Il cinema biopolitico di Pablo Larrain

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DOSSIER

il CINEMA BIOPOLITICO di PABLO LARRAìN LA DITTATURA DI PINOCHET FUGA TONY MANERO POST MORTEM ALFREDO CASTRO INTERVISTA A PABLO LARRAìN ALEJANDRO JODOROWSKY E RAùL RUìZ


DOSSIER DIRETTORE Vincenzo Patanè Garsia vincenzo@taxidrivers.it VICE DIRETTRICE Giorgiana Sabatini giorgianasabatini@gmail.com CAPOREDATTORE Luca Biscontini info@taxidrivers.it VICE CAPOREDATTRICE Lucilla Colonna associazione@taxidrivers.it CONCEPT DESIGNER Gianna Caratelli bubu.g@sinixlab.it ART DIRECTOR SXL Ireneo Alessi press@sinixlab.it RESPONSABILE NEWS Luca Buccella network@taxidrivers.it UFFICIO STAMPA Valentina Calabrese press@taxidrivers.it RESPONSABILE MEDIAPARTNERSHIP Veronica Mondelli redazione@taxidrivers.it WEBMASTER Daniele Imperiali +39 3484929575 www.creazioni-web.net TAXIDRIVERS TV Luca Carioti taxidriversroma@gmail.com

Hanno scritto in questo speciale: Lucilla Colonna, Pasquale D'Aiello, Veronica Mondelli, Ginevra Natale, Edoardo Necchio, Gianluigi Perrone, Emanuele Rauco in collaborazione con

ROMA: Alessandra Agapiti, Alessandro Bolognesi, Andrea Carpentieri, Andrea Lanza, Angelo Cavaliere, Angelo Mozzetta, Anna Quaranta, Annarita Curcio Rosati, Annarita Guidi, Arianna Salatino, Beatrice Bianchini, Chiara Nucera, Chiara Napoleoni, Damiano Biondi, Edvige Liotta, Elisabetta Colla, Emanuele Rauco, Eugenio David Ercolani, Fabio Sajeva, Federica Di Bartola, Federico La Rosa, Francesca Casella, Francesca Giannone, Francesca Tiberi, Francesca Vantaggiato, Francesco Del Grosso, Francesco Lomuscio, Gaetano Veninata, Giacomo Calzoni, Gianluca Wayne Palazzo, Gianluigi Perrone, Ginevra Natale, Giovanni Berardi, Giovanni Villani, Ilaria Mariotti, Irene Mazzetti, Ireneo Alessi, Ivo Pisapia, Leopoldo Papi, Letizia Rogolino, Luca Lombardini, Luca Ottocento, Luca Ruocco, Lucilla Colonna, Maria Cera, Mariangela Imbrenda, Martina Bonichi, Martina Calcabrini, Matteo Scarrone, Mirko Benedetti, Nando Dossena, Pasquale D’Aiello, Riccardo Rosati, Roberta Bonori, Salvatore Insana, Silvetro Capurso, Simone Ghelli, Simone Pazzaglia, Valentina Calabrese, Valeria Fossatelli, Valeria Natalizia, Veronica Mondelli, Viviana Eramo * LONDRA: Carla Cuomo, Ant Bi * BERLINO: Natasha Eva Kent Ceci, Vincenzo Patanè Garsia, Davide Casale, Gianluigi D’Autilia * NEW YORK: Stefania Paolini * TORINO: Paolo Gilli, Alessio Vacchi * FIRENZE: Boris Schumacher * MILANO: Francesco Manca, Valentina Giordano, Alberto Genovese, Riccardo Cammalleri * BOLOGNA: Rita Andreetti, Valerio Spisani, Elio De Paoli * NAPOLI: As Chianese * PADOVA: Edoardo Necchio * FORLIì: Michelangelo Pasini * PESCARA: Francesco Massaccesi * CHIETI: Giacomo Ioannisci * BARI: Simone Giongrandi * TRAPANI: Vito Sugameli * PORDENONE: Anastasia Mazzia

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Con il ciclo dei dossier, TAXIDRIVERS, ogni trimestre, dedicherà un approfondimento ad un differente autore. Considerando i drammatici sviluppi dell’attuale crisi economica, i cui effetti sono avvertibili su scala planetaria, abbiamo pensato di impostare una linea editoriale incentrata su tutto quel cinema di contestazione che, negli ultimi anni, è tornato alla ribalta. Analizzeremo, dunque, quei registi (rappresentativi di varie aree del mondo) che si sono particolarmente distinti nel trattare questa tematica (anche e soprattutto sul piano politico), a partire dalla specificità dei paesi di provenienza. Per il primo numero, la scelta, maturata anche in virtù di una recente retrospettiva che il nostro magazine ha promosso e realizzato, è caduta sul cinema di Pablo Larraìn, giovane e significativo autore cileno, i cui film (Fuga, Tony Manero, Post Mortem) costituiscono una preziosa rappresentazione del profondo disagio prodotto dalla dittatura di Pinochet. L’inattualità delle questioni trattate da Larraìn è, evidentemente, solo apparente: il suo cinema ci segnala come forme di oppressione, omologhe a quelle da lui descritte, siano operative, seppur in forme edulcorate, anche nei paesi “democratici”. La redazione di Taxi Drivers


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Pablo Larraìn regista e produttore

