IL VOLO DELLA FENICE Il cinema Sudcoreano contemporaneo

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Il volo della fenice

IL CINEMA SUDCOREANO CONTEMPORANEO


In foto: una scena del film Sono un cyborg, ma va bene (2006) di Park Chan-wook In copertina: una scena del film Ferro 3 - La casa vuota (2003) di Kim Ki-duk

In foto: Mackenzie Davis in una scena dell’episodio San Junipero (3x04) della serie Black Mirror (2016) di Charlie Brooker


Il volo della fenice

IL CINEMA SUDCOREANO CONTEMPORANEO Direttore Responsabile Enrico Magrelli Art Direction Vincenzo Patané e Antonio Pettierre Concept Design Clarissa La Viola

Hanno scritto in questo numero Rita Andreetti, Luca Bove, Marcello Perucca, Antonio Pettierre, Fabio Sajeva, Boris Schumacher Rivista iscritta al Finanzamt di Brandeburgo. Ogni riferimento legale è impugnato dal tribunale di Berlino. Steuernummer e Vatnummer registrati presso il Gewerbe Anmeldung di Berlino. Contatti Taxidrivers direzionetaxidrivers@gmail.com Issuu Twitter Instagram Facebook Group Facebook Official www.taxidrivers.it


8.

23.

25.

Indice

12.


6. Editoriale Sette Autori.

8. Kim Ki-duk 10. Park Chan-wook 12. Hong Sang-soo 14. Lee Chang-dong 16. Kim Ji-woon 18. Bong Joon-ho 20. Na Hong-jin Tre capolavori.

23. Old Boy 24. Pietà 25. Parasite


Editoriale

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di BORIS SCHUMACHER

metà novembre del 2020, uno degli anni più mesti e infausti per l’umanità e di conseguenza anche per l’industria cinematografica, abbiamo deciso di dedicare uno speciale al cinema sudcoreano contemporaneo. Ai tempi non potevamo certo sapere che di lì a poche settimane proprio a causa del Covid-19 sarebbe venuto a mancare Kim Ki-duk, il regista che ha contribuito più d’ogni altri, insieme al meno prolifico Lee Chang-dong, a far conoscere e apprezzare il cinema sudcoreano al di fuori dei confini nazionali. Tra la fine degli anni 90 e l’inizio del nuovo millennio il pubblico occidentale ha avuto modo di scoprire la cinematografia sudcoreana nei principali festival europei, a partire proprio dalla Mostra del Cinema di Venezia che nel 2000 selezionò in Concorso L’isola, il quarto lungometraggio di Kim Ki-duk, e due anni dopo Oasis, il terzo film diretto da Lee Chang-dong, due opere destinate a scuotere e scioccare le platee internazionali. Da lì in avanti l’industria cinematografica di questo paese dell’Estremo Oriente, con una storia difficile e tormentata contraddistinta da una feroce e brutale occupazione nipponica dagli inizi del Novecento alla fine della Seconda guerra mondiale e dalla successiva guerra di Corea che nel 1953 ne ha sancito la dolorosa separazione con la linea di

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In foto: una scena del film Oasis (2002) di Lee Chang-dong

demarcazione lungo il 38° parallelo che tuttora divide il Nord dal Sud, ha continuato a fiorire e mietere consensi a livello internazionale. Dopo la Golden Age, periodo molto fertile e interessante per il cinema coreano a cavallo tra gli anni 50 e 60, sul finire degli anni 90 emerge la cosiddetta “Hallyu”, la korean wave che costituisce una vera e propria rinascita artistica per il paese, favorita anche e soprattutto dal ritorno alla democrazia dopo alcuni decenni agitati e turbolenti, contraddistinti da colpi di stato e regimi militari. Nel corso di questi ultimi vent’anni l’industria cinematografica sudcoreana è divenuta sempre più solida e prolifica, amatissima in patria e sempre più conosciuta e celebrata all’estero, con autori di punta come Park Chan-wook, Kim Ji-woon e Bong Joon-ho e star del calibro di Lee Byung-hun e Bae Doo-na chiamati a turno a lavorare in Occidente. Un Paese di circa cinquanta milioni di abitanti che ogni anno può contare su duecento milioni di ingressi al cinema (il doppio dei nostri), al pari della Francia, la nazione europea che più sostiene e valorizza la propria industria cinematografica. Merito anche di leggi e normative che tutelano e proteggono il settore, con una quota di mercato dei film nazionali che si attesta regolarmente sopra il 50% rispetto a quella dei titoli stranieri. Nel dossier che state per leggere ci focalizzeremo su quegli autori che si 6

sono rivelati fondamentali per il rilancio e la rinascita del cinema sudcoreano, a partire dai già citati Kim Ki-duk, Lee Chang-dong, Park Chan-wook, Kim Ji-woon e Bong Joon-ho che con Parasite ne ha sancito la consacrazione definitiva, vincendo la Palma d’oro e ben quattro Oscar, compreso quello più ambito e importante per il miglior film. Gli altri due registi che abbiamo scelto di portare all’attenzione dei nostri lettori sono Hong Sang-soo, forse il più “occidentale” del gruppo, fautore di uno stile minimalista che lo contraddistingue fin dagli esordi, con commedie sentimentali briose e leggere che lo collocano a metà strada tra Eric Rohmer e Woody Allen, e Na Hong-Jin, il più giovane dei sette e il più talentuoso tra le nuove leve, da considerarsi tra i registi di punta della new wave coreana, sebbene abbia realizzato appena tre lungometraggi – The Chaser, The Yellow Sea e The Wailing - in oltre dodici anni di attività. Sette filmmaker che ben testimoniano la vitalità del cinema sudcoreano, tra i più prolifici e importanti dell’attuale panorama mondiale, capace di spaziare tra i vari generi con estrema disinvoltura e libertà creativa, dal melodramma al thriller, dalla commedia sentimentale al poliziesco, dall’horror ai film in costume e di spionaggio, senza rinunciare alle ambizioni autoriali dei suoi esponenti di maggior spicco.


Sette autori. Kim Ki-duk

Park Chan-wook

Hong Sang-soo Kim Ji-woon

Lee Chang-dong

Bong Joon-ho

Na Hong-jin


Kim Ki-duk e il cinema del silenzio di MARCELLO PERUCCA

In foto: una scena del film

Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003) di Kim Ki-duk

Nella pagina accanto: il regista Kim Ki-duk

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im Ki-duk ci ha lasciato lo scorso dicembre, vittima del Covid-19, lasciando un grande vuoto nel panorama del cinema mondiale. Si trovava in Lettonia poiché nella repubblica baltica avrebbe dovuto girare il suo prossimo film. Era nato il 20 dicembre 1960 a Bonghwa, una zona agricola della Corea del Sud. La sua famiglia – di fede cristiana, cosa che lo influenzerà molto - era povera. È per questo motivo che Kim abbandona gli studi a diciassette anni per andare a lavorare in fabbrica e contribuire al sostentamento della famiglia. In seguito, si arruola nell’esercito per una ferma di cinque anni, al termine della quale lascia la Corea per trasferirsi in Francia e dedicarsi alla pittura. Gli esordi Ritornato in patria si avvicina al cinema da autodidatta. Il suo primo lungometraggio è Coccodrillo (1996) che

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reca in nuce molti dei temi e simbologie che caratterizzeranno la sua opera artistica e che derivano, spesso, dalle sue esperienze personali. La vicenda è quella di un giovane senzatetto che vive lungo un fiume recuperando i corpi dei suicidi che vi si gettano e rovistando nei loro vestiti rubando gli oggetti di valore. Si tratta di un’opera acerba che però mostra già il valore del regista, caratterizzata da una violenza mostrata senza ipocriti nascondimenti e che sarà la costante di quasi tutti i suoi film. Coccodrillo evidenzia soprattutto uno dei grandi temi del regista coreano: il rapporto fra uomo e donna, incentrato quasi sempre sul dominio fisico e psicologico del maschio. Nei suoi film le donne subiscono spesso abusi sessuali o, comunque, si trovano in condizioni di sudditanza perché prostitute o succubi dell’uomo. In Occidente Kim Ki-duk viene scoperto grazie a L’isola (Seom, 2000), presentato a Venezia; un film che divide la critica per alcune scene


