Il Romoletto N° 9

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Anno II - Numero 9 - giugno 2013 - POM! Editori srl

VERSO L’INFINITO E OLTRE

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4 Luglio 2012, ORE 5:00

Oggi un romano è comparso su Marte. Un uomo alto, di portamento nobile, un po’ malinconico.

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Veste comunemente ma sfoggia un paio baffi che non si vedevano in giro da tempo. Parla un discreto italiano. L’espressione imballata, inespressiva, quasi inquisitrice.


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12 settembre

Quando gli hanno chiesto perché avesse scelto proprio Marte per la sua visita, di questi tempi poi, ha mantenuto la sua emblematica espressione.

È decisamente incerto sul tempo della sua permanenza. Non si sente né un colono né un essere speciale, al limite l’esponente di una razza in via di estinzione.

È un uomo di maniere semplici ma compitissime. Sulla sua missione non offre molte spiegazioni e non ne chiede alcuna.

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Osserva, trascrive, trasmette.


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16 ottobre Ogni cosa gli appare in una nuova dimensione. È interessato ai massimi sistemi: quale il nostro futuro? come combattere le malattie, evitare le guerre, assicurare il pane e le rose a tutti? Non parla d’altro. Non è la fine della sua civiltà, ciò che gli interessa, ma un nuovo principio. Attende il levarsi del sipario, impaziente di assistere allo spettacolo che seguirà.

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Non lo turbano i facili profeti, coloro che l’avevano sempre detto, quelli che cercano di riportarlo a più saggi e miti consigli.


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26 novembre

Non partecipa ad alcun ricevimento, a nessuna prima, né a banchetti o aperitivi. Non sente sulle spalle particolari doveri di rappresentanza.

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Le malelingue si spingono a dire che c’è una congiura del silenzio sulle sue intenzioni, ma non è forse questa atavica ritrosia, questa malriposta fiducia nell’Essere invece che nell’Apparire, a condannarlo a una giustificata solitudine?


15 gennaio 2013

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Oggi ha deciso di andare in visita alla Fortezza dell’Inettitudine.


Il Sindaco si è coperto per l’ennesima volta di ridicolo parlando di Marte culla della civiltà. Ci sono stati dei colpi di tosse tra i presenti, qualcuno ha sghignazzato apertamente.

Il Sindaco non ha insistito, limitandosi a elogiare il Patto d’Acciaio con il pianeta Terra e le virtù dell’Asse del Sistema Solare.

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Tutti i presenti ostentavano di non guardare il romano, ben sapendo che lui osservava tutti loro.


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12 febbraio

Ha declinato di far parte di una giuria di artisti e scrittori per l’elezione di Miss Nebulosa. Sino a oggi ha ricevuto circa duemila lettere: per lo più curricula, inviti, segnalazioni, preghiere, partnership. Sono scrittori incompresi, donne deluse, bambini buoni, qualche squalo e molti pesci fuor d’acqua.

In una mail anonima ha trovato una sola parola: cornuto.

Ma arrivano anche missive nelle quali gli si chiede di agire, presto, e lo si rimprovera di perdere tempo prezioso.

La delusione serpeggia.

Ha declinato di far parte di una giuria di artisti e scrittori per l’elezione di Miss Nebulosa. Sino a oggi ha ricevuto circa duemila lettere: per lo più curriculum, inviti, segnalazioni, preghiere, partnership. Sono scrittori incompresi, donne deluse, bambini buoni, qualche squalo e molti pesci fuor d’acqua. In una mail anonima ha trovato una sola parola: cornuto. Ma arrivano anche missive nelle quali gli si chiede di agire, presto, e lo si rimprovera di perdere tempo prezioso. La delusione serpeggia.

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12 febbraio


18 marzo, ore 2:30

Oggi per la prima volta gli ho parlato.

Passeggiava su una landa desolata, battuta dal vento cosmico. Guardava l’atmosfera e si fermava a raccogliere sassolini: qualcuno ne metteva in tasca.

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Si è avvicinato lui, puntandosi un dito sul petto: «Io, romano».


Ho finto la sorpresa. La sua statura, enorme, mi ha sfavorevolmente colpito. Ăˆ troppo alto, incute diffidenza. Tuttavia l’ho invitato a passeggiare insieme e, certo per ringraziarmi, mi ha svelato un’esistenza trascorsa tra grandi crucci e piena di peccati.

Per un attimo soltanto, fuggevole e lieve impressione, ho avuto la certezza che fosse felice.

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La noia della notte, la paura del letto, l’orrore di una stanza nemica lo tengono inchiodato. Mi ha confidato la sua prossima partenza, anche se non ha ancora deciso il giorno e nemmeno la destinazione.


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Il cinema e la narrativa di fantascienza sono prodotti americani nati non dal desiderio collettivo di evasione dalla Terra, ma dal bisogno di una nuova mitologia, suggerita da un romantico terrore del comunismo e forse più ancora dall’assoluta ignoranza del comunismo...Ragni, formiconi, «cose», mostri, che è perfino inutile odiare, poiché è doveroso distruggerli, vista perduta ogni speranza di redimerli. (Ennio Flaiano, 1957)

DIRETTORE EDITORIALE Oscar Glioti VICEDIRETTORE Dario Sbrocca REDAZIONE Roberto Farina, Martina Greco, Simona Greco, Abebe Kibila, Jeff Ffess ART DIRECTOR Valentina Marchionni Alberico Bartoccini EDITORE POM! Editori srl SEDE LEGALE Viale di Tor Marancia 60, 00147 Roma COPYRIGHT Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Attribuzione Creative Commons - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0, ovvero può essere riprodotto a patto di citare la fonte, di non usarlo per fini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza.

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SOMMARIO

LA CITTÀ CHE VORREI

LA CITTÀ DELLA BELLEZZA

La città che vorei è na città dove così, cuanno me va, e me renno conto de sognà troppo...

Un’astronave multicolore atterrata nel centro di Roma: ecco cos’è la terrazza di Jep Gambardella...

di Johnny Palomba

di Roberto Farina

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LA CITTÀ DAI MURI DRITTI

LA CITTÀ DI PUNTO

Nel 1963 la Metro Goldwyn Mayer offrì a John Cassavetes di dirigere un film sulla disabilità...

Ovvero le mirabolanti cronache degli uomini che viaggiarono nelle città della punteggiatura...

di R.Farina/F.Costantini

di G.Caporaso/R.Petruccioli P.76

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COME LANCIARE UNA RIVISTA DI (IN)SUCCESSO IN 33 MOSSE

PARTECIPA AL CONCORSO FOTOGRAFICO

P.90

L’OROSCOPO SENZA FILTRO P.96

di Johnny Palomba

P.98 P. 3

LE MAGLIETTE DI ROMOLETTO

P.94


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LA DECIMA VITTIMA P. 3

Elio Petri, 1965


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LA CITT CHE VO NA CITT


TÀ ORREI È TÀ di

JOHNNY PALOMBA Nato vissuto buono stato sempre garage

TWITTER

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@johnnypalomba


LA CITTÀ CHE VOREI È NA COSÌ, CUANNO ME VA, E M CONTO DE SOGNÀ TROPPO DOVE POSSO GIRÀ IN BICIC DOVÉ PÉ FORZA MORÌ, CHE CITTADINO È NA COSA SPI

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LA C CITT UMP PREN SOTT E SE CHE DOP INAU


CITTÀ DOVE ME RENNO O, NA CITTÀ CLETTA SENZA E, DIMOLO, DA IACEVOLE.

