Innocenza e seduzione

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ANNE STUART Innocenza e seduzione

Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Ruthless Mira Books

© 2010 Anne Kristine Stuart Ohlrogge Traduzione di Lucia Corradini

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises ULC.

Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

© 2011 Harlequin Mondadori S.p.A, Milano

Prima edizione I Grandi Romanzi Storici Special marzo 2011

Questa edizione I Grandi Romanzi Storici Special settembre 2023

Questo volume è stato stampato nell'agosto 2023 da CPI Moravia Books

I GRANDI ROMANZI STORICI SPECIAL ISSN 1124 - 5379

Periodico mensile n. 344s del 14/09/2023

Direttore responsabile: Sabrina Annoni

Registrazione Tribunale di Milano n. 368 del 25/06/1994

Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA

Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano

HarperCollins Italia S.p.A.

Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano

Parigi, 1765

La visita dall'avvocato non era andata bene. Elinor Harriman arrivò a casa proprio mentre Lydia, sua sorella, finiva di trattare con il loro padrone di casa, e si nascose per non farsi vedere da quel vecchio libertino. Monsieur Picot non sopportava né lei né la loro madre, mentre con Lydia diventava uno zuccherino. I limpidi occhi azzurri della fanciulla si colmarono di lacrime, la sua boccuccia a cuore tremò lievemente, e Monsieur Picot crollò, sciogliendosi in scuse e rassicurazioni. Non si rese conto di essere stato preso in giro finché la porta non si chiuse con decisione, ed Elinor poté sgattaiolare su per le scale, contenta di non aver dovuto difendere l'onore di Lydia, nel caso Monsieur Picot si fosse lasciato trascinare.

In effetti non accadeva mai. Nessuno dei padroni di casa, dei macellai e degli ortolani approfittava mai della delicata bellezza di Lydia: irradiava da lei una tale squisita innocenza che nessuno avrebbe osato farlo. Perfino in quella infelice zona della città, nessuno si sarebbe sognato di offenderla.

«Te l'avevo detto» disse Lydia con un sorriso birichino, diversissimo dal suo solito sorriso da Madonna. «Funziona sempre.»

Elinor si accasciò sulla sedia più vicina, lasciandosi sfuggire un gemito quando una molla la punse. Durante l'ultimo trasloco, erano state costrette ad abbandonare tutti i loro mobili

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tranne quelli più malconci. Nel minuscolo salottino del loro appartamento ai margini di uno dei quartieri meno raccomandabili di Parigi, c'erano appena tre sedie e un misero tavolo che fungeva da scrivania, da desco e da toeletta... e le sedie reggevano a malapena. Le camere da letto erano altrettanto malridotte. Un letto sfondato nella prima stanza ospitava la madre, mentre loro due dividevano un materasso buttato sul pavimento dell'altra. Non aveva il coraggio di pensare a come dormissero Nanny Maude o Jacobs il cocchiere nella stanza sul retro che fungeva da cucina e da alloggio della servitù.

Era un'assurdità avere un cocchiere, dal momento che non possedevano né un cavallo né tanto meno una carrozza, fin dai primi giorni in cui erano giunte a Parigi, quando la loro madre era innamorata e loro erano entusiaste di quella nuova avventura. Ma Jacobs era venuto con loro dall'Inghilterra –vittima del fascino di Lady Caroline, come accadeva del resto alla maggior parte degli uomini – e nulla, nemmeno l'assoluta mancanza di stipendio, l'aveva convinto a lasciarle.

L'amante e i soldi erano svaniti in fretta, sostituiti da un altro uomo, quasi altrettanto ricco. Negli ultimi dieci anni Lady Caroline Harriman era caduta così in basso che Elinor non aveva cuore di pensarci. Per fortuna al momento sua madre era troppo malata per combinare guai, per andare in cerca di un'altra bottiglia di gin, del gioco d'azzardo, di un altro uomo che finanziasse i suoi bisogni primari, nei quali ovviamente non erano incluse le due figlie.

