Speciale Cannes 2012

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NUMERO SPECIALE

CANNES 65 Amour, Reality

e gli altri film in concorso

il festival celebra i 50 anni dalla scomparsa di

Marilyn Monroe regalandole il manifesto ufficiale, una mostra fotografica, diamanti e un ritorno al cinema.

FISCHI E BOTTE

nei festival del passato

IL MEGLIO DALL’

Un Certain Regard


EDITORIALE di Luca Fontò «The Artist era un film facile: la mia giuria non l’avrebbe premiato» esordisce Nanni Moretti nella prima intervista dopo l’annuncio della sua presidenza di giuria a Cannes 2012. E giù le polemiche. Perché un evento, se è privo di polemiche, non è un evento. «Sarò un presidente democratico» ha continuato poi, «ascolterò le opinioni dei miei colleghi», con i quali si è trovato - almeno così racconta - benissimo, annunciati dal direttore artistico Thierry Frémaux prima che succedesse la catastrofe, e cioè che comparisse, sul sito ufficiale del festival, la lista dei film in concorso, l’1 aprile, con due settimane di anticipo, piena di titoli di cui si mormorava; Frémaux si infuria, assicura che nessuno oltre lui sa cosa ci sarà e cosa no in concorso, e il 19 annuncia in conferenza stampa il cartellone dei veri candidati. E giù le polemiche: un gruppo di femministe, dette La Barbe, pubblica una lettera aperta su Le Monde in cui accusa l’assenza di registe donne in concorso, e il giornale non si capisce da che parte stia (intitola “a Cannes le donne si mostrano e gli uomini mostrano i propri film”). Alla polemica partecipa anche la giurata inglese Andrea Arnold, ma Frémaux interviene assicurando che non è misogino e che il festival non boicotterà mai un film «che merita, solo perché è realizzato da una donna». Non si parla d’altro per un paio di giorni e Diane Kruger, altra giurata, interviene specificando che «è un caso, l’anno scorso in concorso c’erano quattro registe, e nel mondo esistono un sacco di Paesi in cui le donne non hanno ancora accesso a questo mestiere». Intanto il cartellone dei concorsi si arricchisce, Tim Roth viene scelto come presidente di giuria dell’Un

Certain Regard, in Italia i giornali di destra scrivono che Moretti piace alla Francia perché non carpiscono la sua ossessione contro il Cavaliere, ed ecco una cosa che nessuno nota: i registi delle 22 pellicole in concorso praticamente sono già passati tutti di qua e hanno anche vinto qualcosa, a partire delle già Palme d’Oro Abbas Kiarostami (Il Sapore Della Ciliegia, 1997), Ken Loach (Il Vento Che Accarezza L’erba, 2006), Cristian Mungiu (4 Mesi 3 Settimane 2 Giorni, 2007) e Michael Haneke (Il Nastro Bianco, 2009). Il festival comincia, molti film non piacciono, Haneke vince la seconda Palma per Amour, unico film osannato già dal primo momento ed ecco le altre polemiche nella conferenza stampa di chiusura: «perché nessun film americano ha vinto niente?», «Nanni Moretti non considera le pellicole glamour con grosse star!», «tutti i vincitori sono film tristi!», e Moretti ribatte: «nessun premio è stato dato all’unanimità». E allora giù le altre polemiche: «Reality di Garrone ha vinto solo perché Moretti, italiano, l’ha voluto». E lui risponde: «non è piaciuto solo a me: i giurati hanno trovato un’eco della commedia all’italiana e il suo rinnovamento». Ma il festival è finito da troppo poco tempo per non aspettarsi altre storie. Applausi lunghissimi per il miglior attore Mads Mikkelsen in The Hunt e molto scarsi per la migliore regia andata a Carlos Reygadas per Post Tenebras Lux. Il lato positivo di questi festival è che sono eventi annuali, e ogni anno nascono polemiche che nascondono quelle dell’anno precedente. A meno che non succeda qualcosa come quelle descritte nell’appendice.


INDICE

8 Marilyn per sempre 10 Il cartellone 14 20 26 32 36 40 46 50 54 58 64 70 74 80 84 90 94 98 102 106 110

Concorso Moonrise Kingdom Rust And Bone (De Rouille Et D’os) Reality Paradise: Love Beyond The Hills Amour (Love) Vous N’avez Encore Rien Vu Like Someone In Love The Angels’ Share On The Road Post Tenebras Lux Cosmopolis The Taste Of Money Holy Motors The Paperboy The Hunt Un Certain Regard Antiviral Beasts Of The Southern Wild Le Grand Soir Elefante Blanco Déspues De Lucía

Sémaine de la Critique 114 Aquí Y Allá Quinzaine des Réalisateurs 118 The We And The I 124 Vincitori 126 Italia, Cannes/1 130 Italia, Cannes/2

A lato e in queste pagine: due particolari del manifesto di Final Cut. Ladies And Gentleman del regista ungherese György Pálfi; il film di 85 minuti è un montaggio di oltre 500 pellicole accomunate dal tema amoroso, presentato in chiusura di Cannes Classics.


TAXI DRIVERS rivista di cultura metropolitana

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TAXI DRIVERS - SPECIALE CANNES giugno

2012

Cannes: Francesca Vantaggiato & Chiara Napoleoni con articoli di: Luca Fontò, Valentina Calabrese, Elisabetta Colla editing e supervisione: Luca Biscontini, Lucilla Colonna, Vincenzo Patanè Garsia impaginazione e grafica: Luca Fontò inviate da

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è iscritto al Tribunale di Velletri

Autorizzazione n 2 del Tribunale di Velletri, 30 Gennaio 2007 (modifica e aggiornamento dicembre 2010) Registrazione al ROC 16238 Pubbicato da Jolanda Edizioni di Vincenzo Patanè Garsia


n y l i r a M A �� PER SEMPRE

Dopo Fay Dunaway dell’anno scorso e Juliette Binoche del 2010 (che quell’anno vinse il premio come migliore attrice per Copia Conforme e chiese in diretta mondiale il rimpatrio del giurato iraniano Jafar Panahi), il Festival di Cannes dedica il suo manifesto ad un’altra grande icona del cinema, anzi, all’icona per eccellenza, la Marilyn Monroe fonte di tanta ispirazione e di tante imitazioni negli anni. In occasione del numero tondo dell’edizione 2012 (la 65esima) e del cinquantennio dalla morte dell’attrice americana, la locanina ufficiale dell’evento vede la diva in macchina intenta a spegnere una candelina.

Oltre a questo tributo, Chopard, da sempre sponsor principale dell’evento, ha realizzato una speciale e nuova linea di gioielli disegnati direttamente dal copresidente Caroline Scheufele tempestati dai migliori amici delle ragazze, i diamanti. E di fianco ai diademi esposti, nella città di Cannes, sempre ad opera di Chopard, saranno rese note venticinque foto inedite che Milton Greene scattò a Marilyn nella capitale del cinema francese. Dopo questa tappa, la mostra fotografica partirà in un tour che toccherà le principali città del mondo, mentre nel nostro Bel Paese tornerà al cinema, solo per

di Luca Fontò

un giorno, il film che consacrò il biondo astro nascente nel ‘59, A Qualcuno Piace Caldo, per la regia di Billy Wilder con Tony Curtis e Jack Lemmon nel cast. Sempre in terra nostrana, data la presenza nelle sale cinematografiche di Marilyn con Michelle Williams nel più difficile dei suoi ruoli, la Warner Bros ripronone il dvd della pellicola che ha ispirato quella storia, Il Principe E La Ballerina, e la Mondadori traduce e pubblica per la prima volta il primo dei due diari di Colin Clark, La Mia Settimana Con Marilyn, da cui Simon Curtis ha tratto la sceneggiatura del suo ultimo film. A sinistra, Eva Herzigova alla mostra di foto inedite scattate alla Monroe da Milton Greene e, a lato, il poster dell’esposizione organizzata da Chopard. In basso, da sinistra: il volantino promozionale per il ritorno al cinema di A Qualcuno Piace Caldo, la copertina del dvd de Il Principe E La Ballerina diretto da Lawrence Olivier (Warner Bros) e la copertina di La Mia Settimana Con Marilyn di Colin Clark (Mondadori).

Il manifesto per la 65esima edizione del Festival di Cannes. La foto è del tedesco Otto L. Bettmann.


CONCORSO

Film d'apertura: Moonrise

Kingdom di Wes Anderson (USA)

Amour/Love di Michael Haneke (Francia, Austria, Germania) After The Battle di Yousry Nasrallah (Egitto) După Dealuri/Beyond The Hills di Cristian Mungiu (Romania) Cosmopolis di David Cronenberg (Francia, Canada, Portogallo, Italia) In Another Country di Hong Sangsoo (Corea del Sud) De Rouille Et D’os/Rust & Bone di Jacques Audiard (Belgio, Francia) The Taste Of Money di Im Sang-soo (Corea del Sud) Holy Motors di Leos Carax (Francia) In The Fog di Sergei Loznitsa (Germania, Russia) Jagten/The Hunt di Thomas Vinterberg (Danimarca) Killing Them Softly di Andrew Dominik (USA) Lawless di John Hillcoat (USA) Like Someone In Love di Abbas Kiarostami (Francia, Giappone) Mud di Jeff Nichols (USA) On The Road di Walter Salles (Francia, UK, USA) Paradies: Liebe/Paradise: Love di Ulrich Seidl (Germania, Francia, Austria) Post Tenebras Lux di Carlos Reygadas (Messico, Francia) Reality di Matteo Garrone (Italia, Francia) The Angels’ Share di Ken Loach (UK, Francia) The Paperboy diLee Daniels (USA) Vous N’avez Encore Rien Vu di Alain Resnais (Francia)

LA GIURIA

Presidente: Nanni Moretti, regista, attore e produttore (Italia) Hiam Abbass, attrice (Palestina) Andrea Arnold, regista e sceneggiatore (UK) Emmanuelle Devos, attrice (Francia) Diane Kruger, attrice (Francia) Jean Paul Gaultier, stilista (Francia) Ewan McGregor, attore (UK) Alexander Payne, regista, sceneggiatore e produttore (USA) Raoul Peck, regista, sceneggiatore e produttore (Haiti)

Nella pagina accanto: Bérénice Bejo sul tappeto rosso prima della cerimonia di chiusura del festival. L’attrice francese è stata scelta come madrina dell’evento dopo il successo l’anno scorso con The Artist.


FUORI CONCORSO

Film di chiusura: Thérèse

Desqueyroux di Claude Miller (Francia)

Io e Te di Bernardo Bertolucci (Italia) Madagascar 3: Ricercati In Europa di Eric Darnell & Tom McGrath (USA) Heminway & Gellhorn di Philip Kaufman (USA)

UN CERTAIN REGARD

Renoir di Gilles Bourdos (Francia) 7 Dias En La Habana di Benicio del Toro, Pablo Trapero, Julio Medem,

Elia Suleiman, Juan Carlos Tabio, Gaspard Noé, Laurent Cantet (Francia, Spagna)

11.25 The Day He Chose His Own Fate di Kôji Wakamatsu (Giappone) *Antiviral di Brandon Cronenberg (Canada, USA) À Perdre La raison di Joachim Lafosse (Belgio, Lussemburgo, Francia, Svizzera) *Beasts Of The Southern Wild di Benh Zeitlin (USA) Confession Of A Child Of The Century di Sylvie Verheyde (Francia) Después De Lucía di Michel Franco (Messico) Djeca/Children di Aida Begić (Bosnia Erzegovina) Elefante Blanco di Pablo Trapero (Argentina, Spagna) *Gimme The Loot di Adam Leon (USA) *La Playa di Juan Andrés Arango (Colombia) La Pirogue di Moussa Touré (Senegal, Francia) Laurence Anyways di Xavier Dolan (Canada, Francia) Le Grand Soir di Benoît Delépine & Gustave Kervern (Francia) Les Chevaux De Dieu/God’s Horses di Nabil Ayouch (Francia, Marocco, Tunisia) Miss Lovely di Ashim Ahluwalia (India) Mystery di Lou Ye (Cina) Student di Darezhan Omirbayev (Kazakistan, Francia) *Le pellicole Trois Monde di Catherine Corsini (Francia)

contrassegnate dall'asterisco

LA GIURIA

Presidente: Tim Roth, attore e regista (UK) Leïla Bekhti, attrice (Francia) Tonie Marshall, regista e produttore (Francia) Luciano Monteagudo, critico cinematografico (Argentina) Sylvie Pras, responsabile del reparto Cinema al Centre Pompidou e direttrice artistica de La Rochelle Film Festival (Francia)

sono opere prime che gareggiano anche per la Camera d'Or, prestigioso premio dato al regista esordiente.

Nella pagina accanto, in alto: Bernardo Bertolucci e i due giovani attori della sua nuova pellicola Io E Te, presentata fuori concorso a Cannes; sotto: Asia e Dario Argento durante il photocall per il terzo film italiano in Francia, Dracula 3D, che alle Proiezioni di Mezzanotte porta l’horror per la prima volta nella kermesse.