Pablo Larraìn nasce a Santiago del Cile nel 1976. Si iscrive all'Università UNIACC, dove studia Comunicazione audiovisiva. Nel 2005, assieme a Juan de Dios Larraìn, fonda Fabula, la casa di produzione che sosterrà i suoi film e quelli dei suoi conterranei, arrivando a superare i confini nazionali. Larraìn è figlio di Hernán, senatore del partito di destra cileno, la Union Democrata Independiente, e di Magdalena Matte, ex ministro dello stesso partito del marito. Da questo dato biografico non si può prescindere, visti i contenuti dei tre film del regista. Fuga, Tony Manero e Post Mortem possono essere letti anche come ribellione privata e politica alla famiglia, oltre che come visioni taglienti, intrise di fugace lirismo, in grado di ferire l'anima, gli occhi e lo stomaco. Nel 2006 Fabula produce il primo film: Fuga. Nella storia del musicista folle alle prese con la sua Sonata Macabra, maledetta e incompiuta, non si può non notare la voglia del giovane Larraìn di muovere i passi nel mondo dell'arte in modo autonomo, senza aiuti o appoggi paterni. Come Larraìn, anche Eliseo Montalbán, il protagonista, ha un padre ministro molto influente, in grado di spianare e occludere la strada al figlio. Il film è il primo colpo che Larraìn assesta allo spettatore: l'anima ne esce indubbiamente turbata. Rispettivamente nel 2008 e nel 2009, Larraìn produce due film di altissimo livello: Tony Manero e Post Mortem. Tony Manero, terzo film di Fabula, gode di attenzione internazionale: nel 2008 è stato presentato al Quinzaine des Realisateurs a Cannes, ha vinto la ventiseiesima edizione del Torino Film Festival e ha ottenuto la candidatura agli Oscar come Miglior Film Straniero. Tony Manero

Veronica Mondelli

e Post Mortem sono compatti sia per contenuti che per stile: d'ora in poi Larraìn narrerà quel periodo tanto controverso della storia del Cile, che unisce in un turbine oscuro la presidenza di Allende, il golpe di Pinochet, l'infiltrazione (politica e culturale) statunitense. Larraìn non opta per il “classico” cinema verità, né per la macchina a mano, ma, come lo stesso regista afferma a proposito di Post Mortem: “quando ho iniziato le riprese, ho deciso di non muovere più la macchina da presa, ma di collocarla in uno spazio morto, quasi inerte, dove osservasse i fatti con cautela, in modo orizzontale, come se il mondo si estendesse verso i lati, senza cielo, senza Dio né terra. Lo sguardo oblungo, di lenti anamorfiche, è uno sguardo panoramico, che nasconde molto e quello che è nascosto custodisce il vero mistero”. Una messa in quadro semanticamente complessa: Larraìn ci pone di fronte al terribile mostrarsi della realtà e alla ricerca del particolare significante che si apre a un significato indicibile. Con questo meccanismo, il regista racconta il disfacimento e la cosificazione dell'uomo che vive di riflesso il disagio politico e civile del suo Paese. La violenza legalizzata dello Stato, quella di un colpo di pistola trattato alla stregua di una veloce pratica burocratica, è immanente al personaggio impassibile di Raúl Peralta in Tony Manero. La violenza di Pinochet diviene normale nella vivisezione di Mario e del Cile dell'11 settembre 1973, quello del golpe, dell'autopsia di Allende, dei corpi ammassati degli oppositori politici. Tra pennellate divisioniste grigie e ocra, Larraìn mostra la complessità dell'evidenza, un vero colpo all'occhio, e un mondo indigeribile, un vero colpo allo stomaco. Il tutto trattato quasi a livello antropologico: Larraìn, troppo giovane per aver vissuto direttamente la dittatura, l'ha recepita come narrazione e disagio interiore (i racconti sono probabilmente provenuti dal nonno materno, socialista e sostenitore di Allende). Quella del golpe, dice il regista, “è la narrazione di una scena immaginata, non vissuta, sfocata […] di un'immagine nebbiosa, indefinita e mal partorita. Come un sogno che si ricorda a pezzi”. In qualità di produttore, Larraìn fa un capillare lavoro di scoperta di nuovi talenti cileni, sostenendo lo sviluppo del cinema d'autore e di genere; inoltre, mira alla creazione di una “squadra” produttiva coesa e salda – basti pensare alla costante presenza non solo come attore, ma anche come sceneggiatore, del “mentore” Alfredo Castro. Dopo Fuga, Larraìn produce l'opera prima di Sebastian Silva, La vita mi ammazza. Nel 2009 Fabula dà vita a ben tre film, Grado 3 di Roberto Artiagoitia, Ulysses di Oscar Godoy e Post Mortem. Fabula si muove tra cinema intimista, civile e di genere, mostrando interesse tanto per la commedia quanto per la Storia. Un punto di svolta giunge con la produzione della serie televisiva per la HBO, Profugos: un action movie al cardiopalma, dalla solida regia curata da Larraìn stesso. È poi la volta di 4:44 Last day on Earth, di Abel Ferrara. Attualmente Fabula è impegnata nella produzione del quarto lungometraggio di Larraìn, previsto per il 2014: No.

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Contestualizzazione politica del cinema di Pablo Larraìn La mattina dell’11 settembre 1973 la Junta militar guidata da Augusto Pinochet proclama lo stato d’assedio, chiude il parlamento e proibisce ogni attività politica. Assume tutti i poteri e si dedicherà per anni a dare la caccia agli oppositori, con un tipo di intervento che la dottrina della sicurezza nazionale USA avrebbe successivamente definito “guerra a bassa intensità”. Non vi fu alcuna “guerra civile” – a differenza di quanto preteso dalla giunta militare per giustificare la repressione prolungata – ma solo una guerra unilaterale delle forze armate, sostenute dalla borghesia e dall’imperialismo, contro il movimento operaio e la sinistra, che erano stati quasi completamente disarmati da una legge che consentiva all'esercito perquisizioni senza mandato in cerca di armi approvata dal governo subito prima del golpe. In realtà l’obiettivo del colpo di stato non era tanto rimuovere Allende quanto stroncare la rivoluzione in corso. Il governo Allende non era rivoluzionario: il modello politico cui si ispirava era il “fronte popolare”, una forma di alleanza tra la classe operaia e settori supposti “avanzati” della borghesia allo scopo di realizzare un programma di riforme democratiche: modernizzare le strutture economiche e sociali del paese e migliorare le condizioni di vita delle masse popolari, ancora tipiche di un paese arretrato. Esso agiva nel pieno rispetto della costituzione: non si proponeva di costruire il socialismo espropriando la borghesia e togliendole il potere statale. La verità era che il Cile alla fine degli anni '60 stava affrontando un processo rivoluzionario e una crescente radicalizzazione delle masse. La vittoria elettorale del fronte popolare di Allende nel 1970 era stata solo un sintomo – una sua canalizzazione, se si vuole – di questo fenomeno. Dopo un anno e mezzo di governo di Unidad Popular (la coalizione che sosteneva Allende), quando la “destabilizzazione” messa in atto da Washington – dove Kissinger e Nixon non potevano accettare un governo “marxista” che va al potere tramite elezioni per la paura che ciò provocasse un “contagio” in tutta l'America latina - iniziò a dare i suoi frutti, i lavoratori cileni