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CITTÀ CHE IO VOREI È NA TÀ DOVE PÉ ANNÀ DA POSTO ANANTRO PUOI NDE NA COSA CHE VA TOTERA CHE VA VELOCE E CHIAMA METRO CHE VA. VA ADDIRITTURA ANCHE PO TRE GIORNI CHE LANNO UGURATA.


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LA CITTÀ CHE SOGNO, E ME BASTA DAVERO POCO, NUN È PIENA DE REGAZZETTI CHE CIANNO TANTA NOSTALGIA DE CERTI TEMPI CUPI E NERI, TROPPO NERI. LA CITTÀ CHE VOREI CIÀ UN SINDACO CHE È UN SIGNORE CHE CUARCHE VORTA ADDIRITTURA DICE “SCUSATE ME SO SBAIIATO” E NOI IE VOLEMO BENE LOSTESSO.


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NA CITTÀ INDOVE ARCOMUNE SI È TUTTI AMICI, TUTTI SOLIDALI. NON TUTTI PARENTI.


IO VOJO NA CITTÀ INDO TRANQUILLAMENTE, IN NUN È UMPOSTO DA SG FILMINO CHE MANCO G

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LA C CITT SOPR NUN AND


OVE CE PONNO STA TUTTI NDOVE UN CAMPO NOMADI GOMBERÀ FACENDO UN GOEBBELS.

NA CITTÀ INDOVE SE VOI ANNÀ A SCIÀ VAI AR TERMINILLO, NO A OSTIA.

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CITTÀ CHE VOREI È NA TÀ SOLARE PIENA DE LUCE RATTUTTO DE NOTTE, PÉ N ESSE COSTRETTI DE DÀ A TENTONI.


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IO VOREI NA CITTÀ INDOVE I PALAZZINARI TUTTA STA GRANDE VOIA DE CEMENTO LA METTESSERO PÉ RICOPRÌ LE BUCHE. TE LIMMAGGINI CHE CUBBATURE?

IO VOREI NA CITTÀ COI RUOLI DEFINITI, I PICCIONI CHE FANNO I PICCIONI I GATTI CHE FANNO I GATTI I SORCI CHE FANNO I SORCI E ERSINDACO CHE FA ERSINDACO.


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LA MIA CITTÀ IDEALE È NA CITTÀ INDOVE INUNABBELLA GIORNATA DE SOLE ME SIEDO SU NA SCALINATA E ME MAGNO ERPANINO COLLA FRITTATA CHE MESÒ PORTATO DA CASA.


VOREI N INDOVE MONNE RACCOR NON I V NO ERS IN PERZ ADDIRIT PENZAT LO SPAZ

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LA CITTÀ CHE VOREI È N MANNÀ TU FIIO ALLASI PEFFORZA CHIAMÀ ERO


NA CITTÀ E LA EZZA LA RGONO VOLONTARI SINDACO ZONA MA TTURA TE UN PÒ: ZZINO.

VOREI VIVE INUNA CITTÀ DOVE PÉ SENTIMME NELLANNI SETTANTA ME VEDO ROMA A MANO ARMATA A CASA NE DIVUDÌ. NON PÉ STRADA CUANNO ESCO.

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NA CITTÀ DOVE SE DEVI ILO NIDO NUN DEVI ODE A LIBBERATTE I POSTI.


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VORREI NA CITTÀ D LEMERGENZA CRIM LEMERGENZA FRED LEMERGENZA CAM LEMERGENZA TIEP LEMERGENZA EME LEMERGENZA SIND LEMERGENZA SALE LEMERGENZA ZAN LEMERGENZA FOIIE LEMERGENZA CAC LEMERGENZA FOR LEMERGENZA TEVE LEMERGENZA MAC


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DOVE NUNCESTÀ MINALITÀ DDO MORRA PIDO ERGENZA DACO E NZARE E CCADECANE RMULA UNO ERE CHINETTE


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LEMERGENZA GAB LEMERGENZA-AMIC IMPROPONIBILE-CH PEFFORZA-DAULLA LEMERGENZA MOV LEMERGENZA VEC LEMERGENZA GIOV LEMERGENZA: INV NEMERGENZA PER LEMERGENZA SE V DINAMICI, MICA INC


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BBIANI CO-DENFANZIAHE-IODDOVUTOAVOROARCOMUNE VIDA CCHI VANI VENTAMOSE RCHÉ CUANNO CÈ VEDE CHE SEMIO CAPACI.


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IO VOREI VIVE DRENTO A NA CITTÀ CHE SE CHIAMAVA ROMA.


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E PEMMÉ LA CITTÀ IDEALE È NA CITTÀ NORMALE DOVE PRESEMPIO CUANNO PIOVE È PERCHÉ PIOVE. CIOÈ CHE PRATICAMENTE CASCA L’ACQUA E NUNÈ CHE STA A ARIVÀ UN TIFONE NURAGANO NO ZUNAMI. È PIOGGIA. ED È ANCHE BELLO VIVE INUNA CITTÀ INDOVE PIOVE COME IN TUTTE LE CITTÀ. PER NUN PARLÀ DE CUANNO NEVICA.


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di

ROBERTO FARINA

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Note a margine de La grande bellezza di Paolo Sorrentino


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U

n’astronave multicolore atterrata nel centro di Roma: ecco cos’è la terrazza di Jep Gambardella. Lui è il comandante e, insieme ai suoi passeggeri, danza sull’abisso. Un abisso di ambizioni meschine, morali decotte, amori morti. Dopo un suggestivo memento mori, il film decolla con una manciata di minuti centripedi che valgono da soli il prezzo di tre biglietti: zombi zavorrati dal botox® trangugiano cocktail e ballano in coro, mentre il vuoto mette a punto il nulla, il vacuo annota il niente e i secoli là fuori scorrono indifferenti. In Jep scintillano barlumi interstellari di un’ironia superba, ma non salvifica. Jep inganna il tempo, consegnando le proprie potenzialità al buco nero della noia. Inganna il tempo, ma non se stesso, perché sa bene che cosa ha perso: nel suo pianeta d’origine il salmastro sala la pelle, preparandola ai baci di ninfe che non invecchieranno mai, come non invecchia il rimpianto dei giorni perduti. Su quel pianeta, la vita gli si è mostrata per quello che avrebbe potuto essere. È forse per non tradire quel paradiso perduto, che Jep ha deciso di consegnarsi a una impietosa galassia straniera. Roma. Jep è da sempre affascinato dal mistero umano, dalla solitudine fasciata di passato (l’odore delle case dei vecchi, Fanny Ardant da sola nella notte) ma ha deciso di perseguire un solo obiettivo: essere il protagonista della mondanità, cioè del nulla in festa. Dopo il precoce successo letterario ottenuto col primo e unico romanzo, si è dato un solo obiettivo: essere l’anima delle feste romane. Essere cioè l’anima di qualcosa che anima non ha. E mentre il tempo come un ratto rode tutto quanto, divorando gioventù, bellezza e pure le curve venusiane di Sabrina

