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l’adole scenza Come si può stare meglio all’interno di un gruppo, parlare e dare la giusta importanza alle relazioni e quali possono essere i modi per avere una comunicazione più lineare, chiara e priva di fraintendimenti? Dopo la prima edizione del 2008, Dal branco al gruppo inizia un nuovo viaggio, rivolto alla scoperta (o riscoperta) dell’importanza delle relazioni attraverso il significato profondo del “fare gruppo”: stare insieme facendo emergere le risorse individuali e di gruppo, prendere coscienza dei pregi e dei difetti di ciascuno per sviluppare il senso della tolleranza, della solidarietà vera, della fiducia, dello scambio reciproco. Fare gruppo è una scelta consapevole che comporta il mettersi in gioco di ciascuno, il confronto continuo, il dialogo e dare spazio alla giusta struttura di comunicazione facendo “circolare” le abilità positive di ognuno. Questo libro propone una raccolta di giochi e di attività stimolanti – da fare al chiuso e all’aperto in natura – attraverso la metodologia LARA (Laboratorio per le Aggregazioni e le Relazioni con gli Adolescenti) che si pone l’obiettivo di aiutare a lavorare insieme per cambiare e migliorarsi, sperimentarsi gruppo coeso e collaborativo, non solo produttivo. Un gruppo dove tutti possano fare esperienza positiva stando bene con gli altri, in una dimensione di relazioni costruite da ciascuno con autenticità. Silvia Montanari è laureata in sociologia e specializzata in Scienze della Comunicazione all’Università di Bologna. Lavora da più di quindici anni per la Fondazione Adolescere nel servizio “Noi in Collina”, rivolto alle scuole e agli stage LARA. Dopo essersi diplomata alla Scuola per Conduttori di Gruppo di Voghera, è conduttore di gruppo, educatrice e coach, impegnata da anni nell’ambito della formazione e della gestione di gruppi.

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

Silvia Montanari

DAL BRANCO AL GRUPPO 2.0

Manuale di giochi in aula e in natura per la formazione di gruppi

ISBN 979-12-5626-003-4

Euro 18,50 (I.i.)

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Silvia Montanari DAL BRANCO AL GRUPPO 2.0 Manuale di giochi in aula e in natura per la formazione di gruppi

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Indice

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Introduzione Il gioco tra natura e cultura Gioco e natura di Francesca Cortini Gioco e gruppo Il progetto LARA

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Giochi irrinunciabili per la vita di un gruppo 1. Sirene 2. Numeri 3. Il baule 4. I sei cappelli 5. Le sedici cose 6. Il deserto 7. Il dilemma del prigioniero 8. Il Test di Turing 9. Sociogramma 10. La finestra di Johari 11. Gli archetipi junghiani 12. La manutenzione delle relazioni: gli indicatori di benessere 13. Le cinque culture 14. Il Sé professionale 15. Dag

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Giochi in natura 16. Inversione 17. La natura mi presenta 18. I girasoli 19. Alce rossa 20. Scalpo 21. Sedie 22. Esploratori 23. Terre nascoste 24. Orienteering 25. Capanne 26. Bip Bop 27. Toro seduto 28. Albero ritrovato 29. Occhio del lupo 30. Baseball lupetto

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Giochi per crescere insieme 31. L’albero: com’è il nostro gruppo? 32. Tangram 33. Carta d’identità 34. Fotografie 35. Il villaggio turistico 36. Bafa Bafa 37. Il dono 38. Il mercato delle abilità 39. La città ideale 40. La Costituzione 41. La palla 42. I numeri 43. Oggi e domani 44. Il tappeto 45. Star’s power

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Riferimenti bibliografici

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Introduzione

Il primo libro Dal branco al gruppo è stato pubblicato nel 2008, sono passati quindici anni e anche se per certe cose non sembra essere passato così tanto tempo, per altre si può dire che in questi anni è cambiato decisamente il mondo. Sono stati anni di cambiamenti epocali a livello sociale, economico e politico. Abbiamo attraversato una pandemia mondiale, inaspettata, imprevedibile e per molti versi ancora indescrivibile, che ha portato con sé strascichi e cambiamenti nel nostro modo di vivere, di vedere le cose, di percepire l’altro, la natura e il modo in cui l’uomo agisce in situazioni di rischio e pericolo. Le nostre abitudini e i nostri automatismi si sono fermati e congelati, abbiamo dovuto ricominciare e abituarci a qualcosa di nuovo, di diverso. Ci siamo dovuti confrontare – tutti, in un modo o nell’altro – con il cambiamento. Abbiamo dovuto fare i conti con l’inizio di una guerra, poi un’altra; non da ultimo ci siamo trovati nel fango con un’alluvione terribile, che ha colpito non solo la Romagna, la mia terra, ma anche tutti quelli che hanno visto cosa può fare un’incessante pioggia in territori che non sono stati trattati con cura e rispetto. Tutto questo in un periodo già fragile di suo, dove l’aumento delle nuove tecnologie e i rapidi

mutamenti culturali hanno creato grandi insicurezze, ansie, paure e fragilità che spesso non si riescono a sopportare e contrastare. Insieme a tutto questo, sicuramente ognuno di noi ha vissuto qualcosa di personale: la perdita di qualcuno, un cambio di lavoro, momenti difficili. Io ho perso mio padre, colui che inventava giochi e li sperimentava su di me, la persona che mi ha trasmesso la voglia e la volontà di provare a cambiare un po’ il mondo, tendendo al benessere e al trasmettere a più persone possibili come si può stare meglio all’interno di un gruppo, come si può parlare e dare la giusta importanza alle relazioni e quali possono essere i modi per avere una comunicazione più lineare, chiara e il più possibile priva di fraintendimenti. Lui è riuscito a trasformare la sua passione, i suoi ideali, i suoi sogni in un lavoro e come un artigiano me l’ha mostrato e insegnato. Mi ha fatto comprendere cosa voleva dire “andar per gruppi”, mi ha fatto capire l’importanza di approfondire la teoria e poi – prima insieme e poi da sola – mi ha dato la possibilità di sperimentare, di acquisire competenze e conoscenze, di sbagliare e migliorarmi. Dopo il primo libro scritto insieme avevamo tanti progetti, nuovi giochi da inventare, nuovi libri da scrivere… e quindi oggi sono qui, perché penso di avere una grande responsabilità, ovvero portare avanti il suo lavoro, tutto quello che mi ha insegnato, la passione che mi ha trasmesso e la volontà di poter davvero fare qualcosa, di poter aiutare, cambiare e “rendere il mondo un po’ migliore di come l’ho trovato”. Da qui parte quindi un nuovo viaggio, questa volta un po’ più in solitaria, rivolto alla scoperta o riscoperta dell’importanza delle relazioni, di come possiamo crearle e utilizzarle per stare meglio e per arrivare in modo più efficace possibile ai nostri obiettivi. Un viaggio che attraversa il significato del “fare gruppo” e “come si può fare gruppo”, ricorDAL BRANCO AL GRUPPO 2.0

