Speciale Berlinale 2013

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TAXI DRIVERS MAGAZINE SPECIALE BERLINALE DIRETTORE

Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE

Giorgiana Sabatini CAPOREDATTRICE MAGAZINE

Lucilla Colonna CONCEPT DESIGNER

Gianna Caratelli UFFICIO STAMPA

Valentina Calabrese INVIATE a BERLINO

Maria Cera e Francesca Vantaggiato CONTRIBUTI di

Valentina Calabrese, Lucilla Colonna e Giovanna Ferrigno EXECUTIVE EDITOR

Giulia Eleonora Zeno WEB MASTER

Daniele Imperiali

CONTATTI e mail: info@taxidrivers.it Facebook: Taxidrivers Mag II Arretrati Magazine: http://issuu.com/taxidrivers_magazine

TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

la FEBBRE del SABATO SERA

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EDITORIALE In copertina spetta un posto di rilievo al presidente di giuria Wong Kar Wai che, dopo tanti anni di lavoro, ha finalmente presentato il suo attesissimo The grandmaster, aprendo la 63ma Berlinale all'insegna della spettacolarità e dell'autorialità. Sul red carpet di quest'edizione particolarmente ricca di ruoli femminili, accanto ad Anne Hathaway (anche lei in copertina, per essere venuta a Berlino a presentare Les misérables), sono state applaudite Catherine Deneuve, Anita Ekberg, Juliette Binoche, Rooney Mara e infine Paulina Garcìa, vincitrice dell'Orso d'Argento come protagonista di un lungometraggio cileno prodotto da Pablo Larraìn. Dagli Stati Uniti (nazione presente con il maggior numero di film), è arrivato il vincitore dell'Orso d'Argento alla Regia Prince avalanche, che era l'unica commedia in competizione. Dall'Iran, è giunta l'opera di Jafar Panahi, condannato al carcere e ad altre restrizioni per aver denunciato, con il suo lavoro, la difficile condizione femminile. Dall'Europa orientale, invece, provengono l'Orso d'Oro Child's pose e il film An Episode in the Life of an Iron Picker, che è stato il solo a portarsi a casa una coppia di Orsi (Miglior Attore e Gran Premio della Giuria). E l'Italia c'era? L'ultima pellicola interpretata da River Phoenix come è stata accolta? Per saperlo e per scoprire tutte le altre sorprese del festival cinematografico in assoluto più seguito dal pubblico, basta sfogliare Taxi Drivers Magazine...

Lucilla Colonna

INDICE SCELTI DA TAXI DRIVERS

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l’ITALIA alla BRERLINALE

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i PREMI

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in CONCORSO

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THE GRANDMASTER Wong Kar Wai

2012

: Hong Kong, Cina

: Biografico

: 120’


Un connubio di entertainment e poesia

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di Francesca Vantaggiato

È spettato al film The Grandmaster firmato da Wong Kar Wai il compito di introdurci nella 63esima edizione del Festival Internazionale di Berlino. Presidente della giuria della kermesse tedesca, Wong Kar Wai ha avuto l’onere e l’onore di aprire il sipario con la sua ultima fatica presentata nella sezione Fuori Concorso del festival. Di una vera fatica si è trattato se consideriamo i sei anni di pianificazione del film e i successivi tre di realizzazione, periodo in cui attori e regista hanno dovuto confrontarsi con l’arte del kung fu. La storia ha inizio negli anni ’30 del secolo passato, quando il protagonista della storia, il Maestro di Wing Chun Ip Man (Tony Leung) di Foshan, vince l’imbattibile Maestro del Nord Gang Boation (Wang Qingxiang) conquistando la nomina di successore e ottenendo l’incarico di unificare gli stili di combattimento tra Nord e Sud. La sconfitta del padre è per Gong Er (Ziyi Zhang) – l’unica a conoscere lo stile letale delle 64 Mani – tanto inaccettabile da sfidare e battere il Maestro Ip Man. Mentre tra i due nasce un’intesa che va al di là della volontà di unificare e tramandare gli stili, scoppia la guerra civile e il Giappone invade la Cina, eventi che segneranno definitivamente le esistenze dei due Maestri. Gli accadimenti storici si intrecciano alle difficoltà personali dei due Maestri: se Gong Er deve vendicare la morte del padre, ucciso dal proprio discepolo Ma San (Zhang Jin) Maestro di Xingyi, reo di aver disonorato la loro famiglia vendendosi al nuovo governo giapponese, Ip Man deve elaborare il lutto delle due figlie e la lontananza dalla moglie. Il ritratto di una nazione viene immortalato attraverso le imprese leggendarie di una delle figure chiave del mondo delle arti marziali. Nelle parole di Wong Kar Wai: “Bisognava dare un quadro storico per

comprendere le difficoltà che Ip Man dovette affrontare. Tra chi pratica le arti marziali c’è l’importante nozione di passarsi la torcia, nessuno possiede ciò che ha imparato. Ricevere in eredità la saggezza dei padri significa avere la responsabilità di passarla, è questo il dovere di un Maestro”. Lealtà, umiltà, onore sono i valori a cui un Maestro deve costantemente ispirarsi e Ip Man – diventato famoso perché guida di Bruce Lee – è la figura che meglio ha incarnato questi principi alla base di una filosofia di vita, non solo dell’arte del combattimento. Dopo aver vissuto sulla propria pelle i tempi duri portati dalla guerra, Ip Man ha aperto una scuola di Wing Chun a Hong Kong, famosa per essere stata frequentata da Bruce Lee e per aver diffuso in tutto il mondo l’arte del kung fu. Con una coreografia targata Yuen Woo Ping (Matrix, La tigre e il Dragone, Kill Bill) ripresa in slow motion enfatizzando la leggerezza e l’eleganza dello stile nel combattimento che conosce solo due posizioni, orizzontale e verticale – disonore e gloria, e con la fotografia del francese Philippe Le Sourd, Wong Kar Wai ha concretizzato il perfetto connubio tra entertainment e poesia, ritraendo un uomo prima ancora di immortalarne le leggendarie gesta. Il suo sguardo malinconico è un affondo nel privato dilaniato da eventi storici di grande portata, in un universo – quello delle arti marziali – basato sul rispetto di valori sacri, in un amore sacrificato a una causa più grande. Creature in continuo movimento, alla costante ricerca della propria essenza e di un autentico posizionamento nel mondo, i personaggi di Wong Kar Wai sono illuminati dalla bellezza vivida di chi vive nella consapevolezza che ogni scelta implica coraggio, dignità e perdita.


LES MISÉRABLES Tom Hooper

2012

: Gran Bretagna

: Musical

: 158’


Amanda Seyfried veste i panni di Cosette

7

di Valentina Calabrese

Parigi. Sullo sfondo di una città sudicia che trasuda povertà da ogni angolo, Victor Hugo decise di raccontare, in un arco di tempo lungo vent’anni, le vite di alcuni personaggi sventurati, miserabili e soli, che tentano di sopravvivere al loro inesorabile destino. Era il 1862, e Les Misérables, ottenne un successo favoloso, tanto da essere trasformato poi, nel 1980, da Boubil e Schönberg in un musical. Rappresentato nei teatri di Londra e di New York e di tutto il mondo dal 1985, Les Misérables è diventato il musical più popolare di sempre, insieme a The Phantom of The Opera. Oggi, dopo quasi trent’anni di messe in scena in teatro, Les Misérables è pronto per il grande schermo e domani, dopo tanta attesa, gli italiani, potranno vederlo al cinema. Chi ha preso in mano questa patata bollente è Tom Hooper, regista premio Oscar per Il discorso del re. Il prodotto è in parte riuscito, ma in parte ha deluso di molto le aspettative. Un musical così a lungo rappresentato da cantanti e attori di tutto il mondo, doveva aggiungere, inventare, qualcosa che il teatro non ha, invece, da regista ossessionato dai primi piani, Hooper è rimasto troppo incollato ai suoi personaggi, trascurando tutto il resto, in primis il montaggio. Protagonista della storia è Jean Valjean (Hugh Jackman), appena uscito di prigione in cerca di redenzione. Sotto falso nome, diventa un fortunato imprenditore e sindaco di una città della provincia francese. Perseguitato da uno spietato ispettore, nonché suo ex secondino durante il periodo in prigione, Javert, (Russel Crowe), Valjean è costretto a fuggire nuovamente, portando con sé la piccola orfana Cosette (Amanda Seyfried) , che promette di allevare come una figlia, alla madre Santine (Anne Hathaway), in letto di morte.

Questa la storia di un romanzo, e poi di un musical e poi di un film, che di certo incanta per la sua grandissima forza evocatrice, per i protagonisti del film, in particolare Hugh Jackman e Anne Hathaway, i quali dimostrano una straordinaria capacità attoriale, intensa e vibrante, che aiuta Hooper a risollevare le sorti del suo film. Da un lato, siamo dunque propensi a giudicare positivamente questa enorme produzione, complici le scenografie meravigliose, gli autentici costumi, le musiche portentose; e ancora, il breve ma intenso piano-sequenza in cui la Hathaway incanta tutti con l’assolo più commovente del film, la divertentissima e folle sequenza in cui Helena Bonham Carter e Sacha Baron Cohen, in un inedito duetto, cantano con irresistibile accento cockney, Master of the House. Ma tutto ciò non basta. La trasposizione cinematografica di un musical che prima ancora era stato un romanzo, deve aggiungere non registrare. Anche l’ultimo atto di un film che fin dall’inizio ha mostrato i suoi limiti, non convince, presentandoci Cosette ormai maggiorenne, innamorata di Marius, un giovane studente che lotta per la costituzione della Repubblica. Un momento storico che nonostante appassioni di per sé, non arriva a emozionare l’ultimo destinatario: il pubblico. Insomma, Tom Hooper poteva fare di meglio, o forse avremmo preferito un regista più visionario, chi lo sa? Di sicuro c’è che aveva tra le mani una storia affascinante, potente e avvincente, grazie alle parole di un intellettuale immortale nella nostra memoria, ma nonostante questo Les Misérables non sarà ricordato, se non come un’occasione mancata.


DARK BLOOD George Sluizer

2012

: Paesi Bassi

: Thriller

: 86’


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In memoria di River Phoenix di Maria Cera

Presentato fuori competizione, Dark Blood, l’incompiuto-riassemblato film dove il bello e dannato River Phoenix ha impresso sulla pellicola la sua ultima interpretazione. Morto per overdose il 31 ottobre del 1993, in piene riprese, ha gettato nello shock assoluto troupe e regista (George Sluizer), facendo cadere nell’oblio il girato e l’attore che conteneva. 15 anni dopo Sluizer, conosciuto soprattutto per The wanishing, pellicola del 1988, ha deciso di ridare vita a questa sospensione, montando il girato, dopo averlo digitalizzato, non conoscendo lo stato di qualità del materiale fino a quel momento conservato. Al setaccio, mancava poco, ma ciò che c’era andava riassemblato, e costruita una storia per legare i frammenti mancanti.

