Le mie dita ti hanno detto. Sabina Santilli e la Lega del Filo d'Oro

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Sara De Carli

«Per un buon servizio di volontariato, la buona disponibilità d’animo deve farsi coscienza esatta del problema della persona da assistere, per darle l’aiuto a proposito e non mortificare la sua dignità. Ma poi anche la specializzazione non serve a nulla se in fondo non c’è l’amore verso la persona che si vuole aiutare» Sabina Santilli

Le mie dita ti hanno detto

I libri della collana PASSIONI vogliono dar spazio calviniamente a ciò «che inferno non è», farlo crescere facendolo conoscere. Un’azione politica perché ridisegna la dimensione di cittadinanza dell’azione del Terzo Settore. Una collana di resilienza e relianza che racconta e mette in luce “il bene fatto bene” che il mondo variegato del Terzo Settore mette in circolo declinando la crescita del Paese al tempo del futuro prossimo, al tempo cioè capace di farsi prossimo ai diritti di quanti abiteranno il futuro.

Sabina Santilli e la Lega del Filo d’Oro Le mie dita ti hanno detto

SARA DE CARLI, laureata in filosofia, giornalista professionista, lavora a Vita dal 2004. Si occupa soprattutto di minori, famiglia, adozioni, educazione e scuola, disabilità: tutti temi che affronta nella newsletter Dire, fare, baciare. Ha scritto quattro libri per la Lega del Filo d’Oro, che ne raccontano sia le storie sia il modello educativo-riabilitativo. Dal 2013, per Vita, cura la redazione di Trilli nell’Azzurro, il bimestrale della Lega del Filo d’Oro.

Sara De Carli

ISBN 978-88-6153-666-1

Euro 15,00 (I.i.) P

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Le mie dita ti hanno detto Sabina Santilli e la Lega del Filo d’Oro Sara De Carli

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Indice 7 Nota di edizione, di Riccardo Bonacina 9 Il mio ricordo, di Renzo Arbore 11 13 19 29 39 45 53 63 73

Silent night Il montone della Marsica Il ramo potato I grandi sconosciuti L’uccellino azzurro Il filo d’oro Siamo noi Saper stare con tutti Le chiavi dello scrigno

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Le interviste Loda Santilli Pinuccia Manenti Patrizia Ceccarani Rossano Bartoli

117 Cronologia 121 Galleria fotografica

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Nota di edizione di Riccardo Bonacina fondatore di Vita

Ho conosciuto Sabina Santilli un sabato sera nella primavera 1993. Venne a Roma nello studio televisivo di via Teulada da cui andava in onda la trasmissione di cui ero autore, Il Coraggio di vivere, titolo che ben racchiudeva tutta la sua storia e tutto il suo coraggio. Ricordo quella puntata come una delle più belle dirette televisive della mia vita, ricordo la semplicità delle risposte di Sabina e il sorriso di quelle parole restituite tramite il ticchettio su una mano della volontaria che l’accompagnava. Fu in quell’occasione che conobbi meglio l’esperienza della Lega del Filo d’Oro, che della tenacia di Sabina Santilli è un vero frutto, storia generata dalla sua intelligenza, dalla sua instancabile volontà di stare in dialogo con il mondo, dalla sua battaglia per una vera uguaglianza mai rancorosa. La Lega del Filo d’Oro è oggi l’opera che permane di Sabina. La sua è una storia esemplare per la sua capacità generativa, non ci fu contabilità preventiva, non un 7

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progetto con i suoi fogli excel, ma solo il desiderio di vivere appieno la vita e di viverla insieme a tanti altri. Come scrive Maurizio Maggiani: «C’è sempre un uomo, o un’impresa di uomini, ovunque e in ogni tempo, che non rinuncia al suo gesto di bella dignità. La dignità e la bellezza che riparano dalla rassegnazione, dal cinismo, dalla sconfitta definitiva». Ecco, la storia di Sabina, in questo libro raccontata da una giornalista sensibile e dalla grande capacità di scrittura come Sara De Carli, viene proposta da Vita e dalla Lega del Filo d’Oro come lettura corroborante per metterci al riparo da rassegnazione e cinismo. Goethe, con una notazione folgorante per la sua verità persino psicologica, scriveva che «chi non ricorda il bene non può sperare». È proprio così, e così è stato anche per Sabina, chi non ha ricordo di un’esperienza buona, di bene, non può sperare perché la speranza non avrebbe nessun contenuto possibile se non lo sperare “in meglio” che equivale allo sporgersi in avanti sopra un abisso vuoto. Una notazione che dice quale sia il compito proprio del volontariato e dell’associazionismo in questo passaggio d’epoca: quello della disseminazione nel quotidiano e nelle comunità di relazioni buone e di esperienze di bene, esperienze, cioè, che abbiano come contenuto la cura di sé, degli altri, del lavoro e dell’ambiente in cui viviamo. Solo così si nutre la speranza individuale e collettiva. Solo così il volontariato potrà tornare a nutrire la comunità.

