Il filosofo è un pirata. Appunti e spunti per la filosofia con i bambini

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IL FILOSOFO È UN PIRATA

Appunti e spunti per la filosofia con i bambini

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la meridiana Emma Nanetti

Emma Nanetti IL FILOSOFO È UN PIRATA

Appunti e spunti per la filosofia con i bambini

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Indice Introduzione 9 Parte Prima Appunti Meraviglia e parresìa 17 Gioco e finzione 21 Bambini selvaggi 29 La mano sinistra 33 Parole che costruiscono mondi 37 “Non siete altro che un mazzo di carte!” 45 Pinocchio impara a pensare 51 Intermezzo Alcune esperienze La filosofia a scuola (e non solo) 57 Parte Seconda spunti Percorsi di filosofia con i bambini 71 Chi sono io? 73 Emozioni in gioco 79 A spasso nella città ideale 85 C’era una volta 91 Filosofi e robot 97 Appendice Alcuni consigli 105 Bibliografia 109

Introduzione

La filosofia non è un tempio ma un cantiere Georges Canguilhem Sono in una classe della scuola primaria, una ventina di bambini guarda nella mia direzione, il mento poggiato sulle mani, lo sguardo ancora un po’ assonnato ma comunque incuriosito dalla novità che è per loro la mia presenza.

Mi presento. Mi chiamo Emma e sono una filosofa. Ma che cosa vuol dire essere un filosofo?

A poco a poco, le mani iniziano a sollevarsi. Qualcuno più timidamente, qualcuno già con le idee chiare, i bambini vogliono dire la loro. “Un filosofo è un vecchio!”.

“Un filosofo ha la barba!”.

“E quindi una donna, oppure chi è giovane o magari si è appena rasato, non può essere un filosofo? Anche Plutarco diceva che non è la barba a fare il filosofo!”.

C’è un po’ di perplessità, i bambini iniziano a parlare tra loro, molto presto si giunge alla convinzione che neanche conoscere il greco antico e indossare una tunica è sufficiente per essere un filosofo. Bisogna che iniziamo a pensare a qualcosa di diverso.

“Il filosofo – dice qualcuno – è una specie di scienziato, perché indaga la natura”. Giusto!

“Però – obietta qualcun altro – è anche un po’ un artista, dal momento che inventa cose nuove”. Giusto anche questo!

Incoraggiati dall’idea che non ci sono risposte sbagliate, tutti hanno qualcosa da proporre, una sfumatura in più che vada ad arricchire il ritratto del nostro filosofo.

Per qualcuno il filosofo porta gli occhiali, per altri è un tipo spericolato. C’è chi pensa che lavori con le idee, chi crede invece che studi soprattutto le persone. Alcuni bambini lo immaginano seduto in poltrona, in pantofole e con un libro in mano. Per altri si possono incontrare filosofi nei boschi, sdraiati sull’erba e con lo sguardo rivolto verso le nuvole oppure con indosso un maglione nero a collo alto, come nell’immagine di un libro descritta da un bambino.

Ci sono però alcune caratteristiche che più o meno tutti i bambini attribuiscono ai filosofi. La curiosità. Si fanno tante domande. Non hanno paura di conoscere le risposte, anche se sono complicate – e di solito portano ad altre domande –. La passione per la scoperta e per l’esplorazione. Il coraggio.

“Se la conoscenza è un’isola – dice qualcuno – il filosofo è il pirata che va alla ricerca del tesoro nascosto”.

L’immagine riscuote un immediato successo. “Il filosofo è un pirata”, conclude qualcun altro! “Un pirata buono, però”, chiosa un terzo. Iniziamo a pensare tutti insieme a quali siano le caratteristiche che accomunano i filosofi e i pirati.

Filosofi e pirati sono temerari, solcano mari in tempesta, spesso senza la certezza di approdare in un porto sicuro. Conducono una vita avventurosa e nessuna impresa per loro rappresenta un punto d’arrivo definitivo: se scavare per trovare un tesoro nascosto è la metafora dell’interrogarsi in cerca di risposte alle proprie domande, in nessuno dei due casi ci troviamo di fronte a una ricerca che possiamo considerare decisiva. Per

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ogni tesoro riportato alla luce, ce ne sono molti altri ancora sepolti. Per ogni risposta ancora molte domande.

Ma non è tutto.

Nella tradizione piratesca, ciascun membro della ciurma ottiene la stessa parte del tesoro, dal mozzo al capitano: come a dire, restando nella metafora, che la conoscenza non è qualcosa che si possa frazionare ma di cui tutti godono in egual misura, che arricchisce tutti indistintamente.

Altro aspetto che li accomuna è la curiosità. Chi si metterebbe in mare aperto senza essere animato da un inestinguibile desiderio di scoperta, disposto a meravigliarsi per ciò che incontrerà durante il viaggio – fosse anche un mostro marino dai denti aguzzi e con mille tentacoli –?

Le azioni di filosofi e pirati, inoltre, non seguono regole codificate ma tanto gli uni quanto gli altri hanno un preciso codice d’onore: ad esempio il diritto al cosiddetto parley (dal francese parler, “parlare”), termine col quale nel lessico piratesco si fa riferimento alla possibilità di parlamentare prima di darsi battaglia. Nessun pirata ingaggerebbe uno scontro col proprio avversario senza prima aver tentato una negoziazione – e a quell’avversario è sempre data la facoltà di difendersi a parole, di esprimere il proprio punto di vista su fatti e persone –.

La libertà di parola è uno dei capisaldi della pratica filosofica e in questo senso il parley è qualcosa di molto simile alla parresìa dei greci, il diritto (e al tempo stesso il dovere) di esprimersi in modo chiaro e con franchezza, di dire tutto ciò che si ha in mente senza per questo incorrere in sanzioni o limitazioni.

I bambini sono entusiasti del nuovo concetto introdotto. Una mano si alza dal fondo della classe. “Ma anche un bambino può dire tutto ciò che pensa?”.

“Sì – rispondo – anche un bambino. In democrazia l’opinione di tutti è importante, sia bambino

o anziano. Ricco, povero, straniero, maschio o femmina”.

“Ma allora la filosofia è democratica! Libera e democratica”.

“E quali regole è necessario seguire per praticarla?”, chiede una bambina. “Non ci sono delle regole vere e proprie”, replica un compagno. “Ma allora a che cosa servirebbe studiarla, se non ci fossero regole da imparare?”, obietta qualcun altro. Spiego loro che per la filosofia può valere quanto un filosofo francese, Gilles Deleuze (uno di quei filosofi col maglione nero a collo alto), diceva a proposito del concetto di teoria: che funziona esattamente come una cassetta degli attrezzi, il cui scopo è quello di essere utile nella costruzione di cose.

In altre parole, una volta che si è imparato a utilizzare un martello e un chiodo, sono moltissime le cose diverse che si possono assemblare. È importante usare gli attrezzi di cui disponiamo nel modo giusto, ma non ci sono limitazioni riguardo a ciò che con quegli attrezzi possiamo creare. Questo dipende soltanto da noi.

La filosofia funziona in modo analogo: ci sono concetti e strumenti che è utile padroneggiare per esprimersi in modo appropriato e chiaro ma ciascuno è libero di esporre le proprie idee liberamente, quali che siano, purché lo faccia nel rispetto degli altri.

È per questo che, nel tempo a disposizione con i bambini, non ho spiegato loro che cosa pensassero Aristotele, Spinoza o Hegel. Non è importante sapere che cosa pensassero i filosofi ma come pensassero. Fare filosofia non significa imparare le idee di altri – così come si impara la tabellina del 7 o la capitale della Spagna – ma interrogarsi sui problemi che ci circondano, scoprendo che molte delle nostre domande sono le stesse dei grandi filosofi del passato.

Che cos’è la felicità? Come si governa una città?

Chi sono io?