Dark Blood va preso per quello che è: un omaggio. Il canovaccio in sè non è affatto poco attraente: un uomo e una donna, Harry e Buffy (Jonathan Pryce e Judy Davis), in crisi di coppia, cercano di ritrovarsi in una seconda luna di miele a bordo di una Bentley, dentro l’assolato deserto. Fermati da un guasto all’auto senza speranza di poter essere soccorsi, si imbattono nella solitudine ‘malata e dolorosa’ di un giovanissimo uomo (Phoenix), autorelegatosi dopo aver perso la moglie a seguito delle radiazioni di un test nucleare… In compagnia del suo cane, il giovane attende la fine del mondo… Nel soccorrere i due, l’attrazione per Buffy, amplificata da una iniziale accondiscendenza, e deformata dal desiderio di una donna e di costruire con lei un mondo migliore, degenererà la situazione, rendendo la coppia di fatto prigioniera e in balia del giovane. Tra incomprensioni, tentativi di fuga falliti, e pseudo climax emotivi e di azione, l’epilogo, inevitabile, porterà ad una reciproca ‘liberazione’.

Tutto però è imbastito-impastato senza un reale approfondimento. Lo stesso Phoenix poco credibile in un ruolo a lui non congeniale. Al di là della triste sorte che nella vita reale gli è toccata, il suo volto è troppo giovane/puro e poco empatico psicologicamente, per caricarlo del fardello di un lutto di una moglie, ancor di più di una ‘follia ascetica’. Altrimenti scritto: manca una direzione capace di evidenziare in maniera efficace tale scissione (di fatto cercata da Sluizer quando aveva scelto Phoenix per quel ruolo). Il film sicuramente non avrebbe funzionato neppure in un normale regime di preparazione e sviluppo della storia. Resta il suo valore di testimonianza, di un ultimo Phoenix cinematografico, immerso in una natura desertica e canyosa mozzafiato.


LA MIGLIORE OFFERTA Giuseppe Tornatore

2012

: Italia

: Drammatico

: 131’


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Arte, passione e disonestà per un interprete d'eccezione: Geoffrey Rush di Valentina Calabrese

Mentre la tv continua a trasmettere il capolavoro di sempre di Giuseppe Tornatore, Nuovo cinema paradiso, il regista siciliano torna al cinema con La Migliore Offerta. Tornatore presenta al pubblico un fim, differente dai suoi grandi classici “siciliani” come Malena o il più recente Baaria, nonostante conservi ancora il barocchismo tipico delle sue opere. Intrecciando vari generi cinematografici, come il thriller, il noir, e il melodramma, Tornatore racconta la storia di un vecchio collezionista d’arte Virgil Oldman, battitore d’aste, e grande esteta solitario, affidato all’interpretazione di Geoffrey Rush, uno dei rari attori con il potere di rendere assolutamente credibile ogni ruolo. Fin dal primo minuto è chiaro che la vita di Virgil Oldman, è totalmente dipendente dall’amore per l’arte, una passione talmente dominante da avergli impedito di crearsi un’esistenza completa e, soprattutto, concreta. Perso nelle sue collezioni, Oldman, non ha amici, eccetto Billy (Donald Sutherland), suo compagno di aste e Robert (Jim Sturgess), un giovane e brillante restauratore di congegni meccanici. La vita di Oldman è scandita dalle aste, e dal suo lavoro, finché un giorno, una ragazza di nome Claire (Sylvia Hoeks) lo chiama per affidargli l’incarico di valutare e vendere all’asta l’arredo della casa dei suoi genitori. Oldman accetta il lavoro, ma fin dal primo momento, tra i due, nascono problemi di comunicazione. Claire non si fa trovare agli appuntamenti di lavoro, rendendo Oldman

furioso. In realtà, si scopre subito che, le continue assenze della ragazza sono causate da una malattia che da anni l’ha colpita: Claire soffre di agorafobia. Oldman, talmente appassionato della bellezza celata, si lascia intrigare, e tra i due nascerà una passione insolita, che li condurrà ad un’altrettanta insolita relazione. Tornatore scrive e dirige una storia perfettamente nel suo stile, riuscendo ad accostare il suo eccessivo e retorico manierismo classico, alla caratterizzazione del suo protagonista: un esteta, e ridondante collezionista d’arte che ha sacrificato la sua vita per l’arte, trovando conforto nella rappresentazione di un amore velato, da scoprire, restauro dopo restauro. La Migliore Offerta è un film che centra in pieno l’amore di Tornatore per l’arte e per la bellezza, facendo dell’artigianato cinematografico il suo monito e creando un film, che seppur appesantito dal suo tocco, non può deludere le aspettative di nessuno. Tra i suoi elementi di maggior successo, non possiamo non citare la fotografia fredda di Fabio Zamarion, l’ambientazione mitteleuropea perfettamente coerente con il personaggio di Oldman, l’estrema bravura del premio Oscar Geoffrey Rush, che attraverso i suoi movimenti, fa capire agli spettatori la profondità del personaggio dal primo istante, e, the last but not the least, le favolose musiche di Ennio Morricone, le quali donano un’aurea classica e al contempo misteriosa al film.


SOGUK (COLD) Ugur Yucel

2013

: Turchia

: Drammatico

: 105’


L’unico solco è quello già tracciato

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di Maria Cera

Ho ben impattato nella sezione Panorama (la più indipendente della Berlinale) con la pellicola d’atmosfera di Ugur Yucel, attivo prevalentemente come attore (diretto anche da Fatih Akin in Soul Kitchen), esordendo alla regia dal 1990. Soğuk, alias Cold, nasce e si sviluppa sorretto e ‘giustificato’ dal suo latente soggetto: il freddo. Un freddo che paralizza corpi ed esistenze, schiacciate in un immobilismo fisico e mentale. Kars è una piccola città turca ai confini con la Georgia, il cui isolamento è in primis fisicogeografico. Un luogo dove, apparentemente, non potrebbe viverci alcun essere umano. Così esposto alle forze della natura, all’inclemenza, al rigore, all’indeterminatezza di un clima livellatore, a cui ci si può solo sottomettere. Incastrati in questo pezzo di mondo, le vite si trascinano cercando di farsi strada, come possono. Balabey (un ipnotico Cenk Medet Alibeyoğlu ) è un guardiano delle rotaie: controlla, facendosi varco tra la neve con i suoi passi, che il percorso del treno non abbia ostacoli. È lui che decide se un treno può o no passare. Solitario, chiuso in uno stato mentale conseguenza di una depressione, Balabey vive in un mondo tutto suo. Amico e confidente di un tacchino che custodisce e cura con attenzione, è prossimo a diventare padre per la terza volta. Non ha mai conosciuto altra donna all’infuori di sua moglie. Balabey ben manifesta, simbolicamente, un passaggio esistenziale di tappe dovute, ma neutre, subite. Improvviso e inaspettato, arriva l’amore. Del corpo e della sostanza di Irina, giovane prostituta russa, la cui bellezza e innocenza toccano Balabey in una maniera nuova e sconosciuta. La gio-

vane donna, in procinto di tornare in Russia, accoglie l’amore puro di Balabey senza comprenderne il reale spessore, o meglio, nel disincanto dell’impossibilità di cambiar percorso ad un destino già tracciato. Balabey è il solo abitante di Kars a sperimentare un risveglio, l’energia di una possibilità, di una via d’uscita anche solo ideale, ma di cui avverte la presenza. E che gli altri non possono afferrare, schiacciati da bisogni e sogni che hanno imparato ad accogliere per quello che sono, nella loro astratta impossibilità di esistere. Così è per suo fratello e sua moglie, beffati dal matrimonio che ad entrambi non ha portato un desiderio e un amore cullato nelle diverse aspettative nutrite, così sarà per Irina e le sue due sorelle prostitute, vinte da una realtà da sempre più forte di qualunque illusoria rinascita. Il freddo ‘rimetterà’ ‘ tutto a posto’, concedendo a Balabey la vendetta verso chi ha stroncato il suo sentire per la prima ed unica volta nella vita. Yucel ‘deborda’ dallo schermo parecchie volte con il suo treno, demiurgo possente di ferro che taglia e decide della vita e della morte, unica via di fuga da un inferno di ghiaccio e neve per i suoi abitanti, destinati sempre ad essere portati indietro, a restare sottomessi, cercando la propria felicità negli interstizi di un buio-impotenza che li contiene. Sentiamo, palpiamo tutta la forza del freddo, la sua implacabilità, nelle immense panoramiche, estensioni visive a cui veniamo sottoposti, nel contrapposto ed onirico calore fotografico che la dimensione chiusa dei luoghi dove si deposita il sogno tenta , invano, di afferrare.