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Il mio ricordo di Renzo Arbore

Saluto con grandissimo piacere l’uscita di questa pubblicazione sulla vita di Sabina Santilli, la fondatrice della mia cara Lega del Filo d’Oro. Ho avuto l’occasione di conoscerla e di incontrarla più volte, l’ultima al Quirinale quando il Presidente Scalfaro la insignì dell’onorificenza di Grand’Ufficiale al Merito della Repubblica Italiana, per i trent’anni dalla fondazione. Ho molto ammirato questa donna che ha saputo vivere, nonostante la sua difficile condizione, una vita piena e ricca di soddisfazioni e traguardi personali. Questo libro è anche un modo di ringraziarla per aver trasformato in realtà un sogno, per aver dato il via allo straordinario cammino della Lega del Filo d’Oro e una speranza concreta ai tanti sordociechi che, dopo di lei, hanno trovato nella Fondazione l’unica risposta ai loro problemi.

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Silent night

Nel 1962 il mondo scoprì l’esistenza dei bambini sordociechi. Lo fece attraverso le immagini claustrofobiche e insieme commoventi del film The miracle worker (tradotto in italiano come Anna dei miracoli), che raccontava l’infanzia di Helen Keller, la prima sordocieca che, grazie alla sua insegnante Anne Sullivan e all’istruzione, riuscì a riscattare la propria condizione e a realizzare quello che oggi si chiama “diritto a una vita indipendente”. Andò al college, si laureò, girò il mondo, mise in piedi un movimento di advocacy ante litteram per la promozione dei diritti delle persone disabili. Insomma, diventò un simbolo e un’icona. Appena un anno dopo uscì un libro che raccontava la vicenda di un’altra ragazzina, Laura Bridgman. Di lei aveva parlato anche Charles Dickens nel suo American Notes. Laura fu la prima sordocieca al mondo a comunicare con l’esterno e ricevere un’istruzione, un buon cinquant’anni prima di Helen Keller, anche se non arrivò al suo livello di indipendenza, attivismo, cultura e 11

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fama. Il libro si intitolava The child of the silent night. Negli stessi anni, in Italia, Sabina Santilli imbastiva con pazienza certosina una rete informale di contatti tra i sordociechi italiani, che nel 1964 avrebbe portato alla nascita della Lega del Filo d’Oro, la prima associazione in Italia ad occuparsi di sordociechi. Anche lei era stata una “bambina della notte silenziosa”, proprio come Laura ed Helen. Anche se a lei quel modo di dire non piaceva per niente: «the children of the silent night è una bella espressione poetica, ma non è esatto», scriveva. Sabina è l’Helen Keller italiana, che però quasi nessuno conosce. E la retorica finisce qui. Perché per raccontare Sabina, così come era, per esserle in qualche modo fedele, bisogna sgomberare mente e linguaggio. Quell’atteggiamento di agiografia pietistica l’aveva già liquidato lei, così: «tutti conoscevano ed esaltavano l’ammirazione per l’americana Elena Keller, ma nessuno aveva competenza specifica del problema dei ciecosordi». Il 2 giugno 1968, con la radio che annunciava la morte di Helen Keller, Sabina scrisse un appunto: «Mentre il mondo parla di “miracoli” nei suoi riguardi, noi abbiamo ragione di dire (non senza un risolino sotto i baffi) che è stata invece solo il primo esempio. È infatti normale che un ciecosordo, se non è scemo, può sempre essere una persona normale, purché aiutato in tempo e a proposito». Al netto dei vocaboli che oggi ci urtano, ma che al tempo erano normali, questo fu il sogno di Sabina. E la sua eredità.