CONCORSO

Moonrise Kingdom Sopra: teaser poster per Moonrise Kingdom (a sinistra), e locandina ufficiale francese del film (a destra). Nella pagina accanto: Kara Hayward nel ruolo di Suzy con i suoi tre fratelli.

di Francesca Vantaggiato

È l’amore tenero e tenace vissuto dai dodicenni di Moonrise Kingdom a inaugurare la 65esima edizione del festival di Cannes. Wes Anderson delizia la vista e rinvigorisce l’arte del sogno raccontando la storia di Suzy e Sam, due pre-adolescenti molto particolari che si innamorano e progettano di scappare insieme. Corre l’anno 1965 su una delle isole della New England, i genitori di Suzy (i Bishop, interpretati da Bill Murray e Frances McDormand) sembrano avere qualche intoppo relazionale e quelli adottivi di Sam pensano di non potersi più prendere cura dell’irrequieto ragazzo. Durante una recita a cui Sam assiste mal volentieri, insieme al suo gruppo di boy scout, la triste Suzy è vestita da corvo e il ragazzo si innamora di lei a prima vista. Il film si apre con una carrellata magnetica di casa Bishop accompagnata dall’ascolto – ora diegetico ora extradiegetico – di Young Person’s Guide To The Orchestra (Benjamin Britten), composizione che presenta tutti gli strumenti di un’orchestra. Come se fosse egli stesso a dirigere la musica, Anderson ci guida all’interno di questo nuovo capitolo cinematografico dall’irresistibile

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CONCORSO Nella pagina accanto: i giovanissimi protagonisti Kara Hayward e Jared Gilman, rispettivamente Suzy e Sam. In basso: ancora Kara Hayward, in un'altra scena del film.

gusto retrò, presentandoci la sua squadra di scalmanati. Oltre alla sopracitata cricca spiccano lo Scout Master Ward (un eclettico e brillante Edward Norton), dalla maniacale quanto divertente organizzazione del lavoro, e il Capitano Sharp (Bruce Willis), un uomo solo dal cuore infranto che svolge il suo lavoro con amore. Una piccola parte spetta anche ai rigidi servizi sociali, con Tilda Swinton che veste i panni dell’assistente affidata al caso di Sam, di nuovo orfano, pronta a praticare l’elettroshock per calmare i suoi bollenti spiriti. Dopo l’avventuroso road movie The Darjeeling Limited, il regista texano torna a collaborare con Roman Coppola (sceneggiatore di entrambi i film) per “orchestrare” una fuga – questa volta d’amore – in perfetto stile, dove tutti gli ingredienti sono mescolati e agitati bene prima di essere imballati in una confezione visiva

incantevole. Tenerezza e purezza dei sentimenti e dei primi contatti fisici, incapacità del mondo adulto di comprendere i tormenti (pre)adolescenziali e i propri, potenza del sogno e dell’incoscienza giovanile, imprese fantastiche dai risvolti pirotecnici, lieto fine agognato e meritato sono armonicamente diretti in questa fiaba per grandi e piccoli che ci chiede – in maniera bizzarra, ma avvincente – di credere alla possibilità di essere felici, proprio come coraggiosamente fanno i giovani protagonisti della storia. E per chi ha la pazienza di non lasciare la sala prima dello scorrere dei titoli di coda, l’autore del corrosivo I Tenenbaum e del fantasioso Fantastic Mr. Fox chiude con un circolo sonoro la storia, riproponendo il motivo dell’inizio con una variazione, suggerendoci che qualcosa è cambiato alla fine di questa speciale avventura.

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Regia: Wes Anderson. Sceneggiatura: Wes Anderson & Roman Coppola. Cast: Jared Gilman, Kara Hayward, Edward Norton, Bruce Willis, Bill Murray, Tilda Swinton, Harvey Keitel, Frances McDormand, Jason Schwartzman. Anno: 2012. Durata: 94 minuti. Paese: USA.

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CONCORSO

Rust and Bone

In questa pagina e nella precedente: Marion Cotillard e Matthias Schoenaerts nel servizio fotografico di Jean-Baptiste Mondino.

(De Rouille Et D'os)

di Francesca Vantaggiato Era il 2009 quando Jacques Audiard si aggiudicò a Cannes il Grand Prix Speciale della Giuria con Il Profeta, pellicola d’ambientazione carceraria sulla trasformazione di un uomo zero to hero (in ambito malavitoso, s’intende). Audiard ritorna sulla Croisette a distanza di tre anni con De Rouille Et D’os (Rust And Bone), ispirandosi ai racconti di Craig Davidson (Rust And Bone del titolo) dei quali si respirano l’atmosfera e l’ambientazione, piuttosto che l’aderenza narrativa. Come ha precisato il regista in conferenza «i due protagonisti sono frutto dell’invenzione, volevamo raccontare una storia

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d’amore luminosa che non esiste nel testo originale di cui abbiamo rispettato la forma ma non il contenuto. Ci siamo spostati sulla Riviera francese, ad Antibes, per trovare la giusta luce». I protagonisti della storia, Stephanie (Marion Cotillard) e Ali (Matthias Schoenaerts), si incontrano durante una rissa fuori da un locale: lei è vittima di un’aggressione e lui è l’addetto

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CONCORSO

alla sicurezza che accorre in suo aiuto. Stephanie è un’addestratrice di orche presso il parco acquatico di Marineland, è bella e sicura di sé, Ali è un boxer che sta ricostruendo la sua vita insieme a Sam, il figlio di 5 anni che a malapena conosce, con l’aiuto della sorella (Corinne Masiero) e del suo compagno. Stephanie e Ali appartengono a mondi lontani, ma un giorno, in seguito al tragico incidente in cui lei perde le gambe, si ritrovano e si sorreggono. Audiard torna a parlare di storie ordinarie con una lucidità visiva

che sostiene la fedeltà al reale a cui il film aspira. I due protagonisti sono messi a dura prova dalla vita: Ali è un padre spiantato e senza consapevolezza appassionato solo per l’arte del combattimento, mentre Stephanie ha lasciato ogni sogno in quel maledetto parco acquatico, l’uno è necessario alla guarigione dell’altra. La fisicità gioca un ruolo chiave in Rust And Bone, il corpo è il mezzo d’espressione e di comunicazione basilare per Ali e Stephanie e per la loro relazione, ed è anche il segno visivo con cui Audiard scrive, contrappone e assembla

le scene. I due hanno bisogno di essere salvati dallo stallo esistenziale in cui versano, di ritrovarsi dopo il colpo subito, di risolversi. Audiard cerca con autenticità di completare il percorso delle sue creature drammatiche ma, se con Stephanie si prende tutto il tempo necessario per descrivere una risalita conquistata gradualmente, con Ali la ripresa avviene con una brusca e repentina impennata che disturba e mette in crisi la credibilità del suo arco caratteriale. Tra il cast, oltre alla superba protagonista femminile, brillante

nella parte del corpo fragile e devastato, e all’imponente Schoenaerts addestrato per devastare, meritano una menzione sia l’ambivalente e dannato Bouli Lanners (Kill Me Please), sia la semplice Corinne Masiero (già Louise Wimmer) che si arrabatta fino a consumarsi per sopravvivere. Alcune scelte narrative risultano un po’ frettolose rispetto alla meticolosità globalmente dedicata alla veridicità dei personaggi, alla corrispondenza tra fisicità e parole, al simbolismo racchiuso nei quadri di svolta (uno tra tutti è quello di riconciliazione tra Stephanie e l’orca – e la vita), al lavoro di computer graphics applicato al corpo della Cotillard che ne rafforza il dramma e contribuisce a renderne l’interpretazione ancora più sconvolgente.

Nella pagina precedente, in basso: Matthias Schoenaerts e Armand Verdure, rispettivamente Alain e Sam, padre e figlio in una scena di Rust And Bone (Ruggine E Ossa in italiano) Sotto: Marion Cotillard, protagonista femminile.


Regia: Sceneggiatura: Soggetto: Cast:

Jacques Audiard. Jacques Audiard & Thomas Bidegain. Craig Davidson. Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Yannick Choirat, Jean-Michel Correia, Mourad Frarema, Bouli Lanners. Anno: 2012. Durata: 120 minuti. Paese: Francia, Belgio.

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CONCORSO

REALITY In alto: coloratissima foto di gruppo per l'intero cast di Reality, unico film in concorso a Cannes e seconda volta in gara per Matteo Garrone. In piedi, a sinistra, il protagonista Aniello Arena, al suo esordio cinematografico come attore dopo una lunga carriera teatrale parallela alla detenzione carceraria a Volterra.

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Applausi tiepidi ma ripetuti hanno accolto Reality di Matteo Garrone, unico film italiano in concorso alla 65esima edizione del Festival di Cannes. Protagonista di questa parabola umana è Aniello Arena (attore dal 2011 per la Compagnia Teatrale Fortezza presso il Centro Detenzione Volterra) nel ruolo di Luciano, un pescivendolo napoletano che per sbarcare il lunario organizza piccole truffe con la moglie Maria. Luciano è un padre e un marito

amorevole dalla battuta facile che non perde occasione per esibirsi in sketch comici. Al matrimonio di uno dei suoi numerosi parenti, incontra Enzo “never give up”, ex inquilino del Grande Fratello diventato una star richiesta e acclamata. Un giorno, spronato dalla figlia, dalla moglie e dai parenti tutti che con lui condividono lo stesso misero tetto, si presenta al casting per entrare nella casa più famosa d’Italia. Arriva la chiamata per un secondo provi-

di Francesca Vantaggiato no a Roma e, convinto ormai di fare parte dei giochi, abbandona la sua vita di sempre e si consuma nell’ossessione di un sogno, finendo col distorcere completamente la realtà. Il regista di Gomorra lascia gli ambienti malavitosi per indirizzare lo specchio su un altro scorcio di contemporaneità, quello bramoso di accedere nell’olimpo televisivo per assaporare il dolce nettare del successo facile e fugace. L’iniziale lunga carrellata

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REALITY

CONCORSO

In Alto: Aniello Arena fuori dagli studi di Cinecittà. A lato: le locandine ufficiali inglese (a sinistra) e francese (a destra).

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dall’alto con cui la camera segue una carrozza fiabesca introdursi in un palazzo regale si chiude con lo scioglimento dell’incantesimo: la carrozza è solo una trovata kitsch di un matrimonio altrettanto kitsch che trasforma tutti in principi e principesse per un giorno. Tolti gli abiti da sera, i tacchi e i lustrini, Luciano e famiglia tornano nella loro quotidianità fatta di fatiscenze, povertà e sovraffollamento. L’incipit di Reality suggerisce la parabola di

Luciano che, dopo aver annusato per un attimo il sogno di gloria posticcio, viene rispedito nello stato di indigenza ormai impossibile da accettare. Il reality show a cui Luciano ambisce partecipare è più di un banale gioco, è un’opportunità di cambiamento radicale, è l’occasione della vita che non si può mancare e che invece gli toglierà tutto, anche il senno. Nella conclusione amara e irreale Garrone chiude un personaggio estremizzato, irrecuperabilmen-

te malato di (non) successo. Lo spunto di riflessione sull’essenza della contemporaneità costruita sull’inconsistenza dell’apparenza e sulla notorietà che non richiede talento è una proposta interessante e attuale che Garrone sviluppa con una narrazione incalzante e tesa fino al momento in cui si inceppa in una ridondanza stancante (forse causa degli incerti consensi).

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Regia: Matteo Garrone. Sceneggiatura: Matteo Garrone, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Maurizio Braucci. Cast: Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone, Nello Iorio, Nunzia Schiano, Rosaria D'Urso, Giuseppina Cervizzi, Claudia Gerini, Raffaele Ferrante. Anno: 2012. Durata: 115 minuti. Paese: Italia, Francia. Distribuzione: 01 Distribution.

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CONCORSO

PARADISE:

LOVE

di Chiara Napoleoni

Kenia. Su una spiaggia lontana e incontaminata si muove lentamente Teresa, donna sulla cinquantina dalle forme poco attraenti che, lasciata a casa la figlia adolescente, su consiglio di un’amica decide di partire alla scoperta del turismo sessuale. Arrivata a destinazione, la sua avventura da Sugar Mama – appellativo che viene dato dai ragazzi kenioti alle turiste europee che decidono di aiutarli in cambio di favori “particolari” – non va proprio come il previsto, svelando progressivamente i retroscena di una realtà disperata e senza confini. Nato originariamente come un unico lungometraggio e riadattato a trilogia dopo quattro anni di lavorazione e ottanta ore di girato, Paradise: Love è il primo film del “trittico del paradiso” firmato dall’iconografico Ulrich Seidl. Capostipite dello spaccato delle vacanze estive di una famiglia al femminile (rispettivamente madre, zia e figlia) alle prese con l’amore in tutte le sue declinazioni, dal sesso alla fede, il primo Paradise del regista austriaco – in lizza per la Palma d’oro – è frutto di un incredibile lavoro di postproduzione, perfettamente in linea con la poetica cinematografica dell’autore di Import Export ed estremamente coerente con la realtà che vuole rappresentare.

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Nella pagina precedente e in alto: due scene dal film con la protagonista femminile Margarete Tiesel nei panni di Teresa. A destra: la locandina ufficiale.

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Nudi integrali, pelli cadenti e celluliti in primo piano seguono per più di 120 minuti di visione del corpo e sul corpo, giocando su contrasti cromatici e culturali in un affresco grottesco e decadente che ritrae in maniera unica ed esplicita una realtà difficile da digerire. Senza alcun tipo di giudizio (se non quello dell’immagine) nei confronti dei suoi personaggi – la maggior parte attori non professionisti, liberi di vagare ed improvvisare senza script a disposizione – Seidl riprende un mondo fatto di vittime che diventano carnefici e di carnefici che diventano vittime, in un cinema molesto e iperreale, indistribuibile per le immagini oltremodo esplicite, che punta a violare lo sguardo del suo spettatore.

Regia: Ulrich Seidl. Sceneggiatura: Ulrich Seidl & Veronika Franz. Cast: Margarete Tiesel, Peter Kazungu, Inge Maux, Dunja Sowinetz, Helen Brugat, Gabriel Mwarua, Carlos Mkutano. Anno: 2012. Durata: 130 minuti. Paese: Francia, Germania, Austria.