BEFORE MIDNIGHT David Gordon Green

2013

: USA, GRECIA

: 108’


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Linklater ritorna a far parlare Jesse e Céline, ora protagonisti di un amore maturo e in crisi di Francesca Vantaggiato

Si erano incontrati nel 1995 su un treno diretto a Vienna pieni di incanto e con tanta strada ancora da percorrere per poi lasciarsi con la promessa, dopo una giornata trascorsa in giro per la città, di rivedersi sei mesi dopo sugli stessi binari. Era l'epoca di Before Sunrise. Si erano poi rivisti nove anni dopo, più maturi, a Parigi durante la presentazione del libro di lui su quella notte. È il 2004, anno di Before Sunset. A distanza di nove anni arriva a Berlino il terzo capitolo della trilogia incentrata sull'incontro tra la francese Céline (Julie Delpy) e l'americano Jesse (Ethan Hawke) firmato dal brillante Richard Linklater che si aggiudica quest'anno la Berlinale Camera, un premio assegnato dal Festival di Berlino a quelle personalità o istituzioni vicine all'evento verso cui il festival vuole esprimere la sua gratitudine. Linklater aveva calcato le scene della Berlinale già nel 1995 aggiudicandosi l'Orso d'Argento con il primo capitolo della storia di Jesse e Céline, facendovi ritorno per il sequel parigino nel 2004, e successivamente nel 2007 per la commedia intitolata Fast Food Nation. Dal fortunato incontro tra Linklater, Hawke e Delpy sono nati tre episodi sull'amore visto da diverse angolazioni, età della vita e della relazione. Poco più che ventenni, Jesse e Céline avevano sperimentato la magia di un incontro unico e straordinario con lo sguardo incantato di due ragazzi in piena scoperta di se stessi e dei rapporti. Più navigati e con una rinforzata consapevolezza del proprio essere nel mondo e nella coppia, i due protagonisti hanno fatto passare nove anni prima di riuscire a dare un seguito intenzionale a quell'incontro fortuito. Sempre all'insegna della stessa squisitezza verbale, il terzo momento della trilogia mostra due quarantenni sull'orlo di una crisi di nervi e di coppia in vacanza in Grecia con prole al seguito. I loro corpi portano senza maschere i

segni del tempo, le loro menti sono affaticate dal pensiero di figli lontani, di ex mogli arpie, di occasioni mancate e dalla percezione di aver fatto troppe rinunce. Persiste lo stile fatto di lunghe inquadrature di vivaci conversazioni sull'amore, mai sdolcinate o smielate, sui sacrifici richiesti per mantenere in piedi un rapporto, sulle complicazioni di una famiglia allargata. Anche la terza tappa del rapporto tra i nostri beniamini – tanto complicata da tenerci agganciati a ogni parola pronunciata, a ogni minima evoluzione provocata da un punto di vista diverso condiviso – si regge sulla perfetta sintonia tra i due interpreti, sulla cui disinvoltura e convinzione poggia l'intero film. In Before Midnight Linklater si concede un momento dove i protagonisti non sono da soli a discutere appassionatamente dell'esistenza in tutte le sue forme introducendo un incontro conviviale a cui partecipano generazioni diverse che si confrontano sulla questione amorosa, sulle interazioni tra sesso e tecnologia, sulla fugacità o l'eternità del sentimento, sulla nascita di un amore e sull'impegno richiesto per affrontarlo nella vita quotidiana.È proprio il quotidiano con le sue sfide, le complicazioni e la routine a definirsi come elemento drammatico e critico nel confronto ora pungente ora divertente tra marito e moglie. Il ritmo dei dialoghi è sempre incalzante e mai retorico, forse inciampa in momenti di estrema verbosità anche quando i due tentano di risolvere le incomprensioni ritrovando l'intimità trascurata. Il tutto, però, scorre fluido come sempre su uno sfondo tragico e romantico al tempo stesso che osserva silenzioso il destino dei due innamorati. Questo episodio, maturo come l'amore di cui parla, è il più emotivamente destabilizzante ma anche il più autentico, quello in cui il sentimento reagisce combattendo dinanzi alle imperfezioni ingombranti e insidiose.


THE CROODS De Micco

2013

: USA

C’è chi vive credendo che sia saggio non smettere mai di avere paura e chi, invece, vive inseguendo con ardore quel misterioso ‘domani’, chi è convinto che il cambiamento sia nocivo e chi è un tumulto di idee e scoperte, chi sopravvive e chi vive. Il nuovo gioiello della DreamWorks Animation ci riporta indietro di qualche era storica (nelle parole di uno dei suoi creatori, Kirk DeMicco, a cavallo tra la ‘Jurassic Age’ e la ‘Katzenzoic Era’, almeno secondo gli archeologi della DreamWorks!) per raccontarci le avventure di una famiglia di neandertaliani alle prese con la lotta quotidiana per la sopravvivenza, la catastrofe imminente che sta per scuotere la Terra e l’incontro con un esemplare di homo sapiens dalle idee piuttosto rivoluzionarie che metterà in crisi lo status quo dei Crood. Come in tutte le famiglie patriarcali che si rispettino, è Grug (Nicholas Cage) a preoccuparsi che qualche belva feroce non divori i suoi cari o a vegliare su di loro al calare delle tenebre. La moglie Ugga (Catherine Keener) accetta e condivide l’atteggiamento

: Animazione

: 90’

iper protettivo del marito, così come fa il tutt’altro che temerario Thunk (Clark Duke), la piccola e famelica Sandy e la suocera Gran (Cloris Leachman) che non perde occasione di screditare il genero dalla forza bruta. Diverso è invece per Eep (Emma Stone), la quale ogni giorno all’imbrunire si sente messa in gabbia nella cava tanto elogiata dal padre che, con cura, barrica tutta la famiglia con le buone intenzioni di proteggerla dalle minacce esterne. L’avventura inizia quando Eep, ignorando i precetti del padre, abbandona la caverna incuriosita dal mondo proibito. È in questo momento che incontra e si innamora di Guy (Ryan Reynolds), un vispo e brillante esemplare di homo sapiens che a differenza di Eep e dei suoi non usa la forza – per sopravvivere – bensì l’intelligenza – per vivere. Guy, in viaggio alla conquista del domani, guiderà i Crood alla scoperta di nuovi mondi e nuovi modi di pensare, scontrandosi con le reticenze di un padre e capofamiglia geloso e cocciuto ma, infine, illuminato dal grande amore per i suoi cari.


Vivere o sopravvivere: la preistoria del coraggio

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di Francesca Vantaggiato

Non ci sono dubbi, la DreamWorks con Kirk DeMicco e Chris Sanders nella cabina di comando ha fatto centro. A partire dalla grafica attenta al dettaglio, la varietà dei colori acidi e vividi che caratterizzando le fantasiose creature ibride e i paesaggi probabilmente poco realistici ma sicuramente sbalorditivi che valgono la costruzione dello spazio in 3D ( The Croods è un esempio di utilizzo necessario e ponderato della terza dimensione), il ritmo incalzante, vertiginoso e da perdere il fiato dell’azione, la definizione sia fisica che caratteriale dei personaggi, l’umorismo secco e a volte inaspettatamente ‘politically incorrect’ che li contraddistingue e i messaggi veicolati a cui non mancano picchi di puro sentimento capaci di strappare una lacrima anche agli spiriti più duri, The Croods è un viaggio avventuroso e psichedelico verso l’evoluzione – di sé e della specie. Il mito della caverna di Platone docet, bisogna assumere il rischio di guardare alla realtà nelle sue forme – pericolose o meravigliose che siano – per

dare una direzione all’esistenza che prescinda la sola sussistenza e la conservazione dello stato d’illusione che l’obiettivo sia la tutela dal cambiamento. La sua accettazione, facile e necessaria per alcuni, intollerabile e dannosa per altri, se non porta sempre con sé i semi di una condizione migliore, ha se non altro il merito di aggiungere tasselli progressivi nel cammino di ognuno, tasselli che nel bene o nel male rendono l’essere umano vivo.

The Croods è un racconto d’amore, tra i membri di una sgangherata famiglia e tra due giovani e diversi ragazzi, è un film sui valori della famiglia, per cui non esistono limiti alla portata del sacrificio, è una storia di scontri generazionali dove i figli sono la speranza nel futuro in lotta per scalzare le convinzioni antiquate dei padri senza i quali, però, non esisterebbero, è un viaggio giocoso verso la scoperta (dei proto-telefoni, del fuoco, delle scarpe, delle leve) e la libertà dalle paure, dai limiti, dalla mera conservazione.


ma

L’Italia alla 63 edizione del festival di Berlino a cura di Lucilla Colonna Nella capitale tedesca è arrivato Giuseppe Tornatore con La migliore offerta e il suo cast internazionale, ma nessun lungometraggio italiano partecipa alla competizione, dopo che l'anno scorso Cesare deve morire di Paolo e Vittorio Taviani ha vinto l'Orso d'Oro. E allora andiamo a cercare il made in Italy nelle altre sezioni: Stefano Sardo e Vito Palmieri, che hanno partecipato rispettivamente con un mediometraggio e un cortometraggio, ci raccontano la loro Berlinale.

In che ambito sono state selezionate le vostre opere?

Stefano Sardo: «Io ho partecipato al Kulinarisches Kino (o "Culinary Cinema"), la sezione speciale della Berlinale dedicata ai temi del cibo. È una sezione speciale noncompetitiva fortemente voluta dal direttore Dieter Kosslick, e che esiste ormai da 5 o 6 anni. Kosslick crede molto all'importanza di un atteggiamento critico-politico sul tema della produzione del cibo e ha voluto dare un grande segnale creando, insieme a Slow Quali sono le vostre impressioni su questo Food Germania, uno spazio specifico per festival? opere dedicate a questi temi dentro la BerliStefano Sardo: «Conosco piuttosto bene nale». la Berlinale, che frequento con continuità da Vito Palmieri: «Io ero in concorso a Genesette anni. È un grande festival, organizzato ration, una sezione della Berlinale che da 36 magnificamente, con grande rispetto degli anni ospita lavori in cui i protagonisti sono i spettatori, pubblico in sala a tutte le proie- bambini e gli adolescenti». zioni e un mercato che è uno degli snodi cruCosa raccontano le vostre opere? ciali del circuito. Quest'anno per me è stata un'edizione speciale perché presentavo il Stefano Sardo: «Slow Food story racconta mio film». i 25 anni di storia di Slow Food, movimento che ha rivoluzionato la gastronomia su scala Vito Palmieri: «Era la prima volta che partecipavo alla Berlinale, dunque per me è mondiale partendo dal piccolo paese del stato tutto nuovo e molto emozionante. Ho Piemonte, Bra, in cui è nato il suo fondatore sempre seguito questo grande Festival ma Carlin Petrini. Io sono di Bra e per me racconparteciparvi è ben diverso. Un'organizza- tare questa storia è stato un pò come tornare zione eccellente, persone gentilissime e cor- a casa». diali, tanti professionisti con cui confrontarsi Vito Palmieri: «Matilde è la storia di una bambina di dieci anni, che in classe ha quale scambiarsi pareri».


che difficoltà a seguire le lezioni perché i suoi a vedere cosa succederà nei prossimi mesi». compagni fanno troppo rumore e quindi escoVito Palmieri: «Sono state fatte tre proiezioni di gita un'originale e sorprendente piano per riMatilde e i cinema erano sempre pieni di bambini e mediare al suo disagio». genitori che hanno applaudito calorosamente e hanno fatto tantissime domande, anche alla piccola Sono state accolte bene alla Berlinale? protagonista che era presente a Berlino con la sua Stefano Sardo: «Entrambe le proiezioni ufficiali di Slow Food story, così come la terza pro- famiglia. Vedere un pubblico così giovane e attento iezione al market, sono state sold out, con mi ha riempito di soddisfazione ed è stato anche lagrandi applausi. Molte, poi, le manifestazioni di vorativamente interessante avere un riscontro da interesse di compratori internazionali. Staremo parte loro».