Ferilli, Jep vaga per Roma e si guarda intorno senza giudicare, da flâneur di razza qual è: nessuno è migliore di un altro, tutto si equivale di fronte alla polvere dei secoli. Sorrentino filma così la tragedia dell’accidia. La sua macchina da presa è un microscopio che ingrandisce il dettaglio, con rallentamenti che scompongono tic e abitudini, facendo risaltare la sconfitta morale che li sottende. Lo scenario mostratoci è talmente chiuso e stronzo da sembrare un sogno a occhi aperti di Maria de Filippi e per questo lo aborriamo, anzi peggio: per questo non ci interessa, come non ci interessa sapere, per esempio, cosa sta facendo in questo momento Lapo Elkann. Ma se quel mondo non ci interessa, ci interessa però Jep. Curiosamente, sebbene sia il gran comandante di questa ciurma di campioni della sconfitta, grotteschi libertini di un consumismo-schiavitù, alfieri di una libertà posticcia consapevolmente accettata, eccetera eccetera, e sebbene abbia pure un insopportabile nome baricchesco, curiosamente Jep Gambardella ci piace, perché presenta ai nostri occhi un qualcosa di eroico. Per due motivi. Primo: la sua volontà di sprofondare nel caduco testimonia la totalità di un atto vitale. O tutto o niente. Secondo: egli crede ancora nel diritto all’amore. Nella sua elegante solitudine, Jep ha la statura di un eroe romantico. Un highlander delle passioni perdute, perduto per Roma, a Roma, da Roma. Jep vaga lontano da tutto. Nei suoi occhi brillano le stelle. Sono morte da tempo, lui lo sa, ma che importa, se la loro grande bellezza c’è ancora? Lui lo sa e forse ce lo racconterà in un nuovo romanzo. Forse. La grande bellezza è questo: è un personaggio, è Jep Gambardella.


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Io per Paolo Sorrentino mi sono battuto. A sangue, il mio, colatomi dalla bocca per un pugno sferrato da un Gigrobot tutto anelli, borchie e t-shirt degli Iron Maiden. Ero a casa di un sedicente attore venticinquenne, amico d’una bellona bonbon tatuata e biancovestita che frequentavo all’epoca. Si chiamava Marco e aveva un appartamento in centro, foderato di quadri e di libri raccolti per editore. C’erano tappeti, separè d’epoca, specchi incorniciati. Pure un biliardo. Lui aveva un fisico da pierobadaloni e la faccia a saponetta. Pochi giorni prima aveva terminato un film e, finita la cena a base di tofu e seitan, ci chiese se volessimo vederlo. I cortigiani annuirono solerti. Il più entusiasta fu il Gigrobot di cui sopra, un tizio sui quaranta, barbuto, silenzioso. Marco uscì corricchiando dal salotto e tornò con un dvd. Inseritolo nel lettore, ci avvedemmo che la traccia audio era danneggiata. Incredibilmente, decise di mostrarcelo uguale, con l’ulteriore premura di saltare tutte le scene dove lui non compariva.

Il film era la storia di un giovane che per imbiancare il monolocale nuovo chiede aiuto a un barbone. Tra pennelli e pennellesse, prosecchi e bianchini, il barbone si confida e racconta la sua drammatica vicenda. Il giovane l’ascolta serio serio, con la pennellessa gocciolante in mano. Il barbone guarda lui, lui guarda il barbone, che lo riguarda riguardato. Il tutto con lentissime zoomate sugli occhioni frementi d’entrambi. Etc. Cose così. Finito il film, o meglio: finite le scene del film dove compariva il padrone di casa, seguì la dovuta profferta di complimenti. Quando toccò a me, osai contestare la stucchevole insistenza nei primissimi piani, aggiungendo qualcosa del tipo: “E poi francamente non se ne può più di queste storie in miniatura all’italiana”. “Ah sì?”, disse Marco con un guizzo negli occhi, “e che film si dovrebbero fare secondo te, in Italia?” “Io oggi ne ho visto uno d’un esordiente, L’uomo in più. Mi è piaciuto molto. Una storia ambiziosa e surreale, direi di gene-


George e Mildred. Il primo bacio. Il poster di Carlito’s way. Luci stroboscopiche. Melanzane alla parmigiana. Non ti amo più. Io sì, e ora? Bruno Lauzi che mi salutava. Accasciato sul parquet, la testa ronzante, portai la mano alla bocca indolenzita e raccolsi tutta la mia volontà per scandire un pavarottesco “Figlio di puttana!”. Marco intervenne in difesa del nipotino, gridando in falsetto “Tua sorella!” e scagliandomi addosso un Einaudi di quelli pesanti. Qualcuno intervenne a placcarlo: “Lascia perdere, non ne vale la pena”. Mi alzai e andai in bagno a sciacquarmi la bocca, mentre Gig grugniva di su e di giù. La mia amica bellona bonbon tatuata biancovestita nel tulle arabescato mi seguì. Mentre ero chino sul lavandino, mi disse con serietà battesimale: “Non farti più vedere, hai mancato di rispetto a Marco”. Pausa. “In casa dei suoi genitori, poi”. “E sarebbe un’aggravante? Ma tu non eri una squatter?”. “Cazzo c’entra, togliti dalle palle”. E sparì. Pelle olivastra, occhi nocciola, collo scolpito, piedi nudi, labbra di miele ambrato, capelli da vampira: tutto perduto per sempre. Mi lasciò lì a forbirmi e a guardarmi nello specchio, chiedendomi com’è che Gig era il nipote di Marco e Marco era più giovane di Gig. Quindici anni almeno, ragazzi, tre lustri, tre missioni dell’Enterprise. Una famiglia di pervertiti, senza dubbio. Me ne uscii silenziosamente nella notte stellata, colosso colmo di utile calma (la notte stellata, non io), lasciando i miei nemici in quel salotto alto borghese, dove spero che stiano buñuelianamente marcendo ancora adesso. Perché racconto tutto questo? Per togliermi una spina dal piede, okay, ma anche per sottolineare che Paolo Sorrentino mi è costato sudore e sangue e pure una bella donna e quindi soffro a dover dire quello che sto per dire e cioè che La grande bellezza non è né un sì né un no, ma un gigantesco NI. È un gran bel film, non riuscito.

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re, scritta bene, girata con uno stile forte, moderno. Non la solita storiella intima italiana”. Ma sì, dissi qualcosa del genere. Gig intervenne: “Marco a me il tuo film piace”. Lo disse guardando ME. La discussione su Sorrentino continuò. Marco aveva visto anche lui L’uomo in più e mi fece notare che la scena di apertura, quella dell’incidente subacqueo, era pessima. Su questo aveva ragione, probabilmente. Ma non mollai. “È il film di uno che ha imparato la lezione del cinema americano, almeno. Ce ne fossero”. Marco cominciò a perdere il controllo del diaframma: “E tu vieni qui a criticare il mio film, che racconta storie vere, umane, d’emarginazione, per parlarmi di un filmetto con una storia ridicola che pare presa dai fumetti? Ma tu chi sei, chi ti ha portato qui? Troppi primi piani, dici? E allora Sergio Leone? Storie in miniatura? Ma non lo sai che nel particulare risiede l’universale?” Etc etc. Francamente non ricordo che cosa risposi. So solo che difesi Sorrentino, del quale all’epoca manco conoscevo il nome, a spada tratta e da solo in mezzo ai mormorii di riprovazione dei cortigiani. “Sul particulare non ho un’opinione precisa, lo ammetto. In quanto a Sergio Leone, i suoi non erano primi piani,” conclusi, “erano Primissimi Piani alla Sergio Leone, altra cosa. E poi c’erano sempre lo Stetson e la Colt, mica pennellesse e facce a saponetta”. Marco a quel punto mi artigliò un braccio. Io l’allontanai bruscamente: il tapino traballò su una gamba, con gran mulinar di braccia e occhi strabuzzati, quindi rovinò al suolo. Fu allora che sentii quel grido: “Lascia stare mio zio!”. Mi girai appena in tempo per vedere il pugno di Gig partire verso la mia bocca innocente. Volteggiai in aria, leggero come betulla. Sentii una vocina, la mia, dire “Uh”. Udii un tram in lontananza. Vidi la mamma ripararmi il mangiadischi, nel salotto silenzioso pieno di sole della nostra vecchia casa. Vidi il primo giorno di scuola.