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Il montone della Marsica

Nel 1917, quando Sabina nacque, il suo paese aveva appena perso più della metà dei propri abitanti. L’epicentro del terremoto della Marsica, undicesimo grado della scala Mercalli e 30mila morti, fu proprio nella conca del Fucino. Era il 13 gennaio 1915. San Benedetto dei Marsi pianse 2.700 vittime su 4.200 abitanti. Pacifico Santilli e sua moglie Elisa persero due bambini, di due anni e di sei mesi, una figlioccia di cui tutti parlavano come di un «tesoro perduto», e la loro casa. Il paese che Sabina conosce e ricorda è fatto per sempre delle «case antisismiche, tutte nuove, che si allineavano bianche, basse e simmetriche lungo le strade a rete. Costruite secondo i criteri di igiene e le esigenze di vita più elementari, promosse e finanziate dallo Stato immediatamente dopo il terremoto e distribuite alle famiglie colpite, erano casette piccole e semplici, tanto piccole che spesso i più alti dovevano piegare la testa per entrare». Di quelle «baracche realizzate a titolo precario» come in realtà le definiva il regio decreto firmato l’11 febbraio 13

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1915 dal Re Vittorio Emanuele III, senza riscaldamento né gabinetti, nel 2009 i giornalisti accorsi a documentare il terremoto dell’Aquila ne trovarono ancora abitate 1.066, sparse in trentotto comuni della valle del Fucino. A San Benedetto il paese era stato ricostruito più in alto rispetto alla vecchia cittadella, che invece «era ancora tutta cumuli di macerie e case mezze diroccate, adibite a magazzini e depositi agricoli. Ma era aspirazione di tutti ricostruirsi, penosamente ma con entusiasmo, la casa “a valle”». Ciononostante, ricorda Sabina, quando per la prima volta a scuola qualcuno le parlò dell’Età dell’Oro, l’immagine «viva e reale» che le balzò in mente fu proprio quella del suo amato «piccolo paese risorto», dove per via del terremoto «i piccoli pullulavano, gli adulti erano pochi e gli adolescenti pochissimi», dove «tutto era piccolo e semplice, senza pretese di mole e di spazio, dove la vita procedeva a diretto contatto con la natura», e «ogni essere sembrava contento, pago del proprio posto al sole». Sabina nacque il 29 maggio 1917. Prima di lei e dopo il terremoto era già nato Ettore, il fratello preferito, «quello che più di ogni altro mi ha riempito lo spirito della sua immagine e della sua voce, voce che ancora mi dà il timbro a molte parole». Poi fu la volta di altre quattro sorelle e un fratello. Non male per una ragazza che, ultima di nove figlie, il padre «aveva ben disposto di non sposare, per non preparare un corredo in più», destinando «la povera scampolina a servire i fratelli maggiori. Invece tra i suoi fratelli mia madre fu quella che ebbe la famiglia più numerosa e la sola che non ebbe bisogno dell’emigrazione all’estero per procurare benessere 14

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economico alla propria famiglia, anzi possedevamo molto e i miei genitori furono sempre generosissimi con tutti». L’ultima nata è Loda, classe 1926. Dopo mezzo secolo in giro per l’Italia, nel sindacato, a difesa della donna lavoratrice, quando è morto il marito è rientrata a San Benedetto dei Marsi, dove ora vive con la sorella Esterina. Nella casa paterna, che i primi anni è stata anche la sede della Lega del Filo d’Oro, Loda ha sistemato i più di mille documenti dell’archivio privato di Sabina, messo in ordine ritagli, relazioni, appunti scritti a mano da Sabina, scovato le uniche tre persone in Italia in grado di tradurle i plichi in esperanto stenografato lasciati da Sabina e raccolto tutto questo materiale variegato e curioso in un libro, La luce dentro. Il nostro incontro comincia con un ricordo: «Io sono nata dopo la disgrazia, Sabina non mi ha mai visto. Però mi sentiva sempre il viso e diceva “Loda, il tuo viso io non l’ho visto mai, però col tatto sono sicura che somigli a mamma”. Poi mi metteva le mani sulla gola e diceva: “anche la tua voce è quella di mamma”».