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dandoci che l’insieme è maggiore della somma delle parti, che fare gruppo significa stare insieme facendo emergere le risorse individuali e di gruppo, cioè prendere coscienza dei pregi e dei difetti di ciascuno per sviluppare il senso della tolleranza, della solidarietà vera, della fiducia, dello scambio reciproco, il senso dell’avventura della vita e dei valori. Per fare gruppo è necessario fare una scelta consapevole, che porterà alla messa in gioco di ciascuno, al confronto continuo, al dialogo, lasciando da parte le simpatie o le antipatie, dando spazio alla giusta struttura di comunicazione e facendo “circolare” le abilità positive di ognuno. Un’avventura volta alla conoscenza di quanto il gioco possa essere uno strumento potente ed essenziale per lavorare sui gruppi, per renderli più funzionali, per costruire qualcosa di unico. Una raccolta di giochi e di attività stimolanti da fare al chiuso e in natura, che possano essere d’aiuto a ogni genere di gruppo che abbia voglia di sperimentarsi e di lavorare per cambiare e migliorarsi, per creare un gruppo coeso e collaborativo, che possa essere non solo più produttivo ma che riesca a fare in modo che tutti possano stare bene. Riprendendo le parole di Enzo Spaltro: parlare o scrivere di giochi significa aprire la strada a pensieri contraddittori, come a quelli oscillanti tra giochi e miti. Tra gioco e giochi o tra giocare e giocarsi. E così pensando oscillantemente, ci si disorienta non poco e non si capisce bene dove il nostro pensiero sta andando. Un poco si vuole ed un poco non si vuole la stessa cosa. Un poco ci sembra giusta una cosa ed un poco ci sembra sbagliata. Il pensare al positivo, si mescola al pensiero al negativo. Per parlare di gioco si comincia col giocare coi pensieri. E si finisce col giocare con se stessi. […] Questo è lo scopo di un libro come questo: cominciare col giocare coi pensieri e continuare col giocare con se stessi. Capire bene dove ti porta il gioco e continuare per vie sconosciute in modo da capire come gli uomini costruiscono il mondo in cui vivono. Vanno dove li porta il gioco. Perché questa è la principale destinazione 10

del gioco: costruire il mondo in cui gli uomini vivono. Questo libro propone un qualche modo per giocare e per costruire il mondo circostante. Sinora aveva prevalso il mito. Oggi prevale il gioco.

Infine, un cammino che porta alla scoperta del LARA (Laboratorio per le Aggregazioni e le Relazioni con gli Adolescenti), un’esperienza che dura da più di trent’anni e che si è trasformata in una vera e propria metodologia rivolta ad ogni genere di gruppo di ogni età. Un esempio che possa essere da stimolo per tutti coloro che lavorano in campo educativo, nella scuola, nelle associazioni, ma anche a tutti coloro che devono gestire gruppi di lavoro o più in generale a chiunque si trovi all’interno di un gruppo. Un cambio di prospettiva, un nuovo punto di vista che possa aiutare chiunque a rendersi conto di alcune cose e a voler provare a cambiare e a migliorarsi continuamente. Tutto questo spero possa servire a far nascere la spinta e la voglia in ognuno di noi di ricostruire e sviluppare soprattutto quello che ci fa stare bene, riappropriarsi dei rapporti e delle relazioni autentiche, vivere in maniera diversa e più costruttiva il rapporto con la natura, sapere che insieme agli altri si può fare molto e che l’altro è e deve essere sempre una risorsa, sviluppare una maggiore resilienza, una maggiore fiducia in se stessi e negli altri e, perché no, lavorare per migliorare le politiche sociali. Ecco perché ho deciso di revisionare e riadattare il libro, perché possa essere uno stimolo e una ripartenza, affinché possa offrire strumenti utili, spunti di riflessione e uno sguardo nuovo, possibilista e ottimista per il futuro. Buon viaggio e buona strada a tutti!

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ERA UNA NOTTE BUIA E TEMPESTOSA Lara quella notte non riusciva a dormire; stringeva il suo piccolo al seno, era raffreddato. La caverna che avevano scelto per bivaccare era piccola e umida, gocce d’acqua scendevano da tutte le parti. Era da due giorni che il fuoco si era spento e non si riusciva a riaccenderlo, i bastoncini erano umidi e anche sfregandoli molto non si riusciva a fare in modo che la scintilla della pietra focaia li accendesse; inoltre da alcuni giorni mancava completamente il cibo perché il gruppo dei cacciatori/raccoglitori non era riuscito a catturare alcuna preda. C’era qualcosa che non andava… Lara pensava a ciò che era successo qualche giorno prima, quando la loro tribù aveva sfidato una comunità vicina al gioco del cocco più in alto. Questo gioco, che piaceva molto a tutti i giovani, consisteva nel deporre il maggior numero di noci di cocco il più in alto possibile sugli alberi vicini. Il gruppo di Lara, pur avendo scelto dieci ragazzi molto più forti degli altri, tornò sconfitto alle sue caverne. La spiegazione di questa sconfitta era relativamente semplice: la comunità rivale aveva costituito la squadra inserendo anche ragazze, basandosi non solo sulla forza fisica ma scegliendo alcuni partecipanti con caratteristiche e abilità molto diverse; alcuni di questi, infatti, erano esili ma veloci, altri, pur non sapendo arrampicarsi sui grandi alberi, facevano da barriera per difendere le noci di cocco già raccolte, altri ancora, furbi e scaltri, erano in grado di predisporre trabocchetti per gli avversari. Insomma, invece di presentarsi con una squadra omogenea e forte, avevano organizzato un gruppo con abilità molto diverse tra di loro: in questo modo erano riusciti a vincere il premio tanto ambito. Lara stava pensando che forse per riuscire a sopravvivere avrebbero dovuto ristrutturare i propri gruppi: quelli che si occupavano del fuoco, il gruppo degli esploratori che favoriva gli spostamenti più opportuni e il gruppo dei cacciatori/raccoglitori. Forse era proprio questa suddivisione omogenea che non andava: d’ora in avanti i gruppi sarebbero stati costituiti da persone diverse tra di loro, che, mettendo a disposizione le loro differenti caratteristiche, avrebbero maggiormente garantito la sopravvivenza della loro comunità. Era nato il gruppo come lo intendiamo noi oggi, ovvero come struttura di comunicazione in cui il punto di forza è il riconoscimento della diversità.

“Dopo avere scoperto il gruppo – pensò LARA sospirando – dovrò inventare lo sport per ritualizzare il gruppo… ma questa è un’altra preistoria!”

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Il gioco tra natura e cultura

Introduzione al gioco Noi crediamo che la favola e il gioco appartengano alla fanciullezza: miopi che siamo! Come se in una qualsiasi età della vita potessimo vivere senza fiaba e senza gioco! Certo, li chiamiamo e li consideriamo diversamente, ma proprio ciò dice che sono la stessa cosa, perché anche il fanciullo considera il gioco come il suo lavoro e la fiaba come la sua verità. F.W. Nietzsche Fra i fenomeni che trovano maggiore espressione nella cultura moderna il gioco è sicuramente uno di quelli che si presenta con grande frequenza nella realtà della vita quotidiana. In tempi recenti si è arrivati a una sorprendente diffusione di diversi tipi di gioco, dai giocattoli tradizionali ai giochi di ruolo virtuali, dai giochi d’azzardo ai giochi di simulazione, ma il gioco non è affatto un’invenzione moderna, tutt’altro, il gioco è un fenomeno vecchio quanto l’uomo: esso è la forma stessa della socialità ed è un elemento essenziale di tutti i processi sociali. Giocare è l’esperienza più comune che ci possa capitare, il gioco è presente nelle attività appa-

rentemente più quotidiane, prosaiche o banali della nostra esistenza. Per esempio, nel corso di un solo colloquio con un nostro simile, noi giochiamo con le parole, giocherelliamo con le dita, ma anche “ci giochiamo” in senso stretto la carriera, l’amore, il nostro futuro. Altre volte, e con la massima naturalezza, nel bel mezzo di una situazione seria o impegnata il gioco fa capolino con un ammiccamento, una strizzata d’occhi, una battuta improvvisa o un semplice gesto rilassato. Ancora: noi abbandoniamo deliberatamente le nostre attività serie e decidiamo di entrare in un’altra dimensione. Ci poniamo davanti a una scacchiera, a un tavolo verde oppure in un prato e iniziamo a giocare. Il gioco oggi non è un fenomeno da poter tralasciare, occupa un posto sempre più vistoso nell’esperienza quotidiana. È presente dovunque, nella realtà di ognuno di noi: tutti giocano, più o meno consapevolmente, il gioco è insito nella nostra cultura. È un fenomeno di grande portata e di immensa importanza ed è solo così che deve essere considerato. Non ci soffermeremo sui molteplici studi fatti, sulle variegate definizioni, sulle caratteristiche e sull’evoluzione dei giochi nella storia, ma guarderemo al gioco come fenomeno indispensabile all’individuo, in quanto funzione biologica, e come fattore imprescindibile alla collettività per il senso che contiene, per il significato, per il valore espressivo, per i legami spirituali e sociali che crea, insomma in quanto funzione culturale.