Tematiche ricorrenti Molti sono i temi ricorrenti nel cinema di Kim Ki-duk: l’acqua, la violenza, la morte, il sesso, l’amore. L’acqua, simbolo di vita e rinascita, è una costante in molti suoi film. Può essere quella di un fiume come in Coccodrillo, Bad Guy (2001), La Samaritana (2004), Il prigioniero coreano (2016). Oppure quella placida di un lago, come in L’isola o nello spirituale Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003). A volte è l’acqua del mare a fare da scenario liquido (L’arco, 2005). Anche la violenza, sadica o autolesionista e che spesso sfocia nella morte, è quasi sempre presente, manifestandosi spesso come forma di sopraffazione di un uomo su una donna. Kim Ki-duk la mostra quasi sempre senza filtri. Ma la violenza, innata nell’uomo, nei suoi film non è mai fine a sé stessa. È un modo per affermare che dal dolore, dalla morte, può nascere qualcosa di nuovo, forse di migliore. È così, ad esempio, per i personaggi di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Coccodrillo, Pietà (2012). Soprattutto la violenza è quasi sempre associata al sesso o, meglio, alle relazioni fra i sessi, altro tema ricorrente in Kim Ki-duk. Relazioni che esulano dall’amore vero e proprio, viziate dalla sopraffazione maschile nei confronti della donna.

superflue e non servirebbero a descriverne le personalità e le azioni. Così avviene in vari film: L’isola, L’arco, Ferro 3 – La casa vuota (2004), Moebius (2013). Lo stesso Kim ha spiegato che i suoi personaggi non parlano per una perdita di fiducia nel prossimo a causa, probabilmente, di profonde ferite interiori. Non è necessario far interagire i personaggi tramite il linguaggio verbale, ci sono altri tipi di linguaggio per entrare in contatto. Spesso sono i gesti, gli sguardi; altre volte a unire è la musica. Oppure è la sofferenza fisica, inflitta mediante le lacerazioni della carne, quelle che si autoinfliggono con ami da pesca i due amanti de L’isola, lui in bocca, lei nella vagina. Paradossalmente il silenzio crea una maggior intimità fra i personaggi, sgravati dal peso inutile – spesso falso - della parola. Scarsità di dialoghi e pochi movimenti di macchina sono prerogativa del cinema di questo grande regista. I suoi film si avvalgono di una fotografia raffinata e di inquadrature che colgono l’istante scenico mediante campi lunghi o medi, sufficienti per portare sullo schermo le idee del regista. Il suo linguaggio, ricco di simbolismi è, allo stesso tempo, schietto e reale anche nella sua vena più fantastica e

surreale. Inoltre, molte sue opere sono intrise di spiritualità, come La Samaritana che prende spunto dal Vangelo; Pietà che traccia un percorso di espiazione dei peccati che si può realizzare solo attraverso il sacrificio; Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, che parla della vita utilizzando elementi del buddismo. Il ritiro e il ritorno Kim Ki-duk, a un certo punto, decide di interrompere la sua carriera traumatizzato da un incidente avvenuto durante le riprese di Dreams (2008), quando un’attrice ha rischiato la morte per soffocamento sul set. Si ritira, in preda alla depressione, a vivere in un capanno lontano dal mondo del cinema. Ritornerà tre anni dopo con Arirang (2011), film verité nel quale lui stesso registra il trascorrere delle giornate passate a riflettere. Tornerà così a scrivere e dirigere film sempre più crudi e critici nei confronti della società coreana, che gli causeranno aspre critiche e difficoltà a girare in patria, obbligandolo a emigrare all’estero per poter realizzare le sue opere. Sino alla tragica fine in terra baltica, colpito dal virus che sta devastando l’umanità.

© Tania Volobueva / Wikimedia Commons / CC-BY-SA-3.0

particolarmente crude. È una storia di amore e morte ambientata su un lago che ospita un villaggio di case galleggianti affittate a uomini che alternano la pesca a incontri con prostitute fatte venire appositamente e traghettate da una donna che gestisce il posto e che, a sua volta, si concede agli ospiti. Quando presso il villaggio si rifugia un uomo reo di aver ucciso la moglie e il suo amante, fra i due nasce un’attrazione che evolve in un rapporto violento, senza vero amore, fatto di corpi lacerati in cui l’erotismo presenta aspetti sadici e sensuali allo stesso tempo.

Il silenzio e le immagini nel cinema di Kim Ki-duk Il cinema di Kim Ki-duk è basato sulla realtà di una società coreana complessa e malata, reinterpretata però secondo una visione personale. Dove vengono inseriti elementi fantastici e onirici che donano spesso ai suoi film aspetti surreali. In molti casi i protagonisti non parlano. Non perché muti, ma semplicemente perché le parole sono 9

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Park Chan-wook

L

e la

rinascita

a rinascita del cinema coreano avviene alla fine del Ventesimo secolo. È il 1999 e in Corea del Sud (differente è la situazione nella parte settentrionale della penisola) iniziano a diffondersi diversi movimenti per rafforzare ulteriormente la democrazia. Tutte le forme artistiche, ovviamente anche il cinema, iniziano a rispecchiare le dinamiche culturali di una società in fermento. Una nuova generazione di registi inizia a esprimere un senso di delusione nei confronti del passato e frustrazione nei confronti della nuova classe dirigente. Questi nuovi autori cinematografici si fanno portatori delle idee progressiste del cittadino comune, il populismo (nella sua prospettiva positiva), mescolato con una buona dose di sperimentalismo, diventa il principale motore del nuovo cinema coreano. Molto frequente diventa il tema sulla divisione della Corea tra Nord e Sud, come in Shiri (1999) di Kang Je-gyu. È questo un film di intrattenimento, che racconta una storia d’amore tra una donna del Nord e un uomo del Sud. Shiri ottiene un grande successo e con più sei milioni di biglietti venduti, diede

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un duro colpo al predominio delle pellicole hollywoodiane. Lo strapotere della cinematografia americana era uno dei principali problemi della produzione locale. Basti pensare che nel 1993 i film coreani rappresentavano un misero 7% del mercato nazionale, ma le cose stavano per cambiare. Un gruppo di giovani cineasti, quasi tutti formati nelle università del paese, salvarono l’industria del cinema, tra questi Park Chan-wook. Nato nel 1963, si laurea in filosofia, dopo essere stato respinto alla facoltà di estetica. La passione per il cinema nasce molto presto e insieme ad alcuni amici inizia a scrivere articoli di critica cinematografica. Il suo vero primo successo come regista arriva nel 2000 con Joint Security Area - JSA, tratto dal romanzo di Park Sang-yeon. Il film ottiene un grande successo, riesce ad attirare un vasto pubblico, superando gli incassi di Shiri. Il maggior fattore di fascino è senza dubbio la cornice storica. La divisione della Corea viene sfruttata da Park per creare la vicenda di questo suo terzo film. Ma il regista ne approfitta per rappresentare una storia di amicizia proibita dove è ben evidente lo scontro tra Stato e cittadino. I giovani soldati 10

di LUCA BOVE

del Nord e del Sud, spinti dalla solitudine, superano la linea di confine e tra loro nasce una forte, ma tragica amicizia. JSA è un film molto umano e Park riesce a equilibrare vari generi, come la commedia e il poliziesco. Prima di JSA, il regista realizza due film: Moon is… the Sun’s Dream (1992) e Trio (1997). Il regista sembra rinnegare questi suoi lavori, ne parla raramente ed è quasi impossibile trovare copie con sottotitoli. Moon is… the Sun’s Dream, opera prima di Park, preannuncia alcune qualità del regista, che verranno perfezionate nei lungometraggi successivi. Il film è apprezzabile perché riesce a trasformare del materiale narrativo, sostanzialmente banale, in qualcosa di affascinante e unico. È un triangolo amoroso tra due fratellastri; Ha-young, un fotografo, Moo-hoon, un criminale impacciato (figura ricorrente nel cinema di Park) ed Eun-joo, una giovane donna con il viso sfigurato. Moon is… the Sun’s Dream è forse troppo ambizioso per un regista esordiente. La regia e, soprattutto, il montaggio appaiono insicure, in alcuni casi addirittura dilettantistici. Il film, inoltre, è disseminato di inserti di capolavori del cinema: Tempi moderni (la celebre