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CONCORSO

Beyond the Hills

di Francesca Vantaggiato

Dopo essersi aggiudicato la Palma d’Oro nel 2007 con il suo secondo feature film 4 Mesi, 3 Settimane, 2 Giorni, Cristian Mungiu ritorna sulla Croisette e convince la stampa con Beyond The Hills (Dupa Dealuri), film ispirato al romanzo “non-fiction” Spovedanie La Tanacu (Deadly Confession) scritto dalla giornalista Tatiana Niculescu Bran. Nel 2005 una ragazza è morta per un presunto caso di esorcismo dopo poche settimane dal suo arrivo presso il monastero Tanacu in Romania. La giornalista ha seguito la vicenda e il processo contro il prete protagonista della storia (sospeso dall’ordine) per trarne un secondo libro intitolato Cartea Judecatorilor (The Book Of The Judges). La mano di Mungiu si fa quasi invisibile nel rac-

contare la storia di Alina (Cristina Flutur), una ragazza difficile e sola che si reca al monastero Tanacu per convincere l’amica Voichita (Cosmina Stratan) a tornare con lei in Germania. Le due ragazze erano molto vicine ai tempi dell’orfanotrofio, ma ora Voichita ha imboccato la strada della fede, è una novizia ortodossa. Per Alina l’unico affetto al mondo è incarnato da Voichita per la quale, ormai, esiste un solo amore possibile, quello di Dio. Alina soffre ed è agitata e, non riuscendo a comprendere i dettami della religione a cui nessuno riesce ad avvicinarla, si ribella. Le sue convulsioni vengono interpretate come un caso di possessione da cui solo la lettura continua di preghiere, l’acqua santa e il digiuno possono salvarla. E invece di liberarla dal


Nella pagina precedente e in basso: due scene dal film con Cosmina Stratan e Cristina Flutur. Sopra: la locandina francese.

male, il prete e le suore del monastero firmano la sua condanna a morte. Come ha spiegato il regista, Beyond The Hills «è un film sull’amore e sulla libertà di coscienza e su come l’amore possa trasformare il bene e il male in concetti molto relativi. Gran parte degli errori di questo mondo sono stati commessi nel nome della fede e con l’assoluta convinzione che fossero commessi per una giusta causa». Mungiu ci pone dinanzi a questioni di ordine morale: fin dove è lecito spingersi in nome della fede? E ancora, seguire le regole alla lettera è davvero auspicabile e benefico? Alina è un’anima fragile annientata dagli schematismi di chi pretende di agire in nome di Dio, è una vittima consegnata al martirio (verrà, infine, incatenata e messa in croce per il suo presunto bene) perché i suoi dub-

bi non trovano la pazienza della spiegazione. 464 sono i peccati per la Chiesa Ortodossa che Alina è costretta a controllare nella sua lista d’azioni, e 0 sono i tentativi di tenderle la mano con umanità. Il punto della riflessione si spinge fino al cuore del concetto d’amore, dilaniato dal conflitto tra il buon senso istintivamente trainante verso l’aiuto del prossimo e l’atto benevolo controllato da regole rigide. Benché non esista una verità assoluta nell’interpretazione degli atti d’amore, spesso sono proprio le azioni compiute sotto il suo stendardo che finiscono col mistificare la bontà stessa delle intenzioni. Senza alcuna severità giudicante, e quasi con compassione verso la limitatezza dell’agire umano, Mungiu mostra la fallacia del pensiero sorretto dalla fede cieca – qualsiasi sia la sua natura. Regia: Sceneggiatura: Soggetto: Cast:

Cristian Mungiu. Cristian Mungiu. Tatiana Niculescu. Cosmina Stratan, Cristina Flutur, Valeriu Andriuta, Dana Tapalaga, Catalina Harabagiu, Gina Tandura, Vica Agache, Nora Covali. Anno: 2012. Durata: 150 minuti. Paese: Romania.

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AMOUR

CONCORSO

/LOVE //LIEBE

di Francesca Vantaggiato L’amore senile che si consuma nel tempo è il tema affrontato dalla Palma d’Oro 2009 Michael Haneke (Il nastro bianco) in Amour (Love), già annoverabile nella lista dei favoriti in questa 65esima edizione festivaliera. Il regista austriaco porta sul grande schermo di Cannes Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, una coppia di insegnanti di musica in pensione la cui vita viene sconvolta dall’improvvisa malattia della donna, e Isabelle Huppert (protagonista dell’altro film in concorso In Another Country del coreano Hong Sang-Soo) nel ruolo della figlia lontana assorbita dalla propria vita. Georges e Anne sono due ottantenni affiatati e attivi, escono per ascoltare i concerti degli allievi che hanno iniziato alla musica e si guardano ancora con gli stessi occhi di un tempo. La solidità della loro vita insieme subisce un cambiamento irreversibile quando Anne scopre di essere malata e, benché Georges si dedichi a lei con tutte le sue energie, niente può arrestare l’agire del tempo che corrode corpo e spirito. Il settantenne Haneke sviscera con una forza narrativa tanto potente quanto penetrante tutta la sofferenza fisica e morale che si prova quando si invecchia. Amour è l’atto d’amore messo alla prova dall’avanzare dell’età e dalle complicazioni che esso comporta, è un ritratto intimo e doloroso dell’esistenza che si spegne. Questo film è una descrizione semplice della vecchiaia che con ferocia logora i tessuti, il pensiero e lo spirito delle sue vittime e degli affetti stretti intorno ad esse. Georges è un corpo debole che chiama a raccolta tutte le forze che gli restano per sostenere la persona a cui ha dedicato la sua vita, una donna colta e brillante ora annientata da una malattia che la rende ogni giorno sempre più iner-

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CONCORSO

Nella pagina precedente: Emmanuelle Riva tra le mani di Jean-Louis Trintignant in una scena del film. Sopra: le due locandine ufficiali che raffigurano i due attori protagonisti. A destra: Emmanuelle Riva sul set con il regista Michael Haneke.

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me, quasi fosse una bambina. Isabelle Huppert resta in secondo piano nel dramma d’amore interpretato dalla superba coppia Riva-Trintignant che ha segnato il ritorno dell’attore francese negli ambienti cinematografici a distanza di dieci anni dall’ultima prova. Georges e Anne sono due personaggi che non chiedono pietà, neanche all’apice della criticità, continuano ad affermarsi nell’unione che li lega fino a quando le circostanze non sbilanciano in modo insostenibile la reciprocità del sostegno. Non è facile aggiungere nuovi capitoli alle storie d’amore narrate attraverso il grande schermo, forse l’innovazione è più rintracciabile nel modo e nella forma che nel contenuto. Haneke, invece, indaga il senso profondo dell’amore da una prospettiva nuova e autentica, si incammina sul viale del tramonto catturando gli affanni di un percorso che finisce nella miseria più sconsolante. Con un colpo d’autore, Haneke circoscrive l’azione nell’ambiente chiuso e asfittico di una casa, scrivendo un dramma da camera dove la crudeltà della malattia è più insopportabile della morte stessa. L’avanzare del malanno di Anne e la conseguente chiusura di Georges in un mondo isolato e compresso coincidono infatti con la limitatezza dei luoghi di scena, l’appartamento simbolo dell’oppressione fisica e psicologica che si abbatte sull’anziana coppia.

TD 7


Regia: Michael Haneke. Sceneggiatura: Michael Haneke. Cast: Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva, Isabelle Huppert, Alexandre Tharaud, William Shimell. Anno: 2012. Durata: 127 minuti. Paese: Francia, Germania, Austria. Distribuzione: Teodora Film.

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CONCORSO

vous

n’avez

encore rien

vu

In alto: la locandina francese del film.

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Una telefonata inaspettata accomuna tredici attori in un momento imprecisato della loro giornata. Mathieu Amalric, Michel Piccoli, Anne Consigny e tanti altri, dopo essere stati spiacevolmente informati della morte del loro caro amico Antoine, sono invitati a partecipare all’apertura del testamento nella sua crepuscolare casa fuori città. Antoine aveva un gran gusto per gli immobili ed era un autore teatrale di grande successo, tanto che le sue opere nel corso del tempo furono portate in scena da quella grande platea di attori che ora si trova nel suo salotto, seduta davanti ad uno schermo pronta ad ascoltare le sue ultime volontà. È Marcelline, il fe-

di Chiara Napoleoni dele maggiordomo di Antoine, a guidare gli ospiti nell’esaudire il suo ultimo desiderio, quello di giudicare l’adattamento della sua famosa Eurydices, attraverso l’interpretazione di una giovane compagnia di teatranti. Le luci si spengono e il “pubblico” inizia ad assistere allo spettacolo. Ognuna di quelle persone sedute in sala, però, nel corso della sua vita, ha almeno una volta portato in scena uno dei personaggi partoriti dalla fervida immaginazione drammaturgica del defunto, e ora che sono tutti lì, seduti a rivivere insieme la splendida Eurydyces, nessuno riuscirà a fermarsi alla pura e semplice visione… «Non avete visto ancora niente!», recita ironicamente il titolo

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In apertura e in basso: due scene dal film: la prima, con Sabine Azéma e Pierre Arditi; la seconda con i due attori insieme agli altri membri del cast, da sinistra: Lambert Wilson, Anne Consigny, Michel Piccoli, Mathieu Amalric.

– tradotto in italiano – di quello che potrebbe essere definito il testamento di uno degli autori più longevi e vitali del cinema d’autore francese. Vitalità è la parola esatta per definire l’ultimo lungometraggio del (quasi) novantenne Alain Resnais, nuovamente a Cannes con Vous N’avez Encore Rien Vu, sorprendente summa della sua carriera e allo stesso tempo incredibile esperimento cinematografico. Basato su due piece teatrali di Jean Anouilh (Eurydice e Cher Antoine), il nuovo film di Resnais gioca su più piani narrativi, riportando il cinema al teatro con un incredibile lavoro di montag-

gio e di adattamento, potendo contare su un cast eccelso e su altrettante sublimi interpretazioni. Senza paura di osare, Resnais ci trasporta nell’universo che «abbiamo ancora la sfortuna di non aver visto» tra split screen, tragedia greca, ambientazioni noir e sottofondi malinconici. Ad interpretare il “caro Antoine” il regista Denis Podalydes (anche lui a Cannes con la sua Adieu Berthe in Quinzaine), alter-ego dello stesso autore degli Amori Folli sia di fronte ai suoi attori che dinanzi ai suoi spettatori, chiamati, come i tredici protagonisti, a dar la loro interpretazione…

Regia: Sceneggiatura: Soggetto: Cast:

Alain Resnais. Alain Resnais & Laurent Herbiet. Jean Anouilh. Mathieu Amalric, Lambert Wilson, Michel Piccoli, Anne Consigny, Sabine Azéma, Denis Podalydès, Hippolyte Girardot, Anny Duperey, Pierre Arditi, Michel Robin. Anno: 2012. Durata: 115 minuti. Paese: Francia, Germania.

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CONCORSO

like someone in love di Francesca Vantaggiato Dopo l’Italia di Copia Conforme – in concorso alla kermesse francese nel 2010 - Kiarostami si sposta a Tokyo per girare Like Someone In Love. Palma d’Oro della 50esima edizione del Festival di Cannes con Il Sapore Della Ciliegia, il regista iraniano continua la sua peregrinazione alla ricerca di scorci esistenziali autentici da catturare. Una giovane ragazza (Rin Takanashi) si paga gli studi prostituendosi, un anziano professore (Tadashi Okuno) la contatta pensando di conoscerla. Quando lei gli offre il suo corpo, lui si mostra interessato soltanto a trascorrere del tempo con lei. «Il mio film non ha un inizio e nemmeno una fine, proprio come accade nella vita reale dove si arriva già a storia iniziata» dice Kiarostami in conferenza. In effetti, Like Someone In Love più che definirsi in una struttura compiuta, dove i protagonisti percorrono un viaggio, vivono una mutazione, presentandosi sotto una nuova luce, si affaccia su tratti esistenziali umani osservandone azioni e reazioni.

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In alto: due scene dal film. Sopra: la locandina ufficiale.

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Like Someone In Love è un racconto senza prologo né epilogo che affida all’immaginazione dello spettatore il riempimento degli spazi bianchi, risultando disorientante o disorientato – probabile motivo di controversi umori. La somiglianza della ragazza alla moglie del professore e le misteriose circostanze per cui l’anziano uomo non vede da tempo la nipote potrebbero suggerire un possibile legame tra i due, ma Kiarostami non si spinge oltre l’indizio, l’intuizione, prediligendo una piccola storia di genuine attenzioni a un eclatante caso d’agnizione. Quello di Kiarostami è un cinema situazionale alla ricerca del segno autentico con cui cogliere fedelmente l’uomo nel suo essere al mondo, è uno sforzo interpretativo più che di rappresentazione che investe tanto la resa scenica quanto il lavoro attoriale. Tadashi Okuno racconta di essere stato sollecitato dall’autore ad avere un approccio spon-

taneo e di aver lavorato senza sceneggiatura: “È stata la prima volta in vita mia. Kiarostami non mi ha chiesto di recitare ma di essere naturale”. Il Giappone, con le sue contraddizioni tra tensioni moderne e tradizioni perse nel tempo, è lo sfondo un po’ (intenzionalmente) trascurato della storia: sebbene alcune tematiche lascino intravedere una pallida disamina sociale, è la condizione universale dell’uomo il vero oggetto d’interesse del regista. “Ho sempre pensato ai giapponesi - continua Kiarostami – come a un popolo lontano dalla mia percezione, mentre ho scoperto una condivisione di emozioni che mi ha convinto a fare il film”. Chissà se Nanni Moretti, grande amante del cinema autoriale di Kiarostami, premierà Like Someone in Love nonostante lo stato di sospensione narrativa e lo sguardo ‘straniero’ su geografie lontane che rischia l’effetto cartolina?

Regia: Abbas Kiarostami. Sceneggiatura: Abbas Kiarostami. Cast: Rin Takanashi, Tadashi Okuno, Ryō Kase, Denden. Anno: 2012. Durata: 109 minuti Paese: Francia, Giappone.