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L’importanza dei giochi nella vita del singolo L’uomo gioca solo laddove è uomo nel senso più pieno della parola e solo là è interamente uomo, dove gioca. F. Schiller Sin dalle origini dell’uomo si riscontra l’importanza dell’attività fisica, dello sport, del gioco. La letteratura antica ci tramanda la necessità del gioco come attività fondamentale per la crescita della persona, per la sua maturazione: l’educazione greca attribuiva infatti un grande valore all’esercizio fisico e alla competizione agonistica, nel corso della quale era il singolo individuo a sfidarne un altro per affermare la propria superiorità, il proprio onore; il momento del gioco, governato da precisi codici e regole, assumeva così una connotazione sociale e culturale. Già Eraclito dichiarava: “Il corso del mondo è un fanciullo che gioca muovendo qua e là i pezzi del gioco”. Platone scriveva che “l’uomo è fatto per essere un giocattolo, strumento di Dio, e ciò è veramente la migliore cosa in lui. Egli deve, dunque, seguendo quella natura e giocando i giochi più belli, vivere la sua vita, proprio all’inverso di come fa ora”. Per Aristotele la società è un grande gioco, nel quale ogni pezzo si muove secondo regole predeterminate. Anche Hegel parla del gioco, dicendo che esso “nella sua indifferenza e nella suprema leggerezza è la serietà più elevata e quella unicamente vera”1. Forse oggi le cose sono molto diverse da allora, le società sono profondamente cambiate, i principi e i valori si sono modificati, ma nel corso della sua movimentata storia l’umanità è comunque sempre riuscita a esprimere la sua ludicità: 1. Cfr. Fink, 1986.

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sicuramente con forme diverse, in tempi e luoghi differenti, ma ogni cultura, ogni individuo non ha potuto fare a meno di capire il significato, il valore e le motivazioni che spingono l’uomo a giocare. Secondo Huizinga, tra i primi a indagare compiutamente questi temi, esiste un collegamento originario tra gioco e cultura; nel suo libro Homo ludens è infatti chiaro che il concetto di gioco si fa coesistente a quello di cultura in tutte le sue forme possibili. Le prime righe di questo saggio sono: il gioco è più antico della cultura, perché il concetto di cultura, per quanto possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni modo convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare. Gli animali giocano proprio come gli uomini2.

Per evidenziare il rapporto tra gioco e cultura è sufficiente riconsiderare i fattori fondamentali del gioco: la lotta, la rappresentazione, la sfida, lo sfoggio, la finzione, la tensione, l’azzardo, la gara, la regola restrittiva. Tutte caratteristiche che sono proprie anche di ampi fenomeni, individuali ancor più collettivi, inerenti all’ambito culturale. È a questo punto facile e immediato cogliere come le grandi attività originali della società umana siano tutte intessute di gioco. Lo stadio, l’arena, il tavolino da gioco, il tempio, la scena, lo schermo cinematografico, il tribunale, rappresentano tutti – per forma e funzione dei luoghi di gioco che illustrano, anche se non esaustivamente, la fitta rete di connessioni esistenti tra gioco e cultura. Si può affermare con certezza che il gioco è uno dei prerequisiti della socievolezza, ed è per questo che il singolo non può sottovalutare il valore di questa pratica. La socievolezza è la forma pura della società, nella quale si manifesta, attraverso forme appa2. Cfr. Huizinga, 1973.

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rentemente superficiali come lo sguardo, il gesto, le forme di cortesia, la conversazione casuale e anche frivola, la disponibilità a incontrarsi con l’altro e a entrare con lui in rapporti di interazione. La socievolezza, scrive Simmel, è un gioco in cui ci si comporta come se tutti fossero uguali e meritassero una considerazione particolare. E per quanto essa sia falsa, non lo è certo di più di manifestazioni che, come il gioco e l’arte, prendono sovente congedo dalla realtà3.

La socievolezza ha quindi un carattere ludico proprio perché crea artificialmente un gruppo di eguali, costruisce similitudini e ricerca esperienze comuni proprio in funzione di un agire e di un sentire comune. L’individuo attraverso il gioco manifesta la sua apertura al mondo. Il gioco è il momento in cui natura e cultura si misurano e si confrontano e da cui scaturisce tanto la processualità del sociale quanto ciò che si sedimenta come fatto societario. L’attore che gioca è il fluire della vita che non si lascia fissare dalle determinazioni della natura, dei bisogni, e da quelle della natura artificiale che egli ha costruito per rispondere ai suoi stimoli più complessi, la cultura. Nel suo gioco con l’altro attore tende a fissare la norma per poi poter giocare proprio con la norma che lo determina. Tutto il fluire della vita può essere rappresentato così, attraverso il concetto di gioco. C’è un gioco della cultura che definisce il macroprocesso attraverso il quale una cultura si fissa e si modifica e c’è un gioco nella cultura che nasce da un desiderio di riappropriazione della realtà da parte dell’attore. È questo atteggiamento di gioco, questa volontà antitetica di cercare la sicurezza della norma e di giocare la norma, di cercare la stabilità delle istituzioni e di sfuggirne la monotonia che rende sempre più stretto il rapporto tra gioco e cultura4. 3. Cfr. Simmel, 1983. 4. Cfr. Mongardini, 1993.

La cultura sorge in forma ludica, la cultura è dapprima giocata. Anche quelle attività che sono indirizzate alla soddisfazione dei bisogni vitali, come per esempio la caccia, nella società arcaica assumono di preferenza la forma ludica. Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme soprabiologiche che le conferiscono maggior valore. Con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo. Quindi si può affermare che, come notato da Huizinga, la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco e viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici. In tale dualità-unità di cultura e gioco, il gioco è il fatto primario, oggettivo, percettibile, determinato concretamente; mentre la cultura non è che la qualifica applicata dal giudizio storico dell’uomo al dato caso. È evidente che le grandi attività originali della società umana sono tutte intessute di gioco: arte, poesia, teologia, scienza, guerra, moda, politica, storia sono tutti ambiti culturali in cui l’elemento ludico è presente e quanto mai indispensabile. Dalla vita del bambino fin nelle massime attività culturali, uno degli stimoli più vigorosi alla perfezione di sé e del proprio gruppo è l’impulso a mostrare la propria superiorità sugli altri, che si manifesta in tante forme quante sono le occasioni offerte dalla vita sociale. Scommesse, processi, votazioni, esami, indovinelli e concorsi sono solo alcune delle forme nelle quali ci si cimenta per dimostrare a se stessi e agli altri il proprio valore e ricevere lodi e onori; dietro a ciascuna di esse c’è la competizione e quindi il gioco: compiere entro un limite di tempo e di spazio, secondo date regole, in una data forma, qualcosa che sciolga una tensione ed esorbiti nel corso normale della vita. Il collegamento gioco-cultura è lampante anche considerando l’aspirazione a superare gli altri, a essere i primi; infatti le conseguenze permanenti DAL BRANCO AL GRUPPO 2.0