reagirono e iniziarono a prendere nelle proprie mani non solo il futuro del governo ma anche il proprio. Di fronte al sabotaggio economico della borghesia ispirata e sostenuta dai dollari della Cia essi occuparono e riaprirono le fabbriche chiuse, riorganizzarono la produzione e i rifornimenti: in piena emergenza costruirono un’alternativa operaia all’economia dei padroni. In poco più di un anno di governo “popolare” la loro coscienza aveva fatto un grande balzo in avanti: erano sorti nel paese organismi di tipo “sovietico” come assemblee di delegati eletti dai lavoratori. La sorte di Allende si compì in poche ore, ma annientare l’avanguardia di quella classe operaia, che aveva osato troppo, richiese molto di più. Al riparo di uno stato d’assedio durato quasi cinque anni, in Cile furono uccisi, imprigionati, torturati, fatti scomparire, licenziati, esiliati (e perseguitati anche all’estero dalla famigerata polizia segreta del regime) migliaia e migliaia di quadri e attivisti della sinistra e delle organizzazioni popolari. Si aprirono in Cile 160 campi di concentramento e i primi furono gli stadi. La repressione venne pianificata con cura distinguendo tre gruppi da colpire: 1) “i motori del marxismo”, cioè gli attivisti locali, coloro che realmente “muovono il popolo”; 2) “i dirigenti del marxismo”, cioè i quadri politici di UP, intellettuali e dirigenti studenteschi; 3) “i dirigenti e i funzionari del governo e i gerarchi dell’UP”. I primi dovevano essere arrestati e fucilati immediatamente; quelli del secondo gruppo “arrestati, torturati e condannati a pene di lunga durata”; quelli del terzo “detenuti per un certo tempo e poi espulsi dal paese”. In pratica, un programma di decapitazione della classe operaia volto a distruggere la forza organizzata e la coscienza militante dei lavoratori cileni per decenni. La dittatura militare durerà fino alla fine degli anni ottanta e riuscirà non solo a sradicare il movimento operaio ma anche a cambiare in profondità il paese, al punto che a più di quarant’anni di distanza l’eredità del golpe e della dittatura pesa ancora sulla vita politica e sociale del Cile. edoardo necchio

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Inquadramento politico del Cile odierno Nel 2010, per la prima volta dalla fine della dittatura fascista di Pinochet (1990), la destra è tornata al potere in Cile. è accaduto con la vittoria del sessantaduenne candidato Sebastián Piñera, sostenuto da una coalizione di partiti di centro-destra, che ha sconfitto l’ex presidente democristiano Eduardo Frei Ruiz-Tagle. In sé, non sarebbe una cosa sorprendente, se non fosse che gli attuali esponenti della destra sono strettamente legati al passato regime golpista. Solo a titolo d’esempio, basterà ricordare che l’attuale presidente è stato un sostenitore del colpo di stato, salvo prenderne le distanze alla fine del regime, e che suo fratello è stato ministro del lavoro di Pinochet. Per comprendere meglio lo spessore di Piñera, occorre aggiungere che è anche uno degli uomini più ricchi del Cile, possessore di uno dei maggiori canali televisivi del paese, CHV (una sorta di Canale 5 molto dedita a fiction, gossip e intrattenimento), e azionista della compagnia aerea LAN (anche se ha annunciato che venderà la sua quota di azioni). Le analogie con il nostro ex premier non finiscono qui, avendo anche egli promesso in campagna elettorale un milione di nuovi posti di lavoro (ma su una popolazione di meno di 17 milioni) Prima di Piñera, il Cile post-golpista si era sempre affidato alla guida della coalizione di centro-sinistra, che aveva visto alternarsi nella carica di presidente esponenti socialisti e democristiani. La vittoria del candidato di centro-destra segnala una forma di normalizzazione delle relazioni politiche, sebbene i rigurgiti culturali pinochettisti non manchino, come ha evidenziato la recente polemica sui libri scolastici per i bambini delle scuole elementari che dal prossimo anno non indicheranno più il governo di Pinochet come una dittatura ma lo eleveranno al rango di mero “regime militare”. Gli analisti della politica cilena interpretano questi cedimenti ideologici come una debolezza del presidente in carica, che sente la pressione delle forze più reazionarie che lo sostengono, alimentate da spirito revanchista verso i soggetti democratici. Tale sentimento potrà sembrare paradossale ma i diciassette anni di dittatura non sono passati invano, modificando profondamente l’assetto del paese, sia da un punto di vista economico in senso liberista, sia politico in direzione reazionaria (l’attuale costituzione del Cile, sebbene riformata in diversi punti, è ancora quella approvata durante il regime fascista di Pinochet). E alcuni umori sociali, e la rappresentazione che i partiti ne danno, stanno lì a ricordarlo. Pasquale D’aiello

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Fuga

Veronica Mondelli

Fuga, primo film di Pablo Larraìn, è un'autentica dichiarazione d'amore per la musica e per quel mistero, ancestrale e inesplicabile, che l'arte racchiude. Ricardo, musicista invidioso, cerca di recuperare la perduta Rapsodia Macabra di Eliseo Montalbán. Eliseo è un musicista “maledetto”: ha composto la sua meravigliosa Rapsodia seguendo magnetiche macchie di sangue su uno spartito vuoto, conseguenza di un atroce delitto consumatosi di fronte al suo pianoforte. Così, l'opera di Eliseo porta in sé la morte: la sua musica uccide chi la ascolta. Il musicista è devastato dalla sua maledizione e impazzisce. Si aprono le porte del manicomio: qui Eliseo deve fare i conti con la solitudine, con l'elettroshock, con il doppio significato di “fuga”. La fuga dalla musica e la fuga dal manicomio, intesa anche come fuga da ogni convenzione – fisica, sociale, morale e culturale. L'esplicazione, poetica e commovente, di tale concetto è affidata ad Alfredo Castro. L'attore interpreta mirabilmente Claudio, un internato con evidenti tendenze omosessuali. Claudio, ascoltando una “fuga” di Bach suonata da Eliseo, decide di voler fuggire. E la fuga avrà risvolti tragici, intensi, poetici. Il film alterna due piani: il presente, in cui Ricardo cerca di recuperare la Sonata Macabra per renderla sua, e il passato, quello in cui ha preso vita la maledizione di Eliseo. I due piani hanno diverse soluzioni fotografiche. Il presente ha la pretesa