Stefano Sardo, Carlo Petrini e il direttore della Berlinale Dieter Kosslick


20 LA MUSICA DELL'ITALIANO LENTINI RENDE PIÙ SUGGESTIVA UNA SCENA DELL'ATTESISSIMO FILM HONGKONGHESE CHE HA INAUGURATO IL FESTIVAL Wong Kar-Wai ha scelto lo Stabat Mater del compositore romano Stefano Lentini come colonna sonora di un'emozionante scena del suo The grandmaster. Lentini, compositore eclettico e anti-accademico con alle spalle un percorso atipico di polistrumentista non classificabile in un genere, ha collaborato alle musiche dell'ultimo lavoro del regista hongkongese (basato sulla vita di Yip Man, maestro d’arti marziali Wing Chun e mentore del grande Bruce Lee), con un’opera dallo stampo classico ma profondamente moderna. Lo Stabat Mater, testo sacro musicato da Pergolesi, Rossini, Verdi, Poulenc, è qui restituito in una veste cinematica e intensa, drammatica e autentica.

IL VELENO SILENZIOSO DI UNA GUERRA IMMAGINARIA Fra i documentari selezionati alla Berlinale, troviamo l'interessante Materia oscura di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, che racconta un luogo di guerra in tempo di pace. Lo spazio del film è il Poligono Sperimentale del Salto di Quirra in Sardegna dove per oltre cinquanta anni i governi di tutto il mondo hanno testato “armi nuove” e dove il governo italiano ha fatto brillare i vecchi arsenali militari compromettendo inesorabilmente il territorio. All’interno di questo

spazio il film compone tre movimenti. Il primo mostra una ricerca attraverso gli archivi cinematografici del poligono che hanno visto protagonisti le armi e gli esplosivi di tutto il mondo. Il secondo segue l’indagine di un geologo che tenta di rintracciare l’inquinamento causato dalle sperimentazioni militari. La terza racconta il lavoro di due allevatori e del loro rapporto con la terra, gli animali e con un passato profondamente segnato dall’attività bellica.


i PREMI Orso d’oro: Film Pozitia Copilului Child’s Pose di Calin Peter Netzer Orso d’Argento: Gran Premio della Giuria Epizoda u životu beraca željeza An Episode in the Life of an Iron Picker di Danis Tanovic Orso d’Argento: Premio Alfred Bauer per un film che apre nuove prospettive Vic+Flo ont vu un ours Vic+Flo Saw a Bear di Denis Côté Orso d’Argento: Regia David Gordon Green per Prince Avalanche Orso d’Argento: Attrice Paulina García in Gloria di Sebastián Lelio Orso d’Argento: Attore Nazif Mujic in Epizoda u životu beraca željeza An Episode in the Life of an Iron Picker di Danis Tanovic Orso d’Argento: Migliore sceneggiatura Jafar Panahi per Pardé Closed Curtain di Jafar Panahi e Kamboziya Partovi Orso d’Argento: Contributo artistico nelle categorie fotografia, montaggio, musica, scenografia, costumi

Aziz Zhambakiyev per la fotografia di Uroki Garmonii Harmony Lessons di Emir Baigazin Menzione speciale: Promised Land di Gus Van Sant Layla Fourie di Pia Marais


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Orso d’Argento: Regia

La strana linea gialla della vita di Maria Cera La metafisica landa di David Gordon Green apre la mia visione delle pellicole in competizione di questa Berlinale 63. Prince Avalanche è un ritorno alle origini dell’eclettico regista indie americano, di piccola e silenziosa poesia. Folgorato dal trailer e da alcune clip di Either Way, commedia ‘nera’ di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, il regista americano ha deciso di imbastire una storia che riproduce esattamente il canovaccio della propria ispirazione. Traspone in Texas un pezzo di esistenza tragicomica di due esseri umani agli antipodi (ma non troppo). Gettati in un ‘limbo post atomico’, frutto di un terribile e straordinario incendio che ha raso al suolo 43.000 acri di terra e 16.000 case, Alvin (Paul Rudd) e Lance (Emile Hirsch) ci introducono nella loro alienazione bizzarra e rivelatrice. I due ridanno vita a ‘strade perdute’fuse in un paesaggio di esistenza bruciata e dimenticata – ricomponendole nella forma e nella identità, ‘tatuandole’ nella segnaletica e nell’incisione-demarcazione di accessori un tempo propri, nel tempo della vita da strada. Alvin è il boss, e rimarca la sua posizione di comando in un’importante rivendicazione: la musica che accompagna il loro giallo tratteggio, lento e ispiratore (per chi guarda). Assoluto e ‘falso’ (apparente) propugnatore della solitudine, Alvin rimane attaccato alla terra che disegna e all’arso, bucolico, bosco che la contiene, cercando di trovare nel passato che ancora resiste dentro i resti di case, in una natura segnata ma risorta, linfa, segreta, pace al suo bastare a se stesso. Ama da lontano la sua donna, astraendo e for-

nendo uno spessore ad una relazione (forse) temuta in un reale e concreto vivere e condividere: “L’amore è un fantasma, tutti ne parlano ma nessuno lo ha mai veramente visto”, scrive alla sua bella. Lance, più giovane, più goffamente e coraggiosamente attaccato al mondo, gli si contrappone come abile spalla (anche nei paradossali duetti-scontri che li coinvolgono, generati il più delle volte da piccoli eventiassurdità). Lance vuole entrare a tutti i costi nella vita, anche se gli affondi-tentativi che genera sono mediamente disastrosi. Il guru Alvin verrà sconfessato nel suo isolamento: neppure il distacco riesce a dare corpo a un ideale di amore e di vita destinato inevitabilmente a lasciare il segno, a toccare… Lance ha forse una chance di crescita da una lieta (ma non troppo) gravidanza di cui è vittima… Prince Avalanche genera un solco sottile ma palpabile, nell’apparente leggerezza-svagatezza indie, marcatamente sovra impressa in una messa in scena dominata in primis dalla musica ‘beatifica’ di David Wingo (collaboratore frequente di Green) e degli Explosions In The Sky, ‘espansa’ da una fotografia levitante quando serve, in generale attaccata saldamente a un sospeso immanente al reale. La macchina da presa segue identico ritmo, adattandosi nella fissità agli istanti ‘da cartolina emozionale’ che deve rendere (quando serve) e rivelando, nelle riuscite carrellate di dimensione che compie, un’esistenza impossibile da raggiungere, inutilmente anelata nel senso, qualsiasi esso sia, che l’essere umano disperatamente cerca di cogliere.


PRINCE AVALANCHE David Gordon Green

2013

: USA

: 94’


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CHILD’S POSE Pozitia Copilului In una fredda notte di marzo Barbu batte la strada ben al di sopra dei limiti di velocità e investe un bambino. Il ragazzino muore subito dopo l'incidente. Lo aspetta una sentenza che lo condannerà dai 3 ai 15 anni di prigione. È tempo per la madre Cornelia di intervenire. Architetto e membro dell'alta società romena, che riempe la propria libreria di libri di Herta Muller mai letti e a cui piace ostentare la propria agiatezza, inizia una campagna per salvare il proprio letargico e languido figlio. Lei spera che le mazzette persuaderanno i testimoni a rilasciare false

testimonianze. Spera perfino di placare i genitori del ragazzo morto dando loro un pò di contanti. Calin Peter Netzer ritrae una madre consumata dall'amore per se stessa mentre lotta per salvare il figlio smarrito e se stessa. Con uno stile quasi documentaristico il film ricostruisce meticolosamente gli eventi di una notte e dei giorni successivi, penetrando nel malessere della borghesia romena e infliggendo un colpo alla condizione delle Istituzioni sociali quali la Polizia e la Giustizia.


VINCITORE DELL'ORSO D'ORO AL MIGLIOR FILM

Calin Peter Netzer

2012

: Romania

: 112’


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CAMILLE CLAUDEL 1915 Bruno Dumont

2012

Nel freddo inverno del 1915, la scultrice francese Camille Claudel (Juliette Binoche) raccoglie una pietra e la esamina. La donna immagina di trasformare una semplice pietra in qualcosa di nuovo. Ma il solo pensiero di foggiare ancora una volta un'opera d'arte le fa gettare via la pietra per non creare mai più nulla. Ossessionata dall'idea di essere perseguitata da coloro che la invidiano, soprattutto dal suo maestro e amante Auguste Rodin, viene internata dalla sua famiglia in una clinica psichiatrica nel sud della Francia dove vivrà fino alla fine dei suoi giorni. Il film è la cronaca della sua veglia senza fine trascorsa in solitudine e abbandono nella speranza di essere riconosciuta come artista e aspettando di ricevere la visita dell'amato fratello e scrittore Paul Claudel (Jean-Luc Vincent). La corrispondenza tra fratello e sorella ha ispirato il regista Bruno Dumont nella realizzazione del film. Ancora una volta Dumont ha deciso di lavorare con attori non professionisti: persone con disturbi mentali interpretano il ruolo dei pazienti della clinica e, in parte, di se stessi. La camera si avventura raramente fuori delle mura della clinica in cui una donna è stata rinchiusa, mentre la sua creatività sfiorisce. Senza indagare, la camera fissa il mistero e la follia che giace in quelle mura.

: France

: 97 ’


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LAYLA FOURIE Pia Marais

2013

: Germania, Sud Africa, Francia, Paesi Bassi

Layla è una madre single che vive con il figlio a Johannesburg, tirando avanti con lavori occasionali. Dopo aver imparato a maneggiare il poligrafo riesce ad assicurarsi un lavoro in una compagnia specializzata nella costruzione di macchine della verità e sicurezza. Un giorno, sulla strada per raggiungere il nuovo posto di lavoro, resta coinvolta in un incidente che cambierà definitivamente la sua vita. Layla resta intrappolata in una rete di menzogne e inganni. La verità può portarla alla perdita del figlio. Per girare il suo terzo film, Pia Marais – che ha vissuto a Berlino per molti anni – è ritornata in Sud Africa, dove è cresciuta, realizzando un thriller classico. Usa il film di genere per guardare a un Paese che deve ancora guarire dalle cicatrici lasciate dall'apartheid. In questo senso, la vita di tutti i giorni in Sud Africa aumenta le tensioni nella storia scritta a quattro mani con Horst Markgraf. Quasi per caso, Layla Fourie prende la piega di un thriller politico che trasporta lo spettatore nella paranoia, nella paura e nella sfiducia nei confronti di una società che è ancora profondamente affetta dai conflitti razziali.

