Manuale di analisi sul Contributo Scolastico 2015/2016

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Cos’è il contributo scolastico? L’Italia è l’unico paese in Europa in cui la scuola si paga due volte: con la fiscalità generale (le tasse) e con una forma di tassazione “volontaria” introdotta nelle scuole sotto forma di un contributo economico. La prassi di richiedere un contributo economico volontario al momento dell’iscrizione a scuola è oggi un dato strutturale, perché interessa l’intero sistema scolastico italiano. Un fenomeno comparso vent’anni fa a macchia di leopardo e che oggi avviene regolarmente in tutte le scuole, e che è andato espandendosi col passare degli anni, con un picco notevole in seguito ai pesanti tagli ai fondi statali all’istruzione pubblica che ci sono stati a partire del 2008. Secondo l’OCSE si è passati da una media di 40-50 euro alla fine degli anni ’90 all’attuale media di 150 euro chiesti ogni anno alle famiglie degli studenti: un aumento di oltre il 200%. Come sempre il valore medio, già elevato, nasconde ulteriori sfaccettature: i contributi chiesti nelle scuole del nord Italia sono solitamente più alti, e tendenzialmente le cifre più alte sono chieste dai licei, mentre in molti istituti tecnici e professionali la cifra si aggira attorno ai 70-80 euro. Le scuole dotate di laboratori e strutture più avanzate pretendono contributi più elevati giustificandoli con la necessità di manutenzione di queste strutture, con la conseguenza di rendere ancora più costose le scuole “di serie A”. Un importante caso deviante rispetto alla media è rappresentato dagli istituti alberghieri, che chiedono contributi enormemente superiori che arrivano anche alla cifra di 250 euro, giustificando questa richiesta con la necessità di acquistare gli ingredienti necessari per i laboratori di cucina.

Come è nato il contributo scolastico? Il contributo scolastico in Italia ha avuto un ruolo centrale nel processo di smantellamento della scuola pubblica imposto dalla “svolta” neoliberista, che imponeva in ogni paese l’introduzione di logiche privatistiche anche in settori essenziali come l’istruzione o la sanità. In Italia le basi per questa operazione vennero gettate nel 1997 dal governo di centro-sinistra. Con la “autonomia scolastica” introdotta da Luigi Berlinguer (Ministro dell’Istruzione dei governi Prodi I e D’Alema) nel ‘97 e presentata come una innocua “autonomia della didattica”, venivano in realtà abrogati due articoli del Testo Unico sulle leggi della scuola pubblica (T.U. 297/94) che vietavano tassativamente alle scuole di richiedere denaro alle famiglie. La nuova tendenza di chiedere un contributo economico per l’iscrizione è quindi nata in seguito a una precisa scelta legislativa, e gli anni seguenti hanno dimostrato come “autonomia scolastica” stesse in realtà ad indicare il progressivo disimpegno dello Stato dal finanziamento dell’istruzione pubblica. Inizialmente il contributo era funzionale al finanziamento di attività extracurricolari del POF; ben presto però le scuole iniziarono ad assistere alla riduzione dei finanziamenti statali, che non è mai cessata e a partire dal 2008 ha raggiunto dimensioni spropositate.

I tagli alla scuola pubblica… La Legge Finanziaria del 2008 programmava tagli per il triennio 2009-2011 per un totale di quasi 14 miliardi di euro. Il Documento di Economia e Finanza (DEF) del 2011 aggiungeva altri 8 miliardi di tagli ai fondi statali per la scuola pubblica nel triennio 2012-2014. In altre parole nell’arco di sei anni le scuole hanno ricevuto 22 miliardi in meno, e sono state ridotte letteralmente in ginocchio. Il Governo Renzi non ha minimamente invertito la rotta, ma al contrario ha proseguito nel solco dei suoi predecessori, pur con una maggiore abilità nel mascherare il suo reale operato,

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spesso dando con una mano e togliendo con l’altra. Nel gennaio 2015 vennero stanziati 50 milioni aggiuntivi per le spese di funzionamento delle scuole, occasione in cui il Ministro Giannini si lasciò sfuggire che “il contributo non può essere imposto alle famiglie”. La riforma della scuola approvata nel luglio 2015, la c.d. “Buona Scuola”, ha incrementato il fondo per il funzionamento delle scuole di 123,9 milioni nel 2016 e 126 milioni dal 2017 fino al 2021, per un totale di 754 milioni; nel frattempo con la Legge di Stabilità 2016, approvata alla fine del dicembre 2015, si sono programmati tagli all’istruzione pubblica per un totale di 660 milioni di euro fra il 2016 e il 2018. Un bilancio che al netto si riduce a 100 milioni “spalmati” in più anni, che sono assolutamente briciole rispetto ai tagli che si sono abbattuti sulla scuola negli anni precedenti. La conseguenza di queste politiche è stata il definitivo mutamento della funzione originaria del contributo scolastico, che oggi sopperisce alla mancanza di fondi.