«Quanto tempo abbiamo guadagnato?» domandò, prendendo il lavoro a maglia. Sferruzzare non era il suo forte e le sue creazioni erano un obbrobrio, ma si era convinta di poter fare qualcosa di utile, anche se le calze e le sottovesti erano piene di smagliature. Nanny Maude le aveva insegnato come fare, ma come al solito lei si era dimostrata una pessima allieva.

Lydia sospirò. «Tornerà tra una settimana, e non credo che potrò ottenere un altro rinvio.» La dolce Lydia era perfetta in

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tutto, graziosa, intelligente, gentile e il suo lavoro a maglia impeccabile. Le poche lezioni che sua madre una volta le aveva pagato le erano bastate per imparare a ballare alla perfezione, sapeva dipingere, cantava come un usignolo, e qualunque uomo la conoscesse diventava suo schiavo; da Jacobs, il loro anziano servitore, fino al giovane e ricco Visconte di Miraboux, che aveva conosciuto in biblioteca. Per qualche tempo Elinor aveva sperato che i loro problemi fossero risolti, finché la famiglia del visconte non aveva avuto sentore di quanto stava accadendo, e lo aveva spedito a fare un grand tour per l'Europa.

Le avevano offerto del denaro, ricordò Elinor strofinandosi le mani gelate per scaldarsi, e probabilmente lei era stata una sciocca a rifiutarlo, sbattendoglielo in faccia. Come se una Harriman potesse abbassarsi fino al punto di farsi comprare. In quel momento, però, con Monsieur Picot che se ne era appena andato, pensò che avrebbe fatto quasi qualsiasi cosa per garantire un minimo di sicurezza a Lydia e alla loro piccola famiglia. Compresa la loro sconsiderata madre.

Lady Caroline era stata troppo ammalata per creare problemi, negli ultimi tempi. Non potevano permettersi dottori o medicine, e la dermatite che le aveva ricoperto il corpo e sconvolto la mente, peraltro mai troppo lucida, era quasi una benedizione: se non altro era costretta a letto e non poteva fare altri debiti.

«Dimmi dell'avvocato, Nell» chiese Lydia, chiamandola con il nomignolo che soltanto lei usava. «Nostro padre ci ha forse lasciato una cospicua fortuna per alleviare gli ultimi giorni di Maman? O almeno una piccola rendita?»

«Ci ha lasciato qualcosa, anche se definirla una vasta fortuna sarebbe un'esagerazione» rispose Elinor, cupa. «Il titolo e le tenute sono andate a un certo Mr. Marcus Harriman, mentre a noi ha destinato una somma in denaro, che di certo non vale altrettanto. Probabilmente, se avesse potuto, non ci

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avrebbe lasciato nulla.» Evitò di dire che l'eredità, quale che fosse, apparteneva almeno nominalmente a lei. La discendenza di Lydia era oscura, ma non aveva sicuramente nulla a che vedere con il padre di Elinor, lo sapevano tutti. Anche se per la legge inglese un figlio nato all'interno di un matrimonio valido era considerato prole legittima del marito, suo padre le aveva inventate davvero tutte pur di negare alla bambina e alla sua ex moglie qualsiasi tipo di sostegno economico.

Lydia sospirò. «Forse potremmo tenere a bada Monsieur Picot per un'altra settimana, se gli permettessi di prendersi qualche libertà con me. Un bacio non comprometterebbe certo la mia virtù, e se ci garantisse un tetto sulla testa...»

«No!» Elinor perse un'altra maglia e gettò da parte i ferri, esasperata. Poi fissò la sorella. «L'avvocato ha detto che nostro padre ci ha lasciato qualcosa, anche se, a quanto pare, ha posto una qualche ridicola condizione, così dovrò andare in Inghilterra per ottenere il lascito. Se almeno avessimo saputo prima che era morto... Ci saremmo date da fare mesi fa. Immagino che la comunicazione relativa alla sua dipartita sia giunta prima alla nostra vecchia residenza, ma dal momento che ce ne siamo andate nel cuore della notte lasciando tutti i conti da pagare, era prevedibile che non ci avrebbero inoltrato la posta. Sono sicura che non sarà una somma troppo misera. Non avrebbe lasciato morire di fame le sue figlie.»