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C’è Jep Servillo Gambardella, va bene, ma intorno a lui si muovono dei personaggi la cui forza non dura più dello scatto alla partenza. Si presentano nervosi come Pietro Mennea sulla pista di tartan e poi, e poi… restano lì, a sciogliersi i muscoli, senza andare da nessuna parte. L’unico che si staglia sugli altri è Romano, lo scrittore interpretato da Carlo Verdone, ma anche lui convince poco. Romano è l’unico che ancora “ci crede” e dovrebbe quindi essere il buono della compagnia, quello costruttivo. Dovrebbe rappresentare, con la sua sola presenza, un atto d’accusa alla dissoluta mondanità romana. Invece è un povero fesso come tutti gli altri, perché ha obiettivi talmente velleitari da farlo risultare non buono, né innamorato, né costruttivo, ma ambizioso e perdente. È un ambizioso da quattro soldi, un perdente senza qualità con una cotta per una zombi ben stronza. La sua sconfitta (una resa senza condizioni, ma anche un’invettiva: me ne vado, torno al paese, Roma mi ha molto deluso) suona come l’ennesima variante della favola della volpe e l’uva. Troppo facile lasciare quando si perde, oppure quando si vince a metà: la rinuncia ha valore se molli quando il gioco è ancora aperto, del tutto aperto. E poi che cosa speri di ritrovare in provincia? Non lo sai che non c’è un posto dove rifugiarsi? Non lo sai, che Roma è dappertutto? Romano-Verdone non è migliore degli altri perché, sebbene non faccia strettamente parte della combriccola, anche lui porta il marchio della schiavitù. Un

marchio forgiato dalle fatiche fisiche e morali cui si sottopone liberamente, per far breccia in un mondo dove l’eventuale successo è il resto in spiccioli di una vita spesa a leccare culi e a inseguire morti viventi. Morti viventi che hanno rinunciato a credere che l’uomo possa lottare, operare, arginare un poco l’abisso circostante. Ci hanno rinunciato, o forse non hanno neanche mai avuto l’immaginazione per crederlo possibile. Verdone conferisce inoltre a Romano una simpatia naturale che questi, per la sua pusillanimità, non merita. Verdone è quindi sprecato. E poi, vogliamo parlare di altri sprechi? No. Ma verrebbe voglia di piangere come fanno le foche, nel vedere Roberto Herlitzka in un ruolo insipido che pure Montesano ci andava bene. La grande bellezza non accede alla dimensione del tragico e questo lo rende bozzettistico. Anche ne La dolce vita (se proprio vogliamo parlarne) un uomo di provincia arriva a Roma per conquistarla, e ne viene invece conquistato. Anche nella Dolce vita si susseguono personaggi da “società del caffè,” per dirla con Flaiano, “la quale folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere”. Ma perché La Dolce vita ci sembra un film adulto, riuscito, necessario, e La grande bellezza no? Forse perché Fellini affronta il Male sotteso alla dissolutezza e al crollo dei valori, mostrando che la “società del caffè” non è soltanto frivola, ma


E poi il finale della Dolce vita, quando Marcello si ritrova sulla spiaggia a guardare una manta arenata. Quel corpo viscido, agonizzante, mostruoso nel sole, è l’incarnazione di tutto il buio scorso nel film. Marcello ci si specchia. Ma a fianco del mostro, una bambina sorride. Quella bambina non è solo ciò che di puro Marcello con-

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è anche una faccenda maledettamente seria. Un veleno, un tarlo che prepara la tragedia: ciò dona al film sostanza e completezza. Sorrentino questo non lo fa, forse impossibilitato dai suoi personaggi, che, Venditti a parte, sono privi di ogni dimensione tragica. Della Dolce vita si prenda ad esempio il suicidio di Steiner, il quale si spara dopo aver ucciso i suoi due figli, uno dei quali ancora nella culla. Qui c’è la tragedia, e bella grossa, mentre non ce n’è alcuna in un tizio non bene identificato che si dipinge di rosso e poi accelera nella notte come in una canzone di Battisti. Steiner registra i temporali, mica recita lezioni di filosofia al ristorante. E quando muore, l’unica processione che si merita è quella di uno stuolo di paparazzi lanciati all’inseguimento dell’auto della moglie. Questa sì che è disperazione, sbattuta come una manciata di sabbia in faccia allo spettatore, mica Jep Servillo che piange al funerale del giovane suicida, sotto gli occhi perplessi di Sabrina Ferilli, la quale sembra stia chiedendosi se prima di uscire di casa ha controllato i fornelli del gas. Li avrò mica lasciati accesi, eh.


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serva in sé, non è solo la speranza del domani, è anche la fresca folata di un altro mondo, un mondo che non è certo quello della ricca mondanità, ma un pianeta che esiste, insiste e resiste. Sorrentino non solo non affronta la tragedia, ma neanche accenna a quel mondo fanciullesco, salubre, forte, musicale, rabbioso, creativo, estivo, insomma vivente, di cui Roma è brulicante. Il suo film è una finestra aperta su un mondo chiuso. Non compare nient’altro che il salottino borghese in via di decomposizione. Qui sta la grande debolezza della Grande bellezza.


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Ne La Terrazza di Ettore Scola, altra pellicola accostata da più parti al film di Sorrentino, non c’è né granché, di vita. Tutto sa di mestiere, d’inchiostro e di colla. Ma il racconto del disastro d’una generazione è veritiero e vivace, sviluppato per contrasto: mentre i protagonisti passano di sconfitta in sconfitta, ci sono due giovani che si cercano per tutto il film e che alla fine si incontrano, sulla soglia della terrazza, sotto la pioggia, con il futuro davanti; ci sono le mogli dei protagonisti, solide, forti, concrete. Questo rende ogni cosa più autentica. Ne La Grande bellezza invece tutto è mischiato nella fanghiglia della dissolutezza e l’intera faccenda, dopo un po’, non fa più effetto.

La Grande bellezza manca di contrasti. Il contrasto è verità, è vita. La terra morta fa effetto, ma la terra morta puntinata di lillà, vuoi mettere? Le gocce di sudore sulla fronte di Marcello nella Dolce vita, il suo respiro mozzato nel silenzio, quando torna a casa dalla fidanzata appena tradita. Quella sì che è vita. Sorrentino è grande quando racconta Jep. Servillo è grande nel ruolo di Jep. Ma non è sufficiente. Un personaggio non può reggere da solo un intero film.

