Gli amanti dell'isola

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EVA LEIGH Gli amanti dell'isola

C'è un motivo se ho dedicato a Zack ogni romanzo d'amore che ho scritto, ed è che lui è stato e sarà sempre il mio eroe nella vita reale.

Dedica

Scozia, Ebridi Interne, 1819

«Maledetti aristocratici!» borbottò Dominic Kilburn mentre la barca gli beccheggiava sotto i piedi.

Con pura forza di volontà – e l'indubbia potenza delle sue cosce muscolose – riuscì a evitare di cadere nelle acque tumultuose, ma ne corse il rischio. Se non fosse stato un bastardo così ostinato, che si rifiutava di permettere al mare di avere la meglio su di lui, sarebbe finito sott'acqua. Il che avrebbe comportato un piccolo problema. Dominic non sapeva nuotare. Di rado gli uomini di umili natali come lui ne erano capaci.

«E adesso cosa ti hanno fatto i miei pari?» domandò Finn Ransome, in piedi vicino al parapetto.

«Questo dannato mare è gagliardo come una bottiglia di gin di una taverna di Ratcliff» borbottò Dom all'amico.

«Trovarti in acqua ti ha reso i nervi agitati come le onde» gli fece notare Finn. «Sento trasparire l'accento del tuo vecchio quartiere.»

«Dannato intuito del giocatore!» Ma era inutile nasconderlo. «Per quante lezioni di dizione mi abbia fatto prendere papà, quando sono scosso non riesco a fare a meno di mangiarmi le consonanti. Immagino che sarò sempre uno nato e cresciuto a Ratcliff.»

«È affascinante» sottolineò il suo amico.

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Dom sbuffò. «Non sono in molti del tuo ceto a pensarla così. Ed essendo tu il secondogenito di un conte, hai una voce dolce e raffinata come la panna del latte.»

Finn inoltre rivelava di rado le emozioni, nemmeno quando una barca di venti piedi sobbalzava e ondeggiava sulle acque scozzesi. L'imbarcazione era abbastanza grande da ospitare loro due, la moglie di Finn, Tabitha, i loro bagagli e il capitano, che si muoveva con l'abile disinvoltura di una persona che probabilmente era nata su quello stesso ponte.

«Sembra che tu stia dando le carte in una mano di faraone, da quanto sei composto» lo accusò Dom.

«Non posso fare niente per le condizioni del mare» rispose pacato il suo amico. «Quindi è ragionevole pensare che possa concedermi di godermelo. Perché stai in piedi al centro della barca? Vieni al parapetto a gustarti la vista.»

«Io me ne resto proprio qui.» Dom rimase radicato al centro del ponte. «Il più lontano possibile dal parapetto e dalla possibilità di morte per annegamento. Non finirò in fondo al gelido mare scozzese.»

Non senza avere prima rivisto lei. Se la sua miserabile esistenza in quel mondo dimenticato da Dio fosse finita, voleva che il volto di Willa fosse l'ultima immagine che i suoi occhi avrebbero visto. Persino se lei lo avesse guardato in cagnesco e lo avesse ricoperto di ogni insulto noto, gli sarebbe bastato contemplarla un'ultima volta. Forse non sarebbe morto felice, ma sarebbe stato contento di sapere che lei era viva e che avrebbe avuto la possibilità di trovare la gioia vera.

Tuttavia non vedeva il volto di Willa, né sentiva la sua voce, da quasi un anno, ovvero dalla sera precedente quel terribile giorno di primavera. Dom l'aveva abbandonata un attimo prima della loro cerimonia di nozze, aiutato da Finn e da suo fratello Kieran; un gesto grave, tanto più per il fatto che Willa era la sorella dei suoi amici.

«E non capisco perché tu debba essere in collera con

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quelli del mio rango» commentò Finn. «Anche se l'aristocrazia britannica detiene un'ingiusta quantità di potere, non puoi sostenere che la nobiltà sia in grado di influenzare gli elementi atmosferici e rendere il mare burrascoso.»