Lydia fece un sorrisetto beffardo. «Non tentare di indorarmi la pillola. Lui ha sempre detto che non voleva avere niente a che fare con la progenie della sgualdrina che aveva avuto la sfortuna di sposare. Perché avrebbe dovuto cambiare idea sul letto di morte?»

«Be', era ancora arrabbiato. Erano passati solo pochi anni da quando nostra madre lo aveva lasciato, e lui era lo zimbello di tutta Londra. Presto o tardi, deve essersi ricordato che siamo sangue del suo sangue, e che ha delle responsabilità nei nostri confronti.»

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«Credevo avesse dichiarato che non eravamo figlie sue, giusto?»

Elinor ricordava a malapena suo padre. Era un uomo alto, incredibilmente brutto, con ben pochi interessi a parte i cavalli e le donne. Le era sempre parsa un'incredibile ingiustizia che sua moglie fosse stata denunciata per aver avuto interessi analoghi, ma ormai aveva imparato che la correttezza aveva ben poco a che fare con la realtà. «Ma certo che siamo sue figlie» rispose, sapendo che Lydia non aveva mai sospettato la verità a proposito delle proprie origini. «Io sono alta come la maggior parte degli uomini, e ho questo naso orribile.»

«È un naso assai grazioso, Nell» obiettò gentilmente Lydia. «Ti dà un certo carattere, mentre io invece sono una graziosa nullità.»

«Certe volte pagherei per essere una graziosa nullità» ribatté Elinor scontrosa.

«No, non è vero! Non credo proprio che vorresti essere diversa» esclamò Lydia.

Elinor fece una risata forzata. «Forse hai ragione. Ho sempre avuto un carattere piuttosto forte. Mi piacerebbe essere così come sono, ma favolosamente ricca. È una richiesta abbastanza ragionevole, no? Purtroppo, l'unico modo per ottenere una fortuna è sposarne una, e il Naso me lo impedisce.»

«Un uomo come si deve saprebbe apprezzarti, naso e tutto» replicò decisa Lydia. «E io ho tutte le intenzioni di sposare un uomo favolosamente ricco, così non hai di che preoccuparti. Sarai libera di sposarti per amore.»

Elinor sbuffò incredula, una reazione invero poco signorile. «Bella idea, mia cara. Ma come farai a incontrare quest'uomo ricchissimo, vivendo nei bassifondi di Parigi? Ancora un trasloco e finiremo proprio lì. Ci arriveremo, prima o poi, e non so se riusciremo a sopravvivere.»

«Io sono fiduciosa» disse Lydia con semplicità. «Avremo

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la risposta quando ci servirà.» Lydia era una devota cristiana, mentre Elinor aveva perso la fede anni prima, quando aveva conosciuto Sir Christopher Spatts, e ora accompagnava Lydia in chiesa solo per una questione di forma.

«Credo che questa risposta la attendiamo da tempo» brontolò. «Ti sarei grata se riuscissi a sollecitarla.»

Si udì un trambusto provenire dal retro dell'appartamento, e un attimo dopo Jacobs irruppe nella stanza, con il cappello in mano e il viso segnato dalla preoccupazione, subito seguito da Nanny Maude. «È andata, signorina» annunciò.

Non occorreva chiedere a chi si riferiva. «Cosa significa andata?» domandò Elinor, balzando in piedi. «È morta?»

«No, Miss Elinor» spiegò Nanny. «Vostra madre è riuscita a trovare gli ultimi soldi che avevo da parte per la spesa, ha indossato il vestito bello ed è uscita.»

«Oh, buon Dio. Come ha fatto? Credevo che potesse a malapena muoversi» disse Elinor, agghiacciata. «Cerchiamola. Non può essere andata lontano.»