© Marie Claire Korea / Wikimedia Commons / CC-BY-SA-3.0

del cinema sudcoreano sequenza della catena di montaggio) di Charlie Chaplin e Blow Up di Michelangelo Antonioni. L’utilizzo di materiale di pellicole che hanno segnato la storia del cinema, rivela la vasta cultura cinematografica di Park, ma è sintomo di immaturità artistica. Il suo passaggio da critico a regista ancora non si è realizzato del tutto. Ma Park utilizza anche il cinema asiatico per realizzare Moon is… the Sun’s Dream. I colori della fotografia, tra il blu e il lilla, rendono ben visibile il modello del cinema hongkonghese, come As Tears Go By di Wong Kar Wai (1988) e My Heart is That Eternal Rose di Patrik Tam (1989). Con Trio (1997), suo secondo film, Park dimostra di aver raggiunto una certa padronanza della regia e del montaggio, gettando le basi della sua tipica manipolazione temporale che spiazza lo spettatore, facendolo smarrire per poi ritrovare sul finale un sorprendente filo logico. In questo film troviamo anche il tema dell’incesto, che tornerà centrale anni dopo con Old Boy. Come in Moon is… the Sun’s Dream anche in questo caso troviamo un triangolo: l’immancabile criminale, un musicista con manie suicide e una cameriera che deve recuperare suo figlio. Un’altra pe-

culiarità di Trio, che successivamente spirale di violenza che coinvolge tutti i caratterizzerà il cinema di Park, è l’uso personaggi, dove diventa davvero diffidell’umorismo, utilizzato in un contesto cile distinguere la vittima dal carnefice. tragico o per lo meno drammatico, che Insomma, Park non parla di singoli, assfocia in una comicità crudele e fulmi- setati di vendetta, ma si rivolge a tutto nante. il mondo occidentale e alle sue guerPer i suoi primi tre film Park resta es- re, che hanno causate milioni di morti. senzialmente un regista ignoto al gran- Emblematico è il fatto che a pagare il de pubblico occidentale. Il suo cinema prezzo più alto siano sempre i bambini inizia a giungere in Europa e in America o comunque i figli. Come in Old Boy, nel 2002, con Mr. Vendetta, il primo dove Mi-do, inconsapevolmente, va a film della sua trilogia. È del tutto nor- letto con il padre. male che un regista raggiunga la po- Dopo la sua trilogia, Park torna nell’opolarità internazionale a partire da un blio per il pubblico occidentale. Nel punto preciso della sua filmografia, ma 2006 realizza Sono un cyborg, ma va ciò è avvenuto con Park in maniera ano- bene, e nel 2009, Thirst ispirato al romala. Il suo cinema, infatti, dopo Old manzo Thérèse Raquin di Emile Zola. Boy (secondo film della trilogia) torna Con questi due film, si misura con il gea essere un oggetto misterioso per il nere fantasy, utilizzando due classici pubblico occidentale, ritornando alla topos, il cyborg e il vampiro. ribalta solo nel 2013 con Stoker, in- Mademoiselle (2016) è il suo ultimo terpretato da Nicole Kidman. La popo- film, dove raggiunge l’apice della sua larità della trilogia di Park in occidente, alterazione temporale. È davvero rivodunque, non è un caso. Con Mr. Ven- luzionaria la figura e il ruolo della dondetta, Old Boy e Lady Vendetta, il regi- na, capace di manipolare ogni uomo sta sembra che rappresenti una meta- per ottenere ciò che desidera. fora del ruolo dell’occidente e della sua politica. I tre film hanno, senza dubbio, Nella pagina accanto: una scena del film il tema della vendetta che li accomuna, ma Park sembra spingersi oltre, soprat- Mademoiselle (2016) di Park Chan-wook In alto: il regista Park Chan-wook tutto in Mr. Vendetta, e sviluppa una 11

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La commedia umana di

A

utore poco conosciuto in Italia, se non per le sparute apparizioni nei festival internazionali, Hong Sang-soo (Seul, 25.10.1960) è figlio di un ufficiale dell’esercito sudcoreano e di un’impiegata in una casa di produzione cinematografica. Passa la sua infanzia e adolescenza a guardare film americani in televisione. Studia cinema e teatro all’università di Chungang a Seoul, per poi continuare negli Stati Uniti prima all’Università della California e in seguito all’Istituto di Arte di Chicago, dove realizza i suoi primi cortometraggi sperimentali. Ma il suo stile inizia a prendere forma durante il soggiorno in Francia affascinato dai film di Éric Rohmer e dai dipinti di Cézanne e dalla pittura degli impressionisti. Il giovane regista in erba sceglie di coniugare il proprio amore per la sperimentazione con l’aspetto narrativo dopo la visione di Diario di un curato di campagna di Robert Bresson. In Italia si è iniziato a parlarne più diffusamente nel 2010 con Hahaha che vinse il premio come miglior film nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes e trasmesso da Rai 3 cinque

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anni dopo senza essere distribuito, appunto, nelle sale italiane. L’unico film che ha avuto una distribuzione regolare è stato In Another Country (2012). Nel 2013 il suo Uri Sunhi vinse il Pardo d’Argento alla miglior regia al Festival di Locarno per poi aggiudicarsi due anni dopo il Pardo d’oro come miglior film con Right Now, Wrong Then (2015). Hong Sang-soo cesella il mondo circostante con la macchina da presa che tratteggia gli stati d’animo dei personaggi attraverso elementi minimali. Questa sua ricerca, che utilizza una grammatica filmica basilare, lo porta a creare un grande affresco umano della contemporaneità, basato sugli scarti temporali e il continuo travaso del cinema nella vita reale. È un cinema dove l’immagine si fa sostanza poetica e la forma diviene consustanziale con i personaggi – elementi limitati e pesanti che reggono come colonne l’architettura cinematografica che rasenta la calligrafia visiva. L’opera di Hong Sangsoo arriva alla perfezione di un haiku, cinema-zen in cui ogni inquadratura è un verso che dona ritmo interiore alla contemplazione dello spettatore. On the Beach at Night Alone (2017),

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che potremmo definire come un sequel improprio di Right Now, Wrong Then, dove una pittrice – interpretata sempre dalla stessa attrice – incontra un regista in viaggio di lavoro e se ne innamora, è un esempio dei temi esposti. In questa opera, invece, la storia s’incentra su una giovane attrice in crisi esistenziale con una storia d’amore finita con un regista più maturo. Il film racconta di personaggi che sono simboli della quotidianità, mettendo in scena la mediocrità, le insicurezze profonde dell’essere umano. La rappresentazione della realtà, in cui agiscono i personaggi, è in ambienti spogli, essenziali, isolati, metafora della solitudine esistenziale dell’uomo e della donna e del loro dibattersi nella ricerca di una felicità amorosa sempre irrisolta, creatrice di dissidi interiori e di rapporti umani ontologicamente rappresentanti la difficoltà del vivere. Come accade anche in Hotel by the River (2018), altro capitolo di una comèdie humaine, in cui assistiamo al lento scorrere di una giornata di un vecchio poeta che sente l’avvicinarsi della fine. Rifugiatosi in un hotel in pieno inverno, ospite di un mecenate amante della sua poesia, chiama a


sé i due figli (di cui uno regista, figura che ricorre nelle pellicole dell’autore sudcoreano e suo alter ego) che non vede da tempo, dopo aver abbandonato la famiglia anni addietro. S’intreccia a questa riunione familiare la presenza di una giovane donna (interpretata da Kim Min-hee, musa e compagna del regista, presenza costante delle sue ultime pellicole) lasciata dal marito e consolata da un’amica. Hong Sang-soo immerge Hotel by the River in un paesaggio invernale dove il bianco della neve illumina il bianco e nero della pellicola di una luce ovattata e omogenea e fa risaltare le figure attoriali negli esterni in cui la macchina da presa indugia in long take – cifra stilistica dell’autore, così come l’utilizzo dello zoom e la mancanza di campi e controcampi del montaggio classico, sostituiti da movimenti continui della cinepresa che si sposta alternativamente inquadrando di volta in volta i personaggi nella stessa scena. I dialoghi illustrano con informazioni incrociate e per accumulo la vita del Poeta e il suo disincanto di fronte alla bellezza – quella del paesaggio rivierasco e quella femminile, rappresentata dalle due donne con cui ha dei fugaci, ma intensi incontri. L’autore

sudcoreano sceglie sempre strutture narrative complesse, articolate, divise per parti, utilizzando a volte un sistema di sliding doors, pur mantenendo una fabula semplice e lineare. Il contrasto interno alla costruzione filmica rende ancora di più fascinosa la visione e ipnotizza lo spettatore, spingendolo a una pulsione scopica verso i protagonisti a cui è impossibile fuggire. Del resto, Hong Sang-soo spiazza la visione con elementi metacinematografici, dove il cinema e la vita si sovrappongono su piani di irrealtà consapevole: il cinema diventa lo strumento conoscitivo dell’essenza del vivere. Ad esempio, l’inizio della seconda parte di On The Beach at Night Alone, vede la protagonista seduta in un cinema vuoto che guarda uno schermo fuori campo, cioè sta fissando il pubblico, in una transustanziazione tra soggetto-oggetto della visione, dove chi guarda è a sua volta osservato, collegando ciò che accade all’interno della messa in scena fittizia con ciò che accade al di fuori dello sguardo. Lo spettatore è così il terzo protagonista di ogni pellicola dell’autore, complice egli stesso del punto di vista dei personaggi e del regista.