Buio pesto senza una voce

A sette anni, nel giro di tre giorni, Sabina perse la vista e l’udito. Era il venerdì santo del 1924. Sabina frequentava la seconda elementare nella scuola del paese e già bazzicava una sarta per imparare a cucire e a far la maglia. Era talmente sveglia che fin dall’asilo sapeva leggere e scrivere: considerando quel che accadde dopo, fu una benedizione. A gennaio, dopo soli tre mesi in prima elementare, la maestra l’aveva promossa direttamente 15

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alla seconda. Il lunedì della settimana santa del 1924, Sabina non si sentì bene. Il martedì mattina, la maestra la mandò a casa: piangeva per il mal di testa. Era meningite. «La sera del giovedì santo, dal letto di mia mamma, diedi un ultimo sguardo attorno. L’indomani mattina, venerdì santo, udii l’ultimo grido, seguito da una sbattuta di porta. Da allora niente più. Fu il buio pesto senza una voce». È Sabina stessa che ricorda quel momento. Lo fece nel 1982, su richiesta degli amici della Caritas di Avezzano, con cui collaborava. Non lo faceva di frequente, né con facilità. In quell’occasione (un’eccezione) fece questa premessa: «Parlerò, come mi è stato chiesto, della mia esperienza personale, sperando che possa essere per gli amici invalidi, un incoraggiamento di più a realizzarsi, qualunque sia l’handicap che portano, e per gli amici in buona integrità fisica, un’occasione per meglio apprezzare il valore inestimabile dei doni che possiedono e trarne motivo di maggiore serenità nella loro vita». In tanti scritti, per raccontare quel fatto che le ha cambiato la vita, Sabina ha lasciato queste uniche tre asciutte righe. «Mi riebbi nella luce azzurrina del Policlinico Umberto I a Roma. Tornai a casa dopo un mese, che appena percepivo la luce del giorno. Per oltre due anni mi arrangiai a fare tutto quello che facevo prima, non volendo accettare di essere ormai cieca e sorda, nonostante che i fatti mi dessero costantemente conferma della cruda realtà», ricorda Sabina. «Tuttavia questo mi servì da incentivo a non atrofizzarmi e per ingegnarmi anzi a fare di tutto per mantenermi su un piano di parità con le altre bambine». Testarda, coraggiosa, 16

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intraprendente, volitiva. O per dirla con le sue parole, «con una tendenza insopprimibile all’attività ma di una taciturnità ostinata (non per nulla mi buscai il soprannome di Montone), laconica sempre nel dare le risposte strettamente necessarie, che non si aveva tempo per le chiacchiere oziose». A soli sette anni, Sabina aveva già ben chiaro in mente un metodo, uno stile, un obiettivo. Non il rimpianto, non il risarcimento, ma la parità con gli “altri”. Da esigere ma anche da conquistare. I tre anni successivi trascorsero così, facendo l’abitudine alla novità. Loda ricorda come «mamma incoraggiò Sabina ad esercitarsi in tutte le sue attività e facesse di tutto per tenerla occupata»: si sbucciava da sola la frutta, lavava i piatti, cuciva vestiti per le sue bambole. A scuola non ci tornò. In famiglia si comunicava con i gesti. Fino a quando Sabina stessa escogitò una soluzione: era passato poco tempo dalla disgrazia, le sorelle della mamma erano venute da Collepietro a far visita alla famiglia, Sabina capiva che in casa c’era qualcuno ma non poteva sapere chi fosse. Provò a dire tutti i nomi delle vicine di casa, ma il fratello con la mano faceva sempre il gesto negativo. Così lei disse a Ettore di portarle il quaderno di scuola e un lapis: tu scrivi i nomi e io ti tengo la mano. «Fu la scoperta di tutti i Cristoforo Colombo che lasciano la bella Europa del chiasso!», ricorda Sabina. «Questo fu il mezzo di comunicazione che mi servì per l’indispensabile, nonché per farmi tardare ancora a riflettere sulla mia situazione. Alla fine, però, dovetti dirmelo franco: ero cieca e sorda».

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Il ramo potato

All’età di dieci anni, Sabina fu la prima alunna del neonato Istituto Augusto Romagnoli, che si chiamava allora Regina Margherita di Savoia. Era la prima scuola in Italia per la specializzazione degli educatori per ciechi. Anche Romagnoli era cieco. Aveva due lauree e nel 1912 aveva coordinato una sperimentazione sulla didattica per ciechi che portò poi alla legge sull’obbligatorietà della loro istruzione. Come Sabina arrivò all’Istituto, da un piccolo paese di contadini, è quasi un mistero. Oggi alla Lega del Filo d’Oro si lavora anche con bambini piccolissimi, di nemmeno un anno. Capita che chiamino genitori di neonati di venti giorni, magari ancora ricoverati in ospedale. Perché subito, appena nasce un bambino con un problema, si cerca, ci si informa, si è consigliati. Negli anni Venti non era così. La cosa più naturale, nel contesto contadino e cattolico della Marsica di allora, sarebbe stata considerare quella di Sabina una disgrazia e rassegnarcisi di una rassegnazione impotente o magari riconsegnata alla volontà divina. 19