«Ma sono stati membri del tuo rango a decidere di tenere questo dannato ricevimento su una minuscola isola scozzese, invece che in una delle loro infinite residenze di campagna, pagate con il sangue e il sudore dei contadini» ribatté Dom puntellandosi, mentre un'altra onda sollevava la barca prima di sbatterla giù con violenza.

«Oliver Longbridge ha affermato che il suo maniero sull'isola sarebbe stato il luogo perfetto per un ricevimento» rimarcò Finn. Batté a malapena ciglio quando uno spruzzo gli schizzò sul volto, poi con calma usò un fazzoletto per asciugarsi. «Un posto libero dalle tradizionali regole di condotta della società perbene, grazie alla sua posizione remota. Inoltre» aggiunse, prima che Dom si lamentasse di nuovo, «hai deciso tu di tua spontanea volontà di venire. Nessuno ha minacciato la vita del tuo cavallo da corsa preferito.»

«Dimentichi il fatto che tu e quel tuo dannato fratello mi avete indotto a partecipare» ribatté Dom. Con un'esagerata affettazione aristocratica, continuò: «"Vieni al ricevimento, Dom. Sarà assai piacevole sfuggire al tedio di Londra e promette di essere un vero divertimento, vecchio mio."».

Finn rise. «Mio Dio, se Kieran e io parliamo sul serio così, hai il permesso di gettarmi in mare.»

«Significherebbe lasciare la sicurezza del punto in cui mi trovo» rispose Dom, «rischiando la mia vita per mettere fine alla tua.»

Non c'era rancore nelle sue parole. Da quando il padre di Dom aveva fatto fortuna quasi dodici anni prima, affittando magazzini al porto, l'amicizia dei fratelli Ransome era stata l'unica sua consolazione, mentre navigava nell'insidioso mondo dell'aristocrazia inglese. Dom avrebbe preferito buttarsi in acqua, piuttosto che ferire i suoi due amici più cari.

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«Penso di scorgere l'isola» esclamò eccitata Tabitha Ransome.

Si portò al fianco del marito e il braccio di Finn le cinse all'istante la vita, stringendola. Era un gesto al contempo protettivo e adorante, proprio come l'espressione sul volto di Finn. Per essere un uomo che di rado lasciava trasparire ciò che pensava o sentiva, si sbarazzava di quelle barriere ogni volta che la moglie gli stava vicino. Quanto a Tabitha, la studiosa che era in lei sembrava altrettanto innamorata quando era in presenza del marito.

A Dom si strinse il cuore. Non invidiava la felicità di Finn... ma gli ricordava ciò che lui aveva perso e che non avrebbe mai avuto.

E ora che sia Finn sia Kieran si erano trovati delle mogli, lui rimaneva perlopiù da solo a vagare per Londra dopo il calare del buio. Dato l'umore cupo che lo aveva pervaso da quando aveva abbandonato Willa, ciò significava che quasi ogni mattina si trascinava a casa dopo essersi sfiancato nella palestra di pugilato aperta a tutte le ore o dopo avere cercato di trovare consolazione nel fondo di un boccale.

Era impossibile stabilire se il mal di testa di quelle mattine fosse causato dai pugni che prendeva dagli avversari o dalle enormi quantità di alcol che ingeriva, ma sia il pugilato sia le bevute lo distraevano dal fatto che aveva perso Willa, che non l'avrebbe più riavuta e che avrebbe trascorso il resto dei suoi maledetti giorni roso dal senso di colpa.

Be'... un tempo lo distraevano. Sempre più spesso, di recente, non c'erano abbastanza avversari o botti di birra che gli evitassero di sprofondare in un pantano di vergogna e collera.