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CONCORSO

THE

ANGELS’ SHARE

Nella pagina precedente e nella successiva: due scene dal film. Sopra: la locandina francese (a sinistra) e un manifesto promozionale.

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di Francesca Vantaggiato

Con The Angels’ Share il cinema di Ken Loach torna protagonista alla 65esima edizione del Festival di Cannes, dopo la presenza del 2009 con Il Mio Amico Eric e la vittoria del 2006 con il dramma impegnato Il Vento Che Accarezza L’erba. Questa volta Loach tratta in maniera quasi accidentale tematiche di ispirazione sociale, realizzando una commedia dalle battute spassose e puntuali. The Angels’ Share racconta la storia di quattro ragazzi disagiati a cui la vita concede una seconda possibilità. Robbie, Albert, Mo e Rhino hanno qualche difficoltà a controllare le proprie pulsioni: la violenza, la dipendenza dall’alcol, i furti, il vandalismo sono le ragioni per cui si ritrovano davanti al giudice, aspettando il suo verdetto. Il quartetto, presentato brillantemente da Loach, viene consegnato ai servizi sociali sotto

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la guida di Rhino, il quale prenderà a cuore le loro sorti proponendo nuovi e sani stimoli. Al centro della scena c’è Robbie, un ragazzo dai trascorsi violenti deciso a cambiare vita dopo aver incontrato la giovane Leonie, da cui aspetta un figlio. Purtroppo, la violenza sembra aver marchiato la sua vita, intrappolata nel ricordo di un pestaggio costato quasi la vita a un innocente e nell’attuale faida tra famiglie che lo vuole costantemente bersagliato dagli antichi rivali. Mal voluto dalla famiglia di Leonie, che gli impedisce persino di assistere alla nascita del figlio, Robbie impiega tutto il suo talento e le sue energie per riscattarsi e offrire ai suoi nuovi affetti una vita migliore.

Loach e il fidato sceneggiatore Paul Laverty decidono di concedere a Robbie e al suo gruppo di nuovi amici la possibilità di redimersi e di ricominciare una nuova vita. La paternità gioca un ruolo fondamentale per Robbie, perché è in essa e nella perfezione della sua creatura che ritrova la forza di rinnovarsi. Rhino guida Robbie lungo il tortuoso sentiero che conduce alla salvezza, un cammino fatto di prove dolorose, ma, soprattutto, di momenti di goliardica follia all’insegna della degustazione – e di un innocente furto – di pregiati whisky. Semplicità dei personaggi, dramma sfumato nella lievità della battuta, sguardo teso verso una soluzione facile e felice sono le

caratteristiche di The Angels’ Share, il cui titolo rimanda alla percentuale di whisky che evapora dai barili durante la maturazione – di solito nella quantità del 2% – e che individua la porzione destinata agli angeli. Nel prendere in prestito la poetica definizione del fenomeno che determina l’invecchiamento del whisky e che racchiude in sé il buon auspicio per la qualità del prodotto, Loach dichiara l’ottimismo di questo racconto agrodolce, dove tutti hanno diritto a una seconda chance. Attenzione, chi si aspetta un Loach amaro e duro nell’indagine sociale potrebbe rimanere deluso da questa favola dai risvolti teneri.

Regia: Ken Loach. Sceneggiatura: Paul Laverty. Cast: Paul Brannigan, John Henshaw, William Ruane, Gary Maitland. Anno: 2012. Durata: 106 minuti. Paese: UK, Francia, Belgio, Italia.

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CONCORSO In questa pagina e nelle successive: Garrett Hedlund e Sam Riley in alcune scene del film; nella pagina successiva, insieme a Kirsten Stewart.

ON THE ROAD

di Francesca Vantaggiato

Tra attese trepidanti e cuori infranti arriva a Cannes l’adattamento del libro cult della Beat Generation, On The Road, diretto da Walter Salles, sceneggiato da Jose Rivera e con Francis Ford Coppola come produttore esecutivo. Prima di intraprendere questo rischioso progetto di transcodifica, la coppia Salles-Rivera si era già cimentata nella trasposizione dei diari di viaggio di Ernesto

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‘Che’ Guevara (Latinoamericana) e del suo compagno Alberto Granado (Un Gitano Sedentario) realizzando I Diari Della Motocicletta, una riflessione scevra di giudizi su un percorso intellettuale, umano, politico. Ma se nel 2004 il Festival di Cannes aveva presentato in concorso un road movie girato per le strade dell’America Latina concepito intorno all’uomo, e non al mito, e intenzionato a comprendere i motivi

che consegnarono il medico alla rivoluzione, la 65esima edizione della kermesse ha accolto una pallida e non necessaria rappresentazione dell’avventura di Kerouac e del potenziale rivoluzionario del libro. Jack Kerouac ha concentrato in On The Road i viaggi dell’estate del ’47, del ’49 e del ’50 alla ricerca di un mondo libero dalle convenzioni a ritmo di jazz e sotto l’effetto di droghe, afferman-

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CONCORSO

Sopra: la locandina ufficiale del film (a destra) e uno dei manifesti promozionali raffigurante Viggo Mortensen.

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dosi come padre della Beat Generation. Sal Paradise (Sam Riley, Control) è l’alter ego letterario di Kerouac, un aspirante scrittore newyorchese che dopo la morte del padre si mette in viaggio alla conquista della libertà insieme allo spregiudicato Dean Moriarty (Garrett Hedlund, Tron: Legacy) – aka Neal Cassady – e alla sua sua giovanissima e disinibita moglie Marylou (Kristen Stewart, la ‘Bella’ di Twilight, Into The Wild) – Luanne Henderson nella realtà. Durante la lunga avventura attraverso gli Stati Uniti il trio non si nega nessuna esperienza che possa aggiungere nuove percezioni di sé, degli altri e del mondo. On The Road-libro è il vademecum di una generazione che credeva di poter espandere l’orizzon-

te cognitivo con l’uso di droghe, di abbattere le ipocrisie borghesi vivendo il sesso spontaneamente, di poter trovare il senso di libertà in una vita sulla strada. On The Road-film è la scarnificazione di una ribellione ridotta a un corpo senza anima, a un segno senza significato. Il viaggio alla ricerca di sé e del proprio posto nel mondo si risolve in una stancante e fine a se stessa esplorazione del sesso, mentre dell’America battuta dall’autore si respira ben poco. Nel tradimento del libro cult si perde ogni traccia della genesi creativa, e la connotazione poetica di uno stendardo culturale si eclissa nella ridondanza dell’intreccio di nudi. Sullo sfondo sbiadito della storia compaiono anche i poco approfonditi Carlo Marx/ Allen Ginsberg (Tom Sturrid-

ge, The Boat That Rocked), Old Bull Lee/William S. Burroughs (Viggo Mortensen, Lord Of The Rings, The Road), un veloce Steve Buscemi e la borghese seconda moglie di Dean Camille/Carolyn Cassady (Kirsten Dunst, Il Giardino Delle Vergini Suicide, Marie Antoniette, Melancholia), intensa e drammatica sebbene poco coinvolta. Francis Ford Coppola acquistò i diritti del film nel lontano 1979 senza riuscire a dare alla luce l’epica riproposizione cinematografica prima dell’arrivo di Salles a bordo dell’American Zoetrope avvenuto 8 anni fa. Il regista brasiliano, rendendosi conto di avere davanti un progetto di non facile portata, ha preferito ritardare le riprese ed effettuare un primo studio sulle location battute da

Kerouac finito, poi, in un documentario. La difficoltà di entrare nella letteratura e di farne esplodere il messaggio scottante al cinema è un limite percepibile nel film e rimarcato dalla banalizzazione esperienziale del viaggio fisico e intimo intrapreso per rompere gli schemi. Viene in mente Urlo di Epstein e Friedman con James Franco nei panni di Allen Ginsberg coinvolto nel processo sulla moralità del poema-manifesto della cultura Beat recitato nel 1955 alla Six Gallery di San Francisco. A differenza di Urlo, dove i tumulti creativi dell’autore vibrano sullo schermo e danno sostanza a un’atmosfera di fermento e cambiamento, On The Road appiattisce la scoperta e resta prigioniero del mito.

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CONCORSO

Regia: Walter Salles. Sceneggiatura: Jose Rivera. Cast: Sam Riley, Garrett Hedlund, Kristen Stewart, Kirsten Dunst, Viggo Mortensen, Amy Adams, Tom Sturridge, Steve Buscemi, Elisabeth Moss, Terrence Howard. Anno: 2012. Durata: 137 minuti. Paese: Brasile, Francia, UK, USA. Distribuzione: Medusa Film.

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CONCORSO

post tenebras lux

di Francesca Vantaggiato

A lato e nelle pagine successive: Nathalia Acevedo in due scene del film: in sauna (pagina successiva), e insieme ai veri figli del regista, Rut e Eleazar Reygadas, immersi nel bosco (a lato e a seguire). Sopra: la locandina francese (a sinistra) e quella messicana del film.

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Torna per la quarta volta a Cannes dopo la Caméra d’Or Japòn (2002), Battaglia Nel Cielo (2005) e Silent Light (2007) il cinema di ossessioni, simbolismi e movimenti ipnotici firmato Carlos Reygadas. Post Tenebras Lux si apre con la contraddizione del titolo: una bambina corre senza direzione in una campagna messicana tra mucche al pascolo, invocando il loro nome, quando la luce del tramonto, che rischiarava i colori della natura, si offusca per lasciare il posto alle tenebre. Nel bel mezzo di una vallata si erge la sontuosa villa di Juan (Adolfo Jiménez Castro) e Natalia (Nathalia Acevedo), approdati lì da chissà dove insieme ai figli Eleazar e Rut (la bambina dell’incipit). Seven (Willebaldo Torres) è il factotum della tenuta, un uomo del posto dal passato violento, con serie difficoltà a controllare i suoi impulsi. Il rapporto tra Juan e Natalia

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non è idilliaco, lui ha raptus violenti che sfoga picchiando i suoi cani – quelli più amati – e lei si aggira per casa in un costante stato di apatia. Entrambi scaricano frustrazioni e anomalie comportamentali nell’incapacità di gestire un rapporto sessuale felice, intoppo non da poco a cui tentano di rimediare partecipando a situazioni orgiastiche. Colto nel tentativo di derubare il ricco padrone, Seven spara a Juan e la storia prende una deriva criptica e ineffabile. La sequenza iniziale è un chiaro esempio della capacità del regista di conciliare tecnica e sguardo: la camera segue Rut nei suoi movimenti ipnotici e, mentre la sua figura si sfuma e si sdoppia quando tocca i bordi dell’immagine, smarriamo l’idea di confine tra sogno e realtà. La successione narrativa è intervallata da flashback e flashfor-

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ward di difficile lettura gestiti con l’anarchia del ricordo. Padrone assoluto della macchina da presa, a cui applica una lente che sfoca e raddoppia i contorni del quadro in 4:3, Reygadas lascia confluire in Post Tenebras Lux angosce, ricordi, immaginazione che si articolano secondo la grammatica del flusso di coscienza. Paragonando il suo atto creativo a quello sotteso al cinema espressionista, il regista messicano ci invita ad adoperare una chiave di lettura organizzata, non sulla linearità logica e temporale, bensì su una sensibilità istintiva e onirica. In quest’ottica non deve stupire – ma di fatto stordisce – la comparsa di un diavolo rosso in CGI che con la borsa degli attrezzi si introduce in casa, notato dal bambino: «Un incubo ricorrente quando ero piccolo», ci spiega il regista. Al di là di alcuni momenti che re-

stano estranei alla storia – come le scene conviviali o le partite di rugby difficilmente contestualizzabili – il film mette in campo la contrapposizione degli opposti che genera inadeguatezza, mandando in cortocircuito ogni prospettiva di stabilità. L’origine urbana della famiglia cozza con il contesto naturale di insediamento, la loro ricchezza incontra la povertà del luogo, l’amore (impalpabile) famigliare cerca nutrimento nella meccanica esperienza scambista. Sebbene sia chiaro che l’eros, l’essere umano e la natura siano i vertici di un’interazione sofferta, si respira l’impossibilità di cogliere l’intenzione comunicativa di un Reygadas abbarbicato al suo universo di incubi e ricorrenze, dal cui atteggiamento scaturisce un fastidioso senso di frustrazione.

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Regia: Carlos Reygadas. Sceneggiatura: Carlos Reygadas. Cast: Adolfo JimĂŠnez Castro, Nathalia Acevedo, Willebaldo Torres, Rut Reygadas, Eleazar Reygadas. Anno: 2012. Durata: 120 minuti. Paese: Messico, Francia.

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COSMOPOLIS di Valentina Calabrese

Robert Pattinson nella scena iniziale di Cosmopolis. Il film di David Cronenberg è arrivato nelle sale italiane il 25 maggio, in contemporanea con il festival.

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Nel caos generato da gocce di colore su una tela, che sembra richiamare uno dei maestri dell’astrattismo, Jackson Pollock, ha origine l’ultimo attesissimo film di Cronenberg, Cosmopolis, tratto dal profetico e incompreso romanzo dell’italo americano Don DeLillo. E proprio dal caos astratto dell’arte contemporanea, David Cronenberg dà origine alla storia di Eric Packer, giovane guru della finanza che, spinto dalla semplicità di un gesto quotidiano come quello di aggiustarsi un taglio di capelli, attraversa la città in limousine per dirigersi dal suo barbiere di fiducia. New York, metropoli contemporanea

per eccellenza, rappresenta lo spazio reale in cui si muove la limousine e, allo stesso tempo, lo spazio virtuale che esiste in ogni luogo e non ha identità, in cui il protagonista, interpretato da un perfetto, proprio perché inespressivo, Robert Pattinson, osserva la vita scorrere, immobile. Una giornata si trasforma in una sorta di odissea contemporanea, nella quale il giovane ultramiliardario Eric, attraversando la città, vive un eterno presente, in cui gli spazi, il tempo, le persone e i dialoghi si ripetono all’infinito, agghiacciando le anime dei protagonisti e mettendo a dura prova la pazienza degli spettatori.