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In questo senso non parliamo di filosofia per i bambini, ma con i bambini: quelli che abbiamo davanti non sono gli uditori silenziosi di una lezione, bensì parte attiva di un processo creativo che li vede protagonisti. Per la stessa ragione non dobbiamo considerare la filosofia una materia in più che si va ad aggiungere a quelle che già formano il percorso di studi, ma un metodo da sviluppare in un contesto plurale e con un’ottica multidisciplinare. Imparare a pensare è utile anche se si studiano la fisica o l’inglese!

La forma laboratoriale è perciò la più adatta per veicolare le riflessioni che si intende proporre: nel laboratorio infatti i bambini hanno la possibilità di dialogare, e il dialogo è fondamentale per dar vita a un’esperienza autenticamente filosofica. Solo dialogando si può comprendere, oltre che apprendere, e arricchire la propria conoscenza grazie al reciproco scambio di opinioni, sottoponendo i temi trattati alla revisione del pensiero critico.

La mia proposta non consiste nel fornire pillole filosofiche preconfezionate, magari semplificate e facilmente digeribili. Se una semplificazione è necessaria, riguarderà le forme della comunicazione, mai i contenuti proposti. L’approccio filosofico che caratterizza i percorsi che propongo si basa su una traduzione di linguaggi differenti ma non riconducibili gli uni agli altri, nel tentativo di far acquisire ai piccoli filosofi nuovi strumenti per interrogarsi sulle tematiche che incontrano nel quotidiano.

In questo modo riusciranno a diventare più autonomi, impareranno a pensare con la propria testa. Ma che cosa significa pensare con la propria testa?

Secondo Kant pensare con la propria testa è, innanzitutto, faticoso. La mancata autonomia è da attribuirsi in primo luogo alla pigrizia. Ma anche la viltà ha la sua parte di responsabilità, dal momento che chi non pensa – e si condanna volontariamente a uno stato di subalternità – lo fa spesso per paura del cambiamento. Pigrizia e viltà dun-

que sono i principali ostacoli sulla strada dell’uscita dalla minorità. Attenzione però! I minori non sono soltanto i bambini. Resta minore chiunque sia incapace di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro, chi non ha il coraggio di usarlo secondo la propria volontà. Lasciarsi guidare da altri è, in fondo, molto comodo:

Se ho un libro che ragiona al posto mio, una guida spirituale che ha coscienza al posto mio, un medico che valuta la dieta al posto mio, e così via, non ho certo bisogno di preoccuparmene io stesso. Non ho necessità di pensare, se posso solo pagare; altri si prenderanno questa seccante incombenza al posto mio.1

Libertà di pensiero non significa però seguire il filo dei propri ragionamenti senza prendere in considerazione il punto di vista di chi ci circonda, cogliendo spunti e confrontandosi. Il rischio sarebbe quello di rinchiudersi in se stessi, finendo per attribuire alle proprie idee un primato su quelle altrui, con tutte le pericolose derive che questo comporta, come addirittura negare agli altri il diritto di esprimersi.

Essere liberi pensatori vuol dire esercitare il diritto alla libera espressione e al tempo stesso tenere presente che la testa con cui si pensa difficilmente è nostra, o comunque interamente nostra. Solo il confronto con altre teste pensanti ci consente di aprire la mente e imparare cose nuove. L’appello all’autonomia di pensiero non si deve perciò tradurre nella licenza a esprimere banalità, impermeabili a qualunque obiezione. Nella pratica filosofica con i bambini, sottolineare questo aspetto è fondamentale per far capire l’importanza del dialogo e della reciprocità, intesa come ricerca collettiva. Il pensiero, in altre parole, non è mai di chi lo pensa ma di tutti coloro che contribuiscono a formarlo, arricchirlo, emendarlo.

Fare filosofia è mettere in gioco la propria creatività, discutendo con gli altri, argomentando

1. Kant, 2013, pp. 13-15.

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e confutando tesi talvolta anche opposte. Ecco perché credo che non ci sia niente di più sbagliato dell’atteggiamento del professore di filosofia che vuole a tutti i costi insegnare un proprio sistema filosofico, ottusamente convinto di non avere più nulla da imparare da chi gli siede di fronte e ascolta il suo monologo. Questo non ha nulla a che fare con la libertà di pensiero, con la creatività, con la ricerca filosofica, che per svilupparsi hanno bisogno di nutrirsi di stimoli sempre nuovi e diversi.

Nessun percorso di crescita può realizzarsi senza l’altro; anche il raggiungimento dell’autonomia non può prescindere dalla relazione. Al di fuori del contesto relazionale si ha un isolamento in cui ogni forma di pensiero è negata. Il sapere, la filosofia nascono dallo scambio reciproco, in un’ottica che privilegi la trasversalità rispetto alla trasmissione.

Conquistare una prospettiva comune per mezzo del pensiero è dunque l’obiettivo della filosofia che, per svolgere al meglio la sua missione, deve prima di tutto incentivare l’uso del pensiero autonomo, addestrando a cogliere le sfumature argomentative e concettuali delle esperienze quotidiane. Kant parte dal presupposto che a nessuno, per quanto “minore” egli sia, debba essere preclusa la strada della conoscenza filosofica, neppure a un bambino.

Anzi, siamo proprio noi adulti – che la filosofia l’abbiamo studiata – ad avere qualcosa da imparare dai bambini. L’uscita dalla minorità infatti riguarda tutti coloro che intendano riappropriarsi dell’uso della propria ragione per non essere più inconsapevoli e impotenti – adulti o bambini che siano.

Ma che cos’hanno in questo senso i bambini da insegnarci?

Gianni Rodari ritiene che dai bambini si possa imparare una lezione di fiducia.

È quello – racconta – che succede ogni tanto nei tram a Roma, quando la gente cipigliosa e ingru-

gnata è costretta ad interrompere il filo dei propri pensieri per l’arrivo di un bambino accompagnato dalla nonna. Il bambino chiacchiera ad alta voce, ride, indica gli oggetti fuori dal finestrino e così anche gli altri passeggeri iniziano a sorridere e a essere un po’ meno preoccupati e pessimisti.

Non significa che abbiano dimenticato i loro problemi, ma nella voce di quel bambino si è rivelato qualcosa che potremmo chiamare con le parole di Gramsci ottimismo della volontà:

pensate all’imperatore romano che consegna la corona al primo re barbaro: per quelli lì era la fine del mondo e invece finiva solo l’Impero romano d’Occidente, poi il mondo è continuato. Pensate a Luigi Capeto quando è salito al patibolo: è la fine del mondo! Ammazzano il re! E invece era solo la fine del feudalesimo, poi il mondo è andato avanti.2

I bambini ci ricordano che esiste sempre una via d’uscita, anche a costo d’inventarsela.

Come fa Harold, il protagonista del racconto di Crockett Johnson, che si costruisce con la matita viola un suo proprio mondo.

Prima vuole passeggiare al chiaro di luna, e così disegna la luna e la strada. Vi aggiunge un albero, il mare e una barca sulla quale decide di navigare. Poi la mongolfiera dalla quale osserva tutta la città in attesa di scorgere la sua casa. Harold allora disegna, disegna, disegna fino a quando non ritrova la finestra della sua camera, quella dalla quale aveva scorto la luna prima di mettersi a disegnare. A quel punto può finalmente addormentarsi, consapevole che tra le cose che si sognano e quelle che si vivono c’è sempre un punto di contatto, basta avere una matita viola con cui disegnarlo.3

Quella matita viola per me è la filosofia.

Mi piacerebbe che così la immaginassero i bambini che mi siedono di fronte, con cui abbiamo parlato di filosofi, pirati, uscita dalla minorità, 2. Rodari 1981, p. 83. 3. Johnson 2020.

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fiducia. Uno strumento all’apparenza banale ma in realtà dotato di infinite potenzialità, col quale ridisegnare la realtà che ci circonda, rendendola un po’ più simile a come vorremmo che fosse.