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visiva del documentario, con luminescenze cariche di realismo non sempre convincenti, mentre il passato è giocato su colori più ragionati, grigio e azzurro in tutte le loro sfumature, e su una macchina da presa immobile. Il film presenta alcune piccole ingenuità, soprattutto a livello di cause ed effetti. Ma Larraìn ha la chiara intenzione di narrare il classico e oscuro nodo dell'arte – quello che unisce sesso, morte e follia – in modo romantico e, quindi, carico di irrazionalità. Poi figura l'invidia, intesa anche nel senso latino di vedere ciò che manca, processo che per Larraìn sembra essere fondamentale: l'immagine è lì, evidente, ma il mistero del visibile può essere (forse) compreso solo con una sviscerante e ossessiva contemplazione. Di alta qualità il montaggio del sonoro, composto di soli silenzi e orchestra; molto vicino al concetto di attrazioni ejzenstejniane, Larraìn costruisce il film per sovrapposizioni di piani sonori e visivi non legati cronologicamente ma solo a livello logico, relegando il significato fuori dall'immagine: di estrema poesia la scena dell'elettroshock, il cui suono è sostituito dai violini. Con Fuga Larraìn sembra inseguire disperatamente la sua poetica, i suoi maestri e le novità. Dopodiché, Larraìn si cimenterà con un cinema apparentemente slegato dal suo primo film che, però, appare come il necessario ingresso verso un radicale lavoro di rinnovamento culturale del Cile.


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Tony Manero

emanuele rauco

Parlare di dittatura in un film è, come molti altri temi, rischioso e delicato, non solo per le implicazioni politiche ma, soprattutto, per quelle filmiche che, assai spesso, sono state messe in scena in modi così vari e variamente convenzionali da diventare un’arma a doppia taglio. Arma ancora più affilata se si prendono in esame un contesto storico e regimi contraddittori ancora vivi e attuali, in un certo senso, come quelli sudamericani, in cui la tendenza fascista non è mai morta. Pablo Larraìn prova a guardare alla storia del suo paese, il Cile, e alla tremenda dittatura del generale Pinochet, usando lo spostamento di significato, la metafora e varie altre figure retoriche cinematograficamente interpretate per provare a riflettere sul significato sociale. Ne esce un film duro e sgradevole, ma a suo modo illuminante. Raùl è un aspirante ballerino, che vuole vincere un concorso di sosia di Tony Manero in tv, e per tale ragione allestisce con alcune persone uno spettacolo ispirato a La febbre del sabato sera, ma questa sua passione si trasforma ben presto in un’incurante e micidiale ossessione. Il film, che ha vinto il Festival di Torino, è un cupissimo e disturbante dramma umano e politico, vicino al McNaughton di Henry – Pioggia di sangue, ma dalle più evidenti ambizioni concettuali. Per scelte narrative, ideologiche e cinematografiche, tutto il film ruota claustrofobicamente attorno alla figura del protagonista, usato come metafora e simbolo: metafora della dittatura, non solo quella cilena, e della sua violenza, che procede impassibile a conquistare o difendere le posizioni acquisite o, ancora peggio, a raggiungere un obiettivo prefissato e il più delle volte irrealizzabile (fosse la ricchezza per tutti o un concorso televisivo, ogni regime ha la sua tremenda utopia); e soprattutto simbolo e sintomo di una società già mar-

cia e malata, a pochi anni dall’ascesa del generale (come affermano i sostenitori del dittatore, la sua violenza deriva da quella della società cilena), che preferisce isolarsi, disinteressarsi della politica e di ogni risvolto non privato, utilitaristico, primitivo, preferendo farsi irretire dallo spettacolo, dai lustrini di cinema, sport e spettacolo. Larraìn non usa solo le figure di stile e racconto per il tratto globale della sua pellicola, ma vi lavora all’interno, riempiendo il film di sottintesi, di rimandi, di sfumature più o meno evidenti, come l’uso della sessualità inespressa, dell’impotenza e della voglia di soddisfarsi (esemplare il tentato amplesso con la giovane figlia dell’amante), oppure il rapporto con i giovani (e le loro idee politiche), che Pablo spia con disinteresse e codardia, come nell’interrogatorio da cui fugge, fino al finale esemplare nella sua mestizia ed essenzialità, controcanto ancora più allucinato all’orrore mostrato. Il regista dimostra grande precisione, coraggio, lucidità stilistica nell’uso secco, disturbato e calibrato della violenza, nel fuori fuoco delle riprese per indicare il distacco dalla realtà ma anche dallo spettatore, nell’ossessione per la figura del protagonista, esasperata dalla fotografia mimetica, ma non solo, di Sergio Armstrong; e anche una straordinaria forza drammaturgica e concettuale, avendo scritto la sceneggiatura con Mateo Iribarren e Alfredo Castro, con la quale riesce a mettere in piedi un’architettura di storie, eventi e significati apparentemente casuali, ma che, invece, non lasciano scampo alla mente e ai sensi dello spettatore, reso ancora più partecipe di un incubo (a ben guardare non siamo lontani dal Salò pasolinano) dalla prova impeccabile e trasparente dell’«osceno» Alfredo Castro. Che ha vinto anche lui il premio a Torino, segno di un festival che ha trovato – nel bene o nel male – una sua impervia strada.