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di ANTONIO PETTIERRE

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© Étienne ANDRÉ / Wikimedia Commons / CC-BY-SA-3.0

di Hong Sang-soo In basso: il regista Hong Sang-soo

Hong Sang-soo

In foto: una scena del film

Hotel By the River (2018)


Lee Chang-dong

e il realismo poetico In foto: una scena del film

Burning - L’amore brucia (2018) di Lee Chang-dong Nella pagina accanto: il regista Lee Chang-dong

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di ANTONIO PETTIERRE

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Jong-du sarà condannato per stupro e rinchiuso nuovamente nel carcere ma non prima di promettersi eterno amore. Un’opera neorealista in cui Lee racconta nuovamente la provincia povera, l’abiezione di una certa società coreana legata a pregiudizi nei confronti della disabilità e con occhio poetico riesce a raccontare le difficoltà di due giovani esclusi per diversi motivi dalla società. Dopo la presentazione alla Mostra di Venezia di Oasis, la carriera di Lee ha un’interruzione chiamato a rivestire l’importante ruolo di Ministro della Cultura e del Turismo del suo paese nel 2003. Successivamente a questa esperienza torna dietro la macchina da presa dirigendo prima Secret Sunshine (2007) e poi Poetry che, presentato nel 2010, al

Festival di Cannes vince il premio per la miglior sceneggiatura. In quest’ultima opera, la protagonista è Yang Mi-ja, un’anziana signora che vive con il nipote, studente in una scuola superiore di Incheon. Ha un inizio di Alzheimer, ma questo non le impedisce di seguire un corso di poesia e di accudire il ragazzo abbandonato da una madre assente che vive e lavora in un’altra città. La sua tranquilla e sognante routine quotidiana è interrotta quando la donna scopre che il giovane è coinvolto, con altri suoi amici, nel suicidio di una loro compagna di scuola, fatta oggetto di violenze sessuali ripetute da parte dei ragazzi. Mi-ja si trova a combattere davanti a un dilemma etico: qual è il comportamento più giusto per il bene del nipote? Dapprincipio, coinvolta dai padri degli altri ragazzi, cerca di trovare i soldi per risarcire la famiglia della suicida, ma alla fine decide di denunciare tutti per porli di fronte alle loro responsabilità. La cifra stilistica del cinema di Lee eviden-

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zia in Poetry: da un lato, il suo occhio per un cinema del reale, attento alle istanze di critica sociale e alla rivelazione di traumi nascosti; dall’altro, a una struttura filmica in cui l’influenza letteraria è sempre l’ossatura narrativa dei suoi film, in cui avviene costantemente un’osmosi tra parola scritta della fonte e il risultato in immagine della visione. Dopo un lungo silenzio, questo aspetto è riaffermato nella sua ultima opera, Burning – L’amore brucia (2018), uscito anche nelle sale italiane. Tratto da un racconto dello scrittore giapponese Haruki Murakami, Lee conferma la sua capacità di creare un cinema di poesia, dove l’immagine diventa rivelazione del mistero della parola e delle storie dei personaggi. Jong-su è un giovane laureato precario che incontra casualmente una sua vecchia amica d’infanzia Hae-mi. I due hanno una relazione, ma la ragazza, che sta per partire per l’Africa, gli affida la gestione del piccolo monolocale e in particolare gli chiede di accudire a un gatto (che non si vedrà mai). Al suo ritorno Hae-mi è accompagnata da Ben, giovane ricco imprenditore che vive nel lussuoso quartiere Gangman di Seul. Jong-su è interdetto dalla presenza di Ben, ma allo stesso affascinato. Inizia uno strano rapporto di amicizia a tre. Quando la ragazza sparisce misteriosamente, Burning prende un tono di thriller psicologico con Jong-su che sospetta di Ben. Inizia a pedinarlo e a sfidarlo fino al climax della scena finale. L’atmosfera di dubbio e di inganni reciproci tra i due giovani appare come un confronto-scontro tra visioni del mondo non dissimili, ma divise dal censo sociale basato sulla ricchezza. Lee dissemina Burning di sequenze arcane, come il bruciare vecchi edifici e granai nella campagna fuori dalla capitale coreana, che creano nello spettatore un continuo stato d’ansia e di mistero sulla conoscenza della realtà visibile. Il regista sudcoreano mette in scena l’enigma di una generazione alla ricerca di una stabilità attraverso verità impossibili da determinare. E la mancanza di certezze da parte del protagonista lo portano all’unica soluzione possibile: quella dell’eliminazione dell’antagonista sociale in una vendetta non solo fisica, ma soprattutto psicologica. Opera ricca di simbolismi e di richiami letterari, Burning risulta essere una dei film più maturi della nuova cinematografia sudcoreana e Lee Chang-dong un autore con una grande consapevolezza dell’inafferrabilità del vivere moderno.

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© Petr Novák / Wikimedia Commons / CC-BY-SA-3.0

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crittore, cineasta, politico, Lee Chang-dong (Taegu, 01.04.1954) è un intellettuale impegnato a tutto tondo nella vita del suo paese. Nasce in una famiglia piccolo borghese in un ambiente conservatore in una città al sud della Corea del Sud. Si laurea in letteratura presso l’Università Nazionale Kyungpook nel 1981 e inizia a lavorare nel settore culturale: insegnante di lettere, editorialista per i giornali, scrittore di racconti ma soprattutto direttore di teatro, scrivendo drammi e mettendoli personalmente in scena. Nel 1983 pubblica il romanzo Chonri e in seguito vince il premio letterario Hanguk Ilbo Munhak con la sua raccolta di racconti There’s a Lot of Shit in Nokcheon (1992), ed è da una delle storie che trae ispirazione per il suo primo lungometraggio. Non ha mai svolto specifici studi in ambito cinematografico, ma sfruttando il rinnovamento del cinema coreano si cimenta nella sceneggiatura, scrivendo To the Starry Island nel 1993 e due anni dopo A Single Spark, che sono molto apprezzati dal pubblico e dalla critica nazionale. Visto il successo, e spinto da collaboratori e amici, debutta dietro la macchina da presa con Green Fish (1997) e in seguito replica con Peppermint Candy (2000). Il cinema di Lee compie un’analisi della Corea contemporanea raccontando storie del recente passato, concentrandosi su efferati eventi che provocano traumi indelebili. Così se Green Fish parla di una violenza di una ragazza da parte di un gruppo di militari, Peppermint Candy mette in scena l’indagine di un ispettore di polizia alla scomparsa di un uomo. Entrambi ambientati durante la dittatura militare, Lee sceglie un registro realistico, prediligendo la narrazione della profonda provincia coreana conservatrice, maschilista, opprimente e violenta che si esprime attraverso le proprie istituzioni come l’esercito e la polizia. Questi temi sono pienamente espressi in Oasis (2002) in cui Lee racconta la storia d’amore impossibile tra un uomo e una giovane disabile. Hong Jong-du è un ragazzo dal carattere instabile e sensibile che si autoaccusa della morte di un uomo causato durante un incidente stradale di suo fratello. Condannato e uscito di prigione, va a trovare la famiglia della vittima per scusarsi e qui incontra la loro figlia disabile abbandonata a se stessa. Dopo un primo tentativo di violenza, nasce tra di loro un sentimento reciproco e si sviluppa una relazione. Scoperti, Hong


Kim Jee-woon di RITA ANDREETTI

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In foto: una scena del film

The Last Stand - L’ultima sfida (2013) di Kim Jee-Woon Nella pagina accanto: il regista Kim Jee-Woon

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na tra le filmografie più eterogenee della Corea del Sud. Kim Jee-woon è l’esploratore dei generi, lo stratega del montaggio, il perfezionista dell’azione. Sin dal suo esordio, ha stabilito quelli che sono i suoi punti di forza, sostenuti da un cast che ritorna, e si permette così di transitare da un genere all’altro. È rinomato per il non sapersi ripetere. Esplora linguaggi diversi che si incontrano nella passione con cui riesce a far aderire magneticamente tra loro complesse architetture filmiche, e dove gli intrighi profondi dei plot, sostengono film difficilmente mediocri. Kim Jee-woon (1964) esordisce sul finire degli anni Novanta, in un momento in cui in Corea del Sud si sta facendo strada la New Wave di registi che porteranno questo piccolo Paese ad attirare l’attenzione del pubblico mondiale. Anche se sarà Old Boy (Park Chan-wook, 2003) a inaugurare ufficialmente le danze, quanto meno sul palcoscenico mondiale, il fermento creativo locale è già palpabile. Ecco che, quando Kim Jee-woon presenta The Quiet Family nel 1998, anticipa i tempi e i protagonisti di tutto il cinema coreano: gli allora giovani Choi Min-sik e Song Kang-ho offrono una interpretazione combinata scoppiettante. Da quel momento, li ritroveremo ovunque, non c’è da stupirsi che siano i volti ricorrenti di Jee-woon e del collega Park Chan-wook, piuttosto che di Bong Joon-ho. La sceneggiatura del film d’esordio è costruita magistralmente con una degenerazione degli eventi