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CONCORSO

In alto: Robert Pattinson e Sarah Gadon in una scena del film. Sopra: la locandina internazionale (a sinistra) e quella americana.

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I dialoghi, punto forte del film, a volte brillanti, sarcastici, altre volte ossessivi, morbosi e maniacali, intrisi di un nonsense contemporaneo, sono riportati quasi integralmente dal romanzo di DeLillo. Conversazioni surreali intorno a freddi discorsi sull’andamento economico di un capitalismo che è sempre più spettro di una società in cui tutto ciò che è umano è superato da un mondo virtuale, oggi dominante. Le uniche relazioni che Eric porta avanti sono lavorative o legate a istinti sessuali; rapporti liquidi vissuti in non luoghi in cui lo spazio e il tempo non esistono o esistono indipendentemente dalla realtà concreta. Cronenberg ha avuto dunque l’occasione di dar voce a un romanzo profetico, che anticipa eventi realmente accaduti negli ultimi anni, in primis la crisi monetaria e l’evoluzione mediatica incarnata dal protagonista, che osserva il mondo con uno sguardo perennemente filtrato da uno schermo; e lo fa accompagnato da un cast di prima scelta, come Paul Giamatti, Juliette Binoche, Mathieu Amalric, e girando un film composto da soli dialoghi, con pochissimi cenni di azione. Sfida complicata, quella di trasporre un romanzo, tutto basato sull’introspezione psicologica del protagonista, in una versione audiovisiva. Questa volta, però, gli appassionati di DeLillo, non possono restare delusi, e ciò è merito di Cronenberg, il quale ha mantenuto integralmente lo spirito del romanzo. Annoiati o no, gli spettatori non potranno negarlo.

Regia: David Cronenberg. Sceneggiatura: David Cronenberg. Cast: Robert Pattinson, Juliette Binoche, Sarah Gadon, Mathieu Amalric, Jay Baruchel, Paul Giamatti, Emily Hampshire, Abdul Ayoola. Anno: 2012. Durata: 108 minuti. Paese: Italia, Francia, Canada, Portogallo.

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CONCORSO

THE TASTE OF MONEY

di Francesca Vantaggiato

A lato: da sinistra, Youn Yuh-Jung, Kim Kang-Woo e Kim Hyo-Jin in una scena del film.

La smania di potere, la lussuria, la sottomissione al dio denaro sono il cuore e la rovina della ricca e potente famiglia sud coreana al centro della scena di The Taste Of Money. Im Sang-Soo è di nuovo in lizza per la Palma d’Oro dopo la partecipazione al concorso nel 2010 con The Housemaid, opera in cui The Taste Of Money affonda le radici mantenendo tuttavia una lettura indipendente. Già nel precedente film il regista coreano rifletteva sulla problematicità di una società sempre più nettamente divisa in ricchi e poveri, detentori del potere e sottomessi, tradendo il fulcro narrativo del cult firmato da Kim KiYoung nel 1960, di cui The Housemaid è il remake. Spostando l’attenzione dai turbamenti provocati dall’incursione femminile nel nucleo famigliare alla relazione tra servi e padroni, The Housemaid raccoglieva l’interesse dell’autore sull’interazione tra i ruoli sociali, definita in termini di potere. The Taste Of Money conferma l’attenzione di

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Sopra: la locandina originale (in alto) e quella internazionale. A lato: ancora Kim Hyo-Jin in un’altra scena.

Im Sang-Soo sulla contemporaneità del suo Paese e, ricorrendo ancora una volta alle logiche del thriller, si spinge nel cuore della finanza per nutrire di torpore i suoi personaggi e scolpirne la depravazione morale. Keumok Baek (Youn YuhJung) è una donna senza scrupoli figlia di uno degli uomini più potenti della Corea. Suo marito, Yoon (Baek Yoon-Sik), è l’amministratore delegato dell’azienda di famiglia, un uomo bieco che ha dedicato la sua vita al denaro e alle donne. Insieme hanno due figli, Cheol (On Joo-Wan) e Na-Mi (Kim Hyo-Jin), l’uno invischiato nei loschi affari di famiglia, l’altra – pura d’animo – in forte opposizione con la condotta famigliare. Young-Jak (Kim Kang-Woo) è il tutto fare del CEO Yoon da 10 anni, nonostante le sue capacità e la sua formazione universitaria. Dopo una vita spesa alle dipendenze di moglie e suocero, consumata in un matrimonio di interesse, Yoon è deciso

a lasciare tutto per ricominciare una nuova vita con la domestica filippina Eva (Maui Taylor). Ma lady Baek è pronta a tutto per impedire al marito di attuare i suoi piani. Im Sang-soo tenta di ripetere l’equilibrismo tra estetica e suspense per interrogarsi sulla schiavitù del potere, ma la sua prova di regia risulta uno sterile esercizio di stile che scade spesso nel ridicolo dell’esagerazione. Il gusto per le inquadrature e la cura dettagliata degli ambienti non bastano a creare l’atmosfera per un delitto da camera, e l’orrore della dipendenza da una posizione privilegiata da mantenere si riduce a una superflua esibizione di situazioni grottesche. La scarnificazione dei protagonisti li appiattisce alla semplicità del carattere, li priva di drammaticità e banalizza la crudeltà del loro agire. Il mix di black humour e tensione che in The Taste Of Money veicola la morale sul potere corruttivo del denaro non convince, non coinvolge, non stupisce.

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Regia: Im Sang-Soo. Sceneggiatura: Im Sang-Soo. Cast: Kim Kang-Woo, Youn Yuh-Jung, Kim Hyo-Jin, Baek Yoon-Sik, On Joo-Wan, Maui Taylor. Anno: 2012. Durata: 115 minuti. Paese: Corea del Sud.

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di Chiara Napoleoni Le sperimentazioni di Marey e Demeney (Homme Nu Tirant Sur Une Corde del 1892) aprono le danze all’ incredibile viaggio nella giornata di Monsieur Oscar. È lo stesso regista Leos Carax ad accompagnarci, lo vediamo in pigiama nel prologo – ispirato da un racconto di Hoffman – mentre si fa strada nella sua camera da letto fino a trovare una piccola porta di lynchiana fattura, passaggio segreto verso una sala cinematografica dal pubblico assente, con gli occhi chiusi, mentre un molosso attraversa il corridoio del cinema. Stacco. Qui inizia la vera missione di Carax: quella di risvegliarci dal sonno profondo in cui siamo piombati nell’era digitale conducendoci nella giornata del suo attore dalle tante maschere – Denis Lavant, volto segnato e indimenticabile, già visto in Boy Meets Girls e Gli Amanti Del Pont Neuf – mentre il mondo fuori sembra essersi fermato, in una Parigi tanto onirica quanto malinconica. Monsieur Oscar esce da una villa medio-borghese con una ventiquattrore in mano. Le sue bambine lo salutano calorosamente dal balcone mentre ad attenderlo con il motore accesso c’è una limousine bianca. Salito in macchina, tra le vie della capitale francese, la sua algida ed affascinante autista

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Céline (Edith Scob) gli ricorda di volta in volta gli appuntamenti del giorno. Ma l’ouverture simbolica di Carax non poteva fermarsi alle vicissitudini di un uomo in carriera, così ben presto scopriamo le vere (non) identità del suo Monsieur Oscar assieme alle sue trasformazioni ad hoc per ogni momento della giornata: vecchia mendicante, artista del motion capture, Bestia in cerca della sua Bella (incredibile sequenza che riporta in scena il Monsieur Merde di Tokio! affiancato dalla bella statuina Eva Mendes), padre bipolare, talentuoso suonatore di fisarmonica in un fantastico intervallo orchestrato; e poi ancora assassino, vecchio moribondo ed infine uomo-maschera in cerca di risposte dal suo produttore (un irriconoscibile Michel Piccoli) e da una vecchia fiamma del passato (Kylie Minogue), che, sulle note di una canzone, lo lascia attonito tra un finale melodrammatico ed un altro inizio/fine giornata, mentre una processione esistenziale di limousine si dirige verso il famoso garage Holy Motors. Gioco cinefilo strabordante e senza precedenti, il ritorno di Carax dopo più di un decennio di assenza da Pola X è inaccessibile, caleidoscopico, impressionante. Lo scrittore, regista e critico france-

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Sopra: Denis Lavant nei panni di Oscar. A lato: il manifesto promozionale realizzato per il festival.

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se ci trascina in un trip grottesco e visionario tra i generi cinematografici dove a guidarci sono delle bare in movimento, camerini-sarcofaghi con il volto di decadenti limousine che faticano a trovare la loro inquadratura in un’epoca in cui – come dice Monsieur Oscar – “le camere sono diventate troppo piccole, neanche si vedono più”. La vita si fonde così con la messa in scena (alla ricerca dell’autenticità, per contrapposizione, nell’era della finzione), in un viaggio d’autore dove un uomo dai mille volti sembra agire attraverso le parole di un famoso personaggio pirandelliano: “perché una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile”.

Regia: Leos Carax. Sceneggiatura: Leos Carax. Cast: Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue, Elise Lhomeau, Michel Piccoli, Jeanne Disson, Leos Carax. Anno: 2012. Durata: 115 minuti. Paese: Francia, Germania.

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Sopra: Nicole Kidman nella scena dell’amplesso nel parlatorio del carcere in The Paperboy, il film di Lee Daniels che ha scandalizzato il pubblico di Cannes; intorno a lei, da sinistra: Zac Efron, Matthew Maconaughey e David Oyelowo.

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di Francesca Vantaggiato Per Cannes è stato il momento delle grandi star, con John Cusack, Nicole Kidman, Matthew McConaughey e Zac Efron, protagonisti del film The Paperboy firmato Lee Daniels. Nella Florida di fine anni ’60, un uomo accusato di omicidio sta scontando la sua pena nel carcere della Moat County, aspettando la sua condanna a morte. Si tratta di Hillary Van Wetter, cacciatore di alligatori, accusato di aver assassinato lo sceriffo Thur-

mond Call che, per il suo odio razziale, ha ucciso senza pietà sedici uomini neri. La seducente Charlotte Bless ha mantenuto un rapporto epistolare con Hillary e, convinta della sua non colpevolezza, contatta il Miami Times per portare all’attenzione dell’opinione pubblica la condanna a morte di un innocente. Ward James e Yardley Acheman, i migliori reporter del giornale, sono affidati all’indagine mentre il giovane fratello di Ward, Jack, colui che consegna i giornali la mattina, diventa il loro autista. Tra amori platonici, passionali, razzismo, omosessualità, giornalismo senza scrupoli, un amaro e cruento finale chiuderà l’inchiesta. Ispirandosi all’omonimo romanzo di Pete Dexter, il regista di Precious non riesce a tenere insieme

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In alto: Matthew McConaughey, Zac Efron e David Oyelowo in un’altra scena. Sopra: la locandina del film.

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le innumerevoli tematiche affrontate e si smarrisce nei cambiamenti umorali che colorano le atmosfere del film. L’iniziale ilarità dei toni cede il passo a saltuari momenti di verbale e fisica efferatezza che sul finire della storia prendono il sopravvento, sintonizzando le emozioni dello spettatore sul registro teso della detective story colorata di rosso. I personaggi sono incarnazioni caratteriali interessanti, a cui però si chiede di barcamenarsi tra le tante tracce di una storia fatta di troppi spunti e nessun affondo. Rileggendo il lavoro di Dexter per l’adattamento cinematografico, Daniels usa l’ingenuo e inesperto sguardo di Jack per raccontare i fatti del ’69. La materia di cui parla il libro è roba che scotta: sullo sfondo si profila una società ancora razzista e omofoba, il delitto di una persona malvagia che probabilmente consegnerà alla

morte l’uomo sbagliato, il giornalismo dilaniato tra la necessaria verifica delle fonti e la spregiudicatezza della sete di notizia. La regia non rende giustizia alla profondità del punto di partenza letterario, la sua debolezza si rispecchia nello sguardo smarrito di Jack che segue tutto senza capacità di elaborazione e messa a fuoco. A differenza di Precious, dove le vessazioni famigliari perpetrate sulla ragazza obesa e di colore di Harlem reggevano l’intera storia, The Paperboy è un calderone di informazioni che soffre dell’assenza di un centro di gravità stilistico e tematico. Eccelle la Kidman, affiancata da un turbato Cusack e un tormentato McConaughey, perfettamente calati nella parte, ma la grande prova attoriale del trio non basta a salvare un film privo di determinazione.


Regia: Lee Daniels. Sceneggiatura: Lee Daniels & Peter Dexter. Cast: Zac Efron, Matthew McConaughey, Nicole Kidman, John Cusack, Scott Glenn, Nikolette Noel, David Oyelowo. Anno: 2012. Durata: 150 minuti. Paese: USA.

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CONCORSO

the

HUNT

A lato: Mads Mikkelsen in una scena di The Hunt. Sopra: la locandina del film.

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di Francesca Vantaggiato

A distanza di 14 anni da Festen, Vinterberg rispolvera da una prospettiva ribaltata il tema della pedofilia che gli valse il Premio della Giuria al Festival di Cannes del 1998. Nel film girato in pieno stile Dogma 95 la confessione di Christian (Ulrich Thomsen) sugli abusi paterni avveniva in occasione del sessantesimo compleanno del genitore colpevole, davanti a una platea di parenti e amici che ascoltava le accuse infastidita per l’interruzione dell’allegro e affettato convivio. In The Hunt la confessione-brindisi della vittima cede il passo all’invenzione di una bambina capace di scatenare la feroce caccia alle streghe in una comunità bigotta e senza indugi che sembra non aspettare altro. Il quarantenne Lucas (Mads Mikkelsen) ha un divorzio doloroso alle spalle, un rapporto col figlio adolescente da ristabilire e un nuovo lavoro a cui abituarsi. Nonostante la vita non sia stata generosa nell’accordargli serenità e stabilità, Lucas affronta con forza d’animo e dedizione ogni sfida quotidiana fino a quando la figlia del suo migliore amico lo accusa di pedofilia. Immediatamente, il mondo (non senza colpe) intorno a lui lo condanna senza concedergli neanche per un istante il beneficio del dubbio, e le iniziali pressioni psicologiche si trasformano gradualmente in violenza fisica e isolamento.