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Post Mortem

emanuele rauco

Ci sono alcuni film impossibili da analizzare prescindendo dall'aspetto autoriale. E ci sono registi che non fanno nulla per evitare che il critico parli del loro film imbastendo parallelismi con le opere precedenti. Pablo Larraìn, che è solamente al terzo film (ma il primo non ha avuto visibilità internazionale), sembra rincorrere temi ricorrenti con la stessa ossessione che caratterizza i comportamenti dei suoi protagonisti. Chi insomma ha già visto Tony Manero sa esattamente cosa aspettarsi. E le sue aspettative vengono completamente soddisfatte, anche perché Post Mortem costituisce un passo in avanti nella carriera di un cineasta già tra i più interessanti del panorama mondiale. Ritroviamo dunque innanzi tutto l'ottimo protagonista dell'opera seconda di Larraìn, un Alfredo Castro con lunghi capelli lisci e brizzolati, che in questo caso sembrerebbe non avere pulsioni criminali, pur essendo un personaggio ancora una volta atipico e pieno di fissazioni. Nella vita batte a macchina gli esiti delle autopsie, vive da solo cucinandosi uova al tegamino, insegue l'amore della sua dirimpettaia che fa la ballerina di cabaret (Antonia Zegers, straordinaria), adempie rigorosamente ai suoi principi (niente relazioni con donne che vanno con altri uomini). Soprattutto, vive nel Cile del 1973, a cavallo del golpe di Pinochet. Se è vero che i film di Larraìn sarebbero tutt'altro con una diversa ambientazione (anzi non avrebbero ragione d'esistere), il modo in cui riflettono sulla ditta-

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tura è del tutto originale, tanto che frotte di recensori - e i loro schemi mentali - erano rimasti spaesati al cospetto di Tony Manero. In questo caso i cadaveri prodotti dal colpo di stato vengono letteralmente sviscerati, dissezionati, esibiti. In testa Salvador Allende, al suo seguito centinaia di persone, comprese quelle che avevano manifestato ben poco interesse per la politica. Non solo in questo caso il regista denuncia tali orrori senza ambiguità: ne ha anche per i piccoli borghesi dissidenti a parole (anzi a slogan cretini) e pronti a piegarsi quando si tratta di opporsi realmente. Tuttavia, il cuore e la forza del cinema di Larraìn risiedono altrove. Quanto il regime incide sui comportamenti privati delle persone, che di fronte alla tragedia reagiscono ripiegando sui loro problemucoli di cuore e di carne, probabilmente in maniera irrazionale? C'è corrispondenza univoca, biunivoca o non ve n'é affatto tra questi due aspetti? In questo caso l'ambiguità è voluta e chiaramente perseguita. Si aggiunga che la tensione raggiunge in Post Mortem densità rare e che il regista sa esattamente quando provocare lo spettatore esibendo sgradevolezze, o quando costringerlo a soffermarsi su sequenze (il finale) prevedibili senza la possibilità di distogliere lo sguardo. Siamo insomma di fronte a un autore che lavora sul linguaggio e che ha le idee del tutto chiare. Che forse parla solo ai cinefili, difettando in comunicativa verso il grande pubblico. Ma non certo in personalità e intelligenza.


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L'attore feticcio: Alfredo Castro

lucilla colonna

A vestire di nervi e pelle le ossessioni del cinema di Larraìn è l'attore più amato in Cile, quell'Alfredo Castro dal volto scavato e dallo sguardo imperturbabile che ha interpretato tutti i film del regista, accettando con coraggio ruoli da protagonista disturbanti per lo spettatore ed estremamente difficili nella loro anaffettività, istintualità, violenza, disumanità. Il sodalizio tra i due comincia con Fuga, dove l'attore impersona il compagno di manicomio Claudio: "è un film molto ambizioso e di scarso successo, in cui compaio con un piccolo ruolo solo per una ventina di minuti" dice Castro durante un'intervista condotta da Radio Cooperativa, l'emittente nota in Cile per la sua opposizione alla dittatura di Pinochet. Anni dopo, il regista mostra a Castro la fotografia di un libro sui serial killer americani, da cui insieme trarranno ispirazione dapprima per una sceneggiatura di 60-70 pagine e poi per il sorprendente Tony Manero. “Furono sei settimane difficili, in cui la macchina da presa mi era costantemente addosso” ricorda l'interprete, “ho sofferto molto per girare questa storia così dura, ma è il mio lavoro, il mio mondo, e dunque l'ho fatto volentieri”. Lo sforzo è apprezzato dal Torino Film Festival, dove viene premiata la sua interpretazione dello “psicopatico aspirante ballerino di disco-music, che un uso spietato della camera a mano disseziona”, come attesta la motivazione scritta della giuria, a proposito di questo personaggio divorato dal folle sogno di fotocopiare col proprio corpo un'icona dell'industria di celluloide statunitense. “Pablo non voleva che recitassi, dovevo essere Raùl. Mentre si girava, tenevo sempre in mente una frase del copione, quella sul Crocifisso, perchè per me Raùl viene crocifisso come in una tragedia greca: fin dall'inizio è chiaro che finirà male”. Forgiato da una simile demolizione dell'io personale, l'attore raggiunge la perfezione e approda alla Mostra del Cinema di Venezia con l'autoptico Post Mortem, dedicato a una violenta ossessione amorosa, consumata in una cantina angusta e buia come la mente limitata e cieca che l'ha partorita: la mente di Mario, impiegato all'obitorio in cui ogni giorno vengono ammassati i morti ammazzati dal regime. “Pablo è giovane e non ha vissuto la dittatura di Pinochet” dice Castro, “penso sia meraviglioso che i giovani registi tornino ancora a quel periodo con il loro diverso punto di vista, la trovo una precisa scelta politica”. Al contrario dei personaggi fallimentari che ha incarnato per il cinema di Pablo Larraìn, la sua carriera ha seguito un percorso di crescita: laurea artistica, formazione come attore presso diverse compagnie teatrali, esordio alla regia, fondazione della propria compagnia, borsa di studio del British Council. Ma quest'estate, durante le riprese in Puglia, Castro è stato ospite nella tenuta di Albano Carrisi con tutto il cast del primo film che Daniele Ciprì ha girato senza Maresco, è stato il figlio, in cui interpreta il ruolo del narratore Busu. Presto ne vedremo il risultato nelle nostre sale cinematografiche.