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della vittoria al gioco risultano essere importanti fattori di cultura: l’onore, la stima, l’autorità. La competizione è il luogo ideale dove la contaminazione tra gioco e cultura manifesta tutte le proprie implicazioni. Quanto più il gioco è atto a elevare il clima vitale dell’individuo o del gruppo, tanto più intensamente si risolve in cultura. La sacra rappresentazione e l’agone festivo sono dappertutto le due forme in cui la cultura cresce come gioco e in gioco. Si gioca o si gareggia per qualche cosa, ma quel qualcosa non è il risultato materiale dell’azione ludica, bensì il fatto immateriale che il gioco sia riuscito. D’importanza essenziale quindi, in ogni gioco, è il fatto di potersi vantare della buona riuscita di fronte ad altri. Strettamente intrinseco al gioco è il concetto del vincere. Vincere è risultare superiore nell’esito di un gioco. Però l’uomo tende ad allargare il concetto di una superiorità effettivamente dimostrata all’aspirazione di apparire superiore in genere, e con ciò egli ha vinto qualcosa di più del gioco in sé: ha vinto stima, ha ottenuto onore. Si gareggia per riuscire primi in forza o in destrezza, in sapienza o in arte, in pompa o in ricchezza, in generosità o in felicità, in discendenza o in prole. Si gareggia con la forza del corpo, con le armi, con l’intelletto o con la mano, con lo sfoggio, con le grandi parole: ostentando, ingiuriando, arrischiando o, infine, con arguzia e inganno5. Punto di partenza deve essere il concetto di una quasi infantile disposizione al gioco che si esterna in tante forme ludiche; in azioni cioè legate a regole e sottratte alla vita ordinaria, azioni nelle quali si possono sviluppare bisogni innati di ritmo, di alternazione, di gradazione antitetica e di armonia. A quella disposizione al gioco si accompagna un’aspirazione all’onore, alla dignità, alla superiorità e alla bellezza. La cultura comincia non come gioco e non da gioco, ma in gioco. La base antitetica e agonisti-

ca della cultura è resa nel gioco, che è più antico e più originale di ogni cultura. A mano a mano che il materiale culturale si fa più composto, più vario e più esteso, e che la tecnica della vita produttiva e sociale, della vita individuale e di quella collettiva si affinano maggiormente, il fondo di una cultura viene sopraffatto da idee, da sistemi, concetti, dogmi e norme, abilità e usanze che paiono aver perso completamente il loro contatto con il gioco.

5. Huizinga, op. cit., pp. 60-64.

6. Cfr. Bauman, 1999.

Gioco e società Nessuno educa l’altro. Tutti ci educhiamo insieme. P. Freire Guardando la società di oggi sembra difficile affermare che il gioco sia ancora un fenomeno assai diffuso e quanto mai importante. Nella vita odierna sembra non ci sia più spazio per lo svago, per il divertimento, per il sano spirito competitivo; insomma, è come se l’uomo della società contemporanea avesse messo da parte l’attività ludica e avesse deciso di non giocare più. La società dell’incertezza, è così che la società di oggi viene definita. Si tratta di un mondo dai confini sempre più confusi, con mappe di potere sempre più contorte e aggrovigliate, dai confini indefiniti; un mondo dove l’uomo non riesce più a trovare la propria identità, perché non è più sicuro dell’appartenenza alla propria comunità6. La vita quotidiana implica un continuo movimento attraverso confini e soglie: fra pubblico e privato, fra sacro e profano, fra scena e retroscena, fra reale e fantastico, fra realtà interiore ed esteriore, fra individuo e società. Si può so-

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stenere che nel mondo moderno, o postmoderno, questi confini stiano diventando sempre più indistinti nel momento in cui le diverse realtà si confondono tra loro o sono rese omogenee dai media, nel momento in cui le società premoderne altamente ritualizzate – o quelle sulla via della modernizzazione – lasciano spazio a un nuovo ordine sociale e culturale. Ma si può anche affermare che, indeboliti o meno, questi confini e queste soglie esistano ancora e vengano quotidianamente ricreati nelle attività e nella vita delle popolazioni urbane e suburbane, nella cultura popolare, nelle subculture e nella cultura alta, nei continui rituali d’impegno e disimpegno della vita quotidiana7. Inoltre, la sopravvalutazione del fattore economico nella società e nello spirito umano, collegandosi all’efficientismo dogmatico, sembrano aver liberato l’uomo contemporaneo da ogni mistero, incanalandolo in ambiti sempre più controllati e rigidamente programmati; in realtà la forza e la presenza dell’elemento ludico sono particolarmente rilevanti e significative nel mondo d’oggi. Il gioco è parte della vita quotidiana, così come è separato da essa; entrare in uno spazio e in un tempo del gioco significa spostarsi oltre una soglia, lasciarsi qualcosa alle spalle, un certo ordine, e afferrare una realtà diversa e una razionalità definita da regole e azioni proprie. Gli uomini di oggi giocano per lasciare il mondo, ma il gioco non è il mondo, a cui ritornano. Il gioco è uno spazio in cui i significati vengono costruiti attraverso la partecipazione all’interno di un luogo condiviso e strutturato, ritualmente demarcato come distinto e diverso dall’ordinarietà della vita quotidiana, un luogo di sicurezza e fiducia limitate, in cui i giocatori possono abbandonare la vita reale senza correre rischi e impegnarsi in un’attività che è dotata di senso nel suo eccesso governato da regole. 7. Cfr. Silverstone, 2002.

Lo stesso Zygmunt Bauman – importante studioso che si è occupato nei suoi ultimi libri di descrivere come la società di oggi sia mutata, come le persone stesse siano cambiate e come le necessità e i bisogni degli uomini di oggi si siano evoluti – per descrivere la società contemporanea sottolinea la figura del giocatore, metafora da lui usata per descrivere la vita postmoderna. Il giocatore vive in un mondo soffice ed elusivo; ogni partita è una provincia di significato per sé. Non deve lasciare conseguenze durevoli, eppure il gioco deve essere senza pietà. Simile alla guerra, la guerra come gioco assolve gli individui dalla mancanza di scrupoli. Ironicamente il segno della maturità postmoderna è la volontà di abbracciare il gioco a cuore aperto, come fanno i bambini.

Erving Goffman, nel libro Espressione e identità, considera la struttura e la dinamica del gioco come interazione quotidiana, cercando di analizzare il suo ancoraggio nelle regioni profonde dell’essere umano. L’isolamento dell’incontro ludico, la capacità che questo possiede di costruire un universo limpido, leggibile e anche esaltante, dipende dalla capacità delle persone che giocano di togliere gli ormeggi dalla propria vita lavorativa, dalla vita cosiddetta seria, dal profano sociale, per abbandonarsi a leggi del tutto diverse da quelle delle costrizioni del lavoro alienato, a leggi che sono ancorate alla struttura della motivazione, cioè degli istinti. Ciò che trattiene le persone nel gioco, ciò che le assorbe e le sottrae al mondo sono fantasie, desideri e bisogni elementari; sono il bisogno di mettersi a confronto con delle difficoltà, di misurarsi con la fatica e con il rischio, di sfidare il destino. La società razionalizzata, via via che si allontana, nel lavoro alienato, dalla fatidicità reciproca del rischio, via via che richiede fluidi automatismi, tende a rigettare sempre più verso il gioco questi bisogni profondi. Nel lavoro l’uomo non si misura più con il destino, con l’azione fatidica, neppure con le difficoltà: non è destrezDAL BRANCO AL GRUPPO 2.0

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za e coraggio che vengono richieste, ma assuefazione e passività. È per questo che il gioco, per Goffman, si appropria degli anfratti di realtà lasciati ingovernati dalla pervasiva organizzazione della vita sociale diventando una sorta di terra di nessuno in cui si può prendere distanza dai ruoli abituali, talvolta imposti, e in cui si può esprimere la propria identità, soprattutto quella a più diretto contatto con le emozioni8. Carlo Mongardini sottolinea il fatto che, se da una parte il gioco è la forma della socialità ed è vissuto dall’attore sociale come l’elemento d’indeterminazione della situazione, dall’altra – come gioco-istituzione e quindi come rappresentazione astratta e circoscritta di processi reali nei quali compaiono la sfida, il rischio, l’antagonismo e la vertigine – esso è capace di realizzare il miracolo che nella vita reale di oggi nessuna istituzione o nessuna cultura riesce a compiere: quello di fissare le regole, di farle accettare integralmente e senza ripensamenti degli attori sociali, di definire i ruoli e i comportamenti di ciascun giocatore nei processi di interazione. Esso è dunque la rappresentazione di una società astratta, di rapporti istituzionali definitivamente fissati e accettati, all’interno dei quali pure si riproducono le possibilità dell’attore di affermare la propria superiorità sull’altro, di controllare la realtà o di sfidare la sorte: quindi ciò che più propriamente rappresenta il gioco nel gioco9.