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All’ennesima passeggiata di Jep Servillo, la gente in sala sbuffa. Ne ha le scatole piene, perché un racconto episodico e frammentario ha forza se è tenuto insieme dall’ordine perfetto del discorso, ordine di cui erano capaci Fellini e Flaiano, ma non Sorrentino e Contarello (il co-sceneggiatore), i quali mettono insieme i tasselli di un mosaico potente, ma confuso, senza incanto né vita. E allora, davvero, a un certo punto ti chiedi: ma perché mi racconta anche questo e quest’altro? Perché? A che?


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Che poi siamo ancora qui a raccontarci le storie dei borghesi perdenti, come se fossero paradigmi di chissà quale fallimento dell’umanità, quando invece sono soltanto rivoli trascurabili del grande fiume della vita. Ma dov’è il vento di Roma, quello che carezzava i capelli di Buster Keaton quando era in città per girare un film con Franchi e Ingrassia? Beveva Frascati con gli uomini della troupe. Loro gli tiravano delle gran pacche sulle spalle, “Anvedi che forza sto Keaton!”, poi lui salutava e se ne usciva per le strade, solo, con il cancro in corpo, i manifesti mezzo staccati che sbattevano sul muro, e il suo cuore che pure sbatteva. Sono un perdente qui, sono un perdente là, che ne è stato del mio passato, etc.? Niente di tutto questo. Lui andava avanti a fare tutto ciò che deve essere fatto, fino alla morte, senza tante storie, indomito come un cosacco di Tolstoj. I lampioni erano piegati come fiori su di lui. Roma gliene faceva dono.

La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Con Roma e Toni Servillo. Dei romani giusto l’ombra.


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lagrannebbellezza chenfatti arfontanone cestanno certe pischelle che cantano na canzone damedeominghi enfatti more un giapponese eallora poi cestà na festa de mignottoni mignottonissimi e poi cestà erpiù mignottone de tutti che se chiama gep che è tipo no scrivitore che viè da afragola e che se penza: ma che cazzo ne sapete voi io so gep e voi nun sete ncazzo io so er più granne de tutti e ve lo posso dimostrà cuanno che me pare er probblema è che nu mevà eallora poi gep vangiro pé roma sur tevere vico ai palazzi palazzissimi però solo arcentro enfatti incontra tutti dei personaggetti colle ogan chenfatti allora gep cammina e vede le sore e se da na grattata eppoi va aristorasnte e cestà antonellovenditti coi capelli ripassati colluniposca nero che magna da solo eallora ariva inesorabbirmente nantra grattata e poi la morte apportasse via umpo’ deggenete eallora infatti gep sta inzieme allamichi sua e parlano sur terazzo de casa de scaiola della vita der monno dellarte de tutta na serie de argomenti argomentissimi poi ariva na sora secca e antica che sta ai carci de rigore colla morte mapperò so tutti morto scoiionati eallora lui fa tutta na riflessione trassé essé e se penza: alla gente normale morta de fame che abbita tipo sua prenestina sur terazzino ie ce vanno i piccioni o i gabbani envece sur terazzo mio è pieno de merda de fenicottero. voi mette? chenfatti navorta so annato a nafesta de gep affreggene. cestava serenagrandi arenata sulla spiaggia.

(Admiral, 18.50 quarta fila, in posizione di decollo)

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tredicigiunnodumilettreddici


a cura di

ROBERTO FARINA Immagini di

FLAVIO COSTANTINI Tutti i contributi sono tratti dal libro LA BALENA IN FIAMME Š2013 Cooperativa Sociale Case Pionieri I proventi derivanti dalla vendita del libro saranno reinvestiti in progetti sociali senza costituire alcuno scopo di lucro.

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www.casepionieri.org


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N

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el 1963 la Metro Goldwyn Mayer offrì a John Cassavetes di dirigere un film sulla disabilità: Gli esclusi. Il regista precedentemente scritturato, Jack Clayton, aveva dovuto improvvisamente abbandonare il progetto e poiché Cassavetes era sotto contratto con la Metro e al momento era disoccupato, la produzione pensò a lui, sebbene avesse fama di uomo difficile. Il suo nome era ancora poco noto, ma questo non sarebbe stato un problema, pensò Stanley Kramer, il produttore del film, perché ad attirare il pubblico avrebbero provveduto le due star: Burt Lancaster e Judy Garland. Per prima cosa, Cassavetes rifiutò di utilizzare giovani attori professionisti e insistette per lavorare con bambini disabili provenienti dal Pacific State Hospital di Pomona, California. “Quei bambini ci hanno sorpreso tutti i giorni,” dichiarò Lancaster. “Ho dovuto sintonizzarmi continuamente su di loro, sulle cose imprevedibili che dicevano e facevano.” L’improvvisazione divenne una costante sul set, ma la lavorazione rientrò ugualmente nei tempi previsti. Fu in sala di montaggio che Stanley Kramer cominciò a preoccuparsi sul serio. Sotto i suoi occhi increduli, Cassavetes stava montando un film dove i bambini addirittura sovrastavano Lancaster e la Garland. Ma come, le due star ridotte a fare da spalla a un gruppo di giovani disabili? No, non poteva funzionare. A montaggio concluso, Kramer fece rimaneggiare il film a insaputa di Cassavetes. Come da consuetudine, Gli esclusi fu presentato in anteprima nella sala riservata ai grandi papaveri della Metro. Terminata la proiezione, tutti sembravano soddisfatti. Finanziatori, tecnici e distributori si complimentavano l’un l’altro con grandi strette di mano. Fu allora che Cassavetes, cupo in volto, s’alzò dal suo posto e s’avviò verso l’uscita senza dire una parola. Le sue intenzioni erano di andarsene, come lui stesso dichiarò in seguito, ma, quando passò davanti a Kramer, non resistette. “Devo farlo, o sono morto” si disse. Afferrò per il collo il produttore e urlò: “Togli il mio nome da questo film!” Dopodiché gli sferrò un sonoro pugno alla mascella. Kramer, che era cresciuto tra le bande giovanili di Hell’s Kitchen, rispose per le rime e ciò che ne seguì fu una vera scazzottata western. Anni dopo, Cassavetes dichiarò: “Insomma, per quattro mesi ho lavorato su questo film con Stanley Kramer come produttore, poi Kramer mi ha fatto sostituire e ha rimontato il film come gli piaceva. Non trovo che il suo film – è così che considero Gli esclusi, un suo film – sia tanto brutto, ma solo più sentimentale del mio. La filosofia del suo film è che quei bambini sono emarginati e soli... Il mio film, invece, sosteneva che quei bambini non hanno niente che non vada, e che il loro problema è più nostro che loro. Nella mia versione del film la tesi era che non c’è nulla di sbagliato in quei bambini, tranne che le loro facoltà intellettuali sono più basse. Tra l’altro, la verità come la vedi tu, adulto in salute, non è necessariamente la verità”. Ogni discorso sulla disabilità è anche un discorso sulla società. Il punto non è il deficit dell’individuo, ma la risposta della società a questo deficit. Nella Convenzione dell’ONU approvata dall’Assemblea generale il 13 dicembre 2006 si legge che “la disabilità è parte della diversità umana”. Sono qui raccolti frammenti di diversità umana: dialoghi, sfoghi, riflessioni e domande di persone con uno svantaggio fisiologico, sul quale negli anni si sono innestate difficoltà psicologiche e sociali. Hanno lo sguardo dei fanciulli, ma gli anni degli adulti. Da qui la loro forza e la loro vulnerabilità. Loro peculiarità è non saper mentire. Qualche bugia qui e là, questo sì, ma la menzogna no: dei fattori genetici o una sofferenza perinatale gli hanno infatti impedito di sviluppare quest’arte. Alcune delle righe che leggerete potranno sembrare ovvie, ma è noto che sono le verità più evidenti a essere spesso dimenticate. Verità come questa: la parola “normale” deriva dal latino “norma”. Presso gli antichi Romani la norma era la squadra del falegname, cioè uno strumento di geometria applicata con il quale si disegnavano gli angoli retti e si tiravano su i muri dritti. Cosa pregevolissima, i muri dritti. Su di essi s’erige la società. Ma gli antichi ci hanno anche insegnato che l’assoluto va cercato nella bellezza, nella bontà e nella verità. Mica nei muri dritti.