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(67a Mostra del Cinema di Venezia)

Intervista a Pablo Larraìn, Alfredo Castro e Antonia Zegers

Gianluigi Perrone

Post Mortem, terzo film del cileno Pablo Larraìn, già apprezzato per Fuga (2006) e Tony Manero (2008), si cala a cavallo tra la morte di Salvador Allende e l'insediamento di Pinochet, raccontando la tragica storia d'amore tra Mario Cornejo, funzionario dell'obitorio statale stracolmo delle vittime della dittatura, e la rivoluzionaria Nancy. Mentre tutto il Cile sta cambiando radicalmente volto. Ecco la voce del regista e dei due attori protagonisti Alfredo Castro e Antonia Zegers, ospiti della 67a Mostra del Cinema di Venezia.

Come mai hai ambientato Post mortem durante il periodo in cui Allende fu ucciso e si insediava la dittatura di Pinochet? Pablo Larraìn: Credo di aver fatto questa scelta perché si tratta di un periodo in cui è avvenuto qualcosa che non riesco a capire completamente. Quindi, in qualche modo mi intrigava cercare di sondare questo mistero. Lavorare con un soggetto del genere è stato strano, poiché tentavo da sempre di comprendere gli avvenimenti nel loro insieme, e ciò non mi permetteva di capire nient'altro. Questo mistero mi ha ispirato fino alla volontà di realizzare e anonima, nessuno chiedeva di lui e non era impressionato dalla Post mortem. morte. Per cui, molte cose del film sono vere, anche se la vita di Quanto di ciò che è avvenuto allora ha avuto effetto sulla società Mario Cornejo è un mistero.

cilena di oggi?

PL: Penso che proprio per la ragione che non abbiamo mai capito ciò che è successo veramente, molte persone non sono andate in prigione e altre non sono più vive; è qualcosa che negli anni ha diviso l'opinione pubblica. Oggi che il Cile è un bel paese dove vivere, con una democrazia in cui i diritti umani vengono rispettati e un’economia funzionante, è impossibile dire come stanno le cose. Ora siamo da vent'anni in democrazia e tutto è più stabile. Il film non pretende di risolvere nulla, dire cosa è giusto o sbagliato o emettere giudizi, ma solo far riflettere su cosa è accaduto, attraverso la storia della nostra cultura.

Nel film, Mario dice di essere un funzionario statale, e sembra un simbolo della responsabilità in quello che è successo... PL: Si tratta di un problema di percezione della traduzione. All'epoca, l'impiegato pubblico in Cile era una figura poco rispettata. Ora è diverso. Non volevo mostrarlo come un mostro. Cerco di non giudicare i miei personaggi, altrimenti rischi di moralizzare la storia. Voglio che le cose vengano viste per quello che sono. In genere, nella logica dei film si verifica un meccanismo per cui c'è la redenzione, alla fine tutto va bene: i cattivi sono cattivi e i buoni, buoni. Questo non mi interessa.

Nel film c'è una frase in cui viene detto che “i gatti mangiano con In effetti i tuoi personaggi sono, più che cattivi o pazzi, emotivi... gli occhi chiusi per non vedere chi li nutre”. Può essere PL: Hai ragione, Gianluigi. Mario ha una sua morale, decisamente considerata la frase chiave di Post mortem? bigotta. Dice che non dorme con donne che sono state con altri. PL: Non so se sia vera questa cosa dei gatti, ad essere sinceri. Condensa una situazione in cui nessuno si fida di nessuno, però la gente vuole creare delle relazioni. Nel momento in cui qualcuno è ossessionato da qualcun altro, non vuole credere di essere manipolato. Perciò, l'intera situazione è in tensione. Quello che ci piaceva, è che entrambe le storie dei protagonisti diventano una sola cosa. Non so dire se sia la frase principale del film, però è sicuramente molto importante perché in certe circostanze non ci si fida di nessuno e non si riesce a creare un rapporto con qualcuno, non puoi guardarlo negli occhi. È il senso del film.

Si trova in una situazione emotiva particolare, il che è umano. Molta gente mi dice che i miei personaggi sono strani. Io gli rispondo: “Se ti seguo con una telecamera riuscirò a catturare molte cose strane”, perché la realtà contiene elementi assurdi. Tutti facciamo cose strane. Un'altra logica del cinema è che ogni cosa funziona. Trovi subito un taxi, le porte si chiudono bene, le case sono tutte pulite.È falso. Nei film tutto va ‘a posto’, ma quando me ne rendo conto trovo sia ingiusto. Mi piace di più come nei film di Jim Jarmush rispetto ad alcuni film giapponesi in cui i protagonisti appaiono molto più regolari di quello che sono, il che rende tutto meno reale.

Possiamo dire che una nuova generazione di cineasti sta Ma ai cileni piacciono i film del proprio Paese? emergendo in Cile? PL: Sì, è molto bello, perché siamo tutti molto amici. Alcuni fanno film d'arti marziali, altri horror, action o storie d'amore. Storie molto differenti, ma credo che sarà una generazione di cui si sentirà molto parlare.

PL: Non tanto. Abbiamo un problema con il pubblico. Per qualche ragione ogni anno c'è meno gente interessata al cinema cileno. Il problema è diffuso anche in Argentina, Italia, un po' ovunque. In Francia è leggermente diverso, ma comunque non si può fare nulla contro Hollywood, Avatar e roba del genere.