8. Cfr. Goffman, 2003. 9. Cfr. Mongardini, op. cit., p. 77.

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Gioco e modernizzazione La storia del mondo non è altro che il progresso della coscienza della libertà. F. Hegel È caratteristico il fatto che più si estende – come in questi ultimi anni – la minuta regolazione della vita collettiva, più gli individui hanno bisogno di nuovi spazi di gioco. Esso è l’espressione permanente del bisogno di semplificazione della complessità della vita quotidiana, di rappresentazione di una società nella quale prevale una maggiore certezza della norma, una maggiore eguaglianza e una maggiore giustizia nonché una maggiore espressione di atteggiamenti come lo spirito di avventura o il rischio, connaturati all’uomo, che spesso non hanno possibilità di manifestarsi nella vita di tutti i giorni. Allora la ricerca di spazi di gioco può essere tanto un ritorno all’età spensierata della fanciullezza quanto la ricerca e la rivendicazione di nuovi spazi di libertà e una sfida alla cultura esistente. Eugen Fink scrive che il gioco rassomiglia a un’oasi di gioia raggiunta nel deserto dell’ulteriore tendere e della tantalica ricerca dell’uomo. Il gioco rapisce giocando: l’individuo si libera per un po’ dall’ingranaggio della vita, è un po’ come trasferirsi su un altro corpo celeste, dove la vita appare più leggera, più aerea, più felice. Il gioco, continua Fink, è un fenomeno fondamentale dell’esistenza, altrettanto originario e indipendente come la morte, l’amore, il lavoro e il dominio. Altrettanto originario e indipendente ma poi diverso dal dominio, dal lavoro, dall’amore e dalla morte, e non solo perché – diversamente da essi – non sembra tendere a un comune scopo finale, ma soprattutto perché il gioco ha la capacità di mettersi di fronte al lavoro, al dominio, alla morte e all’amore e, per così dire, di giocarli10. 10. Cfr. Fink, op. cit., pp. 37-39.

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È bella questa metafora dell’oasi ed è rassicurante pensare che il gioco sia come un’oasi della gioia. Il gioco si presenta in effetti come un’interruzione, una pausa, e al gioco si accompagna una leggerezza, un alleggerimento dal peso dell’esistenza e anche dal peso del mondo. L’oasi di Fink sembra dare l’idea che il gioco sia essenzialmente divertimento. Ma, alla fine del suo saggio, anche Fink riconosce il fatto che l’uomo ogni volta che gioca, gioca il serio, gioca l’autentico, gioca la realtà, il lavoro e la lotta, gioca l’amore e la morte e gioca perfino il gioco11. Tramite il gioco l’uomo arriva all’esaltazione della libertà, della spontaneità; il gioco è diventato uno strumento di educazione, un mezzo per sviluppare le potenzialità dell’individuo, una via per nobilitarsi e acquisire padronanza di sé. Nella cultura di oggi, caratterizzata dall’uso continuo dei media elettronici, gli uomini giocano ancora, con i media e attraverso di essi mentre guardano e sono coinvolti, con più o meno soddisfazione, nelle partite di calcio trasmesse per televisione o nel romanticismo fittizio di un gioco televisivo delle coppie. Guardano la società al replay nei racconti ricorsivi delle soap opera, navigano in Internet scaricando giochi, assumendo dei ruoli con altri giocatori che sono sconosciuti se non per i personaggi che incarnano, alleati e avversari nello spazio virtuale; giocano prendendo vesti di master nei giochi di ruolo virtuali. Assumono piacere dalla falsificazione operata dalla satira, dalle pagine della stampa popolare e dai pettegolezzi. Per quanto possono essere visti come limitati e controllati, questi momenti e spazi per il gioco permettono e legittimano un minimo di incantesimo nelle vite altrimenti disincantate. La gioia della libertà si prova quando giocando si anticipa ciò che può essere e deve diventare diverso, sopprimendo il bando dell’immutabilità di

ciò che esiste. Si gode del gioco e si prova piacere nello stato di sospensione caratteristico del gioco, se da esso sorgono prospettive critiche per il mutamento del mondo; il senso del gioco è allora quello di rendere possibili, con un confronto cosciente, nuovi scenari e alternative per il futuro. Allora non si gioca soltanto con il passato, al fine di sottrarsi per un po’ di tempo da esso, ma si gioca con il futuro, al fine d’imparare a conoscerlo e, per quanto possibile, anticiparlo. La ricognizione degli aspetti ipotetici del mondo futuro rivela quindi la radice profonda del gioco e gli assicura quel grado di serietà che fa della condizione infantile e della condizione adulta i due aspetti, complementari e insostituibili, della medesima condizione umana. È indiscutibile quanto il gioco sia cambiato attraverso i secoli e quanto si sia modificato soprattutto il suo significato culturale; è altrettanto indiscutibile quanto il gioco, anche nella società di oggi, sia un fenomeno di grande rilevanza e di enorme importanza. Il gioco, il divertimento, sono fattori essenziali per l’uomo moderno, fattori che sono caratteristici di quest’era e che non possono essere scissi dal concetto di cultura. Non si può e non si deve guardare al gioco come un’attività fine a se stessa o di scarsa importanza per lo sviluppo socioculturale12. Il gioco in ogni sua forma è cultura, quindi, ogni individuo che s’impegna giocosamente crea cultura. Tutti gli uomini, oggi, dovrebbero avere il diritto di essere giocatori, di avere del tempo per divertirsi, per stare insieme, per ridere, per giocare, perché tutto questo porta alla socialità, al benessere, all’uguaglianza. I comportamenti dell’attore sociale che è chiamato sempre a mediare tra bisogno e cultura, tra la necessità di operare delle scelte e di rivederle continuamente, tra il confronto fra la libertà individuale e i condizionamenti esterni, rendono

11. Cfr. Dal Lago, Rovatti, 1993, pp. 12-13.

12. Cfr. Mongardini, op.cit., p. 100.

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il gioco la forma stessa attraverso la quale la socialità si sviluppa come processo e si sedimenta in forme culturali. È qui che nasce la coscienza e l’idea di società com’è, come dovrebbe essere, come vorremmo che fosse. Il gioco è un’attività naturale delle donne e degli uomini, preziosissima e insostituibile a qualsiasi età: è, secondo le parole di Schiller, ciò che “rende l’uomo veramente umano”. È indubbio che il gioco migliori la qualità della vita dell’individuo e quindi della società, e allora perché non seguire quello che ha scritto Nietzsche: bisogna giocare il grande gioco, bisogna mettere in gioco l’esistenza dell’umanità per raggiungere forse qualche cosa di più elevato della conservazione della specie.

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Giochi irrinunciabili per la vita di un gruppo

I PORCOSPINI DI SCHOPENHAUER Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione39.

Il filosofo greco Aristotele nel IV sec. a.C. scrisse: “L’uomo è un animale sociale, tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società”. Oggi più che mai questa sua affermazione è reale e ci deve far riflettere su alcuni punti fondamentali della nostra quotidianità, della vita e della società. 39. Schopenhauer, 1963.