…e la funzione del contributo scolastico. È evidente come la riforma del ’97 (attuata nel ’99) servì in realtà a preparare il terreno per spostare l’onere di finanziare l’istruzione pubblica dallo Stato agli studenti (e alle loro famiglie). L’aumento dei contributi economici che le scuole chiedono alle famiglie è andato di pari passo con la riduzione dei finanziamenti all’istruzione statale. E infatti molto spesso sono le stesse scuole ad affermare che se i contributi vengono richiesti con sempre più insistenza è a causa della necessità di far quadrare i bilanci e far fronte alla carenza di fondi. Nel complesso, lo strumento tramite il quale si è condotto lo smantellamento della scuola pubblica è stato proprio il contributo scolastico, grazie al quale i governi si sono potuti permettere di finanziare sempre di meno la scuola perché contemporaneamente le famiglie venivano spinte a finanziarla sempre più di tasca propria. La maggior parte dei fondi previsti dal “risanamento” operato da Tremonti sotto il Governo Berlusconi (manovra di circa 60 miliardi) proveniva dai tagli all’istruzione; nella legge di stabilità 2016 del Governo Renzi, le riduzioni ai fondi del Ministero dell’Istruzione sono dieci volte superiori a quelle operate sui fondi degli altri Ministeri. Se in Italia più che in ogni altro paese i governi hanno potuto recuperare i fondi per le operazioni imposte dai diktat europei (salvataggio di banche e monopoli con i fondi pubblici, vincoli su debito e bilancio, ecc) semplicemente tagliandoli dall’istruzione pubblica, è stato perché ciò era reso possibile dalla presenza del contributo scolastico, che ad oggi resta una peculiarità tutta italiana. Analogalmente, se l’Italia è agli ultimi posti in Europa per percentuale di PIL investita nell’istruzione, è proprio perché buona parte del finanziamento della scuola pubblica è stato in realtà scaricato sulle famiglie “autorizzando” le scuole a richiedere il contributo scolastico, una vera e propria tassa d’iscrizione in barba al diritto allo studio. Oggi con la “Buona Scuola” si aggiunge un ulteriore tassello. Il progetto della riforma pubblicato nel settembre 2014, certo più “radicale” (in termini di attacco alla scuola pubblica, sia chiaro!) della legge 107 approvata nell’estate 2015, puntava a costruire una sorta di “simbiosi” fra gli istituti scolastici e le imprese private presenti sul territorio, che avrebbero dovuto sostituirsi allo Stato nell’elargire finanziamenti alle scuole. La riforma infatti, muovendosi in questa direzione, ha introdotto degli sgravi fiscali per le “erogazioni liberali in denaro” destinate alle scuole da soggetti privati. Proprio nel contesto di questa normativa confusa che, come vedremo, tralascia volutamente la differenza fra una generica donazione da parte di un privato e il pagamento di un contributo che la scuola chiede regolarmente ogni anno, prende forma il progressivo disimpegno dello Stato dal finanziamento della scuola pubblica.

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La grande finzione dei “residui attivi” Già a metà del decennio 2000-2010 iniziavano ad accumularsi nei bilanci delle scuole i cosiddetti residui attivi, cioè quelle somme che le singole scuole hanno a credito nei confronti dello Stato, e che in realtà non sono mai state rimborsate dal Ministero dell’Istruzione. Come conseguenza, le scuole hanno anticipato con i soldi delle famiglie le spese che in realtà avrebbero dovuto essere sostenute dallo Stato. La circolare del MIUR del 13 aprile 2012 (prot 2446), che inviava alle scuole istruzioni su come comportarsi “in attesa dell’assegnazione integrativa” di fondi da parte dello Stato, ha legittimato fra le righe l’utilizzo dei soldi dei contributi per coprire le spese, con l’avvertenza di non utilizzare i residui attivi a copertura delle spese, che stava a sottintendere che le scuole non li avrebbero riavuti. I residui attivi, il cui ammontare complessivo resta sconosciuto, sono oggi una finzione che permette di tenere in parità il bilancio delle scuole, che altrimenti, non contando l’elemento variabile costituito dai contributi scolastici, sarebbe in rosso.