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Di tenersela in casa zitta e buona. O di metterla in manicomio se l’isolamento, la solitudine, l’impossibilità di comunicare col mondo e la sofferenza si fossero poi coagulati in insofferenza, frustrazione, rabbia, depressione o rivolta. Andavano così, ai tempi, le cose. E negli anni successivi questo fu, per Sabina, uno scandalo a cui non rassegnarsi, vissuto ogni volta come un dolore personale. «I problemi di questi amici la prendevano sempre più, specialmente quando veniva a sapere che molti di essi venivano internati in manicomio perché venivano considerati malati di mente», ha detto Angela Pimpinella, un’altra sordocieca, ricordando Sabina nella Terza Conferenza Nazionale delle Persone Sordocieche. L’incontro di Sabina con Romagnoli, secondo la sorella Loda, fu un caso. Fu una cugina che viveva a Roma che venne a sapere di quella scuola nuova, apposta per ciechi, e così papà Pacifico – che certo era un uomo che conosceva il mondo, sempre in giro per via della sua attività di commercio di prodotti agricoli, considerato un’autorità in paese per la sua esperienza e il suo buon senso – portò Sabina a Roma con la biga e il cavallo, che in paese li aveva solo lui, facendo almeno novanta chilometri di strada. Se anche fu un caso, i genitori di Sabina certo sono stati pronti ad afferrarlo e a trasformarlo in un’opportunità. Patrizia Ceccarani, psicologa e pedagogista che fin dal 1975 lavora alla Lega del Filo d’Oro e oggi è Direttore educativo riabilitativo al Centro di Riabilitazione di Osimo, lo spiega così: «Ho sempre pensato che Sabina abbia avuto una famiglia un po’ fuori dalla norma per il suo tempo, perché allora era difficile trovare una 20

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famiglia che mirava al massimo dell’istruzione e della libertà per la propria figlia. La reazione più comune sarebbe stata quella di rassegnazione, Gesù ce l’ha data così, invece i primi che hanno cercato un riscatto e che hanno trasmesso a Sabina, così piccola, la voglia di riscatto, sono stati proprio i suoi genitori. Io non credo possa essere stato solo un caso. O almeno credo che, come diciamo oggi, nelle persone c’erano i prerequisiti. Erano pronti ad accettare, accogliere, captare qualsiasi indizio. Io ho incontrato tanti sordociechi arrivati da noi tardi, perché i genitori non hanno mai puntato sulla loro educazione e crescita. Questo discorso è molto importante da un punto di vista tecnico, non solo di storia, e vale anche oggi, perché il patrimonio ambientale, culturale, sociale, famigliare di ciascuno può essere motivo di sviluppo o diventare una barriera in un percorso di autonomia e indipendenza». Sabina stessa ne era profondamente consapevole, quando scriveva che «è un errore togliere dall’ambiente di origine nel periodo di formazione un bambino minorato dei due sensi più preziosi. Solo quando l’ambiente famigliare non si presta all’educazione per miserie morali e materiali, allora soltanto ammetto la necessità dell’istituto». O che «l’istituto è un mondo troppo ristretto in fatto d’occasioni di contatti: perciò, qualora l’ambiente famigliare si presti, è di gran lunga preferibile. Non è vero che tutti i genitori siano pieni di pregiudizi e di pessimismo: ve ne sono di veramente intelligenti, disposti a tutto per la loro creatura, purché siano illuminati e guidati da una persona competente». In quel primo incontro con la piccola Sabina, il 21