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Appunti Parte Prima

Meraviglia e parresìa

Sergio Viti, maestro di Pietrasanta – cittadina costiera in provincia di Lucca – e autore insieme ad Alfonso Maurizio Iacono di Le domande sono ciliege e Per mari aperti 4, racconta di aver fatto ascoltare ai bambini di una classe terza la canzone Le parole, scritta da Gianni Rodari e musicata da Sergio Endrigo. In una strofa, la canzone invitava i bambini ad andare a cercare insieme le parole per pensare e così il maestro, che voleva introdurre il concetto di verbo, aveva chiesto loro di scrivere tutte le azioni che si potevano fare per pensare: leggere, confrontarsi, guardare, discutere, ricordare, meravigliarsi, immaginare, ascoltare, domandarsi. I verbi poi erano stati divisi in gruppi sulla base della loro affinità e uno di questi gruppi era “guardare, meravigliarsi, domandarsi”. In quella classe era stata involontariamente scoperta l’origine della filosofia secondo Platone e Aristotele. Nel Teeteto, Platone afferma per bocca di Socrate che il filosofare non ha altro inizio se non la meraviglia. La stessa idea ritorna poi nella Metafisica aristotelica, in cui troviamo conferma del fatto che la filosofia ha origine dal meravigliarsi degli uomini:

Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: 4. Iacono, Vitti 2000, 2003.

mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero Universo.5

Aristotele immagina un percorso per certi versi molto simile a quello ipotizzato dai bambini della classe di cui racconta Viti: all’osservazione del mondo circostante fa seguito lo stupore per quei fatti che apparentemente non hanno spiegazione e il compito della filosofia è proprio sollecitare la curiosità riguardo ai piccoli e grandi misteri che ci circondano.

Entrare in una classe della scuola primaria, in una biblioteca per ragazzi o semplicemente sentirsi rivolgere domande da un gruppo di bambini curiosi significa per il filosofo tornare alle proprie origini, riscoprire il senso più autentico del fare filosofia, che non è seguire una lezione all’università o spiegare Hegel in una quinta liceale. Essere filosofi è non smettere mai di farsi domande e sfruttare ogni risposta per riflettere sul mondo intorno a noi, senza dare niente per scontato.

Questo non significa che gli studi accademici e la lettura in lingua originale dei testi filosofici siano inutili, tuttavia è bene tenere presente che non è sufficiente conoscere il pensiero dei grandi filosofi del passato per poterci a nostra volta considerare tali. Studiosi di filosofia, magari, ma non necessariamente filosofi. È un aspetto fondamentale per poter lavorare con i bambini senza che passi un messaggio sbagliato: voi fate le domande, noi abbiamo le risposte. Le risposte, ci insegna Socrate, non le ha nessuno. Il punto sono proprio le domande. Fare filosofia significa interrogarsi insieme, cercare insieme, continuando a meravigliarsi.

Ricondurre la filosofia alle sue origini vuol dire riportarla indietro non solo cronologicamen-

5. Aristotele 1994, p. 11.

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Perciò non ha molto senso spiegare ai più piccoli le dottrine dei filosofi antichi, quanto piuttosto portarli a riflettere sulle idee che si celano dietro quelle dottrine, vale a dire i pensieri elaborati a partire dagli interrogativi che i filosofi si sono posti, primo fra tutti quello sull’origine, sull’archè.

Sulla modalità più congeniale per svolgere questo tipo di attività filosofica, caratterizzata da una dimensione innanzitutto orale e dialogica, è ancora la saggezza degli antichi a venire in nostro aiuto, e in particolare Platone con i suoi miti.

Non capisci, diss’io, che per prima cosa raccontiamo i miti ai fanciulli? E questa nel complesso è una menzogna in cui pur ci sono alcune verità. Ai fanciulli dunque cominciamo a insegnare miti prima ancora che ginnastica.6

Questo non significa che i bambini non siano soggetti filosofici con i quali potersi interfacciare, la loro facoltà di avvalersi dei miti per trarne insegnamenti utili è anzi un vantaggio.

La questione è semmai un’altra: in che modo agisce la finzione sulla realtà, mostrando la via da percorrere a coloro che saranno un giorno cittadini a tutti gli effetti? Innanzitutto, occorre precisare che Platone non guarda al mito semplicemente come a una finzione ma come a una narrazione verosimile, che offre, a suo modo, delle verità. A queste verità potranno avvicinarsi soltanto bambini e filosofi, gli unici in grado di mantenere vivo un dialogo tra il piano della realtà e quello della fantasia. Il mito infatti si colloca nella linea di confine tra realtà e immaginazione, facendo scorgere frammenti di quella che potrebbe essere considerata una realtà alternativa, quella che altri filosofi, in altri tempi, chiameranno utopia.

L’analisi di quello che è forse il più noto dei miti platonici, il mito della caverna, narrato all’inizio del Libro VII della Repubblica, può aiutarci a chiarire questo punto.

Uno dei prigionieri incatenati all’interno della caverna descritta da Platone, nella quale un fuoco proietta le ombre delle figure che passano sulla strada alle spalle dei prigionieri davanti a loro – nell’unica direzione in cui possono guardare – viene liberato. Inizialmente accecato dalla luce del sole che lo investe una volta fuori dalla caverna, a poco a poco si abitua alla novità e capisce che quella che fino a poco prima aveva pensato fosse la realtà non era altro che un’illusione. Egli decide così di tornare nella caverna in cui era rinchiuso per far prendere coscienza anche ai propri compagni dell’inganno in cui vivono. Ma l’esito della vicenda non è quello atteso: il prigioniero liberato non viene creduto e anzi è deriso per il suo temporaneo accecamento. Al sentimento d’incredulità iniziale si sostituisce nei prigionieri il sospetto nei confronti di chi descrive loro mondi che non hanno mai visto e neppure possono immaginare.

Essere in grado di confrontare due mondi è uno dei presupposti fondamentali della conoscenza. Solo chi, come il prigioniero liberato, il filosofo e il bambino, è capace di intravedere un altro mondo dietro all’unico creduto possibile si avvicina alla verità. Anche se non si deve mai perdere di vista l’importanza delle illusioni condivise, solo uscire dagli universi di significato nei quali siamo “prigionieri” ci porta al raggiungimento dell’autonomia. Il possibile ci aiuta in questo senso a ripensare il reale.

Parallelamente al mito, è il dialogo a configurarsi nel discorso platonico come uno degli strumenti privilegiati per diffondere il sapere.

L’influenza socratica sulla preferenza metodologica del filosofo ateniese è evidente. La prospettiva dialogica era per Socrate l’unica possibile per l’elaborazione dell’esperienza umana e il suo te, ma anche concettualmente. Filosofare con i bambini è spingere la filosofia a rientrare in contatto con le stesse suggestioni da cui è nata, ricollegarsi ai suoi stessi inizi.

6. Platone 2006, p. 137.

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interesse per l’aspetto dialogico della filosofia sembra confermarlo.

Tracce di ciò si ritrovano nel Menone, un testo che ci conduce al cuore della filosofia platonica. Il dialogo si apre con la domanda di Menone sull’insegnabilità della virtù, a cui Socrate risponde dicendo che è prima di tutto necessario interrogarsi sulla sua essenza. Dopo vari tentativi condotti da Menone in questa direzione, Socrate affronta il quesito iniziale, asserendo che se la virtù è insegnabile, si tratta senza ombra di dubbio di una forma di conoscenza.

SOCRATE – […] Visto che non sappiamo né cos’è né qual è, indaghiamo ponendo un’ipotesi se sia insegnabile o meno: rispetto a quelle che riguardano l’anima, quale proprietà deve possedere la virtù per essere insegnabile o meno? In primo luogo, se è diversa o simile alla conoscenza, può essere insegnata o no? […] Almeno questo non è chiaro a chiunque, che l’oggetto dell’insegnamento non è altro che la conoscenza?