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grottesca. La famiglia Kang gioca con il maligno come una famiglia Addams ben più crudele, sfortunata e perseguitata da se stessa. Colonna sonora impeccabile, The Stray Cats tra gli altri, solo per affermare nuovamente la solare leggerezza con cui si parla di spietatezza. Segue la prova esilarante di un wrestler al riscatto, nuovamente il volto di Song Kang-ho, in The Foul King (2000) giovanissimo e particolarmente in forma. Un film che si regge sulla sua interpretazione e su una chiave di lettura sul senso della vita e la capacità di incassare i colpi prima di poterli sferrare. Uno dei pochi protagonisti di Jee-woon davvero esilarante, non troppo splatter, e soprattutto imperfetto. Giocosamente goffo e preferibilmente scollato dal reale. È quell’umorismo sciocco cresciuto in Asia, che attinge dallo slapstick, ma ci appare ben più caotico. Kim Jee-woon prova la commedia e ci mette del suo, chiaramente. Il momento in cui conferma le potenzialità registiche è quando decide di passare anche lui dall’horror. Come una sacra iniziazione, Kim Jee-woon, che ha sicuramente inghiottito quanto più cinema del tremendo poteva in gioventù, mette insieme tutta la sua conoscenza e prepara Two Sisters (2003). È da molti considerato uno dei migliori horror coreani di quegli anni, e il primo a essere distribuito negli Stati Uniti. Ma con Hollywood Jee-woon ha un rapporto speciale, e lo conferma il fatto che sarà lui il regista capace di far tornare Arnold Schwarzenegger dietro la macchina da presa dopo la lunga parentesi politica. È The Last Stand (2013): dopo dieci


e lo fa proprio con Choi Min-sik, così disegna personaggi dall’acuminata efferatezza, la cui follia è così difficilmente definibile. Qui Lee Byung-hun è un agente segreto che prepara la vendetta dell’assassino della sua compagna, trucidata senza alcuna pietà. Una vendetta che decide di portare agli estremi, tallonando la sua preda fino all’ultimo gesto disperato, che affannerà di spettri la sua vita, senza comunque sollevarlo dal peso dell’assenza. He can’t become a monster to fight a monster. Ma è proprio questo che Jee-woon fa con i suoi personaggi, siano essi cattivi dichiarati o ex-buoni in difesa o evoluzione. L’oscurità annebbia i romantici, i fedeli, i sognatori, che si tramutano in bestie affamate di vendetta e di sangue. Chi uccide si scaglia con ardore e sfoga l’ingiustizia della vita che Jee-woon ha disegnato per loro: non c’è più bellezza, se non nei quadri perfettamente bilanciati e ricercati della sua regia scolpita. Non c’è clemenza, neppure per i cavalli delle corse folli. Non c’è luce, se non funzionale a disegnare chiaro scuri caldamente pittati di rosso e pastello, dei macellai assassini. Ma questa cattiveria è pulita, perfetta, anche quando imbrattata di fango. È elegante e composta, anche se si trascina nei bassifondi. Soavemente concepita e gustata. C’è sempre una sequenza che da sé costa quasi come un film intero: di solito è la caccia all’uomo, come vista in L’impero delle ombre, Il buono, il matto, il cattivo, Illang: uomini e lupi. La quantità di informazioni e inquadrature che si avvicendano lascia intuire come il lavoro di ideazione non è solo narrativo, ma indistinguibile dalla visione e dall’idea che il regista ha sin dal principio, del montaggio. I movimenti fluidi, senza capovolgimenti, con uno spettatore letteralmente trascinato sui tetti o affannato nei tunnel fognari. Cinema coreano multi-genere, che rende la competenza registica di Jee-woon quasi assoluta. Prendere le strutture classiche di genere, iniettarvi i profumi dei grandi del passato che lo hanno ispirato, avvolgerli di identità coreana, e poi farci un film giocandoci un po’. La sua abilità narrativa è unica, competente, travolgente, ipnotica. Chiaramente i suoi fan sono amanti dei film in cui azione, violenza, intrigo non mancano. Ma lui insegna che il genere è gastronomia, si assaggia e si apprezza. Dopodiché si va in cerca di nuovi stimoli. È lui stesso a dichiararlo: si stanca di un

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progetto mentre ci sta lavorando, scalpita impaziente per andare oltre, agli antipodi. È per questo che un film straordinario, perfettamente bilanciato e avvincente come L’impero delle ombre (2016) gli riesce egregiamente al pari dei meglio scritti di Le Carré. È una spy story con un Song Kang-ho maturo e brillante, che qui recita diviso tra la patria coreana e i colonialisti giapponesi. La storia si fonda sul doppio delle parti e sostiene la tensione per 140 minuti senza tradire lo spettatore. Nuovamente fughe, inseguimenti, sparatorie, ma qui alternate a tagli strettissimi sui volti dei bugiardi e campi lunghi sulla Corea degli anni Venti occupata dai giapponesi. Un’esperienza storico asiatica mozzafiato, che ricorda La talpa (2011, Tomas Alfredson) tanto quanto The Grandmaster (2013, Wong Kar-wai). La sua ultima uscita, Illang: uomini e lupi (2018), sebbene inteso come un remake del film di Mamuro Oshii, diretto da Hiroyuki Okiura (Jin-Roh - Uomini e lupi, 2001) si distanzia decisamente dall’anime giapponese, malgrado la ripresa di diverse scene. Vuole apporre la sua firma inconfondibile: quasi snobbando la possibilità di campare di rendita del supporto di Oshii, Jee-woon schiva i lupi disegnati dal giapponese e ne crea uno tutto suo. E sarebbe già sufficiente così, se non fosse che nella sua filmografia compaiono diversi cortometraggi, tra cui una storia romantica tra le più tenere mai visionate. Si chiama One Perfect Day e nulla è mai stato così distante dalle sue precedenti creazioni e dal suo sguardo cupo e concentrato. Un lavoro su commissione che Kim Jee-woon ha tradotto in una storia d’amore delicatissima, che finisce sotto una pioggia di petali di ciliegio. Ci congediamo dalla prova multiforme di Kim Jee-woon aspettando l’annunciata prossima prova: una serie, chiaramente. Cos’altro mancava da esplorare.

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anni da Terminator 3, Schwarzy si regala un ruolo da sceriffo invecchiato che farà di tutto per proteggere la sua noiosa cittadina, al confine col Messico, dai piani folli di un pericoloso trafficante in fuga. Probabilmente non è il suo miglior film, ma è comunque uno scacco commerciale non da poco: con questa pellicola Jee-woon diventa il primo coreano a essere prodotto da Hollywood, riesumando la figura anzianotta ma ben voluta di Schwarzenegger e giocando nuovamente con la commistione di generi. È palese come non si tratti di un film americano, ma Jee-woon si controlla il più possibile per non eccedere nella truce crudeltà coreana, sebbene sparatorie e omicidi di massa non manchino. Si butta qui sulla velocità, alla Fast and Furious, e gli viene bene. Eppure, questi, appena citati, sono quei film che potremmo considerare, il corollario delle opere meglio riuscite. Perché è nel volto di Lee Byung-hun che Kim Jee-woon raccoglie la poesia e l’efferatezza più delicate. Jee-woon fa di ByungHun un’icona di bellezza e demonio, concentrandosi attentamente sui tratti candidi del suo volto asiatico, e concedendo pochissimi sorrisi allo schermo, se non nessuno. Lui è Sun-woo in A Bittersweet Life (2005), la guardia del corpo implacabile, fedele al suo capo, le cui sicurezze vacillano una volta che l’amore entra nella sua vita. Qui il nostro esplora piuttosto i conflitti corpo a corpo, in una poetica carneficina tra gangster quasi immortali. Bello e dannato, Lee Byung-Hun si affida completamente al suo regista per un film fatto per lui, che è “bittersweet” di natura. Un uso del suono straordinario, un omaggio alla musica classica intessuta nell’ossimoro della vita feroce. Lee Byung-hun è nuovamente cattivo ne Il buono, il matto, il cattivo (2008) dove c’è tutto un diretto, rispettoso e piacevole omaggio al grande Sergio Leone. Straordinario western che a Jee-woon piace definire kimchi western. Il matto è slapstick (il già visto Song Kang-ho), con un super eroe nei panni del buono (Jung Woo-sung, probabilmente in una delle interpretazioni più iconiche della sua carriera); denso di “coreanità”, si stende su distanze lunghissime e regala al pubblico corse folli a cavallo, criminali, che gli sono costate la censura per maltrattamenti in Gran Bretagna. Ma rimane un film adrenalinico, inimitabile a oggi. Con I Saw the Devil (2010), Jee-woon sceglie azione, horror e crime movie. Cerca anche lui un suo Old Boy (2003),