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professor Romagnoli cercò innanzitutto di valutare se oltre alla perdita dei due sensi ci fosse nella bambina anche qualche ritardo intellettivo. Lo fece in maniera molto semplice ed empirica. Le mise nelle mani vari oggetti della vita quotidiana, e Sabina pronta pronunciò sempre, seppur con voce ormai poco abituata a parlare, il nome esatto dell’oggetto. Un anello, un orologio, riconosceva tutto. Allora Romagnoli decise di accettarla nella sua scuola. «Quando lui disse sì, la mamma ebbe un attimo di sconforto», racconta Loda. «No, non la lascio. Poi lui fece l’esempio della potatura. Sapendo che noi venivamo dal mondo agricolo, disse a mia madre: “Signora, quando lei pota i rami, le spiace tagliare, perché sono belli. Però poi sa che la pianta cresce meglio, viene bella, robusta, fa frutti…”. Mamma era intelligente e capì. Se io me la porto a casa, che le faccio? Che le combino? E accettò». Sabina entrò nella Regia Scuola di Metodo per Educatori dei Ciechi il 28 gennaio 1927. Quel primo incontro fu per Sabina una sorta di imprinting metodologico: non si stancherà mai di ripetere che nell’educazione del bambino sordocieco «non basta mettere in mano al bambino uccelli finti o in bassorilievo, per averne l’idea precisa deve toccare i veri, allevarli in gabbie, così pure coltivare le piantine, provarsi un po’ di tutto, perché “fare” per noi è “osservare” ed imparare». Con il professor Romagnoli, scriverà poi Sabina, trovai «tante cose interessanti, che stuzzicavano la mia avidità di sapere, di fare, di apprendere», tanto che «dimenticai medici e medicine portentose, che tra parentesi neppure oggi nell’era spaziale esistono». L’apertura, gli stimoli, gli interessi, i contatti con il mondo 22

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esterno portano Sabina ad accettare la propria condizione e a rifiorire, proprio come un ramo potato.

Mano nella mano

Il primo passo per il riscatto di Sabina fu quello di imparare a comunicare con l’esterno in modo più semplice, rapido, funzionale. Sabina imparò subito sia la scrittura Braille per i ciechi (frequentando poi tutti i corsi, al pari degli altri studenti: era esonerata solo da musica e canto, ma non dalla danza), sia il metodo Malossi. Fu per lei una rivoluzione. La sua mano divenne l’antenna dell’intelligenza e del cuore. Eugenio Malossi nacque nel 1885 e perse vista, udito, olfatto e parola a sette anni, proprio come Sabina, per via di una grave encefalite. Fu lui che inventò il metodo di comunicazione che porta il suo nome e che, ancora oggi, per la sua semplicità e immediatezza è il più diffuso tra i sordociechi italiani. Malossi usò il palmo della mano sinistra come una tastiera, con le lettere dell’alfabeto collocate in punti determinati, sulle varie falangi. Basta toccare quei punti, proprio come battendo sul tasto di una macchina da scrivere (o pizzicarli, quando si ricomincia il giro, per non confondere le lettere messe in posti vicini, come per esempio la p e la a, entrambe sulla prima falange del pollice, o la q e la b, sulla prima dell’indice) per scrivere parole e frasi con una certa velocità. Un ulteriore vantaggio è dato da un guanto, inventato proprio da Sabina, con ricamate sopra le lettere, in rosso e in blu. Quando il sordocieco lo infila sulla mano chiunque, anche un estraneo che non conosce 23

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affatto il metodo, può comunicare direttamente con lui, con la sola semplicissima regola di pizzicare le lettere rosse e battere le blu. Sabina ne fu entusiasta, per tutta la vita. Anche quando, molti anni più tardi, comparvero strumenti più tecnologici, lei – pure sempre così attenta alle innovazioni che potevano facilitare la comunicazione – restò fedele alla semplicità e all’immediatezza di quell’alfabeto a dattilografia sulla mano che aveva reso la sua conversazione «spigliata e corrente». Di ritorno da un congresso a Bournemouth, dove venne presentato un apparecchio svizzero per parlare col Braille ai sordociechi, Sabina raccontò quasi con orrore: «Prima di tutto, dovrei portarmi appresso un impiccio per farmi parlare, povera me! Se non ho mai avuto la pazienza neppure di portarmi una borsetta, se fin da ragazza ho bisticciato perché non volevo mettermi i guanti, che mi coprono o mi impacciano il tatto, impedendomi di cogliere quel minimo che posso indipendentemente… E poi peggio ancora, un apparecchio mi isolerebbe completamente da tutti, perché solo dal contatto – mano nella mano – sento l’anima degli altri, ne intuisco i sentimenti e ne arguisco, spesso anche prima e meglio dei vedenti, il carattere. Una volta ho provato a parlare con una persona che mi dattilografava in Braille: sembrava di parlare con una macchina intelligente, mentre la persona se ne stava come una mummia d’Egitto. Si comprende quale gioia sia per me comprendere gli altri? […] Non è più bello, più pratico, più naturale il mezzo di comunicazione malossiano? Ciò che l’umile Malossi ha saputo attuare nel silenzio e nell’ombra, mi sembra ben più che tante belle idee 24