E quella era l'unica ragione per cui aveva accettato l'invito dei fratelli Ransome a unirsi a loro al ricevimento di Oliver Longbridge su quell'isola privata nelle Ebridi. Perché qualunque cosa doveva essere meglio dell'attuale esistenza di Dom. Forse non ci sarebbe stato un quadrato su cui fare a

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pugni, ma poteva sempre prosciugare le cantine. Magari avrebbe anche dormito meglio in un letto diverso, perché Dio sapeva che al momento non dormiva affatto.

«Senza dubbio sembra parte di un ritiro isolato e spazzato dal vento» notò Finn mentre la barca si avvicinava all'isola. «Pare sia uscito da uno dei nostri romanzi gotici preferiti, amore mio» aggiunse con calore rivolto a Tabitha.

«Mi darai la caccia mentre vago per i corridoi, reggendo una candela con addosso nient'altro che la camicia da notte?» gli chiese la moglie con un sorriso scherzoso e colmo di affetto.

A Finn brillarono gli occhi. «Non vedo l'ora di prenderti.»

Invece di osservare l'intimità tra i due consorti, Dom tenne lo sguardo sull'isola, che diventava sempre più grande. Da lontano, riuscì a distinguere alcuni dettagli del rifugio privato di Longbridge. Scogliere rocciose circondavano una spiaggia e su una di esse si ergeva un edificio di pietra a tre piani, con tetti appuntiti e persino una torre merlata. Dietro il maniero si distendeva un terreno accidentato, di un verde acceso all'inizio della primavera, e, anche se gli alberi che punteggiavano il paesaggio erano scarsi, formavano piccoli gruppi decorativi qua e là.

«L'isola è bellissima» commentò Tabitha. «Non trovi, Dom?»

«Suppongo di sì. È Kieran il poeta e probabilmente ha innumerevoli metafore e similitudini elaborate e graziose da snocciolare.» Avendo però trascorso i primi diciotto anni della sua vita nei bassifondi di Ratcliff lungo il fiume, ampi spazi aperti come quell'isola gli provocavano solo un ribollente disagio nelle viscere, come se non ci fosse un posto dove nascondersi e nessun mezzo per combattere.

Però doveva trattarsi solo di quello, soltanto dell'apprensione di un tizio di città che si trovava in un ambiente sconosciuto. Non di una premonizione.

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La madre di Dom era stata una donna moderna dotata di profonda intelligenza e buonsenso, tuttavia aveva posseduto anche un pizzico della superstizione gallese delle sue antenate. Era sempre stata attenta con i nidi di scriccioli che si trovavano nei cornicioni del loro caseggiato e non permetteva a nessuno di portare fiori di biancospino nelle loro stanze. Forse qualcuna di quelle vecchie credenze si era insinuata in Dom, rendendolo suscettibile alla suggestione. Non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa incombesse all'orizzonte. Qualcosa di diverso dall'irregolare maniero di pietra appollaiato in cima a una solitaria e remota isola.

Era il tipo di posto che i nobili ritenevano poetico, ma persone pratiche come Dom pensavano fosse isolato, difficile da mantenere, un po' spaventoso e, soprattutto, una vera spina nel fianco.

L'aspetto migliore di quel luogo era la lontananza, una grande lontananza da qualunque posto avesse potuto ricordargli Willa. Ogni angolo di Londra era impregnato della sua presenza: parchi dove avevano passeggiato insieme, negozi di tè, musei. Ovunque si potesse trovare una coppia di aristocratici che si corteggiavano, insomma. E, poiché lei era la figlia di un conte, era proprio in tali posti che si erano frequentati.

La città era infestata da Willa. Persino dopo che lei era scappata nel Continente, in seguito alle loro disastrose nozze annullate. Ma ora era tornata in Inghilterra, a Londra. Dom aveva fatto del suo meglio per evitare di vederla, il che significava nascondersi a casa durante il giorno e recarsi solo negli angoli più squallidi della città di notte. Un prigioniero della sua stessa colpa. Il remoto ritiro scozzese di Longbridge sembrava il luogo adatto a lui, almeno per le successive due settimane.