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In alto: un’altra scena del film con Mads Mikkelsen.

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È impossibile guardare a The Hunt senza voltarsi indietro verso il predecessore ideologico Festen, sebbene nell’ultimo lavoro in concorso a Cannes il rigore stilistico fedele al Dogma 95 sia pressoché abbandonato e il crescente accanimento contro l’aggressore – o presunto tale – abbia consistenze e giustificazioni molto più labili. Ipocritamente indifferente in Festen, inverosimilmente accusatoria in The Hunt, l’agghiacciante comunità rappresentata da Vinterberg completa la geometria del dramma che consuma il rapporto tra vittima e carnefice. In un rimbalzo di voci, pregiudizi e vigliaccherie, la comunità è il luogo in cui si compiono scempiaggini che è meglio occultare e attribuire al mostro di turno, al martire di una società dalla coscienza sporca convinta di poter esorcizzare il male lasciandolo confluire nel corpo del primo additato. The Hunt ha due respiri, da un lato è forte nella credibilità della tragedia che si abbatte e logora un uomo, dall’altro lascia perplessi per la faciloneria con cui il mondo adulto reagisce alle parole con-

fuse e quasi dettate di una bambina. Lucas/Mikkelsen è l’unica voce del film coerente al principio da cui prende fiato, l’integrità, mentre le istituzioni – educative, terapeutiche e famigliari – che si interfacciano con la bambina per verificarne la confessione-dispetto sono inficiate da una superficialità analitica imbarazzante e che sfocia nell’atteggiamento di una madre dalla mente ormai offuscata incapace di ascoltare la figlia ritrattare la bugia. Il principio menzognero sotteso al caso di pedofilia che si scaglia sull’uomo innocente fino alla sua disintegrazione si pone in un rapporto complementare con la verità dichiarata faticosamente in Festen, ma non è in grado di reggere il confronto di scrittura, e l’interpretazione tesa di un attore unita alla forza del suo personaggio da sole non bastano a convincerci che ciò che vediamo sia plausibile.

Regia: Thomas Vinterberg. Sceneggiatura: Thomas Vinterberg & Tobias Lindholm. Cast: Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Annika Wedderkopp, Lasse Fogelstrøm, Susse Wold, Anne Louise Hassing, Lars Ranthe, Alexandra Rapaport. Anno: 2012. Durata: 111 minuti. Paese: Danimarca. Distribuzione: BIM.

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UN CERTAIN REGARD

antiviral di Chiara Napoleoni

Sopra: il primo fotogramma del film in cui compare il titolo. A lato:

Caleb Landry Jones nei panni di Syd March, in una foto di repertorio.

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Pareti bianche e gigantografie serigrafiche aprono le porte ad un futuro non tanto lontano, dove lo show business entra a far parte del quotidiano nelle forme più perverse. In quest’era l’ossessione per il mondo dello spettacolo sembra non avere confini: in piccole macellerie si può comprare e degustare la carne dei propri divi ricreata geneticamente, mentre i media sono esclusivamente concentrati a riportare ogni movimento delle adorate celebrità. In questo clima di degenerazione, Il business più redditizio è quello delle cliniche private, costosi luoghi in cui i fan possono finalmente entrare in contatto con le star facendosi letteralmente iniettare una delle malattie da queste contratte nella loro vita. Syd March è uno dei tanti consulenti di queste cliniche, se non fosse che, per

arrotondare, inizia a cimentarsi nella riproduzione clandestina dei virus infettandosi in prima persona, rischiando il lavoro e (forse) la vita… Nel nome del padre Brandon Cronenberg con il suo Antiviral si cimenta in una riproposizione genetica e sistematica del pensiero del celebre autore canadese, cercando di rivisitare personalmente l’hard-core che ha caratterizzato soprattutto la prima parte della cinematografia del regista di History Of Violence. Da Shivers, passando per Videodhrome, a – staremo a vedere – Cosmopolis, forte è per Brandon l’influenza artistica del padre, tanto che il suo Antiviral potrebbe essere definito metaforicamente il risultato biologicoereditario del suo cinema del corpo. Aghi, tagli, herpes, pus e

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In alto: un’altra scena del film con Mads Mikkelsen.

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prelievi vengono mostrati senza alcun timore, ma mentre in Crash la visione delle cicatrici e delle protesi portava alla luce un potente discorso psicologico, in Antiviral Cronenberg Junior si ferma alla forma, delegando all’estetica – bianca, asettica, ospedaliera – il compito di riempire lo schermo, sorpassando di gran lunga la forza del messaggio che vorrebbe far arrivare. Affidandosi ciecamente al suo protagonista (Caleb Landry Jones – Xmen, Contraband), il neo-regista ci trasporta in un mondo sfacciatamente positivista, cellulare, che non lascia spazio ad alcuna metafisica, se

non a quella dell’aura che circonda la fama delle dive inarrivabili che popolano il suo immaginario virale (anche in questo caso, esplicitamente contaminato dal padre, vista la scelta di Sarah Gadon - A Dangerous Method, e prossimamente Cosmopolis). Risultato di darwiniana memoria, Antiviral, ad eccezione della regia fredda e della scelta azzeccatissima di una fotografia perversa e “maniacale”, si inserisce perfettamente nel body horror di chi l’ha creato. Qualcuno direbbe «tale padre, tale figlio», anche se io aggiungerei: «peccato che un Cronenberg così ce l’abbiamo già…».

Regia: Brandon Cronenberg. Sceneggiatura: Brandon Cronenberg. Cast: Caleb Landry Jones, Sarah Gadon, Malcolm McDowell, Douglas Smith, Joe Pingue, Nicholas Campbell. Anno: 2012. Durata: 111 minuti. Paese: USA, Canada.

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UN CERTAIN REGARD

Beasts of the Southern Wild

di Chiara Napoleoni

In apertura: una scena del film con la giovanissima protagonista Quvenzhané Wallis nella parte di Hushpuppy.

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Opera prima abbagliante che ha già conquistato il Sundance e concorre quest’anno sulla Croisette per Un certain Regard e Caméra d’Or, Beasts Of The Southern Wild, dopo l’accoglienza riservata in sala da parte della stampa internazionale, si prospetta come uno dei debutti più interessanti degli ultimi anni. Ai confini del mondo, in una terra lontana che ricorda la Louisiana, Hushpuppy vive con suo padre Winx e un branco di sfollati in un posto selvaggio chiamato “The Bathtub” (la vasca). Nel bayou dove abita si campa con poco, si mangia quello che la natura incontaminata ha da offrire e per divertirsi si fanno giochi pirotecnici accompagnati da fiumi di alcol e musica blues. La piccola Hushpuppy non ha mai conosciuto la sua affascinate mamma, che vive da sempre nei raccon-

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In alto: ancora Quvenzhané Wallis in una scena del film. Sopra: la locandina ufficiale del film.

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ti mitologici del padre, ma ora che Winx è gravemente malato, la vita di Hushpuppy sembra cadere in frantumi, come il mondo che la circonda. I ghiacciai cominciano a sciogliersi e creature preistoriche portatrici di distruzione iniziano a marciare verso di loro. Niente sembra poter salvare “la vasca” e i suoi grotteschi abitanti dalla fine del mondo, forse solo una piccola eroina dallo sguardo selvatico alla ricerca della mamma… Metafora sorprendente che riporta alla memoria le immagini dell’Uragano Katrina, Beasts Of The Southern Wild è la vera sorpresa di Cannes 2012. Le creature selvagge di Spike Jonze incontrano i personaggi del primo Kusturica in questo personale e colorato viaggio indipendente ai piedi del Mississipi, un potente affresco culturale e naturale che

difficilmente passerà inosservato. Benh Zeitlin ci guida alle porte della sua New Orleans con una forza estetica inconfondibile, ricordando nei primi minuti il Malick de I Giorni Del Cielo e riuscendo a trasportarci in questa landa dimenticata con la voice over del profondo sud della sua giovane eroina senza tempo (interpretata magistralmente dalla piccola attrice non professionista Quvenzane Wallis). Colonna sonora indimenticabile – firmata dallo stesso regista assieme a Dan Romer – e fotografia strabiliante (tanto da aggiudicarsi best cinematografy al Sundance 2012) si fondono in questa favola contemporanea senza confini, esordio straordinario che da queste parti odora tanto di Caméra d’Or…

Regia: Benh Zeitlin. Sceneggiatura: Lucy Alibar & Benh Zeitlin. Cast: Quvenzhané Wallis, Dwight Henry, Levy Easterly, Jonshel Alexander, Marilyn Barbarin, Kaliana Brower, Joseph Brown, Nicholas Clark. Anno: 2012. Durata: 91 minuti. Paese: USA.

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UN CERTAIN REGARD

LE GRAND SOIR

di Francesca Vantaggiato

A sinistra e nella pagina successiva: Benoît Poelvoorde in due scene del film, qui insieme a Albert Dupontel. In alto: la locandina francese.

La sezione Un Certain Regard si illumina con Le Grand Soir, film sceneggiato e diretto dalla bizzarra e geniale coppia Delépine-Kervern, accolto dal pubblico di Cannes con una lunga e calorosa standing ovation. Il duo francese mette in scena una storia d’anarchia e poesia dall’urgente rottura rivoluzionaria: Not (Benoît Poelvoorde) è il punk più vecchio d’Europa e Jean Pierre (Albert Dupontel) è suo fratello, un venditore di materassi sull’orlo di una crisi esistenziale. Not e Jean Pierre sono i figli agli antipodi dei Bonzini, genitori sui generis che gestiscono il ristorante “La Pataterie” all’interno di un centro commerciale. Quando Jean Pierre perde il lavoro e il suo matrimonio sta per concludersi con un dolente divorzio, Not diventa il suo mentore verso la conquista della vera libertà.

Jean Pierre ribattezzato Dead si accinge a organizzare insieme a Not, e con il supporto dei balzani genitori, una rivoluzione molto particolare. La ‘Grande Sera’ è il “mito poetico” di una società migliore scaturita dall’atto di ribellione allo status quo, è un’idea di matrice anarchica e marxista dove il cambiamento radicale può debellare il vecchio sistema favorendo l’instaurarsi di un nuovo corso. La ‘Grande Sera’ chiama a raccolta gli animi oppressi da una condizione sociale insopportabile, offrendosi come momento idea-

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UN CERTAIN REGARD

le per ritrovarsi e organizzare la rottura degli schemi con un cambiamento rivoluzionario guidato dalla speranza che un mondo nuovo possa essere generato. Nel loro piccolo Not e Dead riprendono questo principio cospirativo per pianificare una rivoluzione, sfortunatamente senza proseliti. Not è un personaggio profetico nella sua marginalità sociale, quando fa la sua apparizione in scena sembra poco più di un adolescente mal cresciuto. Jean Pierre, invece, vuole fare parte della società a tutti i costi, anche rimettendoci la salute. È la crisi di Jean Pierre a donare nuova luce e importanza a Not, la cui ambizione di vita per strada in un rapporto dissociato con la società

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lo ha identificato fino a quel momento come lo stolto del villaggio deriso e ghettizzato. Ma come ogni stolto che si rispetti, Not ha un messaggio da consegnare, la sua andatura oltre i confini tracciati dal sistema lo segnala come portatore di un’idea nuova, forse troppo avanguardista per essere accettata e compresa dai suoi simili assuefatti. Quando Jean Pierre perde tutto, anche la sua dignità, è pronto a rinascere come ‘Dead’ sotto l’ala protettrice di Not, il quale lo inizierà a una nuova vita dove ciò che conta è andare avanti, camminare con la mente libera. I personaggi di Delépine-Kervern sono dei poetici anarchici erranti che oscillano lungo la linea di

confine tra genialità e follia dai quali possiamo aspettarci di tutto, anche una strampalata rivoluzione anti-capitalista e antiborghese attuata per ricordarci che noi – come anche il cinema di ribellione – ‘We Are Not Dead’. Nella carrellata di attori impegnati a immedesimarsi coi simpatici esemplari umani che popolano il film – e il cinema – degli anticonvenzionali registi francesi non potevano mancare i feticci Bouli Lanners nei panni del vigilante, Miss Ming nel ruolo dell’operaia muta, Yolande Moreau madre di una ragazza punk e Gérard Depardieu nelle vesti di un veggente che non può rivelare il futuro a un disperato Jean Pierre.

Regia: Gustave de Kervern & Benoît Delépine. Sceneggiatura: Gustave de Kervern & Benoît Delépine. Cast: Benoît Poelvoorde, Albert Dupontel, Brigitte Fontaine Areski Belkacem, Bouli Lanners, Miss Ming, Yolande Moreau, Gérard Depardieu. Anno: 2012. Durata: 92 minuti. Paese: Francia.


UN CERTAIN REGARD

ELEFANTE BLANCO In apertura: una scena del film con il protagonista Ricardo Darín insieme a Jérémie Renier e Martina Gusman. In basso: Ricardo Darín in un’altra scena.