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esposte con la chiacchiera senza base sperimentale di iniziativa propria, facendo perdere tempo ed energia ai dirigenti delle organizzazioni». A San Benedetto, il primo a imparare il Malossi fu papà Pacifico. Aveva riportato a casa Sabina per le prime vacanze e sentì impellente la necessità di tornate a comunicare in maniera ampia e distesa con la sua piccola. La sera stessa si mise a studiare, insieme ad Ettore, l’alfabeto Malossi. La mattina dopo, quando Sabina si svegliò, ebbe la sorpresa di un “buon giorno” scritto sulla mano dal suo amato papà. Poi in famiglia lo impararono tutti. Fu quella la precondizione non solo per riprendere una vita quotidiana normale ma anche per condividere un impegno. Come ricorda Loda, infatti, «tutti noi, in famiglia, venivamo coinvolti nei desideri, negli ideali e nei progetti di lei che, a volte, ci sembravano inattuabili. Lei al contrario più andava in salita e più teneva duro. Spesso noi sorelle arrancavamo dietro di lei, che tirava dritto senza cedimenti di sorta. Sembrava non conoscere la stanchezza. A noi non restava che sentire la sua sofferenza e condividere la sua ansia di fare qualcosa». Un’altra abitudine appresa negli anni romani e mantenuta per tutta la vita, fu quella di esercitarsi per mezz’ora al giorno a parlare a voce alta, per non perdere la chiarezza della voce e delle parole, per poter parlare con chiunque ma anche per continuare ad arricchire il proprio linguaggio, prima forma di crescita culturale. Alla IV Conferenza Mondiale Helen Keller di Stoccolma, nel 1989, cui Sabina fu invitata a parlare, scelse proprio questo argomento, fino ad allora quasi per nulla 25

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studiato. Parlando dell’abitudine di tanti sordociechi di lamentarsi della propria solitudine, Sabina se ne uscì con una bella strigliata: «Primo, i vedenti non sanno nulla di noi, poi il nostro atteggiamento spesso è poco gradevole. Quando andiamo con quella faccia seria, triste, sembriamo peggio che statue ambulanti e facciamo una cattiva impressione. E la voce? Per sapere che voce fai, mettiti la mano sulla gola e sentirai se urli, se parli col fiato o con voce stridula, o se miagoli come un gatto spaurito».

Un miracolo di volontà

Come già era accaduto per Laura Bridgman ed Helen Keller, anche per Sabina l’educazione aveva fatto un miracolo. Augusto Romagnoli preferiva dire che era lei, Sabina, ad essere un «miracolo di volontà». In effetti, in un manoscritto del 1971 Sabina scrisse che «né io né Helen Keller ci siamo mai posto il problema “non vedo, non sento, non posso fare”, ma abbiamo voluto far tutto come chiunque altro, fino a che non abbiamo urtato con l’impossibilità. Allora, irritate o mortificate, abbiamo voltato le spalle per altre cose». Accanto a questo, però, c’è senza dubbio l’importanza fondamentale dell’educazione (e della rieducazione). Sabina non si stancò mai di insistere sulla necessità di una diagnosi e di una presa in carico precoce, soprattutto nei bambini, perché «non si poteva attendere che questi piccoli perdessero tutta la duttilità ed elasticità ad una educazione». Non a caso, una delle prime attività istituzionali della Lega del Filo d’Oro sarà l’apertura di una scuola 26