MENONE – Mi pare.

SOCRATE – Se dunque la virtù è una forma di conoscenza, è chiaro che sarebbe insegnabile.7

Ma chi sono allora i maestri di virtù? A questo interrogativo tenta di dare una risposta Anito, che incontra però alcune difficoltà. La parola ritorna quindi a Socrate, che teorizza l’esistenza di un’opinione vera da affiancare alla saggezza:

SOCRATE – Dunque l’opinione vera, quanto a correttezza dell’azione, non è affatto una guida peggiore della saggezza; ed è per questo che poco fa abbiamo trascurato quando indagavamo quale sia la virtù, e affermavamo che solo la saggezza guida l’agire corretto. Perché c’era anche l’opinione vera.

MENONE – Almeno sembra.

SOCRATE – Dunque l’opinione corretta non è affatto meno utile della conoscenza.8

La virtù, in quanto opinione corretta, non può essere propriamente insegnata, anche se certamente può essere mostrata tramite l’esempio.

7. Platone 2010, pp. 85-87.

8. Ivi, pp. 123-125.

La conclusione che se ne può trarre ha una portata filosofica senza pari. Se l’apprendimento ha carattere d’esempio e non appartiene in modo unilaterale alla dimensione scientifica, non può che nascere dal rapporto tra due persone che si confrontano in una tensione dialogica.

Il sapere dunque, come la virtù, non è qualcosa che si insegna, anche se può essere imparato: la ragione di ciò sta nel fatto che il processo che porta alla sua costruzione affonda le proprie radici nella relazione, una relazione assolutamente reciproca e paritaria.

Ecco forse spiegato perché i bambini tendono a entusiasmarsi quando si parla loro di parresìa.

Il primo a utilizzare questo termine fu probabilmente Euripide, nel V secolo a.C., che legava il concetto di parresìa – parlare in modo chiaro e veritiero – a quello di politeia, traducibile con “costituzione” ma dal più ampio significato di “cittadinanza”, partecipazione attiva alla vita della polis.

Michel Foucault, in un ciclo di conferenze tenute presso l’Università di Berkeley nel 1983 e dedicate proprio al tema della parresìa9, sottolinea come vi sia una correlazione molto stretta tra verità ed etica: nella parresìa chi parla sceglie di farlo liberamente, rinunciando sia alla retorica che al silenzio, usufruendo di un proprio diritto che è anche dovere morale. Chi pratica la parresìa inoltre corre un pericolo e può talvolta mettere addirittura a rischio la propria vita, dal momento che l’interlocutore – un sovrano, un tiranno – potrebbe reagire in modo aggressivo se sentisse urtata la propria sensibilità. Si tratta di qualcosa che i bambini percepiscono con grande immediatezza: il diritto di parola non si deve dare per scontato, richiede coraggio e lucidità, non è privo di conseguenze e non riguarda mai una persona soltanto.

9. Foucault 2019.

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Gioco e finzione10

trimenti inconciliabili, quello della realtà e quello dell’irrealtà.

Nell’attività del gioco, in quanto innanzi tutto gioco rappresentativo, il giocatore compie anche azioni reali, – ma queste hanno per così dire un “doppio fondo”: sono azioni del giocatore come tale e d’altra parte anche azioni del giocatore conformi al “ruolo”, che egli ha assunto nel gioco rappresentativo. Tutto ciò che egli fa scorre in una singolare “contemporaneità” su due “piani”, è un comportamento reale di un uomo del “mondo reale” ed è contemporaneamente un agire conforme al ruolo in un “irreale mondo apparente”.12

Si chiede Eugen Fink nel suo libro Il gioco come simbolo del mondo: “Il gioco ha una realtà umana degna di rilievo – oltrepassata l’età infantile?”.11 La tradizionale concezione di filosofia non ammette che al pensiero concettuale si accosti l’apparente spensieratezza del gioco: questo non significa che con l’indagine filosofica astratta non sia possibile interpretare le ragioni del nostro esistere nel mondo e che proprio il gioco non esemplifichi questa permanenza. Il gioco, sostiene ancora Fink, è un oggetto degno e possibile della filosofia. Possibile, perché il pensiero che indaga vuole comprendere ciò che è problematico; degno, perché nel gioco si esprime un nesso fra uomo e mondo. Giocando, l’uomo non rimane in sé, nell’intimità del suo pensiero, ma esce alla ricerca del senso di ciò che lo circonda. Tutto ciò è possibile grazie alla straordinaria particolarità del gioco di accostare due piani al-

10. Prendendo in considerazione la suddivisione operata da Roger Caillos tra agon, alea, mimicry e ilinx – a seconda che predomini la competizione, il caso, il simulacro o la vertigine – è sulla categoria di gioco legata al simulacro che le pagine seguenti si soffermeranno. “Tutte e quattro appartengono a pieno titolo al campo dei giochi: si gioca a calcio, a biglie o a scacchi (agon), si gioca alla roulette o alla lotteria (alea), si gioca ai pirati o si recita la parte di Nerone o Amleto (mimicry), ci si diverte, si gioca, a provocare in noi, con un movimento accelerato di rotazione e di caduta, uno stato organico di perdita di coscienza e di smarrimento (ilinx).” Caillois 1989, p. 28.

11. Fink 1991, p. 16.

L’apparenza del mondo ludico mette la filosofia in grande imbarazzo: come è possibile che i bambini presentino già una serena familiarità con problematiche che la storia del pensiero ancora non riesce (almeno non del tutto) ad armonizzare? Lo sdoppiamento che si attua nel gioco è per i bambini perfettamente naturale: anche la filosofia dovrebbe quindi forse iniziare a riflettere sul fatto che l’irrealtà propria del gioco è innanzitutto una risorsa preziosa.

La finzione ludica non è menzogna o falsità, al contrario consente di compiere un’esperienza di intenzionalità che insegna sempre qualcosa. In questo senso il gioco è sia reale che serio. La sua cifra distintiva è quella del fare come se: il gioco ha come tratto costitutivo quello di essere la parafrasi della vita reale, seria. Attraverso questa parafrasi è possibile imparare cose nuove e mettere in discussione quelle che siamo abituati a considerare familiari.

Il fenomeno del gioco è una sorta di riflesso. L’imitazione che attua è sempre un’imitazione creativa, una variazione fantasiosa su un tema dato. Ben lungi dall’essere una mera riproduzione, ci consente di far balenare possibilità che non immaginavamo nella cornice della nostra vita, come se si trattasse di una specie di specchio.

12. Ivi, pp. 55-56.

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In virtù del suo carattere rappresentativo, il gioco è caratterizzato da un’analogia strutturale col mondo delle immagini: se l’immagine è essenzialmente prodotto, il gioco si configura come atto produttivo. Non si tratta di una copia dunque, ma di un simbolo.

I bambini riescono a padroneggiare la simbologia insita nel gioco con intuito e in modo apparentemente istintivo, muovendosi all’interno del “mondo del gioco” con grande sicurezza, uscendone e rientrandone senza tuttavia mai perdere di vista i confini che lo delimitano.

La bambina che gioca con la sua bambola si muove sicura e sa benissimo dei passaggi tra i “mondi”, da quello reale a quello immaginario e viceversa, può addirittura essere in tutti e due contemporaneamente. La bambina non diventa la vittima di un inganno e nemmeno di un autoinganno, lei sa contemporaneamente della bambola come giocattolo, del ruolo della bambola e di se stessa nel gioco. Il mondo del gioco non è in alcun luogo e in alcun tempo e, tuttavia, ha un suo spazio nello spazio reale e un suo tempo nel tempo reale.13

Lo spazio e il tempo del gioco sono contemporaneamente fuori, delimitati da un tacito accordo tra i giocatori, e dentro, nel mondo fittizio che chi gioca crea e ricrea in continuazione. Per quanto tacito però, questo accordo è comunque una forma di comunicazione essenziale per i giocatori.