«L'avevo quasi raggiunta, signorina» replicò tristemente Jacobs, stropicciando il cappello con le sue grosse mani. «Mi è parso di vederla correre per strada, ma è salita in carrozza prima che potessi fermarla.»

«Una carrozza? Siete sicuro che fosse mia madre? Non sapevo che conoscesse qualcuno con una carrozza.»

«Era lei» dichiarò ostinato Jacobs. «E ho riconosciuto la carrozza. Anche alla luce dei lampioni, ho visto il blasone sulle fiancate.»

«Oh, Signore» gemette Elinor. «In quale nuovo disastro ci ha cacciato? Di chi era?»

«Di St. Philippe.»

«Dannazione» esclamò Elinor. «Non mi guardate in quel modo, Nanny Maude. So che mi avete educata meglio, ma se mai esiste un'occasione che meriti un'imprecazione, è questa. Sapete di chi è amico St. Philippe, vero, Jacobs?»

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«Io no» si intromise Lydia, con gli occhi azzurri che scintillavano di curiosità.

«Non occorre che tu lo sappia» scattò Elinor.

«È quel demonio, vero?» disse Nanny con voce cupa. «È andata a finire nella tana del diavolo, dove fanno orge e cose del genere. Perderà anche i pochi soldi che ci erano rimasti, e probabilmente finirà sacrificata al maligno.»

«Non credo che facciano sacrifici, Nanny» obiettò Elinor con tono assai pratico, cercando di ignorare il cuore che batteva all'impazzata.

«Li fanno, eccome» ribatté Nanny, annuendo così vigorosamente che la cuffietta di pizzo le scivolò dai capelli argentei. «Le donne che ci vanno, poi, non si rivedono più. Ammazzano le vergini e ne bevono il sangue.»

«Be', se uccidono delle vergini, allora nostra madre è salva» borbottò Elinor, decisa a far sparire quell'aria terrorizzata dal volto della sorella. «E dubito che qualcuno si sia infatuato di lei al punto da farla sparire. Si giocherà il denaro e poi tornerà strisciando a casa, triste e sconsolata.»

«Voi non capite, signorina» insistette Nanny. «Sono tutti i soldi che ci erano rimasti. E ha preso anche la spilla di diamanti.»

Elinor sentì un brivido gelido correrle lungo la schiena. Era l'ultimo oggetto di valore che possedevano, di scarsa bellezza, con diamanti minuscoli e opachi che valevano pochissimo, ma lei lo aveva tenuto nascosto per le emergenze, che non comprendevano il comportamento volutamente autodistruttivo di sua madre. Raddrizzò le spalle. «Allora dovrò semplicemente andare a cercarla» annunciò, ignorando l'ululato di protesta di Nanny.

Jacobs non disse nulla, sapendo che non c'era altro da fare.

Lydia si alzò. «Vengo con te, Nell.»

«Assolutamente no. Se sarò io a entrare in quel covo di nequizie, non mi accadrà nulla. Se ci andassi tu... be', ti salte-

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rebbero addosso come un branco di lupi affamati.»

«Credo che tu sopravvaluti il mio fascino» commentò Lydia con un sorriso.

«E io credo che tu lo sottovaluti. Nanny ha detto che bevono sangue di vergine, ricordi?» disse con leggerezza sufficiente a tranquillizzare la sorella.

Sfortunatamente, Lydia sapeva leggerle dentro. «Anche tu sei una vergine, cara, a meno che non mi abbia nascosto qualcosa. Berranno anche il tuo sangue.»

Elinor non batté ciglio. «Non berranno il sangue di nessuno. Amano gli scandali e i segreti, ma dubito che siano pericolosi come pretendono di essere» obiettò in tono pacato.

«Uccidono i bambini» aggiunse Nanny.

«Zitta!» esclamò Elinor. «Non sono più una bambina. Jacobs mi accompagnerà a casa del Conte di Giverney, tireremo nostra madre fuori di lì e saremo di ritorno prima di mezzanotte.»