: 105’


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GLORIA Gloria (Paulina Garcia) ha 58 anni e ha un divorzio alle spalle. I suoi figli hanno tutti lasciato casa e lei non ha nessuna voglia di restare sola. Determinata a sottrarsi alla vecchiaia e alla solitudine, si butta a capofitto in un turbinio di feste per single alla ricerca di una gratificazione facile e momentanea – che puntualmente la pone di fronte all'esperienza ripetitiva del vuoto e della delusione. Ma poi incontra Rodolfo, un ex ufficiale marittimo sette anni più grande di lei verso cui prova un'attrazione e dei sentimenti. Con lui, Gloria inizia anche a immaginare una relazione stabile. Comunque, l'incontro presenta

delle sfide inaspettate e Gloria si vede costretta a confrontarsi con i suoi segreti più oscuri. Il terzo film di Sebastian Lelio ha uno sguardo tragicomico sulle speranze fragili e le verità dolorose, è il ritratto di una donna potente che riesce ad affermare la sua forza e indipendenza a dispetto di un vortice di sentimenti in lotta. La storia si svolge sullo sfondo degli attuali conflitti politici in Cile, incluse le acque torbide degli ultimi quarant'anni di storia cilena.


ORSO D'ARGENTO PER LA MIGLIOR ATTRICE A PAULINA GARCIA

Sebastián Lelio

2012

: Cile, Spagna

: 105’


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Orso d’Argento per la fotografia di Aziz Zhambakiyev

Vivere è sopravvivere di Maria Cera Il secondo film in competizione solleva notevolmente il livello delle mie visioni. Harmony Lessons è una visione mentale e cinematografica realmente autoriale. Sorpresa, scoprire nel pressbook del film la giovane età di Emir Baigazin, la sola classe 1984 mi stupisce per la maturità sia narrativa che visiva nel tratteggio di una evoluzione interiore raccontata e filmata dentro un percorso in cui, oggetti, esseri viventi, luoghi e corpo assumono una funzione simbolica esponenziale. Una natura meravigliosamente sola, e bloccata nella propria affascinante crudeltà dal ghiaccio e bianco strato di un rigido inverno, contiene un piccolo villaggio Kazakho dove vive il 13enne Aslan, con sua nonna. Aslan è uno strano essere: quasi autistisco, chiuso in un isolamento inconsciamente preservante, dentro un ambiente in cui, sia in natura che tra gli esseri umani, vige la legge della sopravvivenza. L’uccisione-sacrificio di una pecora che il giovane compie, assistito dalla nonna, condensa tutto il senso del film e del suo titolo: il primo istinto di orrore che ci prende nel comprendere che si sta consumando un sacrificio è ’sedato’ dalla delicatezza e minuzia con cui tutto ciò viene compiuto. Quasi necessario, anzi: necessario. L’armonia del vivere è necessità e lotta per la sopravvivenza. Non si esce dal cerchio in cui siamo chiusi. Emir Baigazin ce lo mostra in una simbologia realmente riuscita. Lo strano liquido che Aslan ingurgita nel corso di una visita medica gli comporterà una marcata fobia nei confronti dei virus, una lotta privata e silenziosa contro gli scarafaggi,

un’anormale esigenza di pulizia corporale, e un vomito automatico ogni qualvolta il suo sguardo incrocia la forma divenuta sostanza, il bicchiere-contenitore, la sensazione perturbatrice. Il bullismo del microcosmo scolastico è un altro simbolo. Praticato a più strati: dal basso, tra gli alunni, il coetaneo Bolan infligge ordini e punizioni, raccogliendo denaro e dazi alimentari in una catena della sopravvivenza, che lega i giovani agli adulti, perchè: ”Non si può sfuggire alla prigione… il destino di molti…”. La passività di Aslam comincia ad evolversi dopo il suo strano incidente liquido… Parallelamente ai minuziosi espedienti escogitati per eliminare gli scarafaggi, il destino della scuola si intreccia a lui, fino a farne consapevole giustiziere, fino a perdersi e farci perdere negli stati di sogno-livello che la penetrazione del reale in lui generano: la bella compagna di classe attaccata al proprio chador che si rifiuta di togliere per preservare la sua purezza d’animo; l’Happylon-mondo dei balocchi-paradiso ideale agognato con la card sempre in tasca dall’unico amico con cui Aslan ha un minimo di interazione, luogo dominato solo da bellezza, bontà e giustizia; la minuscola sedia elettrica di tortura dei temuti scarafaggi, che lo contiene dentro le torture della polizia destinate a farlo cedere e a confessare il delitto di Bolan di cui viene accusato… Fino alla scena di chiusura, ’paradisiaca’ nel livello di ascesa a cui ci porta… ascesa visiva e sensitiva…Siamo anche noi da un’altra parte, beati e pacificati, e là si può camminare sull’acqua, come la pecora sacrificata.


HARMONY LESSONS UROKI GARMONII

Emir Baigazin

2013

: Germania, Kazakistan

Pellicola che asciuga il superfluo (anche la musica di cui non ha affatto bisogno) nel particolare che racconta il generale, in cui prevale una successione di piani compiuti, dove la natura viene in aiuto a dare respiro, a farci prendere fiato, quando serve. Altra sorpresa è leggere che i giovani interpreti della pellicola

Drammatico

: 115’

sono tutti attori non professionisti, semplici studenti. Il progetto del film ha partecipato agli Open Doors di Locarno del 2011 ed è stato primo progetto kazakho vincitore all’Eurasia Film Festival 2011. Ha ricevuto supporto finanziario dalla Berlinale Cinema Fund, in una coproduzione Kazakho-Tedesca-Francese.


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CLOSED CURTAIN Pardé Sono entrambe persone ricercate: l'uomo con il cane che non può avere perché le leggi islamiche credono che sia contaminato, e la giovane donna che prende parte a una festa sulla costa del Mar Caspio. Si barricano in una desolata villa con le tende alle finestre guardandosi con sospetto. Perché lui ha rasato i capelli? E lei come fa a sapere che lui è ricercato dalla polizia? Sono entrambi prigionieri in una casa nel bel mezzo di un ambiente ostile. Le voci della polizia si sentono a distanza, come anche il suono calmo del mare. Guardano al cielo stellato per una

volta, prima di ritirarsi ciascuno dietro i propri muri protettivi. Abbiamo dinanzi ai nostri occhi due fuorilegge, in tutti i sensi della parola? O, piuttosto, sono semplicemente dei fantasmi, prodotti della fantasia del regista Jafar Panahi a cui è stato negato il diritto di lavorare? Il regista entra nella scena e si ritira dietro le tende. La realtà viene ripristinata ma la finzione continua ad avanzare. Una situazione assurda: due personaggi di un film in cerca del loro autore-regista che, allo stesso tempo, osservano.


ORSO D'ARGENTO PER LA MIGLIOR SCENEGGIATURA

Jafar Panahi, Kamboziya Partovi

2013

: Iran

: 106’


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L'arte ci salverà di Giovanna Ferrigno “Promised Land: il nuovo film di Gus Van Sant”. Di questi tempi tutto si riduce, come un titolo di un giornale, a una sintesi fredda e senza Anima che ci distacca dal nostro mondo interiore in quanto Essere umani. In un periodo storico in cui ad imperare è una forte crisi economica e di identità sociale ed individuale, dimissioni di papi e rappresentanti dello Stato e mancanza di punti di riferimento validi, cosa ci salverà? L’arte, naturalmente. Un film non è mai stato e, a maggior ragione, non è e non sarà mai pura finzione, così come un regista o un attore un mestiere come un altro o uno sceneggiatore un qualsiasi “generatore” di parole, per quanto poetiche esse possano rivelarsi. Il nostro Eduardo De Filippo tentava di dircelo già diversi anni fa con la sua opera/manifesto L’arte della commedia, in cui denunciava e rappresentava la figura dell’artista come elemento indispensabile per la sensibilizzazione umana e sociale, in lotta contro la manipolazione da parte della borghesia del modo di vedere, concepire e usare la recitazione, il teatro, al fine di distrarre lo spettatore dall’importanza e dall’utilità di tale arti e rendere superflua la valenza di un lavoro che deve considerarsi produttivo e fondamentale all’interno della società tanto quanto quello di un farmacista o di un falegname. La responsabilità degli addetti ai lavori nel campo cinematografico è oramai divenuta palese, ma non sarà questo impegno da autore a spettatore ad impedirci di sognare. Anzi. Quando la consapevolezza e l’interesse aumenta, aumenta automaticamente il divertimento e la capacità di immedesimarsi ed emozionarsi,

sgombrare la mente e lasciarsi andare. Tutto ciò, dovrebbe essere implicito per permettere la visione di qualsiasi film, in particolar modo la visione di un Gus Van Sant. Il suo occhio discreto, ma perspicace, si posa su una sceneggiatura scritta da Matt Damon e John Krasinski che richiamava la stessa freschezza di uno script precedente, realizzato dallo stesso attore in questione che, in coppia con Ben Affleck e diretto da Van Sant, firmò nel 1997 Good Will Hunting. Un lavoro di squadra, dunque, che a conti fatti è risultato creativo e vincente. Grazie all’ambientazione particolarmente realistica, studiata attraverso la scelta precisa di location, fotografia (la pellicola a 35 mm è stata sottosviluppata in modo da diminuire la grana e mantenere intatto quel senso di luce non artificiale) e costumi vintage, non si stenta a credere neanche per un attimo di essere in una classica cittadina rurale americana (le riprese, quasi tutte in esterni, sono state effettuate in Pennsylvania), dove quasi sembra che il tempo si sia fermato. Gli abitanti vivono per lo più di agricoltura e pastorizia, fanno crescere i propri figli immersi nel verde delle rigogliose colline e nell’azzurro dei ruscelli… ma il loro inserimento nell’economia del Paese inizia a farsi difficile anche per la gente che ha sempre vissuto in modo semplice. L’arrivo “dalla città” di Steve Butler (Matt Damon), rappresentante in carriera della multinazionale di risorse energetiche Global, accompagnato dalla collega Sue Thomanson (una brillante Frances McDormand), sembra essere provvidenziale: i due agenti di vendita, infatti, tenteranno di acquisire i diritti di estrarre gas naturale mediante trivella-