L’uomo intreccia milioni di relazioni al giorno, rapporti reali e virtuali, appartiene a centinaia di gruppi, parla e comunica in continuazione. L’uomo non è mai solo, volente o nolente, deve continuamente rapportarsi con gli atri. Se è vero che stare insieme agli altri è naturale e innato, è altrettanto vero che non è così semplice e così immediato stare bene con gli altri. Non è scontato riuscire a costituire e formare gruppi che riescano a creare quel giusto equilibrio che permetta a ognuno di sentirsi bene e di utilizzare e potenziare al massimo le proprie abilità al fine del gruppo. Per stare bene insieme agli altri bisogna allenarsi, bisogna acquisire conoscenze e competenze, bisogna essere consapevoli di quello che succede, di come siamo noi e di come sono gli altri, bisogna avere degli strumenti e saperli utilizzare, bisogna capire che cos’è realmente il gruppo e viverlo come la forza più grande che possono possedere gli uomini, come una fonte di energia di scambio, uno specchio per la costruzione della propria identità, un riferimento per la propria consapevolezza. Saper stare e lavorare in gruppo è più che mai una necessità. Se ognuno sta bene all’interno del proprio gruppo di lavoro e non solo, automaticamente il gruppo è più efficace ed efficiente, si raggiungono più facilmente e velocemente i risultati e si impara ad utilizzare la propria energia totalmente per gli obiettivi del lavoro stesso. Fare gruppo non solo permette di ottenere migliori risultati, ma ha anche diversi vantaggi dal punto di vista individuale e sociale. Lavorare insieme in un gruppo aiuta a sviluppare la capacità di ascolto e di scambio di opinioni, rendendo possibile un apprendimento reciproco e la crescita personale. Inoltre, favorisce lo sviluppo di competenze, di collaborazione e di problem solving, abilità fondamentali per il mondo sia della scuola che del lavoro. DAL BRANCO AL GRUPPO 2.0

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Nel fare gruppo, è importante che ciascun membro si senta coinvolto e valorizzato. L’ascolto attivo e l’accettazione delle diverse opinioni sono fondamentali per creare un clima di fiducia e di rispetto reciproco. In un gruppo sano, ognuno ha diritto di esprimere il proprio punto di vista, ma anche il dovere di ascoltare e tenere conto delle idee degli altri. Solo così si può lavorare insieme per raggiungere i risultati prefissati. Fondamentale per il gruppo è la comunicazione, non solo per quanto riguarda lo scambio di informazioni, che dovrebbe essere il più chiaro ed efficace possibile, ma anche come meccanismo e processo nello stare con gli altri. Infatti il gruppo è una struttura di comunicazione consapevole, per fare gruppo occorre comunicare, conoscere e farsi conoscere tramite i punti di forza e i punti di debolezza: ciò significa lasciare sullo sfondo i sentimenti automatici che noi proviamo, cioè le simpatie e le antipatie.

A

C B Figura 2

La Figura 2 può aiutare a capire questo meccanismo: questi sono gli strati della comunicazione. La comunicazione di tipo “A” è una comunicazione “a pelle”, in cui arriva un’informazione e alla quale si risponde in modo quasi automatico. Questa comunicazione è riservata a tutte le persone che si incontrano casualmente, è uno scambio comunicativo soggetto agli automatismi e, 46

in primis, alle percezioni emotive. Nello strato esteriore viene depositata la maggior parte dei condizionamenti che si ricevono dall’ambiente naturale, culturale e sociale in cui si vive. Paradossalmente questa comunicazione è allo stesso tempo superficiale e spontanea, ovvero immediata, pertanto viene utilizzata tra persone che non si conoscono, tra persone che si incontrano casualmente o con quelle a cui non si dà importanza. Vi è poi una comunicazione di tipo “B” in cui si lasciano entrare le informazioni più in profondità, come in un livello intermedio; infatti in questo tipo di comunicazione prima di rispondere a qualsiasi messaggio si lasciano passare alcuni istanti, si fa una breve riflessione e poi si risponde. Questa è la comunicazione di “gruppo”, quella che si dovrebbe utilizzare verso le persone che non si sono scelte, ma con le quali inevitabilmente si trascorre molto tempo, come per esempio la classe o il gruppo di lavoro. Infine vi è la comunicazione di tipo “C”, cioè una comunicazione molto profonda che è riservata alle persone a cui si tiene molto, per esempio gli amici, il partner, i familiari, ecc. Si percepisce il messaggio informativo, che arriva come importante, e quindi si mettono in gioco tutte le proprie consapevolezze prima di fornire una risposta. Anche in questo caso si può parlare di spontaneità, ma il significato cambia molto rispetto alla comunicazione di tipo “A”, ora si tratta di essere veri, di essere se stessi. Ciò che va chiarito molto bene è che la comunicazione di tipo “C” è una comunicazione di “coppia” o “duale”, mentre la comunicazione di tipo “B” è una comunicazione gruppale o plurale. Per le comunicazioni di tipo “A” e “C” siamo già “allenati”, poiché utilizziamo automatismi acquisiti fin dall’infanzia; per la comunicazione di tipo “B”, quella riservata al gruppo, è invece necessario un certo tipo di consapevolezza che possiamo acquisire a cominciare dall’adolescenza.

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Allenarsi quindi a questo tipo di comunicazione diventa fondamentale per la buona riuscita di un gruppo. In conclusione per fare gruppo bisogna essere consapevoli dei suoi vari aspetti, dei processi e dei meccanismi che lo regolano, delle sue funzioni e di tutte le sue sfaccettature. Bisogna impegnarsi e mettersi in gioco, è necessario curarlo il gruppo e prendersene cura, “annaffiarlo”, coltivarlo e non darlo mai per scontato. Per fare gruppo è importante l’impegno e la dedizione di ognuno, l’attenzione nel e per il gruppo, la voglia e la perseveranza di farlo crescere e maturare, la consapevolezza di doversi sperimentare e allenare in continuazione. Sicuramente potrebbe essere faticoso, ma utile e indispensabile per creare una nuova energia, un nuovo modo di stare insieme e un benessere diffuso. In fondo: non c’è gruppo senza futuro e non c’è futuro senza gruppo!

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Numeri

Numero dei partecipanti: minimo 10 Spazi: una sala Difficoltà per il conduttore: bassa Difficoltà per i partecipanti: media Tempi: un’ora Obiettivi • fare esperienza di problem solving e di cooperazione; • esplorare le abilità individuali nella costruzione di una strategia di squadra; • sviluppare un ascolto razionale; • stimolare la creatività di gruppo. Presentazione e svolgimento Occorre dividere i partecipanti in squadre da sei persone: i ragazzi possono scegliersi fra di loro oppure adottare un meccanismo casuale per formare le squadre. Si pongono sei sedie al centro in modo circolare, orientate verso l’esterno e sopra a ognuna viene messo un plico di foglietti numerati, scritti in modo ben visibile, dallo 0 al 9, avendo l’accortezza di segnalare il 6 e il 9 con una riga sotto al numero (6 e 9). Su una lavagna viene costruita una matrice con i nomi delle squadre in orizzontale e i numeri progressivi delle manches che verranno effettuate, circa 4 o 5 a discrezione del conduttore. I quadrati che derivano dalla matrice verranno divisi a metà con una linea diagonale, formando quindi due triangoli, uno superiore e uno inferiore: nella parte superiore verrà scritto il numero che il conduttore chiamerà, nella parte inferiore verrà segnata la somma che sarà realizzata dalle squadre. Svolgimento del gioco: a turno le squadre siederanno sulle sedie poste al centro e il conduttore chiamerà un numero da 1 a 54 (se la squadra è composta da 6 persone); senza consultarsi né guardarsi i ragazzi dovranno alzare un numero ciascuno, in modo che la somma dei numeri alzati corrisponda al numero chiamato. Il conduttore quindi segnerà nel triangolo superiore della matrice il numero chiamato e nel triangolo inferiore la somma che è risultata dall’alzata dei numeri. A questo punto viene lasciato un po’ di tempo affinché ogni squadra decida la propria strategia per realizzare l’obiettivo, e quando le squadre si dichiarano pronte si ricomincia. Il conduttore può esplicitare che esistono varie soluzioni, tuttavia una è più semplice ed efficace. Questo problem solving pone due questioni: una interna al gruppo di 6 persone che deve trovare una soluzione efficace fra le varie proposte; l’altra fa invece riferimento a come osservare le altre squadre, che verosimilmente troveranno altre soluzioni, per trarne vantaggio. Si disputano 4 o 5 manches, quindi il gioco termina, proclamando vincitrice eventualmente la squadra che ha centrato più volte l’obiettivo.