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Bong Joon-ho

elementi che non esistono nella realtà attuale, ma che il regista è capace di far divenire reali innalzandoli a emblemi di una società in divenire. Il passato stilistico di Bong Joon-ho è però iniziato da un legame molto forte con la narrativa del quotidiano, molto cara a un certo cinema sudcoreano. Il suo primo film nel 2000, che in italiano suonerebbe “Can che abbaia non morde” Barking Dogs Never Bite, racconta la storia di un ricercatore universitario senza un contratto stabile, Ko Yun-ju, il quale non potendo pagare il preside per effettuare la sua scalata sociale, sfoga le proprie frustrazioni su di un cane del vicinato, rapendolo e uccidendolo accidentalmente. La bibliotecaria, Park Hyun-nam, decide di mettersi sulle tracce del rapitore di cani. Vi è una linearità narrativa e una lentezza voluta che porta allo scoprirsi indolente della trama e degli intrecci secondari. La passione per il thriller poliziesco, che non lascerà mai il regista almeno fino a Memorie di un assassino, è la base sulla quale viene costruita questa narrazione bizzarra, cruda, condita da uno humor nero tanto forte quanto disarmante. Traspare inoltre un forte interesse nei confronti di una società stratificata, nella quale chi è in basso è costretto a mangiarsi i cani “trovati” in strada. A tale proposito, la scena in cui la ragazza corre sul tetto del pa18

lazzo per recuperare il cagnolino nelle mani del mangiatore di cani, è la sintesi perfetta del realismo crudo che inizia a sentire il bisogno di un respiro fantastico della narrazione. Sullo sfondo schiere di tifosi appostati sui tetti, inneggiano al gesto atletico della protagonista, amplificandone in tal modo la portata epica da una parte, e ironizzando sulla squallida quotidianità, dall’altra. Memorie di un assassino, del 2003, rappresenta il completamento di quella prima fase di indagine della narrazione, che vede la realtà sotto osservazione serrata, da più punti di vista, tutti realistici e in contrasto tra di loro. Mentre in Madre, al centro della storia ci sarà la serrata e disperata ricerca di innocenza, in Memorie di un assassino, c’è la disperata e accanita ricerca di un colpevole. Anche in quest’ultimo lavoro la soluzione è un fallimento, vale a dire l’insuccesso totale della ricerca del colpevole. Importante sembra essere la frase che uno dei detective dice all’altro verso la fine della disastrosa investigazione: “lascia perdere”. Lascia perdere di indagare una realtà intrinsecamente ingannevole. È come se il regista dicesse a sé stesso che la ricerca della verità porti comunque sia a una disfatta. E allora, tanto vale darsi a un universo più fantasioso, un universo inventato. The Host, realizzato nel 2006, rappresenta la vera svolta nella carriera del

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ifficile incasellare un regista come Bong Joon-ho in una categoria o in un genere preciso. Apprezza sia l’approfondimento sociale che il superficiale action-movie, si muove bene nel poliziesco come nella commedia nera e può dare vita a piccoli capolavori di messa in scena come Parasite. Ma cerchiamo di definire la poetica di questo stravagante, visionario sperimentatore della Settima arte. Le influenze che ha subito nella sua storia personale, si leggono chiare nelle sue pellicole. Se, da una parte Bong Joon-ho, è legato a un concetto di “design del film”, una progettualità dal carattere pubblicitario, l’attenzione tutta sua alle caratteristiche di comprensibilità del messaggio in pochi fotogrammi, dall’altra il regista sudcoreano, matura sempre più evidente un gusto per l’analisi sociale, per lo studio quasi di un’entomologia della razza umana. Arriva in tal modo a generare una nuova forma d’espressione che possiamo definire iperrealismo fantastico, vale a dire questa capacità di prendere degli aspetti della società, riassumerli e trasfigurarli in una storia più vera del verosimile. Okja e Snowpiercer sono l’emblema di questa maturazione dello stile di Bong Joon-ho verso questo iperrealismo fantastico. Entrambi, infatti, hanno quali oggetti del racconto

In foto: una scena del film Snowpiercer (2013) di Bong Joon-ho A sinistra: il regista Bong Joon-ho


di FABIO SAJEVA

dagli inizi a Parasite regista di Parasite. In questa rappresentazione, il reale inizia a stare decisamente stretto nel mondo narrativo di Bong Joon-ho e prendendo spunto dal più classico dei B-movie di matrice ecologica, il regista crea una metafora del peggio che la realtà contemporanea sia in grado di creare: una mostruosa creatura terrorizza Seul facendo incetta di corpi in una fognatura che gli serve da dispensa. Ricorso massiccio agli effetti speciali e riprese rocambolesche, unite a un montaggio sincopato, fanno di The Host, un prodotto vendibilissimo che infatti sbanca i botteghini e trionfa a tutt’oggi sulla piattaforma Netflix. Madre, del 2009, rappresenta una ricerca della verità, intesa quale proiezione delle nostre speranze. Altro tema che si dimostrerà ricorrente, è l’innocenza dei reietti, quel tratto stereotipo di tutta una letteratura occidentale, che vuole gli ultimi essere per forza di cose innocenti, sfruttati, accusati ingiustamente. È interessante come nella narrativa di Bong Joon-ho, tutto si capovolga, portando gli ultimi della società a farsi carico delle colpe di un mondo proiettato verso un futuro incerto, a tratti distopico. Più tardi, nel 2013, realizza il citato Snowpiercer, action movie che narra di un futuro distopico nel quale una glaciazione ha tolto di mezzo ogni forma di vita. Unica maniera per sopravvivere,

salire su di un mega treno lanciato a velocità folle per non ghiacciare anch’esso coi suoi abitanti all’interno. Interessante è il concentrarsi di Bong Joon-ho sulla guerra tra i poveri e i ricchi abitanti del treno. Scene truculente, uccisioni da manuale e finale senza alcuna speranza. Il treno delle diseguaglianze, ci dice il regista, è destinato a deragliare e se deraglia, tutti muoiono. Messaggio tanto semplice quanto catastrofico. Disponibile sulla piattaforma Amazon Prime. Su Netflix invece possiamo vedere la serie tratta dal film dal titolo omonimo. Il film Okja, del 2017, prende apparentemente le parti degli animalisti. Il film racconta di una grande azienda che sta sperimentando un super maiale dalle caratteristiche particolarmente succulente. I cuccioli vengono dati in allevamento a dei contadini per scopi puramente promozionali, ma la piccola Mija si lega alla dolce creatura gigante e i due divengono inseparabili. Il finale si conclude nel macello, nel quale tutti i simili di Okja fanno la fine per la quale sono venuti al mondo. Okja viene sottratta a caro prezzo dalle tavole umane, ma ciò non toglie che l’azienda continuerà a produrre super maiali e a macellarli. Il gusto per il paradosso, per l’iperbole trasformata in creatura, per l’esagerazione, prende piede e invade in maniera massiccia lo schermo. 19

È come se il regista dicesse che non ci sarà mai fine alla nostra fame di idiozie, di esagerazioni, di spacconate anche genetiche. Il tutto sempre condito da quell’humor nero che è la vera cifra stilistica del racconto di Bong Joon-ho. Alla candida Mija si contrappone la schiacciasassi Mirando, magnificamente interpretata da una trasfigurata e sdoppiata Tilda Swinton che abbiamo apprezzato anche in Snowpiercer. Un manicheismo da manuale in questa pellicola decisamente sui generis, vede dei super cattivi, contrapporsi a dei super buoni, che si contendono un super maiale. Disponibile sulla piattaforma Netflix. Il percorso si chiude temporaneamente con Parasite, metafora del turbocapitalismo dal finale tragicamente agghiacciante. Nonostante in questo film non troviamo elementi di fantasia veri e propri, il sotterraneo che nasconde l’uomo perseguitato dai debiti, la dice lunga riguardo il punto di vista di Bong Joon-ho. Non è cambiato nulla dal suo primo film: i poveri derelitti che venivano arrestati in flagranza di reato perché costretti dalla povertà a mangiarsi i cani, ora si auto isolano, spariscono come fantasmi, consapevoli del fatto che la società non li voglia neanche vedere.