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IL PUNTO INIZIALE alessandro

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“tutti che corrono tutti belli in forma sguardo acuto macchine grosse come barche i cellulari tutti sempre al cellulare la via ravizza la via marghera le targhe sui muri notaio medico chirurgo dottore i negozi sempre gli stessi negozi le stesse forme gli stessi palazzi i miei amici vorrei poterli aiutare ma non so come fare sono fatto così non riesco a essere diverso noi siamo quelli che non ce l’hanno fatta ma anche noi abbiamo il diritto di godere di avere un bambino tutti dovrebbero avere un bambino tutti questi signori alla televisione che ci spiegano come va il mondo l’economia belli e sorridenti e i giocatori di calcio pagati con cifre a nove zeri quelli che vendono le collanine quelli che si devono inventare qualcosa per campare tutti a dovere inventarsi qualcosa per campare che tristezza ma anche io vorrei un lavoro una moglie una famiglia mariti mamme bambini chissà come vivono come passano la loro giornata tutti sempre a parlare al cellulare tutti in gamba sempre forti e sicuri agili la via ravizza la via marghera le file di negozi sempre gli stessi negozi le targhe sui muri notaio medico chirurgo dottore ma il punto è un altro il punto è: tu, chi sei?”


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carla, in poltrona. “mi aiuti?” “a fare che?” “e che ne so!” ci pensa su. “a vivere!”

entra maurizio agitato. “scusa stasera sono nervoso! posso sfogarmi con te?” “certo.” “perché mi hanno detto che sarò sempre uno scapolone, e perché mi hanno detto che la nina non mi vuole e che nessuna donna mi vorrà mai? perché, perché?” “chi te l’ha detto?” “la giorgia. io ho tirato un pugno sul tavolo, mi sono tolto gli occhiali e li ho rotti in due, così, paf! ma lei ha continuato!” “gli occhiali? ma se li hai sul naso! giorgia? ma chi è?” “una dell’oratorio!” “oratorio? scusa, ma quando è successo?” “trentacinque anni fa, perché?”

in aula. “se il presente è oggi e il futuro sarà domani, il passato è stato…?” “inutile.”

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“la mia ragazza ideale è mora, alta, bionda.”


alessandro rientra fradicio. “eh, piove, piove, piove sempre! bisogna riparare l’aria! il cielo! i cuori!”

max prepara una macedonia. “qual è il tuo frutto preferito, max?” “la banana. ma sai com’è, nella vita non si può mai sapere.”

marco arriva in classe con un biglietto per l’educatore. “i bambini giocano correndo. le valigie senza parole sono pronte. la balena è in fiamme.”

alessandro.

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“sei disabile quando gli altri scelgono per te.”


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alessandro. “scusa, fammi capire questa cosa dell’immigrazione clandestina, io sono disabile e certe cose faccio fatica a capirle. cioè, allora, uno lascia il suo paese, la casa, la famiglia per venire qui a cercare un lavoro e per il solo fatto che arriva sulle nostre coste e non ha i documenti in regola è un delinquente?” “eh, sì.” “ma è terribile.”

entra marina. “sai che mi è successo oggi? stavo andando da mio fratello e a un certo punto ho visto un tombino! allora mi sono fermata e ho agito d’istinto… ho messo la borsa per terra e poi, piano piano, mi sono attaccata a un coso, là, e piano, piano, sono passata. un signore gentile mi ha ridato la borsa e mi ha detto: ‘tutto bene?’. me la sono cavata anche stavolta! non bisogna mai disperare.”

tema in classe: descrivete alla vostra compagna non vedente il disegno alla lavagna (il disegno raffigura un uccellino e un verme in un prato). il tema di paola “una papera che va nell’erba con i suoi amici a giocare a saltare a fare una bella capriola allegramente. alla sera allegria gioia dei sentimenti voce dell’usignolo alla mia finestra faceva troppo freddo ogni giorno che passa. e giocava e cantava e mi dà tanta gioia e mi fa compagnia nell’erba per saltare con la corda. quando pioveva mi stavo dentro la mia casetta piccola con l’albero così grande. tutte le sere fino all’alba aspettavamo con ansia il suo ritorno. come è bello aspettare gli amici.”

appena sveglio.

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“perché non muoio?”


entra maurizio.

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“oggi ho sognato che il 21 dicembre il mondo finiva. c’era il fuoco e la croce divina in cielo. andrà così?” “no.” “come fai a dirlo? non sei mica il padreterno!” “perché era un sogno.” “ah sì? ho capito. allora diciamo che è questa la regola da assumere: i sogni non si realizzeranno mai. né i belli né i brutti.”


“perché cerchi di aiutarmi? io sono morta. tu sei viva. i vivi non possono capire i morti.”

“sai cosa mi è successo ieri? mi è successa una cosa bellissima! stavo camminando e ho visto sull’altro marciapiede la mia ragazza, allora ho attraversato e ho detto ciao amore! poi l’ho abbracciata forte e l’ho accompagnata a prendere l’autobus...” “e quindi?” “come, e quindi?”

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entra massimiliano. sorride.


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alessandro riceve l’educatore. “eccolo che arriva, il nostro educatore, sempre bello e sicuro di sé! anche io vorrei essere sicuro di me! sempre elegante, anche io vorrei essere elegante! sei in gamba, forte, agile, sguardo acuto… anch’io vorrei essere in gamba! anch’io vorrei avere lo sguardo acuto!” “non invidiarmi ale, oggi mi sento un po’ giù. problemi a casa, sai. e poi mica sono così in gamba come credi.” “come sei bravo a fingere! anch’io vorrei essere così bravo a fingere!”

entra ale. “chiunque esercita un potere di qualsiasi natura tende a stare sulle palle agli altri, perché tutti lo giudicano come uno che vuole sottomettere gli altri...” pausa. “e se ci pensi bene, è un po’ così...” pausa. “per questo mi sta sulle palle la juve.”

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“mi sposi?” “sì, va bene.” “sei felice?” “no, voglio il divorzio.” “ma perché? mi hai appena sposato.” “e va bene. non ti lascio, però ti uccido.”