Gregory Bateson parla di metacomunicazione, della quale distingue due tipi: quella metalinguistica, in cui l’oggetto del discorso è il linguaggio e che comprende affermazioni del tipo “la parola gatto non graffia”, e quella metacomunicativa, che riguarda le relazioni tra gli interlocutori. A questa categoria appartiene il messaggio “questo è un gioco”. Il gioco è possibile solo se coloro che stanno giocando sono in grado di comunicarselo, consapevoli che i segnali sono segnali.14

13. Ivi 2009, pp. 280-281.

14. Bateson 1974.

A questo proposito l’antropologo racconta un aneddoto: passeggiando allo zoo ricorda di aver visto due scimmie che giocavano. Era evidente che le scimmie sapevano di non combattere, eppure le loro azioni rievocavano quelle di un combattimento. Le scimmie erano dunque in grado di scambiarsi un messaggio del tipo “questo è un gioco”. Il contenuto di tale messaggio è esemplificabile dal rapporto che intercorre tra il mordere e il mordicchiare:

Il mordicchiare giocoso denota il morso, ma non denota ciò che sarebbe denotato dal morso.15

In altre parole, l’azione giocosa allude a quella non giocosa imitandola, ma non veicola necessariamente lo stesso messaggio. Dovendo concettualizzare, diremmo che le azioni del gioco non denotano ciò che denoterebbero le azioni che sostituiscono in modo mimetico.16 La frase “questo è un gioco” altro non è se non una cornice: permette di inquadrare correttamente l’attività a cui si riferisce, illuminandone la duplice natura di mimesi e differenza.

Il gioco è lo strumento attraverso cui l’individuo esplora l’universo. Per mezzo del gioco si viene a conoscenza della varietà dei contesti e della compresenza delle cornici e si scopre che è possibile passare dall’una all’altra. Perciò il gioco si configura come mezzo privilegiato per l’apprendimento, anche filosofico.

Bateson fa l’esempio di un bambino che gioca a essere un arcivescovo. Quello che importa non è che il bambino impari a calarsi nel ruolo di

15. Ivi, p. 219.

16. “Il mordicchiare è un’imitazione del morso, che costituisce a sua volta il punto di riferimento necessario. L’azione del mordicchiare acquista senso – e un senso diverso – solo se esiste ed è conosciuta dai partecipanti l’azione del mordere, che funziona da riferimento e da punto di congiunzione tra l’universo di significato in cui domina il mordicchiare (il gioco) e l’universo di significato in cui domina il mordere (il combattimento). La frase ‘Questo è un gioco’ è come una cornice che unisce e, nello stesso tempo, separa il mordicchiare e il mordere.”, Gargani, Iacono 2005, pp. 16-17.

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arcivescovo ma che impari il fatto che esistono dei ruoli. Come a teatro, il bambino non solo sperimenta lo stare al posto di un altro, ma comprende anche che cosa ciò significhi. Nel gioco, i bambini non imparano a comportarsi secondo certi ruoli e certe regole, scoprono piuttosto il fatto che esistono ruoli e regole e che ciascuno fa riferimento a un preciso livello logico. Quando si gioca, si compiono azioni precise e reali, per capire il significato delle quali occorre fare un salto logico all’interno della cornice di senso che le rende intelligibili. Il messaggio “questo è un gioco” consente il salto logico.

Il problema dello spazio del gioco è invece affrontato da Donald Woods Winnicott nella sua raccolta di testi su Gioco e realtà. Dove ha luogo il gioco?

[...] La terza parte della vita di un essere umano, una parte che noi non possiamo ignorare, è un’area intermedia di esperienza a cui contribuiscono la realtà interna e la vita esterna.17

Esiste uno stato intermedio tra la vita psichica e la realtà, denominato appunto terza area, nel quale si trova l’illusione.

Winnicott introduce poi le nozioni di “fenomeno” e di “oggetto transizionale”. I fenomeni transizionali sono le prime forme di uso dell’illusione, per mezzo della quale gli oggetti transizionali consentono al bambino di allontanarsi progressivamente da una dimensione puramente soggettiva dell’esistenza e riconoscere l’oggettività del mondo esterno.

Ai concetti di “illusione” e “oggetto transizionale” si lega strettamente quello di “simbolo”. Simbolo è qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, che si sostituisce e che rappresenta qualcos’altro. Simbolo è, per esempio, una spazzola usata a mo’ di microfono: non è un microfono ma gli somiglia relativamente alla forma. Se tenuta in 17. Winnicott 1973, p. 25.

mano durante un’esibizione in playback del tutto privata davanti allo specchio del bagno, ha la stessa funzione del microfono. Analogamente, un divano non è un vascello ma per dei bambini che stanno impersonando dei pirati lo è eccome. Un manico di scopa può diventare un cavallo, la cucina può trasformarsi in una giungla. Qualcosa può stare al posto di qualcos’altro.

L’attività simbolica è sempre un tentativo di andare oltre ciò che mentalmente e fisicamente si possiede, infrangendo le barriere dell’ovvio e del quotidiano. Il simbolo permette di pensare la realtà diversa da come è: senza l’attività simbolica non esisterebbero utopie.

Per Winnicott, l’attività simbolica rappresenta il ponte tra la realtà interiore e quella esteriore. Il pensiero simbolico consente di trovare il consueto nell’inconsueto, di integrare soggettività e mondo. Il gioco di finzione, esempio di pensiero simbolico basato sull’illusione, crea mondi virtuali e inaugura la dimensione del possibile, contribuendo così allo sviluppo della conoscenza: “Sulla base del gioco viene costruita l’intera esistenza dell’uomo come esperienza”18. La terza area è dunque, innanzitutto, un’area di apprendimento: al pari della cornice batesoniana, ci istruisce sulle modalità di comportamento da adottare in tutte quelle situazioni in cui si è “doppi”, ancorati alla realtà ma emotivamente proiettati verso il possibile.

Anche Jean Piaget tributa al gioco un’importanza fondamentale nello sviluppo cognitivo del bambino.

Lo psicologo svizzero attribuisce ai processi che chiama di assimilazione e accomodamento la funzione di guidare il bambino nel suo sviluppo. Per mezzo di queste funzioni si verifica l’adattamento del soggetto all’ambiente. Attraverso l’assimilazione, il bambino replica modelli di comprensione già acquisiti al fine di integrare le

18. Ivi, p. 117.

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sue conoscenze con nuove esperienze. Il meccanismo attraverso cui questa ricezione si struttura è invece l’accomodamento. La presenza complementare dei due processi garantisce al bambino l’equilibrio nel rapportarsi al mondo esterno. Il settore di attività in cui le due funzioni operano congiuntamente è il gioco.

Scrive Piaget a proposito dell’esigenza che il bambino ha del gioco:

è dunque indispensabile al suo equilibrio affettivo e intellettuale ch’egli possa disporre d’un settore d’attività la cui motivazione non sia l’adattamento al reale, ma al contrario l’assimilazione del reale all’io, senza costrizioni né sanzioni: tale è il gioco, che trasforma il reale per assimilazione più o meno pura ai bisogni dell’io, mentre l’imitazione […] è l’accomodamento più o meno puro ai modelli esteriori e l’intelligenza è equilibrata tra l’assimilazione e l’accomodamento.19

Tutto è gioco nei primi mesi dell’esistenza. Compito dello psicologo è comprendere come gli schemi ludici si modifichino e si evolvino con la crescita del bambino. Piaget individua tre stadi del comportamento ludico: uno primario, in cui abbiamo semplici giochi di esercizio, uno successivo, in cui compaiono i giochi simbolici, e uno più tardo, in cui i giochi sono giochi di regole. Tra questi, il più rilevante ai fini della mia riflessione è il secondo stadio, quello in cui si sviluppa il gioco simbolico.