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In foto: una scena del film Goksung - La presenza del diavolo (2016) di Na Hong-jin Nella pagina accanto: il regista Na Hong-jin

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ato a Seul nel 1974, Na Hong-jin è il più giovane tra i registi di cui abbiamo scelto di occuparci per questo dossier sul cinema sudcoreano. Il meno prolifico del gruppo, con appena tre lungometraggi in dodici anni di attività. La genesi e la gestazione dei suoi film sono piuttosto lunghe e articolate, a partire dal lavoro in fase di scrittura che lo vede coinvolto in prima persona, in quanto autore del soggetto e della sceneggiatura di tutti i suoi lavori. Apprezzato dal Festival di Cannes, dove ha presentato tutti i suoi film, Na è autore di un cinema di genere totale e senza compromessi, con un approccio rigoroso e quasi sperimentale nella rielaborazione degli archetipi del thriller, del noir e soprattutto dell’horror che si affaccia prepotentemente in The Wailing, il suo terzo e fin qui ultimo film. The Chaser, il suo lungo d’esordio campione d’incassi in patria nel 2008, prende ispirazione da un fatto di cronaca nera, la macabra vicenda di Yoo Young-chul, serial killer reo confesso di una ventina di omicidi, in gran parte prostitute e persone anziane, seviziate e torturate prima della morte. Si tratta di un thriller oscuro e pessimista, che contiene già in nuce la poetica e l’estetica che il regista avrà modo di portare avanti nei suoi lavori successivi, ancor più complessi e ambiziosi. Forte di uno TAXIDRIVERS

script di ferro, l’opera di debutto di Na è ineccepibile dal punto di vista tecnico, possiede un ritmo teso e serrato, con diverse scene d’inseguimento per le vie notturne di Seul, contraddistinte da un perenne e costante sali-scendi, che rendono l’azione più affannosa e concitata. Il protagonista è un antieroe, un ex poliziotto passato dall’altro lato della barricata, divenuto un cinico e disilluso pappone. Un personaggio per cui si fa fatica a parteggiare, almeno all’inizio, ma a cui verrà concesso un percorso di redenzione, dopo una dolorosa presa di coscienza di sé e del tragico effetto scaturito dalle sue azioni, tramite l’incontro con una bambina, vittima innocente di una società malsana incurante delle sofferenze altrui. In The Chaser non mancano alcuni, brevi e inaspettati, siparietti ironici e grotteschi per descrivere la totale inefficienza delle forze dell’ordine e la goffaggine delle autorità politiche, elementi che ritroveremo anche nei film successivi. Due anni dopo in The Yellow sea ritroviamo anche i due interpreti principali del film precedente, gli ottimi Ha Jungwoo e Kim Yoon-seok, chiamati adesso a scambiarsi i ruoli, il serial killer si cala nei panni del personaggio sfortunato con cui empatizzare mentre l’ex poliziotto si trasforma in un feroce e brutale malvivente. Una geniale e inaspettata inversione dei ruoli volta a sottolineare 20

quanto sia labile, precario e nebuloso il confine che separa il bene dal male, la luce dalle tenebre, in un mondo dominato dall’homo homini lupus. È palese che Na Hong-jin non riponga una gran fiducia nell’uomo e nell’animo umano e sembri averne ancor meno nelle istituzioni, viste come inadeguate, corrotte e claudicanti, volte a proteggere se stesse invece di interessarsi al bene della collettività, elementi peraltro ricorrenti nel cinema coreano del nuovo millennio. Dopo l’enorme successo del film precedente Na alza il tiro e costruisce un thriller complesso e ambizioso, dal minutaggio importante (157 minuti, ridotti poi a 140 per la versione internazionale). Come già accaduto ad alcuni suoi illustri colleghi anche per Na arrivano puntuali le immancabili sirene hollywoodiane, con la Warner intenzionata a trarre un remake da The Chaser e la 20th Century Fox pronta a investire capitali nella sua secondo opera. Investimenti economici che saranno poi ben visibili sullo schermo, soprattutto nella seconda parte del film dominata da una serie infinita di inseguimenti a rotta di collo, con tanto di incidenti catastrofici in cui sono coinvolti decine e decine di veicoli – compreso un enorme camion – che rimandano inevitabilmente alla grandeur e alla spettacolarità del cinema americano mainstream. The Yellow Sea è un noir disperato e


dolente, violento e spietato quanto il film precedente, con un’ambientazione iniziale piuttosto insolita e inusuale. Il protagonista, Gu-nam, è un tassista sino-coreano (un joseonjok maltrattato dai cinesi e malvisto dai coreani) di Yanji, città della Cina situata nella provincia dello Jilin, all’interno della prefettura autonoma coreana di Yanbian, quasi un non-luogo mesto e desolato al confine con Russia e Corea del Nord. Il regista si prende tutto il tempo necessario per dipanare l’intreccio per poi arrivare alla sequenza, tesa e dal sapore hitchcockiano, dell’omicidio commissionato a Gu-nam, dove niente va come previsto e da cui si scatena una gigantesca caccia all’uomo nei suoi confronti, braccato dalla polizia, al solito goffa e impreparata, e dalla criminalità organizzata che combatte sempre all’arma bianca, con l’uso di coltelli, martelli e addirittura, in una delle scene più cruente ma al contempo non prive d’ironia, con ossi di manzo. Diviso in quattro capitoli, che sottolineano lo sfortunato percorso del protagonista, The Yellow Sea è un thriller dalla struttura narrativa composita, abbastanza riuscito sebbene un po’ confuso e sbilanciato, meno robusto e compatto rispetto a The Chaser. Sei anni dopo con Goksung (The Wailing), Na cambia genere, virando verso l’horror puro. Il regista sembra diver-

tirsi a disattendere le aspettative del pubblico, ribaltando più volte i ruoli dei suoi personaggi. Il talentuoso cineasta sudcoreano non teme di confrontarsi con gli archetipi del cinema horror, si arrischia sui territori impervi, scivolosi e abusatissimi della possessione demoniaca, contaminandola con usi e costumi orientali. L’incredibile furore e l’impressionante potenza visiva sprigionata dalla sequenza del rito sciamanico, spinto al limite, fino all’esasperazione, lascia senza fiato e costituisce un tour de force per lo spettatore. L’atmosfera è plumbea, il perturbante si annida ovunque, anche nei dettagli più piccoli e all’apparenza insignificanti. Il crescendo narrativo, sapiente e inesorabile, e la progressione drammatica degli eventi turbano e spiazzano il pubblico, mettendolo a disagio e privandolo di punti di riferimento a cui aggrapparsi. Si arriva ai titoli di coda con più di un quesito irrisolto a causa di un epilogo sibillino, dove irrompono temi tipici della tradizione cattolica, come il libero arbitrio secondo cui ogni individuo è libero di scegliere tra il Bene e il Male, nonostante sulla scena faccia capolino una potenziale e misteriosa figura salvifica. È interessante notare come al centro della vicenda resti sempre l’uomo, nella figura del poliziotto inetto e impacciato, protagonista di un angosciante melodramma familia21

re che fornisce nuovi interrogativi: fino a dove siamo disposti a spingerci per salvare e preservare la nostra famiglia, siamo pronti a resistere al male non abboccando al suo amo seducente e mortale? Na Hong-jin assembla un’opera lucida e spietata, anomala e bizzarra, ricca di colpi di scena, unica nel suo genere, o meglio nella sperimentazione dei generi più disparati, prendendosi rischi non da poco ma riuscendo in modo

quasi miracoloso a rimanere tesa e coesa fino all’amaro, nerissimo e disperato epilogo. Dopo tre pellicole di tale livello, divenute di culto presso gli appassionati del cinema di genere, attendiamo con interesse e curiosità il prossimo progetto di Na Hong-jin, confidando nelle sue doti e nella sua capacità di sorprenderci ancora. Rivista indipendente di cinema

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BORIS SCHUMACHER

Na Hong-jin

Il cinema spietato e oscuro di


Tre Old Boy

capolavori Pietà

In foto: una scena del film Pietà (2012) di Kim Ki-duk

Parasite


Old Boy PARK CHAN-WOOK

di LUCA BOVE

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ld Boy (2003) è un film diretto da Park Chan-wook ed è il secondo capitolo che il regista dedica alla vendetta. Vincitore del Grand Prix Speciale della giuria del festival di Cannes nel 2004, l’opera ottiene un notevole successo in patria e all’estero. Quando il film esce nella sale cinematografiche, il cinema coreano è nel pieno della sua rinascita. Ormai conclusa, o quasi, la fase caratterizzata dal predominio delle pellicole hollywoodiane; il pubblico inizia a mostrare un certo interesse per cinema prodotto in patria. Old Boy non racconta certo una storia consolatoria, ma non è neppure un film dell’action frenetica, genere tanto amato in Corea del Sud. Ormai il pubblico è smaliziato e pronto ad accogliere ogni novità. Dopo l’insuccesso parziale dei suoi primi film, Park con Old Boy diventa un vero autore cinematografico. Solo apparentemente questo film può sembrare una furbata, in realtà il regista riesce a stabilizzare il suo stile, giungendo a una vera e propria poetica dell’immagine cinematografica e non solo. In occidente il lungometraggio viene accolto come un’opera tarantiniana. C’è sicuramente tanto mate-

riale (narrativo, visivo ed etico) che ci consente di accostare Old Boy a tutta la filmografia di Quentin Tarantino e in particolar modo a Kill Bill. Inoltre, è risaputo che il regista statunitense, dopo averlo premiato a Cannes, lo ha definito: “Il film che avrei voluto fare.” È senz’altro riduttivo, però, liquidare Old Boy come un film tarantiniano. Park oltrepassa l’effetto spettacolare della violenza e i suoi personaggi non possono essere definiti semplicemente masochisti, sarebbe troppo semplice. Non deve ingannarci, poi, che il film sia tratto da un manga scritto da Garon Tsucchiya e disegnato da Nobuaki Minegishi. È vero ci sono dei tratti che ricordano questa matrice, come la sospensione del movimento naturale del corpo e soprattutto la sequenza, costruita senza stacchi con un carrello che procede in orizzontale, quando Oh Dae-su, interpretato da Choi Min-sik, lotta contro i sicari. Ma Old Boy se non è semplicemente un film tarantiniano, non è neppure un film fumettistico. Park offre allo spettatore un’occasione di riflessione molto più vasta e per certi versi universale. Il film, senza dubbio, mostra la rappresentazione della violenza, ma non è mai gratuita e compiaciuta, come avviene in certi