La crescente istituzionalizzazione del contributo, fra “autonomia” delle scuole e silenzio dei governi. Da anni le scuole affermano di poter pretendere legittimamente il contributo scolastico dalle famiglie degli studenti in virtù della loro “autonomia”, magari con una semplice deliberazione del Consiglio di Istituto. Questa dell’autonomia è stata, nell’assoluto silenzio dei governi che volutamente non hanno voluto affrontare la questione del contributo scolastico, la principale argomentazione per far accettare l’imposizione del contributo come una vera e propria tassa. Da diverso tempo viene denunciata la tendenza delle amministrazioni scolastiche a ricorrere a vere e proprie minacce e ad atteggiamenti intimidatori o repressivi nei confronti degli studenti che non pagano il contributo. Sono ormai ben note le modalità con cui decine di scuole esercitano pressioni sugli studenti “colpevoli” e spesso puntano ad emarginarli: convocazioni dal Preside, esclusione dalle attività di laboratorio, dalle gite scolastiche o dai corsi di recupero, minacce di iscrizioni “con riserva” o di ritorsioni sul voto di condotta, divieto di ricevere la pagella intermedia alla metà dell’anno scolastico, addirittura pressioni negli ultimi giorni di scuola nei confronti degli studenti in difficoltà cui si lascia intendere che il non pagamento del contributo inciderà sulla promozione o meno. Una realtà diffusa, che nei casi limite più eclatanti ha attirato anche l’attenzione dei media. Negli anni più recenti, tuttavia, in decine di scuole si sta compiendo un vero e proprio salto di qualità nel tentativo di legittimare definitivamente il contributo scolastico agli occhi delle famiglie, con modalità più raffinate. Nel silenzio complice della politica le scuole, ciascuna con metodi differenti e fra i più disparati, stanno introducendo nuovi elementi che legano sempre più il pagamento del contributo all’effettiva iscrizione all’anno scolastico o comunque al percorso di studi dello studente. È il caso di scuole che chiedono un contributo differente a seconda dell’indirizzo di studio che si sceglie, col risultato che alcuni indirizzi costano più di altri (fra tutti si distinguono, ad esempio, gli istituti alberghieri che spesso chiedono contributi molto più alti a chi sceglie l’indirizzo di cucina). In alcune scuole in esubero di iscrizioni, il pagamento del contributo diventa il discriminante per accettare o meno l’iscrizione all’anno scolastico; altre scuole invece spezzano il contributo in una quota “obbligatoria” e un’altra facoltativa; altre ancora arrivano a chiedere di poter visionare l’ISEE (un indicatore del reddito familiare) per poter chiedere un contributo proporzionato alla condizione economica della famiglia. Casi interessanti sono, per citarne altri, quelli in cui l’immersione linguistica (la metodologia CLIL, Content language integrated learning) tanto esaltata dalla “buona scuola”, in altre parole lo studio delle materie in una lingua straniera, viene effettuata con la collaborazione di

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istituti privati (Cambridge, British…) e la scuole chiede agli studenti di pagare un contributo più che raddoppiato per iscriversi alle classi in lingua straniera. In tutti questi casi si evidenzia la crescita del potere impositivo delle scuole, e soprattutto l’avanzata di una logica “privatistica” e contrattualistica dell’istruzione scolastica, che viene sempre più concepita come un servizio da pagare, e che viene erogato in proporzione a quanto si paga.