«Il ricevimento è già in corso?» chiese a Finn mentre la barca ondeggiante si avvicinava all'isola.

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«È passata una settimana da quando Longbridge ha aperto le sue porte a quella che mi è stata promessa essere la compagnia più divertente e disinibita» rispose l'amico con un sorriso.

«Con disinibita intendi una serie di sgualdrine di tutti i tipi» commentò secco lui.

«Esatto» confermò Finn.

Dom aspettò di provare un moto di eccitazione all'idea. Sarebbe stato lontano dalle malelingue, dagli sguardi di disapprovazione e dalla morale soffocante del ton e, senza dubbio, ci sarebbero state numerose occasioni per rotolarsi tra le lenzuola. Tuttavia, nonostante il dondolio della barca non gli disturbasse lo stomaco, si sentì nauseato al pensiero di accogliere una donna nel suo letto. Chiunque non fosse lei. E poiché ciò non sarebbe mai accaduto, si sarebbe dovuto rassegnare a due lunghe settimane passate ad ascoltare altre persone fare sesso nelle stanze adiacenti.

Peggio ancora, si sarebbe potuto trovare accanto alla camera di Kieran e Celeste. L'amico aveva sposato la sorella minore di Dom l'anno prima ed era evidente dai loro sguardi infuocati e dai loro tocchi indugianti che i due erano ardentemente innamorati. L'ultimo desiderio di Dom era sentire la sorellina al culmine della passione. Se fosse accaduto, sarebbe andato a dormire all'aperto, nella brughiera o qualunque fosse il nome che quella gente di campagna dava a un pezzo di terra.

Kieran e Celeste erano partiti per l'isola tre giorni prima; quindi, se per qualche orribile colpo di sfortuna la loro stanza fosse stata accanto alla sua, Dom sperò che avessero già esaurito tutta la passione.

Gettando uno sguardo circospetto a Finn e Tabitha, però, la cosa gli sembrò improbabile, dal loro appassionato abbraccio sul ponte della barca. Nei giorni da scapoli, i fratelli Ransome erano stati scellerati e, ora che entrambi avevano trovato l'amore, sembravano più eccitati che mai, sempre a

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coccolare le mogli e a sussurrare parole che le facevano arrossire. Bastava per fare desiderare a un uomo di inghiottire dei sassi.

«Vivete anche voi sull'isola?» chiese Dom al capitano, un uomo con la tipica barba rossiccia e il berretto di maglia.

«A Oban, dove siete saliti a bordo» rispose quello, con un fortissimo accento scozzese. «È lì che abito. Vado da Mr. Longbridge quando ha bisogno di me, ma, non appena vi avrò scaricato, tornerò indietro.»

«Quindi tornerete ogni giorno per gli approvvigionamenti» suppose Dom.

L'uomo gli rivolse solo un sorriso segnato dagli agenti atmosferici. «Ci siamo quasi.»

Non era una risposta e Dom sentì un brivido di apprensione scorrergli sulla nuca. Avrebbe dovuto chiedergli di fare inversione, ma sarebbe stato assurdo. Ci erano già voluti giorni su strade dissestate per raggiungere il porto e poi quel tragitto in barca di diverse ore per raggiungere la porta di Longbridge. Tornare indietro adesso lo avrebbe fatto apparire un maledetto idiota e Dom non aveva una reale prova che ci fosse qualcosa ad aspettarlo, quindi avrebbe proseguito quel viaggio e avrebbe cercato di farsi piacere quel dannato ricevimento. Se non di farsi piacere, almeno di tollerare. Per quanto fosse riuscito a tollerare ben poco dalla scorsa primavera.