Mario Cornejo è un personaggio esistito veramente. Come sei entrato in contatto con la sua storia? Post Mortem è molto simile a Tony Manero, anche se il linguaggio PL: Leggevo un giornale che parlava dell'autopsia di Allende e poi della camera è diverso. Meno camera a mano e più camera fissa. ho scoperto su internet che c'era la trascrizione originale. Mi ha sconvolto, perché è l'autopsia del mio Paese. Venivano descritte tre persone, tra le quali Mario Cornejo, e mi sono chiesto: “Chi è costui?”. Abbiamo scoperto che era una persona molto tranquilla. Lui è morto, ma ho incontrato il figlio, Mario Cornejo junior, che nel film è l'assistente del dottore. Ci ha dato tutte le informazioni e le autorizzazioni per utilizzare il nome del padre. È stato interessante sin dall'inizio: Mario Cornejo era una persona così calma

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PL: Ho iniziato a girare come in Tony Manero. Poi ho usato lenti anamorfiche superlarghe. Mi sono reso conto che non funzionava, e così ho cambiato regia. Però la troupe è la stessa. Per l'immaginario del film, ho usato delle foto di un gruppo di fotografi dell'epoca: l'Association of independent photographers esistita dal '72 al '94. Hanno fatto un sacco di lavoro ottimo che siamo riusciti a recuperare. C'è un bellissimo documentario su di loro che si chiama La ciudad de los fotògrafos (2006).


R I V I S TA

INDIPENDENTE

DI

CINEMA

Hai realizzato un lavoro incredibile con il suono, tutto industriale... Tanto è vero che Mario non può prendersi cura di lei, allora lo fa del cane.

PL: Esatto! Abbiamo fatto un lavoro lungo con il sound. Siamo andati nelle industrie registrando frigoriferi e macchine mixate con il resto. È stato importante perché non volevo usare la musica, in quanto suggerisce le emozioni. Ne abbiamo provate molte, e il significato delle scene cambiava sempre. Allora le ho tolte. Mi hanno chiesto se ero sicuro di volerlo fare, ma così è più vicino a ciò che sente realmente la gente. L'atmosfera fredda del film è ciò che viene fuori da questo sound. Sono contento tu l'abbia percepito.

AC: Invece Mario non riesce a scrivere a macchina: è un po' di meno, ma è la stessa cosa che avviene nel rapporto con Nancy. Non sa gestire le cose.

Alfredo, quindi, che pensi di Mario? È un codardo, senza emozioni o soltanto un uomo incompleto?

AC: Non mi piace dare giudizi su Mario. Ho realizzato un'intervista con la televisione cinese. Loro non hanno la nostra mentalità catIl film è essenzialmente una storia d'amore, ma nella sua tolica, e l'intervistatrice lo trovava gentile e carino. Incredibile!

grammatica è anche un horror, con alcuni sprazzi di film post Secondo te ci sono connessioni tra il personaggio di Raùl in Tony apocalittico... Manero e Mario in Post Mortem?

PL: Quando la gente vede i film, si materializzano opinioni sempre differenti. Se mi chiedevano come volevo vendere il film, rispondevo che è una storia d'amore. Mi guardavano come se fossi pazzo. Chiaro che ci sono momenti orribili, perché è una storia orribile.

AC: Sono entrambi profondamente soli. In Tony Manero, Raùl è costretto a socializzare con altre persone e lo fa. Infatti, ha tre donne intorno a sé. Deve organizzarsi per ballare e organizzare gli spettacoli. Mario, invece, non ne ha l'urgenza materiale.

I personaggi di Mario e Nancy sono agli antipodi: l'uno glaciale, Molto bella la scena in cui attraversano il corteo dei manifestanti l'altra disperatamente emotiva. In qualche modo, si completano... in auto... Antonia Zegers: È una lettura bellissima. Purtroppo il film inizia con la mia autopsia, e prima di amarci, prima di piangere insieme, prima di litigare sai già che tutto andrà male. Anche se c'è del romanticismo, il film ti dice in maniera poetica che tutto ciò non avrà successo. È la tragedia di due outsiders.

AZ: Mostra la differenza tra la dittatura e la democrazia. Quando si è instaurata la dittatura, vediamo le strade vuote con le auto distrutte. Tutto fermo. Quando arriva la democrazia la gente sente di poter scendere per le strade e dire quello che pensa.

AC: All'epoca dei fatti io ero sedicenne ed ero solito guardare da Alfredo Castro: Prima lei piange da sola, poi Mario piange per casa mia le manifestazioni. Ricordo dal balcone un milione di persone nelle strade che gridavano, protestavano e ballavano. Ablei e poi piange per se stesso. Infine piangono insieme. biamo avuto almeno due anni di libertà prima del buio totale. Quelli Alfredo, Mario sembra privo di emozioni, inizialmente. come Mario in realtà erano una minoranza silenziosa.

Poi Nancy lo porta ad esistere.

AC: Mario non sa mostrarle. Lui lavora con i morti, e quindi vede in Nancy il suo corpo che muore disperatamente. Sono stati vicini di casa per anni, ma solo dopo tanto tempo lui si accorge di lei, e in quel momento diventa vivo. È un'attrazione molto oscura.

È un film con un plot che potrebbe essere applicato a qualsiasi dittatura... AZ: Parla agli esseri umani. Tu devi prendere la tua posizione e farti il tuo giudizio. Guardiamo il mondo e quello che l'uomo fa ad altri uomini per soldi, religione, potere, territorio. Allora siamo macchine impazzite? Non c'è Paese che non abbia conosciuto omicidi, torture, uomini che vogliono sopraffare altri uomini. Come ti poni davanti a tutto ciò? Te ne vai dal tuo Paese e trovi le stesse cose in un altro. Almeno in Sud America.

AZ: È il suo vicino da anni, ma Nancy non l'ha mai visto. Mario è invisibile. Si trovano connessi alla fine, ma da situazioni sordide, perché lui vede una donna che sta decadendo, che fa un lavoro sporco, vede i momenti ‘moribondi’ di una persona... Lui è attratto da questa tragedia. Riconosce la morte, in lei. AC: Questo aspetto deve aver colpito Pablo. Il lato universale delle vite minimali di questi personaggi. I peggiori torturatori, criVoi li vedete come personaggi irregolari ed emotivi, come Pablo? minali e assassini sono parte di questa minoranza silenziosa. Non AZ: Nancy non ha costruito nulla negli anni. Vive con il padre, at- sono da giudicare come psicopatici ma, semplicemente, in quanto traverso ideali comunisti. Ma è una ribelle. Come essere ribelle in uomini... una famiglia comunista se non facendo la ballerina notturna? Si trova lì perché combatte qualcosa, per dire in giro che lei è là ed Come ha lavorato Pablo con voi? esiste. Può essere considerata la sua personale rivoluzione. Le AZ: Non c'è stata una grossa preparazione, se non alcune letture. interessa di più il colore dei capelli che il movimento politico. Lo Nemmeno per le scene più forti. È Pablo che ti fa ripetere tante volte odia. Perché, per quel motivo, lei non può essere vista e non può e poi costruisce tutto sul set. Quello che si vede ha molto l'intensità esistere. Quella è la sua vendetta. Si nota dai suoi tratti psicoso- che si sentiva sulla scena. Bisognerebbe essere lì per capirlo. matici. L'ho costruita così.