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speciale sperimentale, che iniziò ospitando quattro bambini sordociechi, due per classe: Mario, Carlo, Patrizio, Lino. Era il 29 ottobre 1967 e non esisteva in Italia un metodo educativo specifico per bambini sordociechi. Sabina ci mise molto della sua esperienza diretta, fatta con il professor Romagnoli. Già nel 1968 lei stessa e alcune insegnanti dell’Istituto andarono in Olanda, al corso residenziale di nove settimane organizzato dall’Istituto “Voor Doven” di St. Michielsgestel, un istituto per sordi che fin dal 1960 aveva una sezione dedicata specificamente ai sordociechi. La didattica, il metodo, la pedagogia speciale prendono forma pian piano, a livello scientifico, soprattutto nei contatti e negli scambi con le migliori esperienze europee ed americane, tra cui quella Perkins Schools for the Blind che la stessa Helen Keller aveva frequentato. Sabina non era una pedagogista né un tecnico, e altri trasformarono quel sentiero abbozzato in una strada. Ma lei fin dall’inizio aveva fatto una precisa richiesta, inserita nel regolamento: «Per la direzione dell’Istituto medico-pedagogico Nostra Casa è più indicata una direttrice, una donna matura, colta, seriamente formata spiritualmente e moralmente. A rischio di offendere tutti, un uomo non ha mai la sensibilità, la previdenza e la lungimiranza di una donna. Per un istituto come il nostro ci vuole una mamma. Perciò chiedo e desidero che nel regolamento dell’istituto sia specificato “la direttrice” e non “il direttore”». E chiarito che la prima preoccupazione, nell’educare questi bambini, doveva essere quella di aprirli al mondo: «la maggior parte di essi, quando entrano in istituto, sono ancora nel mondo 27

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del piacere e del dispiacere, tanto ripiegati su se stessi da non accorgersi affatto del mondo circostante. Da questo loro mondo chiuso, prima ancora di preoccuparsi del problema del linguaggio, noi dobbiamo farli uscire». Ancora oggi a Osimo la Lega del Filo d’Oro ha due scuole, una materna e una elementare. E l’équipe specialistica multidisciplinare che al Centro diagnostico effettua la valutazione delle abilità e delle caratteristiche della persona sordocieca o con pluriminorazione psicosensoriale per stendere un programma riabilitativo personalizzato, prevede anche un “intervento precoce” per i bambini da 0 a 4 anni, che mira ad agire tempestivamente per rendere più funzionali i residui sensoriali del bambino e a stimolarlo a sviluppare strategie alternative che lo aiutino ad incrementare le tappe del suo sviluppo. Sabina rimase all’Istituto Romagnoli fino al 1938, più di dieci anni. La mamma Elisa morì nel 1936, in tempo per vedere la sua bambina rifiorita. Nel 1939 entrò all’Istituto professionale per ciechi di Firenze: il suo sogno era, a questo punto, quello di guadagnarsi da vivere con un lavoro vero, qualificato, retribuito. La guerra si mise di mezzo, ma non bastò a dissuadere Sabina, che nel 1945 convinse il padre a lasciarla tornare a Firenze per diplomarsi. Il pezzo di carta non lo ebbe mai, per una malattia. Ma, ormai raggiunta l’indipendenza nelle attività della vita quotidiana, continuò sempre a studiare da sola. In particolare imparò le lingue: francese, inglese, spagnolo, tedesco, esperanto, persino un poco di russo. Di lì a poco, così, avrebbe aperto – e non è una metafora – le porte del mondo. 28

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«Per un buon servizio di volontariato, la buona disponibilità d’animo deve farsi coscienza esatta del problema della persona da assistere, per darle l’aiuto a proposito e non mortificare la sua dignità. Ma poi anche la specializzazione non serve a nulla se in fondo non c’è l’amore verso la persona che si vuole aiutare» Sabina Santilli

Le mie dita ti hanno detto

I libri della collana PASSIONI vogliono dar spazio calviniamente a ciò «che inferno non è», farlo crescere facendolo conoscere. Un’azione politica perché ridisegna la dimensione di cittadinanza dell’azione del Terzo Settore. Una collana di resilienza e relianza che racconta e mette in luce “il bene fatto bene” che il mondo variegato del Terzo Settore mette in circolo declinando la crescita del Paese al tempo del futuro prossimo, al tempo cioè capace di farsi prossimo ai diritti di quanti abiteranno il futuro.

Sabina Santilli e la Lega del Filo d’Oro Le mie dita ti hanno detto

SARA DE CARLI, laureata in filosofia, giornalista professionista, lavora a Vita dal 2004. Si occupa soprattutto di minori, famiglia, adozioni, educazione e scuola, disabilità: tutti temi che affronta nella newsletter Dire, fare, baciare. Ha scritto quattro libri per la Lega del Filo d’Oro, che ne raccontano sia le storie sia il modello educativo-riabilitativo. Dal 2013, per Vita, cura la redazione di Trilli nell’Azzurro, il bimestrale della Lega del Filo d’Oro.

Sara De Carli

ISBN 978-88-6153-666-1

Euro 15,00 (I.i.) P

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