Infine, la barca raggiunse un piccolo pontile che si allungava dalla spiaggia. Diversi valletti in uniforme aspettavano sull'attenti, senz'altro dopo avere scorto l'arrivo degli ospiti. Il capitano fece accostare l'imbarcazione e legò le cime, prima di aiutare Finn a scendere. A sua volta, Finn aiutò Tabitha. Quando fu il suo turno, Dom rifiutò ogni offerta di assistenza.

«Ho passato diciotto anni a salire e scendere dalle navi» affermò burbero, «dovrei riuscire a farcela da solo.» Praticamente da quando aveva imparato a camminare, aveva la-

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vorato nell'area portuale di Londra come stivatore, con la sua altezza e la sua forza come pregi inestimabili. Sulle banchine, perlomeno. Nelle sale da ballo dell'aristocrazia, il fatto che avesse la corporatura di una massiccia torre di pietra lo rendeva oggetto di scherno e disdegno.

Al diavolo questi spocchiosi!, si disse; quello era stato il suo motto per più di un decennio.

Grazie a Dio, non si mise in imbarazzo mentre scendeva dalla barca. Magari non aveva reso orgoglioso suo padre negli ultimi anni, ma non lo aveva disonorato in quell'occasione.

Probabilmente, però, l'arrampicatore sociale Ned Kilburn si sarebbe vergognato quando il capitano cominciò a passare i bagagli ai valletti e Dom si fece avanti per prendere le sue borse. Sia i valletti sia il capitano apparvero perplessi davanti a un uomo con costosi abiti da gentiluomo che non solo insisteva per trasportare i suoi effetti personali, ma che non vacillò nemmeno quando si caricò del peso.

Osservando la scena, Finn inarcò un angolo della bocca, ma non commentò. Com'era ovvio. Finn e Dom si conoscevano da molto tempo ed era stata proprio la loro mancanza di interesse nell'aderire alle rigide regole che all'inizio li aveva spinti a stringere amicizia.

I valletti insistettero, prendendo i bagagli di Finn e Tabitha.

«Felicitazioni per la vostra traversata» affermò una voce acculturata, «e benvenuti a Creag Uaine. Finché starete qui, sotto il mio tetto, non vi mancherà niente e ogni vostro capriccio sarà soddisfatto.»

Dom, Finn e Tabitha si voltarono e videro Oliver Longbridge percorrere il pontile verso di loro. Come al solito, era vestito all'ultima moda, con il lungo cappotto elegante che si gonfiava alle sue spalle mentre si avvicinava con la mano tesa per i saluti.

Era figlio di padre di colore delle Indie Orientali e di ma-

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dre bianca inglese e il suo patrimonio era costituito dall'eredità e da investimenti accorti. A Londra era una figura popolare e molto rispettata. Tuttavia solo pochi eletti sapevano che il morigerato Mr. Longbridge teneva ricevimenti segreti noti per il loro edonismo sfrenato. Il fatto che stesse offrendo quel particolare ricevimento era garanzia che sarebbe stato famoso negli anni a venire.

Dopo avere stretto la mano di Finn e avere sfiorato le nocche di Tabitha con un bacio delicato, Longbridge si rivolse a Dom con un ampio sorriso.

«Finalmente siamo riusciti ad allontanarvi dalla vostra amata Londra» affermò gioviale.

«Si dice che abbiate delle cantine senza pari.» Per fortuna Dom si era ricomposto a sufficienza dopo essere sceso dalla barca, così da riuscire a utilizzare le lezioni di dizione e potere apparire più simile a un gentiluomo.

«E avete in programma di svuotarle» replicò Longbridge, ridacchiando. «Ci sono altri divertimenti per sedurvi» aggiunse, con aria allusiva.

«Così mi è stato riferito, ma il whisky mi attrae più di qualunque altro piacere.»

Cominciarono ad allontanarsi dal pontile e a percorrere una serie di gradini di legno che risalivano la scogliera. Finn era tutto premuroso mentre teneva una mano dietro la schiena di Tabitha e Dom fece una smorfia.