L’Elefante Blanco è un complesso ospedaliero in costruzione da decenni nel cuore pulsante degli slum di Buenos Aires. Il tempo è passato tra dittature, colpi di stato, tentativi democratici ma nessuna classe politica e militare se ne è mai voluta veramente occupare. Gigantesco e labirintico rudere urbano, questo stabile al centro di una delle zone più pericolose della metropoli argentina, la “Villa Virgin”, nasconde famiglie, orfani, narcotrafficanti, criminali, insomma, è una bomba

di Chiara Napoleoni ad orologeria sempre pronta ad esplodere. A placare gli animi degli abitanti e a coordinare i presunti tentativi di riabilitazione della zona troviamo Padre Julian (Ricardo Darín), prete terzomondista illuminato che, con l’aiuto dell’affascinante assistente sociale Luciana (la moglie-musa del regista Martina Gusman) e di Nicolas (Jeremie Renier dei fratelli Dardenne), amico storico appena rientrato miracolosamente da una missione fallimentare in Amazzonia, cer-


UN CERTAIN REGARD

In alto: Ricardo Darín e Jérémie Renier. Sopra: la locandina ufficiale del film.

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ca di dare una nuova possibilità alle anime perse che popolano la bidonville. Le faide tra bande rivali e gli scontri con la polizia però distruggono progressivamente ogni sforzo e, come se non bastasse, una malattia incurabile ed una crisi spirituale alle porte sembrano ostacolare la già difficile situazione della “Villa” senza speranza… Pablo Trapero torna a Cannes in Un certain regard con una forza espressiva incredibile, che purtroppo però si concentra esclusivamente nella sequenza iniziale del suo Elefante Blanco, attacco antitetico magistrale – da una Tac claustrofobica alla foresta amazzonica – che promette più di quello che il suo ultimo film ha realmente da offrire in termini di racconto. Ritratto di un prete missionario ricalcato sulla figura di Padre Mujica, sacerdote assassinato in circostanze misteriose nel corso degli anni settan-

ta, il nuovo lungometraggio del regista di Mundo Grua dimostra ancora una volta la sua capacità di giocare con i generi e con la macchina da presa, dote non secondaria se si prendono singolarmente alcuni dei suoi meravigliosi piani sequenza nella giungla. Regia unica, di una modernità straordinaria, che purtroppo non viene sostenuta da una sceneggiatura altrettanto originale, troppo attenta a concentrarsi sul personaggio di Padre Julian – prete al cinema straordinario, interpretato da un Darín in stato di grazia – tralasciando o comunque banalizzando alcuni elementi chiave del sub-plot. Un ritratto e una scelta difficile per Trapero, che torna come agli esordi con Leonera a fare denuncia, senza scrupoli, senza fronzoli, confermandosi comunque uno dei registi più interessanti dell’attuale panorama latino-americano.

Regia: Pablo Trapero. Sceneggiatura: Pablo Trapero. Cast: Ricardo Darín, Martina Gusman, Jérémie Renier. Anno: 2012. Durata: 106 minuti. Paese: Spagna, Argentina. Distribuzione: Matanza Cine, Morena Film.

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UN CERTAIN REGARD

S É U P S E D A Í C U DE L di Elisabetta Colla Il mondo raccontato dal regista messicano Michel Franco nel suo ultimo film Después de Lucía, vincitore della sezione Un Certain Regard a Cannes 2012, pur se crudo e spaventoso, non emette un grido, né un suono: urla silenziosamente, come la creatura del famoso dipinto di Edvard Munch. Ed è forse per questo che le scene di ordinaria e quotidiana disperazione e violenza, descritte con estremo rigore e veridicità, senza musica né

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orpelli, colpiscono ancora più lo spettatore/bersaglio, affondando il colpo in un punto imprecisato dello stomaco da cui scaturiscono dapprima i sentimenti della compassione (nel significato etimologico latino) e della pietas, che si tramutano a poco a poco in sdegno, rabbia, paura, orrore. Fino al buio assoluto, il luogo oscuro e senza ritorno della scena finale dove siamo condotti, ormai quasi in trance, insieme ai protagonisti del film. Il “después” del titolo si

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UN CERTAIN REGARD

Nella pagina precedente e in alto: due scene del film con la protagonista Tessa Ia. Sopra: la locandina ufficiale del film

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riferisce al “dopo” l’incidente in cui muore Lucía, moglie di Roberto e madre della quindicenne Alejandra: i due superstiti, padre e figlia, ancora più legati dal tragico evento, si trasferiscono in un’altra città dove li aspettano un nuovo lavoro (Roberto è cuoco) ed una nuova scuola. Ma il trauma subìto da entrambi è più profondo di quanto essi stessi credano ed avrà conseguenze imprevedibili, complicate dall’incapacità di esternare il dolore, parlarne fra loro, farsi aiutare dalla zia che cerca faticosamente di mantenere i contatti a distanza. Facile vittima del bullismo dei suoi nuovi compagni di scuola, ricchi e viziati, Alejandra – dapprima forte e positiva, sostegno del padre – inizia così una sorta di catabasi, costellata di umiliazioni e violenze fisiche e psicologiche, alle quali non si oppone, deprivata di volontà e motivazioni per ribellarsi, ma quasi invece assecondando la sua discesa agli inferi, fino ad un

passo dalla morte e dalla ricerca, finalmente, di un luogo salvifico. Sarà comunque troppo tardi per il padre che, cieco di rabbia e dolore nel crederla morta, cercherà una spietata vendetta. «Oggi la violenza è dappertutto – ha affermato il regista – non solo nelle scuole, ma sul lavoro, nelle strade, all’interno delle case». Nel descrivere con efficacia l’impatto devastante di una morte improvvisa, la spirale di crescente violenza fra coetanei, il deleterio effetto-gruppo, l’annichilimento della capacità reattiva della ragazza, la lucida follia distruttiva del padre, il regista sembra lanciare un monito agli spettatori. Già transitato per Cannes nel 2009 con il film Daniel Y Ana, Michel Franco è anche sceneggiatore dell’opera premiata quest’anno, Después de Lucía, una pellicola che mostra qualche incoerenza nello script, ma la cui forza drammatica è da ricercarsi nell’ellittica sobrietà della narrazione.

Regia: Michel Franco. Sceneggiatura: Michel Franco. Cast: Tessa Ia, Thomas Bo Larsen, Gonzalo Vega Jr., Tamara Yazbek, Paloma Cervantez. Anno: 2012. Durata: 93 minuti. Paese: Messico. Distribuzione: Lemon Films, Marco Polo Constandse, Pop Films.

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SÉMAINE DE LA CRITIQUE

Aquí y Allá di Elisabetta Colla Le voci del Messico presenti a Cannes, quest’anno, erano tante e diverse: fra queste, un’opera prima essenziale, quasi documentaristica, firmata dal regista spagnolo Antonio Méndez Esparza, dal titolo Aquí Y Allá, si è aggiudicata il premio della Sémaine de la Critique (Nespresso Grand Prize), la sezione festivaliera ideata e curata dal Sindacato francese dei Critici cinematografici, che ha premiato anche Sophia’s Last Ambulance di Ilian Metev (France 4 Visionary Award) e God’s Neighbours di Meni Yaeshuno (Prix SACD). Aquí Y Allá descrive – in modo apparentemente semplice e lineare – uno spaccato di vita nel villaggio messicano di Guerrero (l’“aquí” del titolo) dove un bel giorno fa ritorno Pedro, giovane uomo emigrato in USA (l’“allá”) clandestinamente per lavorare ed assicurare un futuro migliore alla sua famiglia rimasta a casa: le due figlie, lasciate da piccole, sono così cresciute che neppure riconoscono questo padre-fantasma, che non riesce a ritrovare un ruolo nella vita quotidiana del villaggio e nel cuore della

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Nella pagina precedente: il protagonista del film, Pedro de los Santos (a destra), con le attrici Teresa Ramírez Aguirre, Lorena Guadalupe Pantaleón Vázquez e Heidi Laura Solano Espinoza (anche a lato).

SÉMAINE DE LA CRITIQUE

In basso: la locandina ufficiale del film.

sua famiglia. Ed è qui dove vuole portarci il film, all’interno di un dramma collettivo (l’emigrazione dalla povertà, con la speranze di una vita migliore) che smembra gli affetti familiari, che indebolisce o recide i legami, che mette a dura prova la lotta quotidiana di chi non si arrende ma che, per questo, deve pagare spesso un prezzo molto alto. È anche la storia di tanti che, forzatamente, abitano fra due mondi diversissimi e non ritrovano più la loro identità in nessuno dei due. Teresa, la moglie di Pedro, lo accoglie, pur convinta che lui abbia un’altra donna in America e, a poco a poco, le cose sembrano riassestarsi: arriva un nuovo bambino,

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Pedro compra degli strumenti musicali per mettere su la banda che ha sempre sognato, cerca di lavorare nei campi, unica fonte di sostentamento quando il raccolto è florido (altrimenti c’è la fame e la miseria). Il regista, Méndez Esparza, prende spunto per il film dall’incontro reale avvenuto col giovane Pedro, che lavorava all’epoca come commesso in un magazzino di New York, con il quale avvia un’amicizia e gira un cortometraggio, creando a poco a poco lo script della pellicola oggi vincitrice della Sémaine. «Con Pedro, il protagonista, abbiamo costruito la storia di questo film – racconta il regista – e volevamo che fosse il più trasparente possibile. Si tratta di un’opera sulla nostra vera casa, e sui sentimenti che si hanno di essa quando siamo lontani, sul tornare a casa, ed indossare di nuovo i propri panni, continuando però a pensare al luogo dove siamo stati (l’America nel film) come un’ombra che ci sovrasta». Di fatto quasi non c’è storia, forse il film è davvero troppo minimalista, ma ottiene ciò che si prefigge, una descrizione autentica e non edulcorata, che lascia vedere qualcosa di cui difficilmente si parla, un aspetto intimo della dura realtà, uguale, disgraziatamente, in tanti e tanti luoghi del mondo.

Regia: Antonio Méndez Esparza. Sceneggiatura: Antonio Méndez Esparza. Cast: Pedro de los Santos, Teresa Ramírez Aguirre, Lorena Guadalupe Pantaleón Vázquez, Heidi Laura Solano Espinoza, Néstor Tepetate Medina, Carolina Prado Ángel, Noel Payno Vendíz, Nicolás Parra Quiroz. Anno: 2012. Durata: 110 minuti. Paese: Spagna, USA, Messico.

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quinzaine des réalisateurs

THE WE AND the I Nella pagina accanto: alcune scene del film con gli interpreti Laidychen Carrasco (sopra), Michael Brodie, Teresa Lynn, Raymond Delgado, Jonathan Ortiz (al centro), Jonathan Scott Worrell (in basso). Sopra: le locandine americana (a sinistra) e francese (a destra) del film

di Luca Fontò Ultimo giorno di scuola per un istituto del Bronx fatto di minoranze razziali ben integrate tra di loro; nelle classi hanno consegnato l’annuario, l’aria dell’estate si respira col naso, la campanella suona, l’autobus per i forestieri passa e i soliti pendolari ci corrono sopra. La grande autista matrona li saluta perché li conosce tutti, e li conosce bene. Maschi e femmine prendono posto. Come quando andavamo in gita pure noi alle medie e al liceo, i “fighi” del gruppo si fiondano dietro, sugli ultimi quattro posti allineati sotto al vetro, pronti a catalizzare potere e attenzioni. Infastidiscono i pochi adulti presenti, i molti studentelli ingenui, mischiano una parlata volgare e dialettica a video ed sms che circolano sul cellulare. Un filmato in particolare, che tutti si passano ridendo,

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quinzaine des réalisateurs scritti. Noi siamo su quell’autobus con loro, al centro, e vediamo contemporaneamente le cose che ci succedono intorno, che si accavallano, il tutto diviso in tre parti, che cominciano col “Bullismo” e terminano con “L’io”, l’introspezione di quando si è pochi, ormai quasi al capolinea, e ci si apre con i compagni a cui non si ha rivolto la parola per l’anno intero. In realtà, la mano di Gondry, anche se ben nascosta, si vede: a cominciare dai tremendi e pacchiani titoli di testa, e poi puntellata in tutti i flashback e i viaggi mentali che i ragazzini parlando fanno: insegnanti di disegno

Sopra: un’altra scena del film con Jacob Carrasco, Teresa Lynn, Raymond Delgado, Michael Brodie.

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lo vedremo fino alla nausea, un ragazzo che scivola sul burro e cade per lungo rompendosi l’osso sacro. Una Laidy stressata dai genitori si gratta le braccia stilando la lista degli invitati al suo “sweet 16”, un cantautore dietro di lei inforca la chitarra e le dedica una serenata, una coppia gay vedrà la gioia e la tristezza in poco più di un’ora, un reggiseno ad acqua salterà da un sedile e l’altro. E basta. Il film è tutto qua, tutto qua dentro, completamente privo di trama e tutto nell’autobus. E non si fa claustrofobico come Sleuth o il più recente Carnage, opere visibilmente reduci dal teatro, perché quest’autobus (ora inquadrato dall’esterno, ora non inquadrato) interagisce col mondo che c’è fuori, con le strade della periferia povera americana, con un incidente in un incrocio e un ingorgo, con i giorni passati

bruciati da fiamme di carta, finestrini dell’autobus che mostrano cosa succede in un altro isolato. Le interpretazioni degli sconosciuti giovani attori sono impeccabili (su tutte, quella di uno dei due gay), a starci a contatto ci si rende conto della crudeltà dell’adolescenza, della cattiveria delle loro bocche, cattiveria ingenua che si dimentica dopo qualche ora, perché è un microcosmo strano quello dei giovani, che ci fanno ridere e ci fanno piangere e non si accorgono che questo autobus, per portarli a casa, sta impiegando troppo: è quasi notte.