PROMISED LAND Gus Van Sant

2012

zione di pozzi dalle proprietà della popolazione locale. Inizialmente attratti da questa allettante offerta, nella quale vengono promesse ingenti somme di denaro, la comunità sembra essere entusiasta. Non dopo l’intervento dell’ambientalista Dustin Noble (John Krasinski), però, e soprattutto del rispettato insegnante di scienze Frank Yates (interpretato magistralmente dal veterano Hal Holbrook) che difende a spada tratta l’interesse dei suoi concittadini, l’appartenenza alla propria terra e i saldi principi che stabiliscono uno stretto legame con essa. Un dibattito acceso, ognuno col proprio punto di vista, seguirà per il resto del film, senza creare schieramenti pro e contro, ma una questione vitale dove è la sfumatura a essere presa in considerazione, sia nel corso degli eventi che nel finale. La caratterizzazione di tutti i personaggi, che sulla carta potrebbero apparire banali, è stata raffinata molto attentamente, regalando ad ognuno una personalità forte, una storia e dei sentimenti sinceri che non si condiscono di un linguaggio forzatamente forbito, ma diretto e con una buona dose di umorismo (che ci suggerisce un’altrettanta buona dose di divertimento creativo nella fase di stesura della sceneggiatura). Il cast di attori sembra trovarsi completamente a proprio agio nella cornice autentica dove si svolgono i fatti, i dialoghi scorrono fluidi e, a tratti, improvvisati, a dimostrare quanta bravura e tecnica ci sia alla base di una perfetta recitazione e da un modo di dirigere acuto, ma non stressante. Da menzionare, inoltre, una particolare tecnica usata da Van Sant (ispirata a quella di Terrence Malick)

: USA

Drammatico

: 106’

ovvero “i ciak muti”: le scene sono state girate con gli attori senza i dialoghi, lasciando dare le battute agli interpreti soltanto con gli sguardi e la trasmissione dei pensieri e dell’emotività. Tale tecnica impreziosisce il livello di ascolto degli attori e, in seguito, determina un’ampia scelta in fase di montaggio, in cui si avrà la possibilità di alternare sequenze girate con ciak muti con quelle di normali ciak parlati. Lo scorrere di immagini paesaggistiche, dei ritratti delle fattorie, con quel calore e bellezza incontaminati, donano al film un’energia di calma e dolcezza che ritroviamo nelle note della colonna sonora, composta dal Burtoniano Danny Elfman. Se si osserva con fare poco approfondito, potrebbe non riconoscersi il tratto di Van Sant, ma osservando con quella consapevolezza e interesse citata poco fa…quel tratto diverrà trasparente e inconfondibile. Molti attribuiscono all’autore statunitense la targhetta di “trasgressivo” o “controverso”, quando invece ci ha sempre fornito un punto di vista imparziale, abdicando (forse anche troppo, a volte) il compito allo spettatore di elaborare un pensiero, esprimere un’opinione, manifestare disgusto o empatia. Libero arbitrio. Un rivoluzionario silenzioso, che parla attraverso i suoi personaggi che a loro volta rivivono nei corpi dei più straordinari attori. Come diede voce a Sean Penn in Milk, dopo un semplice “Motore…Azione!”: ”Per noi non si tratta di obiettivi personali o di vittorie, stiamo cercando di cambiare la nostra vita”. E c’è chi ancora ci crede davvero. Per fortuna.


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Hong Sangsoo e il battito della vita di Maria Cera L’ultima pellicola del coreano Hong Sangsoo spiazza per l’impronta che il regista decide di adottare. Gli inserti no-sense (uno dei marchi del suo cinema, insieme all’uso -voluto- ‘da principante’ dello zoom), in Nobody’s daugther Haewon, in concorso alla Berlinale, si ridimensionano (rispetto alle sue pellicole da me finora viste), così come l’impianto autobiografico, altro marchio registico-ossessivo di Sangsoo. C’è sempre il cinema nelle sue storie, nei personaggi di attore, regista, che popolano le piccole e bizzarre vicende su cui decide di soffermarsi, come c’è sempre la vita, le sue difficoltà specie relazionali, l’incomunicabilità – il fraintendimento costante, il volere contrapposto ad un essere sempre problematico. L’ironia, chiave di volta per narrare le cose più serie ed importanti, esorcizzandole, enfatizzando un assurdo-esilarante talmente paradossale per situazioni, dialoghi, da contenere un bel pezzo di verità. Tutto ciò è più ammorbidito, in questa pellicola. Sangsoo pare voler prendersi maggiormente sul serio non solo nella forma, ma anche nella sostanza di ciò che racconta. Al centro, come una bandiera che trattiene il vento e lo rende visibile a chi gli sta intorno, Haewon, ‘la figlia di nessuno’, giovane donna e studentessa che sente pulsare in sé la vita. L’individualismo l’accompagna da sempre: una singolarità vissuta come distanza dal ‘fuori’, dal mondo che la contiene, che pure assorbe e trattiene, di cui vuole afferrare il senso: vivere veramente, essere realmente felice, appagata. Sangsoo decide di cogliere lo stato emotivo di Haewon in un momento particolare. L’incontro con la madre che da lì a poco

andrà a vivere in Canada, e il riaffacciarsi di Seongjun, il suo docente di cinema, uomo sposato, con cui ha avuto una relazione. Il rapporto tra loro non è completamente rotto…si cercano a vicenda. Haewon è confusa, un po’ persa tra l’anelare ad una pienezza che non trova nella scuola, frequentata per inerzia, negli stessi sentimenti, non ancora afferrati nella completezza e nella forma capaci di appagarla. Nel passaggio dalla fine dell’inverno alla primavera, con il carico di vitalità nuova che la stagione pare portare, questa singolare, giovane donna, vive il proprio momento di passaggio, mescolando il sogno alla realtà nelle interiorizzazioni profonde di cui è capace, realmente vissute e scambiate-confuse dal regista dentro una commistione crescente, difficile da staccare, a pellicola chiusa. Hong Sangsoo cresce indubbiamente in maturità aggiungendo una serietà che non ha più il timore di affrontare. Non mancano gli insoliti e bizzarri personaggi, tra i quali il più riuscito è certamente l’insegnante coreano ossessivo-ma non-troppo, andato a vivere e a lavorare negli States, che non vuole mai più divorziare, in cerca a tutti i costi e il prima possibile di una donna con una forte individualità ma capace di trattenere pienamente in sè la vita. Non manca una musicalità che reinventa in una struggenza no sense la forza e la melanconia di uno storico pezzo di classica, assurgendolo a colonna sonora dello sbattere e svolazzare di una bandiera: “La bandiera chiamata Haewon, la figlia di nessuno”. Ps. L’inserto onirico che vede coinvolta Jane Birkin è l’unica forzatura a stonare.


NOBODY'S DAUGTHER HAEWON Hong Sangsoo

2013

: Corea del Sud

: Drammatico

: 90’


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AN EPISODE IN THE LIFE OF AN IRON PICKER Epizoda u Zivotu Beraca Zeljeza Una famiglia rom vive lontano dai centri urbani della Bosnia-Erzegovina. Il padre di famiglia Nazif (Nazif Mujic, sbarca il lunario recuperando e vedendo pezzi d'auto. La madre Senada (Senada Alimanovic) si occupa delle faccende domestiche e delle due piccole figlie. Un giorno, un dolore tagliente all'addome la fa accasciare al suolo. In ospedale le comunicano l'esistenza di gravi problemi con il bambino che porta in grembo: la diagnosi lo dà per morto. Il rischio per lei è la setticemia, per cui Senada deve essere operata immediatamente. Ma la donna non ha l'assicurazione sanitaria e poiché l'inter-

vento ha un costo che la sua famiglia non può permettersi, l'ospedale rifiuta di operarla. È una corsa contro il tempo in cui Senada perde le speranze. Danis Tanovic intreccia questi drammatici eventi, le difficoltà economiche dei suoi protagonisti e la paura della morte in un racconto raggelante. La messa in scena di un momento realmente accaduto nelle vite degli attori non professionisti contribuisce a restituire al film un forte senso di autenticità e realismo sociale. Allo stesso tempo il film dimostra lo straordinario coraggio di una famiglia rom e la precisa intenzione di sopravvivere.


ORSO D'ARGENTO GRAN PREMIO DELLA GIURIA e ORSO D'ARGENTO PER IL MIGLIOR ATTORE A NAZIF MUJIC

Danis Tanovic

2013

: Bosnia ed Herzegovina, Francia, Slovenia,

: 75’


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LA RELIGIEUSE Guillaume Nicloux

2012

Suzanne Simonin descrive la sua vita di sofferenze in delle lettere. Viene spedita in un convento contro la sua volontà. Poiché i suoi genitori non possono permettersi la dote per un matrimonio adatto al suo rango, decidono che per lei è meglio diventare suora. Sebbene la comprensiva Madre Superiora la aiuti a comprendere la routine del convento, il desiderio di libertà di Suzanne non ha tregua. Quando la Madre Reverenda muore Suzanne deve fare i conti con le rappresaglie, le umiliazioni e le molestie della nuova Madre Badessa e delle altre suore. Per molti anni Suzanne è oggetto di intolleranza e fanatismo. Il racconto di Denis Diderot è stato adattato al grande schermo molte volte. Nel 1966 Jacques Rivette ne realizzò una versione per il cinema con Anna Karina e Liselotte Pulver che fu temerariamente critica nei confronti della Chiesa e che fu vietata dalla Chiesa francese per alcuni anni. Guillaume Nicloux comunque si concentra sul destino di una giovane donna contro un sistema crudele che schiaccia l'individuo. Il suo film prende gradualmente le distanze dalle circostanze di questa storia particolare per descrivere un dramma universale.

: Francia, Germania, Belgio

: 114’


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W IMIE – IN THE NAME OF Malgoska Szumowska

2012

Adam è un prete cattolico che ha avuto la vocazione alla relativamente tarda età di 21 anni. Vive in un villaggio rurale della Polonia dove lavora con teenagers dai disturbi comportamentali. Declina le avances di una giovane ragazza di nome Ewa, dicendo di essere già impegnato. Il celibato non è comunque l'unica ragione del rifiuto. Adam sa di desiderare gli uomini e che la stessa decisione di prendere i voti è una fuga dalla sua sessualità. Quando alla fine incontra Lukasz, lo strano e taciturno figlio di una semplice famiglia rurale, l'astinenza che Adam si è autoimposto diventa un peso troppo grande da sostenere. Il film potente visivamente di Malgoska Szumowska, caricato con impressionanti immagini riprese dalla Passione di Cristo, vuole rompere il tabù dell'omosessualità nel sacerdozio. Messo dinanzi al suo 'proibito' desiderio, il protagonista sperimenta sia momenti di felicità sia di pura disperazione. Un film sulle emozioni confuse, sulla repressione e la solitudine – e sulla possibilità infine di poter ritrovare se stessi.