Le “erogazioni liberali” alle scuole Una legge che disciplina il contributo scolastico non esiste, e anzi l’assenza di una normativa su un fenomeno ormai strutturale della scuola italiana è indice di una precisa volontà politica. Diverse leggi utilizzano l’ingannevole formula “erogazioni liberali”, già utilizzata nella legge Bersani (legge 40/07) che si limitava a prendere atto di una prassi diffusa nelle scuole e sanciva la detraibilità fiscale nella misura del 19% delle erogazioni liberali finalizzate all’innovazione tecnologica, all’edilizia scolastica e all’ampliamento dell’offerta formativa (un apparente vincolo di destinazione, ovviamente mai rispettato dalle scuole), e che viene non a caso ripresa nella “buona scuola” di Renzi. All’art 1, comma 145 della legge 107/2015, che attribuisce ulteriori sgravi fiscali per i versamenti alle scuole, si parla di “erogazioni liberali in denaro destinate agli investimenti in favore di tutti gli istituti del sistema nazionale di istruzione, per la realizzazione di nuove strutture scolastiche, la manutenzione e il potenziamento di quelle esistenti e per il sostegno a interventi che migliorino la occupabilità degli studenti”; precisando al comma successivo che il credito di imposta è riconosciuto “alle persone fisiche nonché agli enti non commerciali e ai soggetti titolari di reddito di impresa”. La volontà di queste formulazioni generiche, come è ormai evidente, è quella di riconoscere unicamente le “donazioni” alle scuole da parte di singoli imprenditori, e assimilare il pagamento dei contributi scolastici da parte delle famiglie degli studenti alle donazioni di simili “benefattori”, fingendo che si tratti della stessa cosa e negando il carattere strutturale di un contributo che viene chiesto ogni anno dalle scuole, nel preciso intento di fingere che non esista. E infatti i regolamenti di alcuni istituti scolastici sono arrivati a distinguere fra le “erogazioni liberali ai sensi della legge 40/07” e il contributo scolastico, definito invece come obbligatorio.

Per difenderci: ecco cosa dicono le leggi e il Ministero dell’Istruzione Nonostante questo indirizzo politico, funzionale al mantenimento dei contributi scolastici come leva per tenere in piedi la scuola statale a spese degli studenti, è possibile ricavare dalle leggi esistenti la natura assolutamente volontaria del contributo scolastico, che può essere definita anche in negativo come l’assenza del riconoscimento di un tale potere impositivo facente capo alle scuole. Certo è che diverse fonti legislative ribadiscono la gratuità dell’istruzione obbligatoria (3° anno di istruzione superiore/16° anno di età), tant’è che le tasse erariali (che cioè si pagano allo Stato), le uniche obbligatorie, si pagano unicamente per le iscrizioni al 4° e/o al 5° anno proprio in virtù della gratuità della scuola dell’obbligo prevista dalla legge (sono la tassa di iscrizione di 6,04 euro e la tassa di frequenza di 15,30 euro, previste dal Testo Unico della scuola n° 297/94, art. 200). Questo permette nell’immediato di riconoscere con assoluta certezza che le scuole non possono imporre i contributi scolastici nei primi tre anni di scuola: sarebbe assurdo, infatti, che nonostante l’assenza di tasse statali in virtù della gratuità della scuola dell’obbligo le scuole possano imporre autonomamente una propria tassa. Un ulteriore passaggio, molto importante, lo si trova in una nota ministeriale, la Nota prot. 593 del 7 marzo 2013, in cui si legge chiaramente che alle scuole non viene

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riconosciuta nessuna capacità impositiva: “la frequenza della scuola dell’obbligo non può che essere gratuita, mentre, per le sole classi 4° e 5° della scuola secondaria di secondo grado, fatti salvi i casi di esonero, essa è subordinata esclusivamente al pagamento delle tasse scolastica erariali. Nessuna ulteriore capacità impositiva viene riconosciuta dall’ordinamento a favore delle istituzioni scolastiche, i cui consigli di istituto, pur potendo deliberare la richiesta alle famiglie di contributi di natura volontaria, non trovano però in nessuna norma la fonte di un vero e proprio potere di imposizione che legittimi la pretesa di un versamento obbligatorio di tali contributi”. Una nota ministeriale non è di certo una legge, ma altrettanto certo è che un Consiglio di Istituto non può deliberare diversamente e imporre una tassa obbligatoria alla stregua della retta di una scuola privata! In un passaggio successivo si fa riferimento, così come nella precedente nota n. 312 del 20 marzo 2012, al “rimborso di spese sostenute dalla scuola per conto delle famiglie” (assicurazioni, ecc…), che sarebbe invece dovuto alle scuole. Tuttavia non sono chiare le modalità con cui questo dovrebbe avvenire, dato che le scuole non accettano certo di comunicare alle famiglie la parte “obbligatoria” del contributo relativa a queste spese. E in ogni caso, difficilmente si può accettare che una nota ministeriale sia sufficiente a stabilire un obbligo oneroso per le famiglie. Al contrario, è vero che proprio questo presunto obbligo di rimborsare questo tipo di spese (in ogni caso assolutamente esigue) è stato utilizzato dalle scuole, in modo assolutamente improprio, come leva per imporre il pagamento del contributo scolastico.