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Il debriefing Nel debriefing si approfondiscono gli obiettivi del gioco che erano stati anticipati. Ciascuna squadra descrive la strategia adottata, le difficoltà riscontrate, il grado di ascolto e di cooperazione che si è raggiunto. Viene anche segnalata dal conduttore la strategia più semplice ed efficace: numerando i componenti della squadra da 1 a 6, il primo alza il numero chiamato dal conduttore se è inferiore al 9 e tutti gli altri alzano 0; se il numero chiamato è fra il 10 e il 18, il primo gioca il 9, il secondo la differenza e tutti gli altri alzano 0, e così di seguito. La riflessione può evidenziare il clima che si è sviluppato all’interno di ciascun gruppo e di come la relazione utilizzata abbia permesso o meno a tutti di essere soddisfatti, di essere creativi, di essere esecutivi, di sentirsi partecipi e importanti. Può inoltre emergere il concetto di “sostituzione” e di “invasività”, che può portare a riflettere sulla necessità di non cadere nell’errore di pensare che facendo al posto dell’altro lo si aiuti e che non vi possa essere idea migliore di quella elaborata con la propria testa. Il problema, piuttosto, è quello di farsi carico di controllare che tutti abbiano l’opportunità di esprimersi e di essere presi in considerazione. L’esperienza ci dice che… Pur essendo la soluzione indicata semplice ed efficace, non sempre si concorda con questa indicazione: in genere i gruppi, che magari trovano soluzioni molte complicate, giocate sui minimi comuni denominatori, tendono a confermare che la propria soluzione è la migliore. A questo proposito ricordiamo un ragionamento dell’etologo Mainardi1 a proposito dei cani: a volte i cani anche di fronte a problemi relativamente semplici (come aggirare un ostacolo per raggiungere del cibo) non riescono a trovare la soluzione perché, avendo essi una forte socialità, sono più attenti a osservare le indicazioni – anche inconsapevoli – che il padrone si lascia sfuggire, piuttosto che trovare la semplice soluzione di aggirare l’ostacolo come fanno tranquillamente i gatti o altri animali più individualisti. Questo è un problema molto interessante: il nostro bisogno di socialità a volte è più forte della nostra razionalità soggettiva, in questo caso la soluzione più semplice che viene indicata (che spesso qualche gruppo trova per conto suo e la applica rendendola visibile a tutti) non viene ritenuta sufficientemente adeguata a scapito di quella che il gruppo ha trovato, anche se razionalmente è più difficile o può indurre più errori nell’applicazione. Possibili varianti Nessuna variante.

1. Mainardi, 2006.

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Giochi in natura

LA REGINA DELLE API Due principi se ne andarono in cerca di avventure e finirono col menare una vita viziosa e dissoluta, sicché‚ non fecero più ritorno a casa. Il più giovane, che era chiamato il Grullo, se ne andò alla ricerca dei fratelli, ma quando li trovò essi lo presero in giro perché‚ egli, con la sua dabbenaggine, voleva farsi strada nel mondo, mentre loro non ci erano riusciti pur essendo molto più avveduti. Si misero in cammino tutti e tre insieme e giunsero a un formicaio. I due maggiori volevano buttarlo all’aria, per vedere le formichine andare qua e là impaurite, e portare via le uova. Ma il Grullo disse: “Lasciatele in pace quelle bestie, non sopporto che le disturbiate”. Proseguirono e giunsero a un lago dove nuotavano tante tante anatre. I due fratelli volevano catturarne un paio per farle arrostire, ma il Grullo ripeté: “Lasciatele in pace quelle bestie, non tollero che le uccidiate”. Infine giunsero a un alveare, dove c’era tanto miele che colava sul tronco. I due volevano appiccare il fuoco all’albero per soffocare le api e prendere il miele. Ma il Grullo tornò a tenerli lontani dicendo: “Lasciate in pace quelle bestie, non tollero che le bruciate”. I tre fratelli arrivarono a un castello: nelle scuderie c’erano soltanto dei cavalli di pietra e non si vedeva anima viva. Attraversarono tutte le sale, finché‚ giunsero a una porta con tre serrature; ma in mezzo alla porta c’era uno spioncino attraverso il quale si poteva vedere nella stanza. Videro un omino grigio seduto a un tavolo. Lo chiamarono una, due volte, ma egli non sentì. Infine lo chiamarono per la terza volta,

allora si alzò e uscì dalla stanza. Senza dire neanche una parola li condusse a una tavola riccamente imbandita e, quand’ebbero mangiato e bevuto, diede a ciascuno di loro una camera da letto. Il mattino dopo l’omino andò dal maggiore, gli fece un cenno con il capo e lo portò a una lapide, sulla quale erano scritte le tre imprese che si dovevano compiere per liberare il castello. La prima consisteva in questo: nel bosco, sotto il muschio, bisognava cercare le mille perle della principessa; ma se al tramonto ne mancava una sola, colui che le aveva cercate diventava di pietra. Il maggiore andò e cercò per tutto il giorno ma, al tramonto, ne aveva trovate soltanto cento; così accadde ciò che diceva la lapide ed egli fu tramutato in pietra. Il giorno seguente fu il secondo fratello a tentare l’avventura; ma non fu più fortunato del primo, trovò infatti solo duecento perle e anch’egli impietrì. Infine fu la volta del Grullo; si mise a cercare fra il muschio, ma era così difficile trovare le perle e ci voleva tanto di quel tempo! Allora sedette su di una pietra e si mise a piangere. Mentre se ne stava là arrivò il re delle formiche, al quale una volta egli aveva salvato la vita. Lo accompagnavano cinquemila formiche, e non trascorse molto tempo che le bestioline avevano trovato tutte le perle, riunendole in un mucchio. Il secondo compito consisteva nel ripescare dal lago la chiave che apriva la camera da letto della principessa. Quando il Grullo arrivò al lago, le anatre che egli aveva salvato accorsero a nuoto, si tuffarono e ripescarono la chiave dal fondo. Ma la terza impresa era la più difficile: delle tre principesse addormentate bisognava scegliere la più giovane e la più amabile. Esse erano perfettamente uguali, e nulla le distingueva se non che la maggiore aveva mangiato un pezzo di zucchero, la seconda un po’ di sciroppo e la più giovane un cucchiaio di miele. Egli doveva riconoscere dal respiro colei che aveva mangiato il miele. Ma in quella giunse la regina delle api che il Grullo aveva protetto dal fuoco; assaggiò la bocca di tutt’e tre e infine si fermò su quella che aveva mangiato miele, così il principe riconobbe quella giusta. Allora l’incanto svanì, ogni cosa fu liberata dal sonno e chi era di pietra riacquistò la forma umana. Il Grullo sposò la più giovane e la più amabile delle principesse e divenne re dopo la morte del padre di lei. I fratelli invece sposarono le altre due fanciulle6. 6. Grimm, 1990.

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Il rapporto tra uomo e natura è sempre stato un tema centrale nella storia e nell’evoluzione dell’umanità. Inizialmente, gli esseri umani facevano parte integrante dell’ecosistema e dipendevano completamente dalla natura per la sopravvivenza. Cacciavano e raccoglievano cibo, vestivano indumenti realizzati con materiali naturali, costruivano rifugi utilizzando risorse che trovavano in natura e dipendevano dal clima e dalle stagioni per organizzare la loro vita. Con l’avanzare del tempo e lo sviluppo delle società umane, l’interazione con la natura è divenuta sempre più complessa. L’agricoltura rivoluzionò il rapporto tra uomo e natura, consentendo una maggiore stabilità e sicurezza alimentare, ma allo stesso tempo comportando un crescente impatto ambientale. L’uomo iniziò a sfruttare la terra e le sue risorse in maniera sempre più intensa, ad esempio tramite la deforestazione per ottenere terreni agricoli o l’estrazione di materie prime per l’industria. Con la rivoluzione industriale, l’interazione tra uomo e natura subì un ulteriore cambiamento. Le tecnologie e le industrie sviluppate durante questo periodo produssero un impatto ambientale senza precedenti, attraverso l’inquinamento atmosferico, idrico e del suolo. Inoltre, la rapida urbanizzazione portò all’espansione delle aree urbane a scapito degli spazi naturali. Negli ultimi decenni, per fortuna, si è però assistito a un nuovo approccio alla relazione uomo-natura. Si è sviluppata, infatti, una maggiore consapevolezza dell’importanza di preservare l’ambiente naturale e di ridurre l’impatto umano sulla natura. Ciò ha portato a un crescente interesse per la sostenibilità ambientale, che si traduce in azioni come la riduzione dell’inquinamento, l’uso di energie rinnovabili, la protezione delle aree naturali e la promozione di pratiche agricole sostenibili. 106