IL PUNTO FINALE maurizio “mi chiamo maurizio franco. franco è il cognome. sono felice, e lo sono sempre stato. sono nato il 22 ottobre del 1956. era un lunedì. anche il prossimo 22 ottobre sarà un lunedì. il 2012 è tutto uguale al 1956. veramente, sai. da bambino i miei amici mi chiudevano in bagno o nell’armadio a muro. perché lo facevano? avrei dovuto prenderli a sassate, così adesso non ci rimuginerei. non bisogna rimuginare sulle cose, la mente deve digerire, come fa lo stomaco, altrimenti tanto meglio bersi inchiostro da un calamaio, no? sono saggio, vero? la mia canzone preferita è la prima cosa bella di nicola di bari, che ha vinto sanremo nel 1970. l’hanno cantata anche i ricchi e poveri. gradirei tre panini al salame. il francesino farinoso col salame senza pelle e tagliato a fette molto grosse. da bere prendo una bottiglia d’acqua da un litro molto fredda da frigorifero. per finire un caffè molto lungo con tre bustine di zucchero, grazie. è possibile, vero? senz’altro!” si siede. compone un numero di telefono. con una mano conta gli squilli. “uno, due, tre... pronto francesco! come stai, bene? anch’io bene. come sta maite? bene, vero? il lavoro va bene? anche il mio va bene. francesco io ti ho chiamato perché oggi è il tuo compleanno e voglio farti gli auguri per i tuoi trentanove anni. e poi vorrei dirti una cosa che ti farà certamente piacere: stamattina ho bevuto un caffè alla salute dei tuoi trentanove anni. ho fatto bene a fare questo bel gesto, vero? ho fatto bene, sì? ti fa piacere, vero? senz’altro! senti francesco dov’eri il 22 ottobre dell’anno scorso? perché non mi hai telefonato per farmi gli auguri? ah eri all’estero? va bene va bene va bene. prendi il mio numero di cellulare così al mio compleanno mi telefoni per farmi gli auguri. mi telefonerai, vero? mi telefonerai, vero? mi telefonerai, vero? senz’altro! salutami antonio petilleri! pierfranco quattrocchi lo vedi ancora? è vivo? sai se giuseppe pensabene è ancora vivo? come? va bene, ciao, ciao, ciao, cia...” entra una donna. “ciao luisa, il 21 aprile è il tuo compleanno! sarà un sabato!”

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finisce di mangiare. “tutto bene. sono sazio. perché tre panini sono troppi? tre è il numero perfetto secondo te troppo salame mi manda al creatore? lo dici per la


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mia salute? ci tieni a me, anche se non sono tuo figlio, ci tieni? sei un vero amico. meglio amici che niente, vero? ho un sacco di amici! da un po’ arrivo al lavoro tardi, che ci posso fare, ho il sonno pesante. ma luca mi ha sistemato la sveglia, anche per il sabato e la domenica, così adesso sono a posto, sono a posto per sempre, a tempo indeterminato. mi piace lavorare, mi trovo bene, anche se quando mi chiedono di fare le cose, un po’ mi innervosisco, preferirei fare solo atto di presenza, diciamo così. ma va bene lo stesso. due anni fa ho perso mia madre. un po’ alla volta ce ne andiamo tutti. siamo provvisori. domani la mia casa va all’asta, la vita va presa così. quando una cosa non può andare avanti, bisogna voltare pagina. l’importante è trovarsi tra gente perbene. sei d’accordo? ho detto una cosa saggia, vero? stasera per cena gradirei se possibile un piatto abbondante di spaghetti al pomodoro molto oleosi. è possibile, sì? vero che è possibile? senz’altro! uno, due, tre, quattro... ciao fabrizio, come stai, bene? anch’io bene. il lavoro va bene? anche il mio va bene. fabrizio io ti ho chiamato perché oggi è il tuo compleanno e voglio farti gli auguri per i tuoi trentatré anni. lo sai che il 10 marzo del 1977 era giovedì come oggi? veramente, sai. e poi vorrei dirti una cosa che ti farà certamente piacere: stamattina ho bevuto un caffè alla salute dei tuoi trentatré anni. ho fatto bene a fare questo bel gesto, vero? ho fatto bene, sì? ti fa piacere, vero? senz’altro! ciao fabrizio. uno, due, tre, quattro, cinque, sei... pronto tu sei rosa? ciao come stai? sono maurizio. rosa, come stanno beatrice e patrizia? e come stanno paola, rosalba, mimmo, gianni, annamaria, eliana, erminio, pierluigi e sabrina? bene, sì? anche io sto bene. mi passi beppe? ciao beppe, come stai? bene? anch’io bene. il bambino cresce bene, sì? bravo e vivace, bravo e vivace, bravo e vivace. senti beppe siccome domani è il tuo compleanno ti faccio gli auguri per i tuoi quarantaquattro anni. ti fa piacere vero, si? sì, eh? beppe siccome tutti gli anni, per sempre, ti chiamerò per farti gli auguri, ti fa piacere eh? senz’altro, vero? va bene, va bene, va bene. ciao, ciao, ciao cia... ora vado al centro commerciale a gustarmi un gelato alla stracciatella.i maya dicono che il 21 dicembre del 2012 finirà il mondo. sarà un venerdì. che succederà? in poche parole finirà il mondo? finirà il mondo? no, vero? allora continuerà? nasceranno sempre i bambini? sì? bene, così il mondo va avanti! saranno contenti i genitori.” “e se il mondo finisse davvero?” “pazienza! buona giornata e buon lavoro a tutti!”

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esce e chiude la porta.


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LA CITTÀ D


DI PUNTO Testo di

GIANLUCA CAPORASO Iillustrazioni di

RITA PETRUCCIOLI Tratto dal libro I RACCONTI DI PUNTEVILLE Ovvero le mirabolanti cronache degli uomini che viaggiarono nelle città della punteggiatura.

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©2012 Lavieri edizioni www. lavieri.it


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le case C’era una volta la città di Punto.

La città di Punto era stracolma di confini,

Tutti pensavano che arrivati alla città

recinti e passaggi a livello; enormi mura

di Punto il mondo finisse.

e cancelli la circondavano. Prima ancora

Ma questa convinzione era sbagliata.

di costruire le case e i palazzi gli uomini costruivano frontiere. Le case, poi, erano chiuse come casseforti.

gli uomini e le donne Le donne di Punto erano facili da riconoscere: si muovevano al massimo entro le mura del palazzo in cui abitavano. Gli uomini, invece, andavano in giro con la matita sopra le orecchie ed enormi fogli in mano. La loro unica occupazione era quella di verificare che nessuno spostasse i confini dei propri possedimenti. Queste abitudini durarono per secoli, fino a quando un gruppo di bambini non perse il pallone con cui giocava. Tutti erano convinti che il pallone fosse finito per sempre nel niente, oltre i confini della città. Ma i bambini non accettarono l’idea di aver perso il loro pallone, così, con le torce e le funi, decisero di andarlo a recuperare. E cosa mai scoprirono? Scoprirono che oltre le mura della città c’erano altre città e campagne sconfinate e il mare. Allora tutti smisero di pensare che con la città di Punto il mondo finisse. Le donne furono così felici che per giorni corsero libere avevano mai visto.

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per la città a conoscere i palazzi che non


Gli uomini furono cosĂŹ felici che presero le loro matite e i loro fogli e cominciarono a fare gare per vedere chi riusciva a ridisegnare

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meglio la propria cittĂ .