: Polonia

: 102’


42

Amore e morte in chiave surreale nel viaggio di Charlie di Francesca Vantaggiato

Inizia dalla fine il film di Fredrik Bond. Charlie Countryman (Shia LaBeouf) è stato pestato a sangue e ora la sua vita è appesa a un filo. Una donna, non una qualsiasi ma la sua amata, gli punta una pistola contro e sembra avere tutte le intenzioni di eliminarlo. La voice over fa la cronaca di una morte annunciata, quindi convinti di sapere quale sorte spetta al malcapitato non ci resta che concentrarci sul lungo flashback, che dura tutto il film, per capire le ragioni che hanno portato Charlie a intraprendere un viaggio verso Bucarest. Torniamo indietro nel tempo e nello spazio: siamo a Chicago, in un letto d’ospedale dove la vita di una donna sta per spegnersi. È la madre di Charlie, il cui spirito aleggia nella mente del figlio per dargli un’ultima raccomandazione, quella di andare a Bucarest. Senza capirne le ragioni e senza porsi troppe domande, Charlie parte e in aereo incontra un uomo che dopo qualche chiacchiera si accascia e muore sulle sue spalle per poi chiedergli – da morto – di portare un regalo alla figlia Gabriella (Evan Rachel Wood). Inutile dire che si tratta di amore a prima vista, che niente sarà facile a Bucarest per il povero Charlie, a partire dalle prime scariche di taser in aeroporto per arrivare, infine, all’ex marito della sua bella, un malavitoso del posto (interpretato da Mads Mikkelsen) di certo non disposto a lasciare andare il suo amore.

fanno crescere Charlie in un viaggio all’insegna dell’imponderabile e del surreale. Tra droghe e alcol – o semplici medicinali dagli effetti allucinatori – Charlie galleggia in uno stato onirico mentre cerca di conquistare un amore difficile, affronta intrighi criminali pericolosi, incontra ancora una volta la madre dubbiosa sulla meta consigliata, forse voleva dire Budapest e non Bucarest. È leggero e gradevole il mondo creato da Bond dove l’assurdo regna sovrano e si fa credibile e divertente. Ci sono dei passaggi in cui il patto da firmare con Bond per accedere nel suo universo richiede un grosso investimento di fantasia e accettazione dell’inverosimile, ma lo sforzo di superare le logiche della realtà è un sacrificio che ripaga. Nell’avventura suggerita a cuor leggero dal genitore Charlie impara a lottare per un amore, a soffrire per un amore, a dimostrare la propria determinazione per un amore. Charlie, scosso dal vuoto della perdita di una persona amata e dal caos avventuroso provocato dalla bella Gabi, è il protagonista di un’epopea emotiva – ora intima ora esplosiva – dove l’approdo agognato è la vita stessa.

Con una storia sognante dai colori acidi, in equilibrio tra l’incredibile e il reale, con un protagonista armato di sana ingenuità e accogliente nei confronti dell’amore – fatto di gioie e dolori –, Bond ci invita a vivere una favola nera illuminata dalla speranza che Amore e morte sono gli ingredienti che nella perseveranza i sogni si avverano.


THE NECESSARY DEATH OF CHARLIE COUNTRYMAN Frederik Bond

2013

: USA

Surreale

: 107’


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La lotta per la terra, la difesa di un sogno utopico di Francesca Vantaggiato Il regista russo Boris Khlebnikov e il co-sceneggiatore Alexander Rodionov si sono inoltrati nelle Russia centrale e settentrionale studiando il sistema agricolo, osservando l’atteggiamento della gente nei confronti della terra e collezionando storie. È venendo a capo dell’incontro con giovani e anziani lavoratori della terra, investitori, vecchie famiglie a conduzione agricola e coloro i quali hanno lasciato la città per abbracciare la vita contadina che nasce la storia di Sasha (interpretato da Alexander Yatsenko), protagonista di questo terzo capitolo “sull’inevitabilità della scelta” preceduto da Free Floating – Svobodnoe plavanie e Help Gone Mad – Sumasshedshaya pomoshch. Per dare corpo al prototipo di Sasha – stando alle parole di Rodionov – regista e sceneggiatore si sono ispirati non all’agricoltore di maggiore successo (come si evince dal film) ma a quello con più coraggio, all’uomo dilaniato tra il “sogno di una vita lunga e felice e il sogno di libertà, indipendenza e diritto di scelta”. Si consuma nelle regioni a Nord della Russia, nel villaggio di Umba, il dramma di Sasha, gestore e agricoltore di una fattoria collettiva, in trattative con una società incaricata di acquistare i terreni dei contadini locali per conto di un facoltoso acquirente. Il giovane imprenditore che ha lasciato la città per vivere in campagna e che progetta con la sua ragazza, impiegata nella società addetta all’esproprio delle terre, un ritorno nella metropoli grazie ai soldi incassati con la vendita è intenzionato a portare avanti il suo progetto fino a quando i suoi dipendenti non si

dimostrano decisi ad andare fino in fondo nella lotta per la difesa della propria terra. Khlebnikov ci mostra come nella contemporaneità non ci sia spazio per l’azione collettiva, per il perseguimento di valori comunitari, per il rispetto di un’ideologia sociale. Individualismo, egoismo, cinismo trionfano galoppanti in questo scorcio di realtà dove la natura primeggia florida e abbondante, ricordandoci la nostra impotenza dinanzi alla sua forza rigogliosa. Con un taglio realistico e minimale che guarda in modo clinico alla disintegrazione di un gruppo, di un’idea, della lotta, la camera si addentra nella discesa verso la follia di un uomo. Capiamo le ragioni dense di idealismo che spingono Sasha a portare avanti una battaglia tutt’altro che personale in una logica comunista radicata nelle tradizioni del luogo e destinata al fallimento per mano della natura meschina ed egoista dei suoi ‘compagni’ – e dell’essere umano in generale. Il futuro di una vita sicura preoccupa tanto Sasha quanto i fattori dell’azienda, ma se il protagonista è forse l’ultimo dei sognatori, l’ultimo a credere nella forza dell’unione per il raggiungimento del risultato comune, ben presto gli uomini che lo circondano gli daranno una lezione indimenticabile, dimostrando l’inconsistenza e l’aleatorietà della condivisione di intenti e scelte. La terra, intesa come eredità di valori, tradizioni e principi, e il futuro, ricco di speranze, proiezioni e sogni, sono gli estremi di un dramma agghiacciante e penetrante che da collettivo si fa individuale.


A LONG AND HAPPY LIFE Boris Khlebnikov

2013

: Russia

: Drammatico

: 77’


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VIC + FLO SAW A BEAR VIC + FLO ONT VU UN OURS A una fermata desolata di un autobus, un giovane scout suona la tromba per una donna che si rifiuta di lasciargli la mancia perché stonato. Quest'apertura dall'umorismo secco e amaro stabilisce il tono del film che racconta la storia di Vic, una donna appena uscita di prigione alla ricerca di pace e quiete. Vic si trasferisce a casa di un anziano e malato parente immersa nella foresta canadese, dove viene raggiunta dalla sua amante più giovane di lei e ancora molto attraente, Flo. Le due donne vivono alla giornata, esplorano la natura e si godono il paesaggio. La vita potrebbe essere meravigliosa se solo Vic non fosse così strettamente

controllata dal giudice di sorveglianza, molto attento alle apparenze. Inoltre Vic è preoccupata dalle scappatelle al bar che Flo si concede sempre più spesso. Intanto appare sulla scena una vicina misteriosa appassionata di giardinaggio, un'ombra del passato di Flo molto pericolosa. I segni di una minaccia incombente si moltiplicano fino a trasformare la foresta in un luogo pieno di insidie e di trappole. Con la sua collezione di eccentrici personaggi, la sua bizzarra idea di regia e la generale atmosfera di mistero, il critico e regista Denis Coté ci rivela un mondo dalla realtà imprevedibile.


ORSO D'ARGENTO PREMIO ALFRED BAUER PER UN FILM CHE APRE NUOVE PROSPETTIVE

Denis Côté

2013

: Canada

: 96’


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PARADIES: HOFFNUNG

L'ultimo capitolo della trilogia di Francesca Vantaggiato Dopo aver presentato i primi capitoli della trilogia a Cannes (Paradies: Liebe – Paradise: Love) e a Venezia (Paradies: Glaube – Paradise: Faith), Ulrich Seidl approda alla fine del progetto d’indagine sull’amore. Dall’amore carnale a quello spirituale a quello desiderato, le eroine del regista austriaco sperimentano i limiti e le amarezze delle proprie ossessioni, puntualmente tradite o negate. Mentre sua madre, Teresa, è in Kenya ad assaporare l’esperienza amara della Sugar Mama e la zia Annamaria è impegnata nel folle tentativo di cristianizzare l’Austria, Melanie passa l’estate in un centro dimagrante. L’appena tredicenne ragazzina sovrappeso si innamora del direttore un po’ attempato, un dottore padre di famiglia di soli 40 anni. Innocente, dolce e incantata dall’idea del primo amore, Melanie racconta con pudore alle amiche i suoi sentimenti verso l’uomo, che l’avvicina e la respinge consapevole dell’impossibilità di questo amore, mentre lei cerca candidamente e invano di sedurlo. Dei tre momenti ‘paradisiaci’, questo è senza dubbio il più tenero e genuino, sebbene malattia e perversione inquinino l’aria senza troppi convenevoli. Questa volta però la protagonista non ha colpe, anzi è la vittima sacrificale di un mondo adulto limitato, limitante e bieco pronto ad accanirsi con un più o meno palese sadismo contro i corpi abbondanti dei ragazzini del campo. Ci sono delle corrispondenze visive invertite tra il primo e quest’ultimo appuntamento della trilogia. Così come accadeva nel capitolo Liebe-Love dove era l’opulenza delle donne attempate a dominare lo schermo contrap-

ponendosi alle longilinee forme dei kenioti, così in Hoffnung-Hope sono le misure oversize dei ragazzini costretti a esercizi meschini a invadere lo schermo. Ma se nel primo erano i corpi in forma dalla pelle scura degli indigeni a sfilare ginnici, nel capitolo conclusivo della trilogia sono le taglie abbondanti in tuta bianca a camminare in fila indiana, in una visione quasi allucinatoria dell’amoreparadiso tradito. Inoltre, se Paradies: Liebe gioca sul ribaltamento continuo della relazione tra vittima e carnefice tanto da confonderci nella definizione di buoni e cattivi, Paradies: Hoffnung è più lineare nella sintesi della relazione d’amore negato, è spietato e crudele solo unilateralmente e, in fondo, per necessità. Melanie ha la prima cotta della sua vita, non a caso per un adulto accudente e divertente, e il dottore si vede costretto a trattenersi pubblicamente mentre in solitudine lo vediamo cedere a momenti di morbosa attrazione. Il grottesco – dei luoghi asfissianti, dei personaggi affetti da manie, delle situazioni anche apparentemente normali – è un elemento caro al cinema di Seidl, il quale ama rincarare la dose dell’assurdo surreale insistendo senza remore sull’elemento perturbante, sia esso l’amore a pagamento, la fede distribuita porta a porta, un amore adolescenziale impossibile. Nella ricerca del paradiso, da intendere come la condizione in cui l’essere umano si sente accolto, amato, curato, la soluzione abbracciata da Seidl è il continuo fallimento delle illusioni, delle speranze, dei desideri a favore del netto trionfo della sconfitta dell’essere umano.