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film americani, oppure come avveniva nel western all’italiana e quello meno conosciuto di produzione tedesca. La violenza di Old Boy ha una finalità ben precisa. Il regista la usa per dimostrare l’impossibilità della redenzione e dà l’avvio a una prepotenza che non può essere contenuta. Da questo punto il Park parte per giungere a una tesi di carattere sociale e politico. Il suo obiettivo è quello di rappresentare i danni della guerra, che inizia sempre con una motivazione “nobile”, ma le sue conseguenze non possono essere controllate. L’escalation della violenza di Old Boy rimanda alla guerra. È questo un punto che viene approfondito soprattutto negli altri due film della trilogia. Il vero tormento di Oh Dae-su è il continuo domandarsi sulla sua colpa che ha scaturito la carcerazione. In Occidente questa domanda non può non richiamare la tragedia dei campi di stermino nazisti, ma possiamo trovare anche dei riferimenti nella letteratura americana. Il romanzo La campana di vetro di Sylvia Plath racconta la vicenda di una giovane rinchiusa in un manicomio, la quale si tormenta per lo stesso motivo di Oh Dae-su.

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Pietà KIM KI-DUK

di MARCELLO PERUCCA

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ietà ha inizio con due scene molto significative: in primis assistiamo al suicidio di un giovane su una sedia a rotelle. Poi la macchina da presa stacca su un uomo a letto che si procura piacere masturbandosi: è Gang-do, trentenne solitario al soldo di un usuraio per il quale riscuote i crediti. Spietato e crudele, per ottenere le somme non esita a mutilare le sue vittime che, riscattando l’assicurazione, potranno saldare i debiti. Gang-do vive e opera in un quartiere popolare di Seul. Le sue vittime sono piccoli artigiani che la crisi ha impoverito, impossibilitati a campare con i loro miseri guadagni. Li perseguita senza pietà ed essi accettano rassegnati il loro destino. La sua vita verrà sconvolta quando una sconosciuta inizia a seguirlo, dichiarando di essere la madre che il giovane non aveva mai conosciuto perché abbandonato alla nascita. Rifiutando inizialmente questa idea, sottopone la donna a varie umiliazioni che lei accetterà per scontare le sue colpe e riabilitarsi agli occhi del figlio. Poi, lentamente, l’atteggiamento dell’uomo muterà e in lui nascerà una sorta di amore filiale che, insieme alla crescente paura di poter perdere di

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nuovo la madre ritrovata, ne smorzerà la brutalità verso le vittime. Una crudeltà conseguenza della solitudine che da sempre lo accompagna e che avevamo percepito assistendo alla scena iniziale della masturbazione. Man mano che in lui cresce l’amore per la madre, la sua brutalità cessa, lasciando spazio al terrore di poter nuovamente perdere l’affetto più grande, l’unico conosciuto nella sua tormentata vita. Si tratta, però, di un affetto fasullo: la donna, in realtà, non è sua madre, bensì quella del giovane in carrozzina che, nell’incipit, si era impiccato, non accettando l’infermità al quale lo stesso Gang-do lo aveva costretto. Si svela così il piano della donna che avvicina Gang-do e ne conquista la fiducia allo scopo di poter compiere la sua vendetta. Fingendo di essere minacciata da una delle sue vittime, si getterà nel vuoto. Disperato l’uomo ne seppellirà il corpo sotto il pino che egli stesso aveva piantato vicino al fiume (l’acqua, caratteristica ricorrente nella filmografia di Kim Ki-duk, in questo caso non è più fonte di vita, bensì di morte). Scavando il giovane scoprirà - e riconoscerà- il corpo sepolto del vero figlio, capendo la vera identità della donna e cosa l’aveva spinta ad avvicinarlo.

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La vendetta giunge così a compimento: Gang-do, sconvolto, si legherà sotto a un camion che, avviandosi, ne dilanierà il corpo, lasciando una macabra scia di sangue sull’asfalto. Con Pietà, meritato Leone d’Oro a Venezia, Kim Ki-duk disegna uno spaccato agghiacciante di una società putrefatta e sprofondata nel dolore. Gang-do è l’emblema di questa immane sofferenza. Perduto nella sua solitudine, dove l’unica possibilità di sopravvivenza è data dalla crudeltà, troverà nella morte la salvezza. E insieme a essa arriverà quella pietà suggerita dal titolo (e dalla locandina del film che rimanda alla famosa scultura michelangiolesca). Pietà è un film intriso di religiosità, tema che, declinato in vari modi, rientra spesso nelle opere del regista coreano. È la rappresentazione, con toni da tragedia greca, del percorso di un uomo obbligato alla violenza, che trova in essa una ragione del suo essere al mondo. Poi, con il sopraggiungere di un sentimento di affetto, vi è la rinascita – o meglio – la nascita come essere umano trovando, infine, nella morte la ragione della propria esistenza, la redenzione che lo renderà definitivamente uomo.


Parasite BONG JOON-HO

di FABIO SAJEVA

I

l soggetto di Parasite è quantomeno semplice: una famiglia di poveri si introduce nella vita di una famiglia di ricchi. Quanto ne scaturisce è la metafora di una lotta di classe che nella società turbocapitalista è stata messa a tacere. Parasite, film che stravince su tutti agli Oscar contro ogni previsione, cambiando la storia del premio stesso, da una parte delude e delude fortemente perché ancora una volta viene proposto uno stereotipo, ci viene svelato con saccente prosopopea che “i soldi sono un ferro da stiro in grado di eliminare tutte le pieghe della vita”. A dire il vero non sembrerebbe questa una filosofia degna di un Oscar. È nella fredda e lucida ricostruzione di questa filosofia di vita innalzata a incubo sociale, che Bong Joon-ho, ci racconta di poveri puzzolenti e bugiardi e di ricchi profumati e sinceri, di uomini indebitati costretti a nascondersi dalla società capitalistica che li vorrebbe oleati ingranaggi funzionanti del meccanismo della vita. Il film non è affatto male: ottimo prodotto questo Parasite. Sceneggiatura di ferro dal carattere fortemente manicheo. Da una parte il bene rappresentato dai ricchi e dall’altra il male che

viene ben raffigurato dai maleodoranti poveri che vivono nel seminterrato ammuffito. Sincera, pura, quasi una “candide”, questa madre di famiglia ricca. Lei offre lavoro a questi poverini senza né arte né parte e li aiuta benevola. Bugiardi e loschi questi poveri falsificatori di documenti. Musiche essenziali quanto spettacolari di Jung Jae-il e fotografia di Hong Kyung-pyo degna di una mostra monografica, fanno della creatura di Bong Joon-ho, un meccanismo a orologeria ben oleato. La forza del film è tutta nel grande fastidio che riesce a causare nello spettatore. Ci fanno ribrezzo questi personaggi rintanati in un bugigattolo che chiamare casa è un’esagerazione. Mentre la sensazione piacevole che invade i nostri occhi non ha fine quando entriamo nella pubblicità di Extraordinary Homes che è il set della famiglia benestante, vera protagonista del film. Dentro di noi non parteggiamo neanche per un attimo per gli schifosi parassiti. In questo il regista dimostra di avere acquisito al meglio la lezione del cinema europeo migliore qual è quel cinema dalla natura antropologica di Chabrol. Noi siamo buoni, noi li stiamo solo osservando come si osservano

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degli scarafaggi prima che si inabissino nel water e ci anneghino per nostra mano. Il finale di Parasite è quantomeno scontato. Gli schifosi pagano col sangue e con una condanna a vita, quanto si sono permessi di fare al mondo dei ricchi. La condanna finale del padre è una metafora forte che ci dichiara con estrema lucidità la visione del regista: i poveri devono sparire nell’abisso e non guastare le bellezze della meraviglia creata dai ricchi. Questo mondo non vi vuole più vedere, puzzate e soprattutto non servite a nulla. E Hollywood ringrazia, non potendo che avallare una visione di questo tipo. Il cinema per sua natura conservativo mummifica in questa visione delle cose una fotografia statica della società capitalistica attuale. I ricchi stanno sopra e godono delle bellezze del creato, i poveri rimangono sempre sotto e soffrono tutta la vita, anelando continuamente a raggiungere quello status dei piani superiori che mai gli apparterrà. In breve, il fatto che un film del genere abbia vinto l’Oscar se da una parte può far piacere per la qualità della costruzione del prodotto, dall’altra spaventa non poco.

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