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le parole Prima di quella scoperta, nella città di Punto le tre parole più utilizzate erano: fine, basta, addio. Dopo la grande scoperta, nella città di Punto le tre parole più utilizzate furono: fine,

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inizio, ciao.


gli amori Per secoli le donne e gli uomini di Punto si erano fidanzati e sposati soltanto dentro i confini dei palazzi in cui abitavano. Dopo la grande scoperta cominciarono a desiderare amori di altre città e così, il sabato sera, a Punto era possibile vedere autobus di persone che partivano per città sconosciute in cerca di nuovi amori. Poi, a notte fonda, il sindaco della città con la sua vecchia matita e il foglio bianco in mano, si recava al capolinea ad aspettare il ritorno degli autobus degli innamorati. Qualcuno non tornava più. Aveva deciso di fermarsi nella città del suo nuovo amore. Qualcun altro, invece, tornava a Punto e portava con sé il nuovo amore. Ogni sabato notte il sindaco, sul suo foglio, faceva l’elenco degli abitanti persi e di quelli guadagnati. L’anagrafe di Punto cambiava ogni settimana. C’era però una cosa triste, che al sindaco non dava pace: il ritorno delle persone che non avevano trovato l’amore. Il sindaco, sul foglio dei suoi appunti, faceva allora l’elenco delle persone da consolare e il nelle loro case a far carezze e coccole.

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lunedì mandava i dipendenti comunali


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furono abbattuti i vecchi muri, i passaggi a livello, le reti di recinzione e i confini e, a ogni incrocio, furono invitati dei cantastorie che, su richiesta dei bambini, ogni pomeriggio raccontavano fiabe e leggende.

i mestieri Dopo la scoperta, i mestieri più richiesti nella città di Punto divennero due: l’autista di autobus e lo scrittore di racconti per bambini. L’autista di autobus portava gli innamorati in giro per le altre città alla ricerca dell’anima gemella. Lo scrittore

il gioco

tastorie racconti sempre nuovi.

Nella città di Punto i giochi più famosi

Quando negli altri paesi seppero di tutta

erano quelli con il pallone. Da quando i

l’importanza che i bambini avevano

bambini, per trovare il loro pallone, aveva-

a Punto, molti decisero di trasferirsi

no fatto la nuova scoperta, gli abitanti della

lì e di portare i loro bambini a conoscere

città giocavano a pallone in ogni modo.

tutte le storie più belle del mondo. Punto,

Nacquero così il calcio, la pallavolo, la palla-

in breve tempo, divenne la città più popo-

canestro, il rugby.

losa e giovane della terra e i loro abitanti,

Ma nella città di Punto, in onore di quei

attorniati dai bambini, furono considerati

bambini, si fece anche un’altra cosa:

i visionari più geniali mai esistiti.

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di storie per bambini, invece, dava ai can-


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i cambiamenti La città di Punto non esiste più come

Dei vecchi abitanti di un tempo non

l’abbiamo conosciuta. Altri cambiamenti

è rimasto quasi più nessuno e se qualcu-

sono avvenuti.

no si troverà a Punto, non potrà sbagliare

Anche la popolazione è cambiata. Molta

nel riconoscerne uno.

gente è partita e gente nuova è arrivata

Sopra il cocuzzolo della montagna,

da paesi lontani. A Punto sono arrivati

a guardare l’orizzonte, troverà un poeta

stranieri dalle città di Puntini Puntini,

che, appena lo riconoscerà come straniero,

di Interrogativo, di Esclamativo, di Punto

lo chiamerà vicino e gli dirà:

e Virgola, di Due Punti e di Virgola. Sono

noi pensavamo che tutto finisse. E invece,

arrivati a Punto e hanno fatto amicizia,

grazie ai bambini, imparammo che le cose

si sono innamorati e si sono sposati

finiscono e ricominciano. Così è la vita. Si

con gli abitanti della città.

tocca il punto e poi si va a capo.


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LA DECIMA VITTIMA

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Elio Petri, 1965


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#1

Avere i Soldi. Disporre di Soldi. Conoscere personalmente chi ha i Soldi.

#2

Conoscere chi ha i Soldi ed è disposto a impegnarli in nome dell’Idea.

#3 Avere l’Idea. #4 Conoscere. Frequentare. Avere amici inseriti, di qua e di là. #5

Chiamare. Chiedere. Assillare. In alternativa: Ungere.

#6

Palla lunga e pedalare.

#7

Pedalare.

#8

Presenziare. Fare pastetta.

#9

Essere concilianti, accomodanti, a modo.

#10 Com’è triste la prudenza. [cit.]

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#11 Pisciare il Dolente Erudito afflitto e impedito da mille meccanismi ostili. #12 Inesorabili e implacabili Stronzi, sempre. #13

Sottile ironia: Non Pervenuta, e in ogni caso Non Paga.

#14

In tempi de guera, ogni buco è ’na trincea.

#15

Le grandi imprese non si compiono da sobri.

#16

Ognuno co’ ’a farina sua ce fa li gnocchi che je pare.

#17

La pubblicità, diceva Flaiano, unisce sempre l’inutile al dilettevole. SE C’È.


#18

Ridefinire il concetto di gratuito.

#19

Prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata.

#20 Il Camerata Kesselring, il Generale Mongolo e il Gran Maestro dei Grigi. Tenerli a mente. Sempre. #21

Ricordarsi che la romanità non è una cittadinanza, ma una professione.

#22 La Rivista di Successo ti ha invitato al suo evento... La Rivista di Successo ha pubblicato qualcosa in... La Rivista di Successo ti ha invitato a mettere mi piace su... #23 La Rivista di Successo Che Cojoni Magari Mori. #24 L’arte è un investimento di capitali, la cultura un alibi. (Flaiano) #25 Ridefinire il concetto di Società. #26 Ridefinire il concetto di Capitale. #27 Ridefinirsi. #28 Li sòrdi che ariveno co’ er trallarallà se ne rivanno cor lallerallero. #29 Contarsi. #30 Il successo si ottiene con la pubblicità e si paga con la prostituzione. (Flaiano) #31 Il successo ottenuto col merito e pagato con l’indifferenza annoia. (Flaiano) #32 Perdere sì, ma alla grande.

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#33 Provare ancora. Fallire ancora. Fallire meglio. (Beckett)


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L'oroscopo senza filtr0

di Johnny Palomba

ARIETE

TORO

Perderete su una panchina una valigetta contenente un milione di euro.

Saturno consiglia una vacanza per ricchi, ma Saturno, se sa, è uno stronzo.

GEMELLI

CANCRO

Verrete declassati da un’agenzia di rating.

Farete la vostra rivoluzione comprando alla bancarella vintage una vecchia tolfa.

LEONE

VERGINE

Perderete il lavoro, ma niente drammi: scriverete su facebook comodamente da casa.

Troverete su una panchina una valigetta contenente un milione di euro. Forti contrasti con i nati sotto il segno dell’ariete.

BILANCIA

SCORPIONE

Settimana fluida. Procuratevi immediatamente dell’imodium.

Non va.

SAGITTARIO

CAPRICORNO

Avrete una lunga discussione con un pesce rosso.

“Beato l’uomo che salta il fosso perché saltando la luna cresce e l’erba resta verde”: cercherete di capire il significato recondito di questa frase per tutto il mese.

ACQUARIO

PESCI

Stanchi della solita vita andrete a vivere in una grotta. Ritroverete voi stessi, i reumatismi e l’artrosi. La Guardia Forestale vi chiederà il pagamento dell’Imu.

Per il vostro compleanno in arrivo un pacco gigantesco. Ma è orchite.


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