Sotto: una foto di gruppo dell’intero cast con, sulla sinistra, il regista e sceneggiatore Michel Gondry.

e le storie che si raccontano e gli insegnanti che si nominano, tutti visti in flashback ripresi da un cellulare. Dopo opere visivamente allucinanti e allucinate (già l’aveva fatto con Eternal Sunshine Of The Spotless Mind ma l’apice l’ha toccato ne L’arte Del Sogno) Michel Gondry ammazza il suo tipico cinema perché affascinato dal Point, una comunità nel Bronx in cui ha cominciato a bazzicare e da cui ha attinto grande ispirazione per la sceneggiatura – insieme a una lettera che una delle madri gli ha indirizzato in cui si scusava di non poter mettere a disposizione casa sua per le riprese, che ci verrà letta durante i titoli di coda. Riesce, in maniera totalmente incomprensibile, a sfornare un The Breakfast Club del 2012, dei giorni nostri, con feste alcoliche, segreti lesbo, Blackberry e slang

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quinzaine des rĂŠalisateurs

Regia: Michel Gondry. Sceneggiatura: Michel Gondry, Jeffrey Grimshaw, Paul Proch. Cast: Michael Brodie, Teresa Lynn, Raymond Delgado, Jonathan Ortiz, Jonathan Scott Worrell, Alex Barrios, Laidychen Carrasco, Meghan Murphy, Chenkon Carrasco. Anno: 2012. Durata: 90 minuti. Paese: USA. Distribuzione: Next Stop Production, Partizan.

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VINCITORI

CONCORSO

UN CERTAIN REGARD

PALMA D'ORO Amour di Michael Haneke

MIGLIOR FILM Después De Lucia di Michel Franco

Gran Premio Reality di Matteo Garrone

Premio Speciale della Giuria Le Grand Soir di Benoît Delépine & Gustave Kervern

Premio per la Migliore Regia Carlos Reygadas per Post Tenebras Lux Premio della Giuria The Angels' Share di Ken Loach Premio per il Migliore Attore Mads Mikkelsen per Jagten (The Hunt) di Thomas Vinterberg

Miglior Attrice Suzanne Clément per Lawrence Anyways di Xavier Dolan Miglior Attrice Emille Dequenne per À Perdre La Raison di Joachim Lafosse

Premio per la Migliore Attrice Cristina Flutur e Cosmina Stratan per Beyond The Hills di Cristian Mungiu Premio per la Migliore Sceneggiatura Cristian Mungiu per Beyond The Hills Palma d'Oro al Miglior Corto Sessiz-Be Deng di L. Rezan Yesilbas Camera d'Or Beasts Of The Southern Wild di Benh Zeitlin presentato nell'Un Certain Regard

Da destra: le due attrici Cristina Flutur e Cosmina Stratan insieme al loro regista Cristian Mungiu premiato per la sceneggiatura; Michael Haneke ritira la Palma d'Oro al miglior film; Mads Mikkelsen miglior attore.


ITALIA, CANNES/ 1 L’avventura di Antonioni è stato il film più fischiato dell’edizione del 1960. Un paio di fischi in meno se li è presi La Dolce Vita. Entrambi hanno vinto. Nella pagina accanto: Monica Vitti al Festival di Cannes, 1960.

di Luca Fontò

Marina Cicogna, produttrice di pochi film tra cui Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto (che vinse l’Oscar al miglior film straniero nel 1971 e che lei non andò a ritirare perché nessuno dei produttori si aspettava il trionfo e perché c’erano vari problemi al confine), ospite di Simona Ventura nel talk show post-Oscar che Sky Uno ha voluto mettere in mano all’ex capo-naufraga col fattore x, stizzita dalla vittoria di così tanti francesi (cinque Academy Awards a The Artist, presentato il maggio scorso, guarda un po’, a Cannes) ha però ammesso: «non dimentichiamo che i francesi ci sanno fare, se non fosse stato per il loro Festival, Antonioni non avrebbe fatto altri film dopo L’avventura». In pochi sanno, però, cosa successe ad Antonioni quell’anno e cosa successe al suo più importante film dopo Blow-Up.

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In basso: a sinistra, manifesto ufficiale della 13a edizione del festival, 1960; a destra, manifesto della 62a edizione, 2009.

1960. Presidente di giuria al 13esimo Festival di Cannes è lo scrittore francese Georges Simenon (autore di dozzine e dozzine di libri tutti pubblicati in Italia da Adelphi, tra cui le indagini di Maigret). Fuori concorso viene presentato Ben Hur. In concorso c’è un film greco destinato ad avere successo internazionale (Oscar alla canzone originale), Mai Di Domenica, che vince la Palma all’interpretazione di Melina Mercouri ex aequo con Jeanne Moreau per Moderato Cantabile. La Palma d’Oro va a un film fischiato dal pubblico e dalla critica, che si chiama La Dolce Vita ed è del più famoso regista italiano del tempo, Federico Fellini. Il Premio della Giuria va ad un altro film fischiato, fischiatissimo, dieci volte più fischiato del precedente, fischiato come mai s’era sentito: si chiama L’avventura ed è di Michelangelo

Antonioni. Ce lo racconta Monica Vitti, nei contenuti speciali all’edizione francese del dvd, ci dice che era molto emozionata, che era il suo primo film da protagonista, il suo primo festival. La passerella fino al palazzo del cinema era lunghissima e piena di fotografi, già entrando in sala aveva le ginocchia sciolte. Il film viene mostrato per la prima volta nel mondo e già alle prime scene i giornalisti in sala fischiano. Arrivano i segmenti drammatici e il pubblico in sala ride. La Vitti ricordava gli sforzi con cui aveva portato a termine alcuni ciak e intanto intorno a lei, in sala, c’era il delirio di boati. Uscì dal cinema in lacrime, scappò verso l’albergo e ci rimase. Arrivò il giorno della premiazione, e durante la cerimonia Roberto Rossellini disse una cosa che aveva firmato (insieme

ad una lista lunghissima di altri registi) su un foglio che venne affisso nell’albergo dove Antonioni e il cast alloggiavano: «L’avventura è il più bel film che sia mai stato presentato a un festival». Oggi, sappiamo che è vero. E il Festival di Cannes ce l’ha voluto ricordare usando un’immagine di quel fischiatissimo film per il poster dell’edizione 2009, la 62esima. Prima parte della “trilogia con epilogo” sull’incomunicabilità e inizio del sodalizio artistico tra Monica Vitti e Antonioni e debutto ufficiale al cinema di Monica Vitti, L’avventura è un quadro, non è un film. E se ognuna delle tre pellicole rimane impressa, stampata nella testa per anni, per una sua peculiarità (La Notte, il secondo episodio, considerato la summa registica di Antonioni, è un capolavoro di silenzi e dialoghi nonsense per

dipingere la crisi di una coppia a cui apparentemente non manca niente; L’eclisse, l’ultimo dei tre film, tra le urla debilitanti degli agenti di cambio dentro alla Borsa di Roma, oltre che per queste immagini colossali di valute e folle animalesche che si contrappongono al deserto bianco dell’esterno, non si può non ricordare per la disturbante e catastrofica scena finale), L’avventura è in assoluto quella davanti alla quale si sta in silenzio per qualche minuto, per la perfezione simmetrica e di fuochi di tutte le scene, per l’eleganza con cui si muove la telecamera, per l’ambientazione della storia: durante una gita alle Eolie, un gruppo di amici fa sosta sull’isola deserta della Lisca Bianca e si perde un membro del viaggio, tale Anna, che più volte aveva dato cenni di insofferenza e di difficoltà col moroso, Sandro. Nel panico ge-

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nerale, tutti iniziano le disperate ricerche della giovane donna, senza arrivare a un risultato per giorni. Sandro e Claudia (Monica Vitti), i più vicini alla dispersa, continuano i sopralluoghi perdendo lentamente l’interesse nella causa e spostando l’attenzione su una sottesa tensione erotica che si è instaurata tra loro. Di Anna, non sapremo mai più niente. L’avventura arrivò in Inghilterra, dove si candidò a due BAFTA, per l’interpretazione straniera e il film. Ma fu col successivo La Notte che Antonioni ebbe il suo riscatto, vincendo l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e in Italia il

David e il Nastro d’Argento come miglior regista, sperando anche nella candidatura all’Oscar come miglior film straniero. Per la statuetta americana, ha dovuto aspettare sei anni (nominations per la sceneggiatura e la regia di Blow-Up), per l’attenzione del pubblico è ancora in attesta. A Cannes ci sarebbe tornato poi altre quattro volte, vincendo un altro Premio della Giuria per L’eclisse, la Palma d’Oro per Blow-Up e il Premio Speciale per Identificazione Di Una Donna. Di quella drammatica prima volta al festival francese, nessun italiano fa più accenno.

In alto: una scena de L'avventura. Sopra: la prima locandina ufficiale del film.

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ITALIA, CANNES/ 2 L'amatissimo Nikita Mikhalkov trova un russo in giuria che lo odia e Oci Ciornie vince solo la palma all'attore. E che attore: Marcello Mastroianni. di Luca Fontò Ventisette anni dopo era il 1987 e si festeggiava il quarantesimo anniversario del Festival e per l’occasione fu assegnato un premio speciale a Federico Fellini che presentava il suo docufiction (lo chiameremmo così noi oggi) Intervista. In concorso c’erano giganti del cinema come Stephen Frears (Pick-Up), Peter Greenaway (Il Ventre Dell’architetto), Paul Newman da regista (Lo Zoo Di Vetro), Wim Wenders (col suo film più celebre, Il Cielo Sopra Berlino), e due italianissimi: Ettore Scola con La Famiglia (che sarebbe poi stato candidato all’Oscar come miglior film straniero) e Francesco Rosi con Cronaca Di Una Morte Annunciata dal libro omonimo di Márquez. Era mezzo italiano anche un altro film in gara, Oci Ciornie del russo Nikita Mikhalkov (quello di Burnt By The Sun che vinse un Oscar con la prima metà e ha fatto più che cilecca con la seconda) con, nel cast, Marcello Mastroianni che ebbe la Palma all’interpretazione (la seconda dopo Dramma Della Gelosia di Scola) e fu candidato di diritto all’Academy Award come miglior attore protagonista (era la terza nomination, dopo quella per Divorzio All’italiana nel 1963 film del ‘61 che vinse la statuetta alla sceneggiatura originale - e per Una Giornata Particolare nel 1978). Tutti si aspettavano che il film ottenesse anche la Palma d’Oro. Ma all’interno della

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giuria c’era un altro russo, Elem Klimov, che minacciò di lasciare delegati e festival se si fosse deciso di dare un qualche premio a Mikhalkov dal momento che, cito, «il film è una porcheria, una schifezza». L’oro fu quindi dato al francese Maurice Pialat, per Sotto Il Sole Di Satana con Gérard Depardieu e al momento di ritirare il premio il regista fu accolto da fischi e boati da parte del pubblico, mentre lui in silenzio saliva sul palco, e dopo il discorso di ringraziamento, al microfono, Pialat disse alla platea «si vous ne m’aimez pas, je peux vous dire que je ne vous aime pas non plus», se io non vi piaccio posso dire che neanche voi piacete a me. Il caos in diretta televisiva non era mica finito, quella sera: poco dopo, per l’assegnazione del Gran Premio della Giuria a Mail Souleymane Cissé per Yeelen - La Luce, un uomo del

In basso: a sinistra, manifesto ufficiale della 40a edizione del festival, 1987; a destra, la locandina italiana di Oci Ciornie.

Nella pagina accanto: una scena di Oci Ciornie in cui si riconoscono Silvana Mangano e Marcello Mastroianni.

pubblico riuscì a salire sul palco, a raggiungere l’asta, a prendere il microfono e iniziare ad urlare insulti razzisti per Cissé, originario del Mali. Il regista di colore strappò il microfono dalle mani dell’invasore e glielo diede in testa. Alla fine di tutto, Cissé e Pialat scatenarono una rissa con lo sconosciuto. Esiste in rete, superstite, difficile da trovare, un video di un telegiornale francese che testimonia le proteste nate per l’assegnazione di quella Palma. Molto più facile da recuperare è invece Oci Ciornie, il film di cui quell’anno si innamorarono tutti (in dvd per Ripley's Home Video a € 14,90). Costumi di quel primo Novecento de I Vicerè, completi bianchi e assurdità intorno a una fontana come la migliore tradizione felliniana ha lasciato, la pellicola racconta la storia di Romano, italiano seduto al tavolo del

ristorante di una nave in viaggio che beve vino bianco e guarda una delle ultime foto fatte insieme alla moglie. Un baffuto russo accaldato e disidratato gli compare di fianco e lo impietosisce per la sua sete; Romano lo invita a sedersi, iniziano a parlare, iniziano i flashback: sulla terraferma ha lasciato la figlia, in una casa gigantesca appartenente a sua moglie e ai di lei genitori, e una serie di giorni tristi e allegri e di storie vere e inventate. Celebre racconta-balle, non si capisce se le cose che Romano stia dicendo siano reali o finte, ma queste sono: lavorando a un progetto di moderna urbanistica da venticinque anni e trasferitosi nella villa della consorte contro la volontà dei suoceri, si ritrova a gestire la follia della moglie data dai problemi finanziari, che sfocia(no) in urla e frasi di cui poi si pentirà. Romano la lascia,

se ne va, se ne va in un albergo bizzarro e assurdo dove tutti sono vestiti di bianco o panna e dove l’acqua della piscina è nera e fa fumo, i vecchietti sulla sedia a rotelle vengono spinti in simultanea dagli inservienti e lui se ne sta sempre tutto solo al tavolo a far colazione. Il riflesso di un diadema sul cappello di una signora lo cattura, e poi lo cattura la signora. Se Nikita Michalkov è il più celebre regista russo vivente (e il più amato dagli americani: candidato all’Oscar nel ‘92, vincitore nel ‘93 e ricandidato nel 2007) tutto, diciamocelo, sta in piedi per Marcello: attempato ma sempre se stesso, sempre brioso; non ci stanchiamo mai di guardarlo. Mentre Silvana Mangano, un filo vecchiarella, ci concede l’ultima interpretazione della sua carriera (sarebbe morta due anni dopo).

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