PARADISE: HOPE Ulrich Seidl

2013

: Austria, Francia, Germania

Drammatico

: 91’


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Alla conquista del balsamo per l'anima di Francesca Vantaggiato

Canada, sul finire del XIX secolo. Una donna raggiunge un gruppo assortito di immigrati tedeschi intenzionato a inoltrarsi nell’impervio nord, nel Kolondike, battendo una strada che nessuno ha mai esplorato. In pieno periodo Gold Rush, i sette compagni di avventura non hanno niente da perdere se non miseria, fallimenti e amarezze nella ricerca dell’Eldorado che presto si rivelerà un cammino di disperazione e di distruzione. Sei persone tra cui Emily Meyer (Nina Hoss), unica donna del gruppo oltre la cuoca che affianca il marito in questo viaggio verso Dawson City, hanno risposto all’annuncio di un venditore di cialtronerie decidendo di investire i propri risparmi in quest’avventura alla ricerca ‘del balsamo per l’anima’. Ed ecco che il regista tedesco Thomas Arslan si cimenta in un western d’atmosfera dove al non detto è lasciato ampio spazio, si intuisce tutto con uno sguardo, si comunica solo l’essenziale. Il mistero aleggia sui sette personaggi – un padre di famiglia che vorrebbe poter tirare fuori i suoi cari dallo stato di indigenza in cui vivono, una coppia di anziani cuochi che ha investito nel viaggio ogni centesimo risparmiato, un giornalista in cerca di fortuna, un uomo addetto ai cavalli ricercato da loschi tipi, una donna dal passato poco fortunato, l’uomo-venditore di fumo a capo della spedizione – che rivelano umori e debolezze difficoltà dopo difficoltà. Se sulla carta questo western tedesco, dove non mancano i cliché del genere probabilmente banalizzati o indeboliti da una ci-

nematografia estranea ad esso, poteva risultare promettente, di fatto risulta quasi un’opera-studio, un esercizio di stile che strizza l’occhio al teatrale capolavoro Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt con Michelle Williams di cui vuole emulare speranze, tensioni e smarrimenti risultando un’infelice e sbiadita copia del lavoro indipendente americano. Il personaggio femminile, l’unico a trionfare, è affidato a una grande interprete – impegnata l’anno scorso in Barbara di Christian Petzold – che da sola deve trainare l’intero film colmando le lacune di una sceneggiatura-collage di ingredienti semplificati: c’è l’uomo sulla veranda che tutto vede e sa ma parla solo dietro compenso, il tradimento del capogruppo che non tarda a svelare il suo animo gretto e meschino, l’arrivo dell’indigeno simbolo di salvezza e allo stesso tempo di corruzione, il mito della frontiera quale tentativo di riscatto da una vita di stenti, il finale aperto in cui è solo uno – il più forte di spirito – a trionfare. Gli altri personaggi, i sei compagni di viaggio mossi dallo stesso desiderio, funzionano da contorno all’eroina, hanno avuto un trattamento veloce e poco approfondito fino a risultare figure piatte, poco credibili del carattere che rappresentano. La fotografia di Patrick Orth, quasi sempre orientata verso riprese diurne, sembra volere dirci qualcosa insistendo su questa scelta, ma di fatto non aggiunge molto alla rovinosa avventura, mentre la musica acida e disperata di Dylan Carlson si intona al dramma richiamando alla mente paesaggi sonori già esplorati.


GOLD Thomas Arslan

2013

: Germania

Western

: 113’


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Colpi di scena e suspense regnano sovrani nell’ultimo lavoro di Soderbergh di Francesca Vantaggiato

Grande esploratore di luoghi cinematografici Steven Soderbergh, dopo essersi di recente rivolto a un pubblico femminile con l’incursione nel mondo dello spogliarello maschile dell’ultima fatica intitolata Magic Mike, ritorna sulle tracce del genere thriller giocando sul filo della sospensione tra medical e psychological. Proseguendo per twist e colpi di suspense che aprono finestre su nuove visioni interpretative alle quale dobbiamo prestare molta attenzione, Soderbergh forgia un lavoro fine e complesso che scardina costantemente le convinzioni dello spettatore. Il primo twist è sicuramente di genere, pensiamo di assistere ad un medical thriller e invece…La protagonista Emily (il volto angelico di Rooney Mara contribuisce a conferirle uno stato di grazia e innocenza) soffre di una grave forma di depressione a cui neanche il marito (un poco inquadrato Channing Tatum), appena uscito di prigione, riesce a porre rimedio. Dopo alcuni atti di autolesionismo finisce in cura da uno psicoterapeuta (un versatilissimo Jude Law) che le prescrive un farmaco miracoloso e molto pubblicizzato, l’Ablixa, ignorandone gli effetti collaterali che si riveleranno devastanti per Emily e, in ultima analisi, anche per se stesso. Senza indugiare su dettagli rivelatori, è proprio quando siamo convinti di aver colto il senso profondo del film – ossia la chiara polemica contro i comportamenti scorretti e spregiu-

dicati delle aziende farmaceutiche – che Soderbergh si diverte a manipolare il genere trasformando Jude Law in un abile detective capace di smascherare i complotti di due donne al di sopra di ogni sospetto. Il montaggio asciutto e puntuale (ad opera del regista così come la fotografia) segna il ritmo di una storia ben costruita e attenta a non svelare troppo in fretta i suoi segreti. I personaggi sono bene scritti, a partire dall’inaspettato ritratto diabolicamente angelico di Rooney Mara – incredibilmente calata nella parte dopo il faticoso ruolo al limite della trasformazione fisica di Millennium – Uomini che odiano le donne – della sua prima psicologa interpretata da una spigolosa Catherine Zeta-Jones, misteriosa e respingente al punto giusto, per arrivare a Jude Law, sul cui spirito investigativo del tutto convincente si poggia la seconda parte della storia. Circa 13 anni fa il regista americano era alle prese con la denuncia del traffico di droga negli States firmando Traffic che annoverava, tra le altre star, anche Catherine Zeta-Jones e che veniva proiettato alla Berlinale 2001; oggi riappare sul grande schermo dopo aver annunciato la sua ritirata tornando a maneggiare il thriller con una finezza di scrittura e un controllo visivo all’altezza delle aspettative. Tra critica mirata e stratagemmi di sceneggiatura ben piazzati, Side Effects si regge su una solida struttura intrigante, avvincente, persuasiva.


SIDE EFFECTS Steven Soderbergh

2013

: USA

Thriller

: 106’


54

Deneuve sessantenne in fuga dalla staticità di Maria Cera

Chiudo il Concorso e la Berlinale con un leggero film francese, dotato di tutto il pregio (e lo spessore) che i francesi sanno dare alla fluidità visiva e narrativa, dove le storie scorrono con una semplicità di verità e di trasparenza capace di illuminare e lasciare a volte solchi profondi, altre (come in questo delizioso road movie un po’ fuori dalle righe), una leggera carezza. E la vita va… questo il sunto espressivo di Elle s’en va, pellicola costruita intorno a Catherine Deneuve, dalla stessa sorretta con classe, esperienza e messa in gioco, calata completamente nella figura di donna e di condizione che rappresenta. Emmanuelle Becort, regista e sceneggiatrice abituata a raccontare il sesso femminile (Clément, 2001, Backstage, 2005), si concentra su Bettie (Deneuve) e la sua ´ribellione´da sessantenne. Ex miss Bretagna, ex moglie, rinchiusa in una esistenza ristretta e relegata nel paese che l´ha vista nascere, con madre al seguito e ristorante di famiglia da gestire e sollevare dall’ennesima crepa finanziaria che incombe, anela da sempre all’amore, l’unica realtà emotiva capace di farla sentire viva. Provato appena in gioventù e poi sottrattole troppo presto dalla vita. Il fumo, la sua unica passione-evasione, insufficiente a regalarle ogni volta che inspira e respira, l’aria nuova di cui ha bisogno. Una mattina, di scatto, molla il servizio al ristorante e si mette in macchina, desiderosa solo di andar via, non sapendo bene cosa e dove cercare… Sarà proprio il fumo a con-

durla verso la sua via, trasformando in due giorni soltanto il sapore, l’odore di un futuro non più così impossibile da cambiare. La Becort, coadiuvata dal suo collaboratore alla sceneggiatura Jérôme Tonnerre, imbastisce un racconto di strada (attraversando un pezzo di Francia rurale), la cui dinamicità è marcata, oltre che dallo spessore dei personaggi di volta in volta incontrati e dalla singolarità delle situazioni affrontate (il vecchio e solitario rollatore di sigarette, il giovane e sognatore amateur, l’ingestibile e dolcissimo nipote, le ex miss sue coetanee ritrovate nel raduno-calendarizio del concorso di bellezza che l’aveva vista protagonista in gioventù), dal tono e dalla caratterizzazione della Deneuve, davvero coinvolgente (e coraggiosa) nel caricarsi un corpo e un volto abbandonato dalla giovinezza, nel trasmetterci i timori, le insicurezze, le incredulità, le ingenuità e, infine, le speranze di una donna giunta ad una età dove qualunque aspettativa dovrebbe essere resa al mittente, dove ci si dovrebbe pacificare per ciò che è stato ed è stato fatto. Sì, pare troppo semplicisticamente chiudere la Becort, anche a 60 anni la vita apre possibilità, resurrezioni, amori. Anche a 60 anni si può cambiare direzione. L´impianto visivo, sorretto da un movimento di macchina emotivamente modulante, è accompagnato da una colonna sonora sofisticata nella scelta di una musicalità melanconica, con densi brani italiani di: ‘Un tempo che fu’…


ON MY WAY ELLE S'EN VA

Emmanuelle Becort

2013

: Francia

: Drammatico

: 116’


E N I L N O E R A I L G O F S A D E N I AZ G A M S R E V I DR I X A T I D R E I I DOSS

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