«C'è altro che desiderereste?» chiese Longbridge mentre salivano i ripidi gradini consunti.

Dom corrugò la fronte a quella domanda precisa. Forse, però, l'altro si comportava solo da padrone di casa sollecito.

«Scappare da Londra è tutto ciò che voglio» rispose.

«La città è ben lontana da noi» replicò Longbridge. «Qui a Creag Uaine siamo liberi di fare ciò che ci piace, quando ci piace. Di conoscere meglio chi ci piace.»

Avendo già partecipato ad alcuni dei ricevimenti di Longbridge, Dom aveva visto il padrone di casa e gli ospiti co-

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noscere molte persone. Lui, però, aveva perso interesse per simili attività sfrenate e futili quando aveva incontrato Willa e non ne aveva più ritrovato il gusto.

Tuttavia, si costrinse a rispondere: «Ottimo», come se l'idea non gli raggelasse del tutto il sangue.

Alla fine raggiunsero la cima delle scale, che terminavano sulla sommità della scogliera. Difficile non sentirsi un po' compiaciuto per essere l'unico del gruppo a non avere il fiato corto, inclusa la serie di valletti al seguito.

Un sentiero di ghiaia si allungava dalle scale alla facciata del maniero. Nel vederlo così da vicino, Dom emise un fischio di apprezzamento. Per quanto la dimora fosse grande, non era appariscente; sembrava piuttosto il prodotto del terreno accidentato che la circondava. Si estendeva in diverse direzioni, come se fosse cresciuta e si fosse sviluppata con il procedere dei secoli, e la sua struttura era sgangherata, ma affascinante. Non era un evidente sfoggio di ricchezza e potere, come quello che spesso contraddistingueva le residenze dell'aristocrazia. L'edificio serviva da casa, con le sue bizzarrie e i piccoli difetti.

Sentendo Dom fischiare, Longbridge si illuminò. «Anche a me piace quest'accozzaglia. L'ho ereditata dal lato materno. La leggenda dice che ai suoi albori abbia aiutato a respingere le invasioni via mare da parte degli inglesi e che poco lontano dalla spiaggia ci siano scafi di navi inglesi che marciscono sotto le onde. Quando la marea è bassa, si riesce a scorgere alcuni alberi.»

«Scommetto che c'è più di un fantasma» osservò Finn.

«I morti superano il numero dei vivi» rispose in tono allegro Longbridge. «Ci vorrebbero ore per elencarli tutti. Le storie non mancano.»

«Piuttosto affascinante» commentò Tabitha con espressione da studiosa. Diede un colpetto alla reticella prima di tirare fuori taccuino e matita. «Sarebbe molto interessante per me intervistare voi e i vostri domestici per sentire rac-

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contare queste storie e per conoscere le implicazioni filosofiche dell'attribuire una specie di coscienza a un posto.»

Longbridge apparve sconcertato. «Ah...»

«Più tardi, amore» intervenne Finn con affetto, mentre conduceva la moglie verso la casa. «Per ora, allontaniamoci dal vento, rinfranchiamoci con un po' di vino e concediamoci gli agi della casa. Poi potremo discutere di tutte le implicazioni filosofiche che desideri.»

Tabitha fece un cenno di assenso e Dom e Longbridge si scambiarono un'occhiata.

L'anno precedente c'era stato un momento in cui Finn aveva cercato di combinare un'unione tra Dom e Tabitha, affidandosi alla semplice logica che lui aveva vinto qualche premio accademico a Oxford e lei era... be', Tabitha. Per la fortuna di tutti, Dom si era fatto da parte, Finn e Tabitha si erano innamorati l'uno dell'altra e lui era riuscito a evitare di dovere discutere di materie accademiche prima di mezzogiorno.