A caratterizzare il gioco simbolico è l’introduzione, rispetto ai più banali giochi motori, del sentimento del come se, che sancisce la nascita della finzione, formata da una componente imitativa e da una immaginativa.20 Questo meccanismo è descritto chiaramente da un esempio della psicologa Susanna Millar:

19. Piaget 1970, p. 56.

20. “Ma, quale che sia, quest’inizio di simbolismo presenta un’importanza considerevole per il destino ulteriore del gioco: staccato dal suo contesto, lo schema simbolico basta già ad assicurare il primato della rappresentazione sull’azione pura, che permetterà al gioco di assimilare il mondo esterno all’Io con dei mezzi infinitamente più potenti di quelli del semplice esercizio.”, Piaget 1991, p. 177.

La mia bambina di cinque anni e il fratellino di tre – racconta la Millar – entrarono correndo in cucina chiedendo strofinacci “veri”, acqua “vera” e dell’Ajax per pulire il carrozzino della bambola e la macchinetta. Dopo aver strofinato per un poco mia figlia disse: “Ora giochiamo”. Piuttosto sorpresa chiesi se non avessero giocato fin dall’inizio. No, secondo lei, avevano lavorato: “Il gioco è solo quando si fa finta”. Essi sistemarono degli sgabelli rovesciati in salotto e fecero finta di trovarsi su un aeroplano, diretto in Italia. La bambina si avvolse in una grande sciarpa e prese in braccio una borsa e una delle sue bambole. Mio figlio si mise un cappello a punta e faceva alternativamente la parte del padre e del pilota.

Che poi concettualizza:

la finzione e la fantasia si sviluppano dal momento in cui il bambino beve un sorso da una tazza vuota con evidente soddisfazione, acchiappa palloni immaginari, fa il bagno a una bambola e le dà da mangiare, fa finta di essere un gatto o il lattaio, fino a comprare dolci di cartone usando le biglie come soldi in un negozio, che consiste in un cesto di biancheria rovesciato.21

Piaget riprende le tesi di Karl Groos, i cui studi sugli animali lo avevano portato a considerare il gioco un elemento propedeutico alla crescita e allo sviluppo. Groos accostava i giochi dei bambini a quelli degli animali, rilevando come in entrambi i casi la finzione ludica avesse la funzione di preparare alla vita adulta. Il gattino che spinge davanti a sé la palla per giocare sta in un certo senso compiendo un gioco di finzione, dal momento che è cosciente del fatto che questa non è né un topo né un uccello. La volontarietà dell’illusione è quindi centrale e basilare. Gli esempi che Piaget propone per rafforzare la sua tesi sono incentrati sull’osservazione del comportamento della figlia Jacqueline. L’idea dello psicologo è che la finzione nasca dalla simbolizzazione di oggetti quotidiani. Azioni scaturite per caso assumono in questo modo una valenza rituale. Jacqueline, ad esempio, esegue un rituale prima di addormentarsi:

21. Millar 1974, p. 147.

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essa vede una stoffa i cui bordi ornati di frangia richiamano vagamente quelli del suo cuscino: se ne impadronisce, ne trattiene un lembo con la mano e si corica di fianco ridendo. Essa tiene gli occhi aperti, ma li strizza di tanto in tanto come per alludere agli occhi chiusi.22

La stessa sequenza viene poi riproposta nei giorni seguenti con il collo di un soprabito della madre e la coda di un asinello di pezza. I diversi oggetti agiscono in questo modo da sostituti. 23 Quello che Jacqueline fa, potremmo dire usando Bateson, è instaurare una specie di cornice ludica all’interno della quale gli atti che compie assumono un significato diverso da quello che assumerebbero nella vita quotidiana.

Le sequenze di azioni ripetute diventano poi sempre più succinte e alludono soltanto, in forma simbolica, all’oggetto che le ha generate. In seguito i sostituti non sono più necessari. La finzione, non più legata all’oggetto originario, si espande allora in altre direzioni, rendendo possibili sequenze simulate più elaborate. Anziché singoli eventi, si rappresentano intere scene, prima tratte dalla vita reale e poi pressoché interamente fantastiche. Gli oggetti immaginari non sono più solamente imitati: essi possono essere inventati combinando oggetti reali assenti.

È vero che il costume di Zorro spinge Franco a giocare a Zorro, – esemplifica Michel Small –ma non è un accessorio indispensabile; quando infatti la frusta di finto cuoio nero e di finto oro sarà stata persa, cosa che non tarderà ad accadere, la sostituirà con un pezzo di spago, oppure con un semplice bastoncino; l’oggetto, una volta visto e registrato fin nei minimi particolari, non

22. Piaget, cit., p. 139.

23. Gombrich 1976, p. 8: “Nel linguaggio infantile viene ancora riconosciuta la funzione psicologica della ‘rappresentazione’. Può capitare che una bambina respinga una bambola compiutamente naturalistica, e le preferisca invece un mostro di pupazzo ‘astratto’, che in compenso però si possa meglio ‘coccolare’. Magari la bambina potrà addirittura eliminare l’elemento ‘forma’, e adottare una coperta o una coltre come sua ‘consolatrice’ preferita, un sostituto al quale prodigare il suo amore”.

è più necessario e lo si può sostituire con molto poco...24

Bruno Bettelheim invece pone l’accento sui risvolti psicanalitici del gioco. Il pedagogista ritiene che il gioco possa essere il mezzo privilegiato per accedere all’inconscio infantile. Questo infatti non solo ha la funzione di aiutare il bambino nella comprensione di ciò che fatica a comprendere, ma rappresenta anche uno strumento insostituibile attraverso il quale imparare a padroneggiare le proprie emozioni. Dal canto suo il genitore deve riconoscere l’importanza del gioco e accettare il fatto che capire i giochi del figlio significhi capire le sue esperienze. L’esempio proposto da Bettelheim è quello di una bambina di quattro anni che, avendo difficoltà ad accettare l’arrivo di un fratellino, reagisce attraverso la regressione. Si comporta come una neonata, “gioca” a fare la neonata. Il gioco è quindi in questo caso espressione di un disagio. Ma, col procedere della gravidanza della madre, la bambina smette di fingersi un bebè e passa a interpretare il ruolo di mamma. Attraverso il gioco, dichiara di essere pronta al cambiamento che sta per verificarsi nella struttura familiare. Il gioco è dunque terapeutico, consente alla bambina di superare in modo del tutto personale una situazione che le causava ansia. Imitando la madre, la piccola si cala nei suoi panni e cerca di condividerne le sensazioni e le preoccupazioni. Un po’ come succede a teatro, dove i più grandi non fanno niente di diverso da ciò che giocando ha fatto la bambina:

a quattro anni quella bambina era in grado di impersonare, credendoci, sia la neonata sia la madre. I bambini più grandicelli non possono regredire altrettanto facilmente e apertamente, né riescono a credere veramente, neppure nel gioco, di essere un babbo o una mamma. Una buona soluzione per quei bambini che non possono più permettersi di fingere di essere quello che non sono consiste nel rappresentare questi

24. Small 1975, pp. 9-10.

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ruoli in una recita, come attori o manovrando dei burattini. Come attori e burattinai possono agire i loro conflitti senza scalfire la maturità conquistata a prezzo di tante fatiche e nello stesso tempo comportarsi da bambini più piccoli di quello che sono, o da più grandi, a seconda delle loro necessità.25

La forma simbolica permette perciò di risolvere problemi che altrimenti faticherebbero a trovare altri sbocchi espressivi, oltre a preparare i bambini ai compiti che li aspettano in futuro.