Boicottare il contributo scolastico: le ragioni di una protesta che avanza. La lotta contro il contributo scolastico non è la lotta per ribadirne la natura volontaria, né tantomeno la lotta contro le singole scuole che adottano metodi più repressivi. Questi aspetti riguardano unicamente la parte “difensiva”, cioè la difesa dei nostri compagni di scuola dagli abusi delle amministrazioni scolastiche e dei Presidi sempre più autoritari. Ma la lotta non si può giocare in difesa, e anzi concentrarsi su questi aspetti significherebbe trascurare il passaggio centrale e più importante, vale a dire l’opposizione al contributo scolastico in quanto tale, come forma di tassazione crescente sugli studenti e le famiglie. Il contributo scolastico è stato la leva per imporre tagli sempre maggiori all’istruzione, sostituendo progressivamente le famiglie allo Stato nell’onere di finanziare la scuola pubblica mentre si faceva passare il messaggio che non farlo sarebbe andato a svantaggio dei propri figli. Tirando le somme, è stato proprio il pagare assiduamente i contributi senza mai fare domande a produrre i danni maggiori, visto che oggi si assiste alla totale insufficienza dei fondi statali nel sostenere anche le sole spese ordinarie. L’espressione “truffa dei contributi”, usata da alcune organizzazioni studentesche, è fuorviante perché induce a puntare il dito contro le scuole “colpevoli” di richiedere i contributi tacendo sulla non obbligatorietà, piuttosto che contro i governi che proprio grazie al contributo hanno potuto tagliare indiscriminatamente sulla scuola. Una posizione comoda, che assolve i reali responsabili e si limita a guardare l’albero, non vedendo la foresta. Limitarsi a ribadire la natura volontaria del contributo, magari invitando chi può a “pagarlo, perché le scuole ne hanno effettivamente bisogno”, o anche il miraggio della partecipazione degli studenti alla gestione dei fondi provenienti dai contributi delle famiglie (il c.d. “bilancio partecipato”), sono posizioni assolutamente arretrate e insufficienti dinanzi a ciò che sta avvenendo. Quello che oggi è necessario, al contrario, è organizzare il rilancio dell’offensiva attraverso una battaglia politica organizzata a livello nazionale. Questa battaglia può essere solamente l’organizzazione di un boicottaggio dei contributi scolastici su larga scala, che riesca ad inchiodare

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il Governo alle sue responsabilità, imponendo l’abolizione dei contributi scolastici e il ritorno alla piena copertura dei costi dell’istruzione attraverso i finanziamenti statali. Tanti oggi dicono di opporsi al contributo scolastico, ma negano la necessità del boicottaggio dei contributi come forma di lotta politica, e per questo scadono nella peggior forma di attendismo: ci si oppone al contributo a parole, ma non si fa nulla per combatterlo, limitandosi a sperare che un governo prenda da sé una qualche iniziativa. Al contrario bisogna costruire in tutta Italia il boicottaggio dei contributi, svelando il ricatto che si cela dietro l’idea di pagarli nell’interesse immediato dei propri figli e della scuola, che al contrario è il modo migliore per continuare a sostenere lo smantellamento della scuola pubblica e, in ultima analisi, uscirne tutti sconfitti. È essenziale spiegare che non pagare il contributo scolastico significa urlare a gran voce che non saremo più noi a sostenere la scuola pubblica mentre i soldi pubblici vengono regalati alle scuole private, alle banche o utilizzati per le spese militari. I disagi che inizialmente il boicottaggio provocherà alle singole scuole non bastano a condannare quella che è una protesta di ben più ampio respiro: in ballo c’è il diritto all’istruzione che mai come oggi è seriamente messo in discussione e compromesso per le future generazioni, e non solo la possibilità delle scuole di poter fare fotocopie o fornire una copertura assicurativa È necessario che questa protesta assuma una dimensione di massa: ogni collettivo, ogni studente e persino ogni comitato di genitori dovrà impegnarsi in prima linea per spiegare a tutti qual è la reale funzione del contributo scolastico, spiegare che pagarlo significa rendersi complici dello smantellamento della scuola pubblica, e viceversa non pagarlo significa schierarsi in difesa di una scuola pubblica che sia gratuita e di un diritto allo studio sempre più minacciato dalla scuola di classe che questo sistema sta costruendo.

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