Come aveva previsto Finn, il vento cominciò ad alzarsi, costringendo loro due a tenersi fermi i cappelli, mentre le gonne di Tabitha e il cappotto di Longbridge svolazzavano.

«Le tempeste arrivano in fretta e con poco preavviso da queste parti» affermò Longbridge tra una folata e l'altra. «All'interno potrete scaldarvi in molti modi.»

Indicò la casa e passarono in gruppo sotto l'arco di pietra che sovrastava il pesante portone d'ingresso in legno, che sembrava potesse respingere un drappello di soldati inglesi.

Entrando nel vasto atrio, Dom osservò i pannelli di legno scuro che rivestivano le pareti e le numerose armi che vi erano appese.

«Questi sono Mr. Brown e Mrs. Murray» spiegò Longbridge, indicando un uomo smilzo, con abiti scuri e austeri, e una donna robusta, dalle guance rosse, con un grembiule e un anello di chiavi appeso alla cintura. «Il maggiordomo e la governante. Qualunque cosa desideriate, dovete solo ri-

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volgervi a loro e vi sarà data. Non verrà posta alcuna domanda. Vero, Mrs. Murray?»

«Purché tutti lo vogliano» rispose la governante con una cadenza affascinante.

Come in risposta alle parole di Mrs. Murray, si udì un forte schianto in un'altra stanza, seguito da uno scroscio di risa. Naturale... il ricevimento era cominciato una settimana prima.

«Me ne occupo io» annunciò Mr. Brown con un inchino.

«E io mi accerterò che non serva una scopa» aggiunse Mrs. Murray. «Dopo di che, mostrerò a tutti le rispettive camere.»

I domestici fecero un inchino prima di congedarsi. Nel frattempo, la processione di valletti salì con i bagagli un'ampia rampa di scale intagliate. Due di loro si avvicinarono a Dom, guardando le sue borse con espressioni impazienti e non lasciandogli altra scelta che concedere loro ciò che desideravano. Così lui consegnò i propri averi. Ogni valletto ne prese una e si diresse su per le scale.

«Venite» esortò Longbridge con entusiasmo, «ci sono degli hot toddy e una vasta scelta di spuntini, pronti per rifocillarvi dopo il lungo viaggio. Da questa parte.» Quindi lanciò uno sguardo eloquente a Finn e Tabitha.

L'espressione di Finn non cambiò, ma Tabitha rivolse un breve cenno di assenso al padrone di casa.

La tensione irrigidì la schiena di Dom. Che diavolo stava succedendo?

Tuttavia, mentre Longbridge li accompagnava verso una stanza vicina all'entrata, Dom scosse la testa. Si stava immaginando le cose. Celeste sosteneva sempre che vedeva minacce dove non ce n'erano. Probabilmente era lo stesso caso. Pugni contro le ombre.

Entrò nella stanza adiacente l'ingresso. Sembrava un salotto elegante, anche quello rivestito di legno, con divani e poltrone sparsi qua e là e un fuoco che ardeva vivace nel ca-

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minetto. Su un tavolo al centro era sistemato un vassoio, con gli hot toddy promessi, dolci e panini.

Avvicinatosi al tavolo, prese una delle bevande fumanti e se la portò alle labbra.

Nello stesso istante, una porta in fondo alla stanza si aprì. Entrò una donna, voltata all'indietro mentre parlava con qualcuno.

«Perché devo venire qui?» stava dicendo. «Ero impegnata a mostrare a Mrs. McDaniel come imbrogliare a biliardo.»

Lei si fermò di scatto e Dom lasciò cadere il suo hot toddy, versandosi il liquido bollente sulle mani e sui vestiti. Non notò niente se non la donna.

Lei aveva folte sopracciglia, un volto rotondo dal fascino malizioso, occhi scuri penetranti e, quando guardò Dom sbalordita, emanò un'energia simile a una tempesta invisibile.

«Oh, diavolo!» esclamò Willa.

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