Se il gioco detiene questo incredibile potere è perché si tratta di “un’attività piacevole, liberamente scelta”26. Nel gioco il bambino è libero e può muoversi liberamente: può spaziare sia con la mente che con il corpo, giocare con le idee come gioca con le cose. Bettelheim parla a questo proposito della parola tedesca Spielraum, che significa sia “stanza da gioco” che “libertà d’azione”. Gioco e libertà sono concetti affini. È proprio la libertà di immaginare che fa sì che il gioco costituisca un ponte verso la realtà: armonizza l’inconscio col mondo esterno, per suo tramite

la fantasia si modifica via via che i gesti del gioco mettono in luce i limiti imposti dalla realtà. Al tempo stesso, la realtà ne viene arricchita, umanizzata, personalizzata, grazie al soffio di vita immessovi dalle componenti inconsce provenienti dalle profondità del mondo interiore.27

Non stupisce che attraverso il gioco, più che attraverso qualunque altra attività, il bambino acquisti padronanza della realtà. Nel gioco infatti i bambini posseggono un dominio sugli eventi esterni che nella realtà non è assolutamente di loro appannaggio. Il gioco è da questo punto di vista un bisogno, oltre che un godimento. Un altro degli esempi proposti da Bettelheim ha per protagonista un bambino di ritorno da una visita dentistica. Con un amico, o in sua assenza

25. Bettelheim 1987, p. 212.

26. Ivi, p. 215.

27. Ivi, p. 226.

con una bambola o un orsacchiotto, egli ricrea la situazione appena vissuta. Nel ruolo di dentista, chiede al compagno di giochi di tenere la bocca bene aperta proprio come era stato chiesto di fare a lui. Ricostruire l’evento serve al bambino ad assimilarlo: analizzandolo per così dire “a rallentatore”, ha modo di comprenderlo nella sua totalità.28

Anche nel caso di un trauma, come quello di una visita repentina al pronto soccorso, il gioco agisce da dissipatore di angoscia. Una volta a casa, il bambino steccherà una zampa del proprio pupazzo, per permettergli di correre come prima una volta “guarito”. Rivivere la situazione traumatica serve a comprenderla interamente e successivamente integrarla nella propria esperienza. Aggiunge Bettelheim:

il bambino, dunque, rimetterà in scena centinaia di volte il trauma subito con il suo giocattolo, rassicurandolo ogni volta che la terapia lo farà guarire. E, ascoltando le proprie rassicurazioni, alla fine se ne convincerà a sua volta.29

L’accettazione della realtà è veicolata dalla comprensione, che è a sua volta garantita dall’attività ludica.

Tanto per Piaget quanto per Bettelheim la finzione è molto di più che un’innocente menzogna. Fingendo, i bambini vengono guidati alla scoperta di se stessi e del mondo. Imitazione e creazione sono le attività che, bilanciandosi, li guidano in questa scoperta. Finzione significa perciò anche capacità di analisi e trasformazione del reale. I bambini, fingendo, ricostruiscono il mondo intorno a sé rendendolo più vicino alle

28. Altro esempio di agire attivamente, attraverso il gioco, una situazione passivamente vissuta, al fine di renderla accettabile, è quello della bambina che all’uscita da scuola gioca “alla maestra” con i fratelli più piccoli: aver sperimentato l’esperienza scolastica nel ruolo quotidianamente opposto al proprio, permetterà alla bambina di tollerare le imposizioni scolastiche con maggior facilità (Ivi, pp. 258-259).

29. Ivi, p. 258.

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loro esigenze e alle loro aspettative.30 La conclusione che se ne può trarre apre una prospettiva nuova anche in campo filosofico. Se la messa in discussione del presente è filtrata tanto dall’osservazione quanto dall’immaginazione, non sarà poi così difficile metterla in atto e il cambiamento diventerà davvero un gioco da bambini.

30. Simpatico e poetico al tempo stesso è un aneddoto autobiografico narrato a questo proposito da Michel Small: “Io ho realmente vissuto sei anni della mia infanzia a Winchiscope, uno dei paesi più meravigliosi della terra, che io e i miei fratelli avevamo dotato di un ben preciso ideale di vita e di potenza sotto la dinamica autorità di due imperatori (uno per la pace e uno per la guerra) sostenuti da un fedele alleato (‘Sabouliko’) nella contesa contro la secolare nemica (‘Erispaudie’). ‘Wichita’, la capitale, era di volta in volta rappresentata da un lavatoio abbandonato, da una vecchia trebbiatrice, da un boschetto di lauri del nostro giardino, da una conigliera vuota. Ci rivelavamo perfetti attori ogni giorno, quando, terminata la scuola, ci mettevamo nella pelle dei ‘fratelli Hotch’, eroi favolosi di questo paese di sogno, e i nostri reali vincoli di parentela arrivavano al fantastico a mano a mano che l’avventura si sviluppava. Non è tutto possibile nel mondo della finzione?” (Small, op. cit., pp. 11-12).

27 IL FILOSOFO È UN PIRATA

Parte Seconda Spunti

Percorsi di filosofia con i bambini

medesimi. Bisogna tenere presente che i tempi e gli spazi in cui l’attività si realizza – insieme al numero e all’età dei partecipanti – condizionano in modo significativo il risultato finale.

In questa sezione cercherò di raccontare alcuni dei percorsi che in questi anni ho proposto a vari gruppi di bambini, nelle scuole, nelle biblioteche, a teatro e in occasione di eventi tematici che li vedevano protagonisti.

La maggior parte delle attività si è svolta tra Toscana ed Emilia-Romagna, ma non sono mancate incursioni in altre zone d’Italia, come la Calabria o la città di Matera, che nel 2019 è stata capitale europea della cultura. Una collaborazione preziosa che ha reso possibile la realizzazione di numerosi laboratori è quella con la Fondazione Collegio San Carlo di Modena, che da anni si occupa di filosofia con i bambini nell’ambito dei progetti Piccole ragioni prima e FilosoFare poi, in collaborazione con il Comune di Modena.150

Si tratta di esperienze collaudate ma che è difficile considerare esemplificative: non credo che un laboratorio sia mai stato uguale a un altro, anche se i temi e i materiali di partenza erano i 150. Per maggiori informazioni sui progetti si rimanda ai volumi AA.VV., Piccole ragioni. Filosofia con i bambini, Franco Cosimo Panini, Modena 2012 e AA.VV., FilosoFare. Filosofia con i bambini. Percorsi, esperienze, strumenti per la pratica educativa, Artebambini, Bologna 2014. In calce a Educare al limite. Filosofia nella scuola dell’infanzia, edito da ETS nel 2019, viene invece raccontata l’avventura del progetto Erasmus+ CAPs. Children as Philosophers, che ha visto coinvolte, oltre alla Fondazione Collegio San Carlo e al Comune di Modena, realtà provenienti da Bulgaria, Germania, Regno Unito, Romania e Svezia, impegnate a confrontarsi sulle buone pratiche filosofiche con i bambini.

Questi progetti sono pensati per poter essere realizzati con la massima flessibilità: non richiedono materiali complessi da realizzare o difficili da reperire, non servono strutture particolari per accogliere i piccoli filosofi. Si può filosofare in un’aula scolastica così come in una biblioteca, in un parco o in mezzo a un bosco. I tempi possono essere modulati – a seconda che si abbiano a disposizione uno o più incontri –, gli interrogativi riformulati in base all’età dei partecipanti. L’idea è quella di mettere chiunque sfogli queste pagine nella condizione di potersi cimentare con l’esperienza filosofica insieme ai bambini, utilizzando gli strumenti proposti come un canovaccio a partire dal quale sviluppare il proprio percorso. L’invito è proprio quello a personalizzare i singoli percorsi, ricavandone qualcosa di nuovo, che sia cucito su misura per le proprie caratteristiche e per le esigenze del gruppo a cui ci si rivolge.