Anche in campo educativo l’importanza di conoscere, vivere e ricreare un rapporto uomonatura sano è al centro di nuovi progetti e sfide educative di grande interesse. L’outdoor education, per esempio, nasce proprio da questo interesse e da questa nuova sfida, come approccio educativo che utilizza l’ambiente naturale come contesto di apprendimento. Questo tipo di educazione si concentra sull’apprendimento esperienziale, con l’obiettivo d’incoraggiare la curiosità, la creatività e lo sviluppo delle competenze sociali ed emotive attraverso esperienze dirette all’aperto. L’osservazione della natura insegna molte cose, come l’importanza della cooperazione, della resilienza e dell’adattamento; fa percepire molto bene che cosa s’intende per biodiversità, come le differenze possano realmente essere delle risorse, come la convivenza con altre “specie” possa essere realmente possibile e più arricchente, come “l’altro” possa essere utile per la sopravvivenza e per un più sano e forte sviluppo, come ogni piccola cosa abbia un senso e una sua funzione vitale per tutti. Insomma la natura rappresenta davvero uno dei più validi strumenti educativi che esistano. Il contatto con la natura, l’immersione in ambienti naturali, in contrapposizione con le modalità artificiali della vita quotidiana, invitano al recupero di modalità relazionali, comunicative e di vita in generale più autentiche. Vivere e giocare in natura aiuta la comprensione della realtà, incoraggia l’impegno e lo sforzo fisico, la concentrazione, la capacità di adattamento, l’essenzialità, il misurarsi con le proprie forze, il vedersi in maniera diversa, lo sperimentare e lo sviluppare le proprie abilità e potenzialità in maniera più completa. Camminare, fare esperienze nel bosco, sentire i profumi della natura, ascoltare i rumori, giocare con gli elementi naturali, passeggiare nel bosco di notte, organizzare un grande gioco in natu-

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ra sono tutte esperienze di crescita personale e di gruppo indimenticabili che permettono non solo di creare un buon clima, più disteso, calmo e rassicurante, ma anche di riscoprire le potenzialità dei cinque sensi e soprattutto di avere una nuova percezione di sé stessi e degli altri. In definitiva, i giochi all’aperto sono un elemento vitale per promuovere l’attività fisica, lo sviluppo delle abilità motorie, la socializzazione, la connessione con la natura, la creatività e il benessere generale.

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La natura mi presenta

Numero di partecipanti: non rilevante Spazi: in natura, bosco, giardino Difficoltà per il conduttore: bassa Difficoltà per i partecipanti: bassa Tempi: circa un’ora Obiettivi • presentarsi al gruppo; • aumentare la consapevolezza di sé; • imparare a conoscersi; • sviluppare capacità di ascolto. Presentazione e svolgimento Il gioco “La natura mi presenta” va utilizzato all’inizio di uno stage o di un percorso con un nuovo gruppo, non è importante se i partecipanti si conoscono già. Il conduttore chiederà a ognuno di prendersi un po’ di tempo (almeno una ventina di minuti) e di camminare liberamente nel bosco o nel giardino, di guardarsi intorno, di esplorare i dintorni e di fare attenzione alle piccole cose che incontra durante il proprio percorso. Durante questo momento verrà chiesto ad ognuno di scegliere un elemento naturale che lo aiuti a presentarsi al gruppo, qualcosa che lo rappresenti o che possa descrivere qualcosa di sé. Se il gruppo si conosce già, si chiederà ad ognuno di dire qualcosa di sé che pensa che gli altri ancora non conoscano. Quando tutti hanno scelto qualcosa e terminato il tempo dato inizialmente, ci si ritrova al punto di partenza e ci si mette in cerchio. Il conduttore inizialmente chiederà com’è andata l’esperienza, se è stato difficile trovare qualcosa per presentarsi, se sono riusciti a riflettere su loro stessi e se la natura li ha aiutati in questo piccolo momento di consapevolezza. Una volta confrontati su come si sono sentiti nel gioco, si passa alla presentazione di ognuno. È importante che tutti abbiano il proprio tempo per raccontarsi. Il debriefing Questo gioco è utile sia per dare la possibilità ad ogni partecipante di potersi presentare al gruppo – e quindi per farsi conoscere un po’ di più –, sia per fare una piccola esperienza di introspezione e di autoconsapevolezza. Il conduttore, per prima cosa, facilita un confronto tra i componenti del gruppo su come è andata la prima parte, su come si sono sentiti, se la scelta dell’elemento naturale è stata difficile, quali difficoltà hanno trovato, che cosa hanno provato nel loro piccolo cammino individuale. Successivamente, si apre una riflessione sulla difficoltà o meno di presentarsi agli altri, se si sono sentiti liberi di esprimersi, se hanno sentito ascolto da parte del gruppo, se hanno trovato difficoltà o meno nel motivare la scelta fatta. DAL BRANCO AL GRUPPO 2.0

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L’esperienza ci dice che… Spesso il momento iniziale di quando si inizia una nuova esperienza insieme ad altre persone può non essere semplice. Le difese sono alte, le ansie e le paure di non stare bene insieme ad altri sono frequenti. Ecco perché un momento individuale in natura facilita ad abbassare le difese e a placare le insicurezze. La presentazione aiuta il conduttore a capire il clima del gruppo. Se si riscontra grande difficoltà nell’esprimersi e nell’andare in profondità, se c’è poco ascolto e poco rispetto durante la condivisione, si può capire facilmente che all’interno del gruppo c’è poca conoscenza reciproca e mancanza di fiducia nei confronti degli altri. Possibili varianti Questo è un gioco che eventualmente si può svolgere anche all’interno, chiedendo di scegliere oggetti che i partecipanti trovano nella stanza. Se i partecipanti del gruppo sono bambini si può anche decidere di fare scegliere loro un oggetto caro che hanno portato con sé.

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S. Montanari

l’adole scenza Come si può stare meglio all’interno di un gruppo, parlare e dare la giusta importanza alle relazioni e quali possono essere i modi per avere una comunicazione più lineare, chiara e priva di fraintendimenti? Dopo la prima edizione del 2008, Dal branco al gruppo inizia un nuovo viaggio, rivolto alla scoperta (o riscoperta) dell’importanza delle relazioni attraverso il significato profondo del “fare gruppo”: stare insieme facendo emergere le risorse individuali e di gruppo, prendere coscienza dei pregi e dei difetti di ciascuno per sviluppare il senso della tolleranza, della solidarietà vera, della fiducia, dello scambio reciproco. Fare gruppo è una scelta consapevole che comporta il mettersi in gioco di ciascuno, il confronto continuo, il dialogo e dare spazio alla giusta struttura di comunicazione facendo “circolare” le abilità positive di ognuno. Questo libro propone una raccolta di giochi e di attività stimolanti – da fare al chiuso e all’aperto in natura – attraverso la metodologia LARA (Laboratorio per le Aggregazioni e le Relazioni con gli Adolescenti) che si pone l’obiettivo di aiutare a lavorare insieme per cambiare e migliorarsi, sperimentarsi gruppo coeso e collaborativo, non solo produttivo. Un gruppo dove tutti possano fare esperienza positiva stando bene con gli altri, in una dimensione di relazioni costruite da ciascuno con autenticità. Silvia Montanari è laureata in sociologia e specializzata in Scienze della Comunicazione all’Università di Bologna. Lavora da più di quindici anni per la Fondazione Adolescere nel servizio “Noi in Collina”, rivolto alle scuole e agli stage LARA. Dopo essersi diplomata alla Scuola per Conduttori di Gruppo di Voghera, è conduttore di gruppo, educatrice e coach, impegnata da anni nell’ambito della formazione e della gestione di gruppi.

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

Silvia Montanari

DAL BRANCO AL GRUPPO 2.0

Manuale di giochi in aula e in natura per la formazione di gruppi

ISBN 979-12-5626-003-4

Euro 18,50 (I.i.)

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