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IV IV I SI S TA TA I N IN DD I PI P EE NN DD EE NN TT E E DD I I CC IN IN EE MM AA RR

Altri autori di spicco del cinema cileno Alejandro Jodorowsky Avvicinarsi al cinema di Alejandro Jodorowsky (Tocopilla, 1929) significa entrare nell’immaginario evocativo di uno sciamano che crede fermamente nel potenziale terapeutico della messa in scena. In ognuno dei suoi film i protagonisti intraprendono un viaggio di iniziazione che li conduce al raggiungimento di una maggiore consapevolezza di sé come parte di un universo unico, armonico ed immortale. Un percorso dello spirito e della carne, impervio e rivelatore, che affronta con coraggio ed ironia i lati più oscuri dell’essere umano. Nel suo linguaggio visivo, violento e poetico, ricco di simboli, maschere, allegorie, bellezza e deformità, troviamo l’impronta della sua intensa e mai interrotta attività di studio in materia di alchimia, oltre che la sua grande passione per il teatro. Jodorowsky proviene dal teatro. A Santiago lavora in un circo e allestisce spettacoli di marionette. A Parigi entra nella Compagnia del mimo Marcel Marceau e fonda con il drammaturgo Fernando Arrabal e l’illustratore Roland Topor il Movimento Panico, di ispirazione surrealista. In Messico mette in scena decine e decine di rappresentazioni, tra testi di Strindberg, Tardieu, Jarry, Arrabal, Beckett, Ionesco, Leonora Carrington e sue proprie creazioni. Inizia a sperimentare la macchina da presa nel ‘57 con un cortometraggio muto tratto da una novella di Thomas Mann, Le teste scambiate. Nel ’67 inaugura la sua casa di produzione, realiz-

Raùl Ruiz Cercare di delineare il cinema di Raùl Ruiz (Puerto Montt 1941 – Parigi 2011) è davvero un’impresa impossibile. Lo è innanzitutto per una contraddizione in termini. Per Ruiz parole quali “linea” o “confine” hanno un significato assolutamente relativo. Ogni storia ne contiene mille altre, così come ogni immagine, ogni sequenza. La realtà si presenta come un infinito gioco di specchi pronto a mutare riflesso a seconda di chi guarda, di chi interpreta.Come regista Ruiz mette continuamente in discussione il significato stesso della rappresentazione filmica, stimolando una continua riflessione sul linguaggio e sulle possibili modalità narrative del cinema. Nominato Commissario Cinematografico di Unidad Popular durante il

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Ginevra Natale

zando il primo lungometraggio, Il paese incantato, trasposizione di un testo di Arrabal. Ma è soltanto con El Topo, girato in Messico nel ’71 con un budget piuttosto ridotto, che Jodorowsky rivela al vasto pubblico le sue grandi doti autoriali. Questo film, di cui non è solo sceneggiatore e regista ma anche interprete principale, approda a New York diventando un vero e proprio cult, grazie anche al sostegno distributivo di artisti come John Lennon e Yoko Ono che ne apprezzarono subito l’originalità e la forza espressiva. Accolto, in seconda battuta, anche dalla critica come uno straordinario “western spirituale”, El topo, ovvero “La talpa”, è la storia di un pistolero che, lasciato il figlioletto in una congrega di frati, accetta, per amore di una ragazza, di sfidare quattro Maestri invincibili. Dopo averli combattuti e vinti, il pistolero viene però tradito dall’amante che gli spara al petto e fugge a cavallo con un’altra donna. Da quel momento ha inizio per lui una nuova vita. Risvegliandosi all’interno di una montagna, circondato da una comunità di reietti deformi, il pistolero abbandona le sue vesti e impiega tutte le sue energie per riemergere dalla terra e liberare i suoi nuovi compagni. Compiuta l’impresa, il protagonista si confronta nuovamente con suo figlio, diventato ormai uomo, e si lascia quindi bruciare tra le fiamme, in un rituale passaggio di testimone. Grazie al trionfo di El topo, Jodorowsky ottiene enormi finanziamenti per il successivo The Holy Mountain, un’opera davvero grandiosa e forse la più rappresentativa del suo sapere esoterico. Ad esso seguiranno Tusk, Santa Sangre (prodotto da Claudio Argento, fratello di Dario) e Il ladro dell’arcobaleno.

governo di Allende, Ruiz è costretto a lasciare il Cile in seguito al colpo di Stato di Pinochet del ‘73. Va in esilio a Parigi, dove prosegue la sua intensa attività cinematografica che conta già diciotto pellicole prodotte. Da allora, sostenuto e finanziato anche dal Beaubourg, realizza quasi cento film. Uno dei pochissimi titoli reperibili oggi in Italia è Tre vite e una sola morte (1996), una delle ultime interpretazioni di Marcello Mastroianni che qui veste i panni di un maggiordomo, un uomo d’affari, un professore e un barbone, che si riveleranno poi come un’unica identità. In questo lungometraggio riscontriamo delle componenti surrealiste, oniriche, simboliche e freudiane che ricorrono spesso nella poetica di Ruiz. Tra gli altri titoli anche: Le tre corone del marinaio e La città dei pirati (1983), Genealogia di un crimine (1997) vincitore dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino, Autopsia di un sogno (1998), Il tempo ritrovato (1999) con John Malkovich e Emmanuelle Béart, Il figlio di due madri (2000) con Isabelle Huppert.


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DOSSIER

un film di

BRILLANTE MENDOZA in collaborazione con:



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