Per ciascun progetto è indicata la fascia d’età, i materiali utilizzati durante l’attività e una breve descrizione di quello che potrebbe essere lo svolgimento. Indicativamente, i laboratori che si rivolgono ai più piccoli possono senza difficoltà essere adattati ai più grandi, mentre è forse più complesso ripensare quelli costruiti per le fasce 7+ o 10+ a beneficio dei bambini che ancora non frequentano la scuola primaria. I progetti possono anche essere combinati insieme se si hanno a disposizione più appuntamenti: ciascun tema diventa il titolo di un percorso specifico articolato in vari incontri.

71 IL FILOSOFO È UN PIRATA

Emozioni in gioco

Nell’Etica, Spinoza individua nella gioia e nella tristezza i principali affetti intorno ai quali si articola la vita emotiva degli uomini. A partire da questi due affetti “primari” è possibile ricostruire la totalità delle emozioni e dei sentimenti umani. Ma che c’entra Spinoza con la filosofia insieme ai bambini? Non sarà troppo complicato citare un autore che scrive addirittura in latino?

Alcune tra le teorie filosofiche più fortunate partono in realtà da presupposti piuttosto elementari, e ripercorrere i passi di un pensatore del calibro di Spinoza non è dunque un compito al di fuori della portata di un bambino. Al contrario, scoprire che qualche importante filosofo era giunto prima di noi alle nostre stesse conclusioni è una piacevole scoperta che conferma come la filosofia non sia una materia astrusa e complicata ma un’attività maieutica, attraverso la quale “partorire” quelle verità semplici e universali che già si trovano dentro di noi.

Il tema delle emozioni è poi particolarmente importante per i bambini anche per un altro motivo: commetteremmo un errore ritenendo che i più piccoli non siano in grado di provare emozioni forti, scomode, talvolta anche violente. Il modo in cui affrontano i cambiamenti, i rifiuti, le prime passioni è anzi spesso totalizzante, e condiziona il loro percorso di crescita in ma-

niera significativa. Per questa ragione aiutarli ad aprirsi, a parlare liberamente di come si sentono e di cosa provano, può essere la strada maestra per accompagnarli in questo percorso, senza giudicarli ma offrendo loro degli strumenti con cui guardarsi dentro ed eventualmente contrastare le emozioni negative.

Ricordo di un bambino che, durante un incontro, alla mia domanda se l’amore fosse un’emozione gioiosa o triste, rispose sconsolato che era l’emozione più triste di tutte. A quel punto gli domandai il perché e la risposta fu alquanto lapidaria: “Perché Alice non mi vuole!”. Resistetti all’impulso di mettermi a ridere: la sua delusione e la sua malinconia in quel momento erano autentiche. Ne venne fuori una discussione piuttosto animata su che cosa significhi provare dei sentimenti non ricambiati e sul perché a volte gli stessi avvenimenti suscitino emozioni diverse. Spinoza sarebbe stato fiero di noi!

79 IL FILOSOFO È UN PIRATA

Tutti i colori delle emozioni

Età: 4+

Materiali: colla, fogli bianchi, pastelli colorati, brillantini, paillettes, Didò

Svolgimento

Di che colore è la felicità? Io la immagino gialla, con dei brillantini dorati. La calma, invece, di che colore è? Anche quella ha i brillantini, ma sono verde chiaro, a forma di stella. E se dovessi modellare l’invidia? Sceglierei ancora il verde, ma più scuro, magari mescolato con del nero. Altri però potrebbero vedere queste emozioni in modo diverso, a seconda delle occasioni in cui sono soliti provarle, o dei ricordi che vi associano. Un bambino mi disse una volta che l’odio era secondo lui arancione e viola. Erano gli stessi del suo quaderno di matematica, e lui la matematica la odiava proprio. Quello che i bambini sono chiamati a fare in questa attività è cercare di dare forma e colore alle loro emozioni, utilizzando fogli bianchi e pastelli o anche plasmando direttamente il Didò, facendogli assumere ora il volto della rabbia, ora quello della paura. È il primo passo per riuscire a parlare delle emozioni e ad affrontare soprattutto quelle che li fanno soffrire o che non riescono a capire fino in fondo. Il confronto, poi, è fondamentale. Quante volte ho sentito descrivere il momento della nascita di un fratellino o di una sorellina attraverso le emozioni più disparate! Scoprire di non essere gli unici ad aver provato invidia, o rabbia, permette ai bambini di accettare anche le emozioni negative, comprendendone le cause e gli effetti.

Spinoza e il coccodrillo viola

Età: 4+

Materiali: coccodrillo disegnato e ritagliato, fogli bianchi, matite colorate

Svolgimento

Grazie a Spinoza, che ci spiega come si formano e regolano le emozioni, ne affrontiamo in questo laboratorio una tra le più complesse: la paura.

Chi ha paura del buio? Rivolgendo questa domanda ai bambini, si corre il rischio di restare sorpresi: contrariamente a quanto si pensa, non sono molti quelli che hanno paura di addormentarsi dopo aver spento la luce, temendo di ricevere una visita dal mostro che abita sotto il loro letto. In compenso, in questi anni di attività con i bambini, mi è capitato di intercettare le paure più strane: l’aspirapolvere, il gatto dei vicini, le ciambelle, le sabbie mobili. Ma anche paure molto più profonde e comuni a grandi e piccoli: paura dell’abbandono, paura di non essere accettati, paura della morte (propria o di chi si ama). L’idea che anima questo progetto è che non ci siano angosce troppo radicate di cui non si possa parlare. Anzi, affrontare proprio le paure più profonde e “ataviche” dei bambini è il modo migliore per esorcizzarle, renderle meno spaventose. Al coccodrillo viola – che per contrappasso non intimorisce ma è anzi molto timoroso – vengono attribuite tutte queste paure e poi, a turno, ciascuno suggerisce un modo per liberarsene. Al termine dell’attività, ogni bambino disegna la propria paura e poi, metaforicamente, il coccodrillo se la mangia insieme al foglio su cui è raffigurata.

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La filosofia è una disciplina considerata ancora “esclusiva”. È insegnata solo nei licei, quasi a dire che sia comprensibile e praticabile solo a partire da una certa età. La pratica filosofica è pensata e vissuta come azione astratta, distante dalla vita di tutti i giorni. Viene da chiedersi perché questo accade, considerato che – se per filosofia s’intende un metodo per esercitare il pensiero a partire da domande e dalla ricerca di risposte – questo esercizio avviene normalmente sin da quando si è piccoli: i bambini e le bambine sono dei grandi laboratori viventi di domande.

Questo libro ci accompagna a fare esperienza filosofica con i bambini, proponendo percorsi e laboratori mirati ad affidare nelle mani di “piccoli filosofi” nuovi strumenti per riflettere sulle tematiche che incontrano nel quotidiano e incoraggiano all’uso del pensiero autonomo esercitando il diritto alla libera espressione, perché solo il confronto con altre teste pensanti ci consente di aprire la mente e imparare cose nuove. “Ma chi è un filosofo?”, è stato chiesto ad una classe di scuola elementare: per alcuni il filosofo porta gli occhiali o è un tipo spericolato, c’è chi pensa lavori con le idee e chi crede che studi le persone; qualcun’altro dice che se la conoscenza fosse un’isola, il filosofo sarebbe il pirata in cerca del tesoro nascosto. Le risposte, ci insegna Socrate, non le ha nessuno. Il punto sono proprio le domande. “Fare filosofia” significa interrogarsi insieme, cercare insieme, continuando a meravigliarsi. Ad ogni età, imparando dai bambini e dalle bambine.

Emma Nanetti (Livorno, 1988) si è laureata a Pisa nel 2012 con una tesi sulla filosofia con i bambini. Da allora visita scuole, biblioteche e teatri inventando storie insieme a tutti i bambini curiosi che incontra, a cui spiega che per essere filosofi non serve avere la barba. Dopo il dottorato ha scritto un libro su Giambattista Vico e ha iniziato a insegnare storia e filosofia nei licei della provincia di Modena.

In copertina disegno di Fabio Magnasciutti

ISBN 979-12-5626-005-8

Euro 14,50 (I.i.)

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