue prime giornate di marce faticose e pranzi defatiganti: piccole note sfuggenti che non entreranno nei libri di storia, ma che fanno luce su un grande evento raccontandone la vita quotidiana nei minimi risvolti. Per il fatto di essere frammentaria, quest’opera non è certo priva di un disegno: «In questo libro, scritto tutto di prima mano, anche nei luoghi di bello stile o quasi, sono contenute molte notizie di piccole cose, tanto più importanti in quanto sfuggiranno alla Storia»29 . Per il momento Gadda adotta la forma-diario. Lasceranno il segno sulla sua narrativa futura la frammentarietà, la discontinuità, la disponibilità ad accogliere ogni argomento o parola, la casualità con cui si manifestano gli eventi, l’incoerenza di superficie, la concretezza del dettaglio, la pluridirezionalità della vicenda, la precarietà in cerca di intensità espressiva, il frazionamento dell’individuo, l’orizzontale serialità dei fatti che aspira alla

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Ivi, p. 343. «A stento, vidi l’Italia, là avanti, alto sul colmo dell’onda» (Virgilio, Eneide, Einaudi, Torino 1989, trad. R. Calzecchi Onesti, p. 225). 23 C. E. Gadda, Giornale, cit., p. 433. 24 Ivi, p. 361. 25 Ivi, p. 28. 26 Ivi, p. 375. 27 Ivi, p. 81. 28 Ivi, p. 24. 29 Ivi, p. 218.

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verticalità dell’emozione, la piattezza della vita quotidiana che tenta di prendere quota, la quota sulla quale si combatte per allargare il proprio territorio fino alla conoscenza del tutto. Un diario nato con intenzioni umili va a prendere le dimensioni, e lo statuto, di un romanzo. Il trascurabile si epifanizza e diventa essenziale, alla maniera dei grandi narratori europei del primo Novecento. Lo stile è più “bello” laddove l’autore usa “brutte” parole: insulti, ingiurie, minacce, espressioni rabbiose, isteriche, dementi. Se il Marinetti dei Taccuini è paragonabile ad un regista cinematografico, Gadda si presenta piuttosto come un fotografo, un reporter di guerra alla Robert Capa: scrittura come fotografia, cioè come arte dell’essere fedeli a ciò che succede nella realtà, a tutto quanto si tocca con mano, al presente che accade sotto gli occhi, al precario che emerge in un preciso momento. Alla maniera di un Joyce, Gadda spesso vede il trascurabile e trascura l’importante. Ma se la pellicola è infiammabile, il suo obiettivo è nondimeno fazioso e parteggia per ciò che importa soprattutto a lui: «Non ci si meravigli di questo frammischiamento di fatterelli e tragedie: la realtà fu tale e io la ricordo fotografando»30. Accade che la descrizione - ricostruzione? - del particolare trascenda, nell’atto di esplicarsi, il suo scopo e il suo oggetto, finchè, sollecitata da una sorta di capzioso furore, la scrittura si fa sempre più metaforica, dissonante, elusiva. I movimenti ascendenti della sua prosa rispecchiano i diversi momenti della sua riflessione intorno ai problemi della vita di relazione e dell’organizzazione sociale, la quale muove dagli esaltati e nebulosi ideali della giovinezza, per concretarsi poi in una dettagliata e puntigliosa analisi della società, e da questa risalire ad un indiscriminato giudizio, ad una requisitoria violenta e astratta contro l’umanità ed il destino. Il Giornale determina insomma il cristallizzarsi di un conflitto che attraverserà poi l’intera produzione gaddiana. In esso c’è la radice del suo dolore, la manifesta tensione emotiva, la deflagrazione formale, la contrastata maturazione dell’uomo e dello scrittore, gli ideali dichiarati e le impotenze pratiche, una ricerca di equilibrio e di ordine sostanzialmente fallimentare: una mistione eterogenea e centrifuga che si fa opera compatta, compiuta, assoluta, proprio per un concorso di conflitti e di opposti. La schizofasia della scrittura del gran lombardo Gadda si rivela in ogni pagina. L’erudizione fino alla vertigine, il sovraccarico referenziale, l’ossessione prolissa delle note e tante altre caratteristiche prettamente gaddiane, servono anche ad ingannare il rimorso. Per questo si può vedere l’impasticciata pagina di Gadda come una conseguenza diretta del fatto che sia stata assegnata alla scrittura una mansione che essa non può svolgere: testimoniare della nobiltà di un’impresa che si è dimostrata ignobile, la guerra. Questa alternanza di gentilezza esterna e di intimo furore si svilupperà in un circolo vizioso, alimentato anche dall’accettazione - subìta o inconsapevole o tattica - di un originario condizionamento educativo e dal ritornante ricordo delle frustrazioni personali e sociali patite tra infanzia e giovinezza, con una rinnovata rabbia di rivalsa. D’altra parte, la ricorrente preoccupazione per possibili reazioni dei suoi bersagli letterari, e la convivenza nel suo stesso comportamento di rabbia e timore, aggressività e timidezza, complesso di superiorità e di persecuzione, ombrosità e cerimoniosità, scontrosità e reverenza, non è che la proiezione di quella più profonda doppiezza di aggressione e difesa nei confronti del mondo esterno di cui Gadda soffrirà sempre. Una condizione duplice, di chi si identifica esternamente col manzoniano don Abbondio - e con la sua ragionata e coerente paura -, ma che dentro si sente e vorrebbe essere riconosciuto un cuor di leone. Gadda troverà la sua originalità e fecondità proprio in quell’istanza di funzionalità e chiarezza, così come nella sua ossessione nevrotico-esistenziale, sempre in bilico tra mimesi e deformazione. È un ingegnere che sa usare i numeri, disegnare geometrie, passare dal progetto alla realizzazione: ma se razionali appaiono i suoi progetti, spesso la loro realizzazione risulta labirintica. La domanda prima di uno scrittore - il “perché scrivo?” - Gadda se la pone subito, già quando sta finendo la sua prima opera. Qui c’è la preistoria della sua narrativa, i materiali grezzi preparatorii delle sue successive costruzioni letterarie. Sinora ha scritto in una prosa parossistica e nevrastenica la sua indignazione per quello che vede succedere sotto i suoi occhi; ha analizzato con tenace accanimento e rivelato senza reticenze i suoi squilibri psicologici, le manìe del carattere, la labilità del suo sistema nervoso. L’interesse del Giornale non sta tanto, dunque, nel valore di precedente. È anzi un libro singolare, tormentato, amaro, irruento, anche maldicente, ma trasparente come pochi diari di guerra: una testimonianza di quella generazione la cui educazione sentimentale fu travolta dai tempi e a cui non rimase altro che la disperazione o l’ironia. La vita vissuta al fronte ha tracciato un’oscura curva narrativa. Senza saperlo, registrando i suoi fatterelli di giornata, Gadda si accorge di aver scritto un libro: il diario è insomma alle radici del romanzo. I frammenti colano il sangue delle sue ferite, ma si combinano e suturano in modo da formare un’impensata opera organica. Gadda era partito per appuntare i frammenti di un diario e scopre, alla fine, di aver scritto un romanzo autobiografico. 30

Ivi, p. 292.

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