«Chiedo scusa, signorina, ma erano diretti fuori città» interloquì Jacobs. «Credo che siano andati al suo château.»

Elinor mantenne la calma. «E quanto è distante?»

«Non molto, signorina. Un'ora di viaggio, se ci affrettiamo.»

«Allora saremo di ritorno all'alba» si corresse lei. «Sani e salvi. E questa volta legheremo nostra madre al letto, quando non potremo sorvegliarla.»

«Come intendi arrivare laggiù?» chiese Lydia. «Non possediamo carrozza né cavalli, e nemmeno denaro per affittarli. Vuoi andarci a piedi?»

Elinor scambiò uno sguardo d'intesa con Jacobs, che uscì dalla stanza senza dire altro. «Ci penserà Jacobs» sussurrò. «Nel frattempo, conto su di voi perché la camera di nostra madre sia pulita e pronta per lei. Probabilmente dovremo usare le cinghie che impiegavamo durante i suoi attacchi di pazzia. Dipenderà da quanto gin ha bevuto, e bisogna vedere se

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le hanno dato qualcos'altro di pericoloso.»

«Non voglio che tu vada là da sola.»

«L'accompagnerò io» si offrì Nanny, sempre generosa nonostante l'età. Era così storpiata dai reumatismi che riusciva a malapena a camminare, ma avrebbe combattuto contro un intero reparto di soldati per le sue bambine.

«No, Nanny» replicò lei con dolcezza. «Ho bisogno che voi badiate a Lydia.» Incrociò lo sguardo della donna per un attimo, e si capirono alla perfezione. Se per qualche motivo Elinor non fosse tornata, Lydia avrebbe avuto bisogno di qualcuno, e Nanny era la loro unica possibilità.

L'anziana balia chinò il capo, ed Elinor si accorse che aveva gli occhi lucidi di lacrime. «Non siate ridicole, voi due. Non sto per varcare le porte dell'inferno. Il Conte di Giverney è soltanto un uomo che organizza feste licenziose, non il demonio, e io non sono certo il tipo di donna che può ispirargli oscure passioni. E poi, Jacobs ha una pistola, e sparerà a chiunque tenti di farmi del male. Entrerò, chiederò di mia madre, e loro probabilmente saranno più che contenti di liberarsi di lei. Quindi, non c'è nulla di cui preoccuparsi.»

«Eccetto che per la spilla di diamanti» obiettò cupa Nanny. Se Elinor fosse stata più vicina, le avrebbe dato un calcio negli stinchi già doloranti. L'anziana donna aveva una visione assai tetra della vita, e in quel momento Lydia aveva bisogno di essere fiduciosa, non di sapere che la loro ultima speranza di salvezza era svanita, e che se avessero perso quel gioiello sarebbero state rovinate.

In quel momento, tuttavia, non poteva permettersi di sprecare altro tempo. A parte gli intrattenimenti sfrenati, le feste del Conte di Giverney erano famose anche perché si giocava d'azzardo con poste molto alte. La spilla se ne sarebbe andata in un batter d'occhio, e se qualcuno fosse stato tanto pazzo da prestare del denaro a Lady Caroline, oltre che dai negozianti avrebbero dovuto incominciare a nascondersi da una catego-

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ria di creditori ben più insidiosa: l'aristocrazia. Prese il mantello logoro e il ruvido scialle che indossava per tenersi più al caldo, e salutò Lydia e Nanny Maude con un bacio, cercando di apparire spensierata e coraggiosa. Nanny l'abbracciò come se si trattasse di un addio, mentre Lydia tornò a sedersi al suo posto e riprese a sferruzzare con calma. Era solo una posa, la sua: sapeva quanto fosse pericolosa l'impresa che Elinor stava per affrontare, ma si rendeva anche conto che la cosa migliore che potesse fare per lei era non darle altre preoccupazioni. Vedere il suo capo biondo coraggiosamente chino sul lavoro a maglia fece venire le lacrime agli occhi a Elinor.

Ma non c'era tempo per simili debolezze. Un attimo dopo uscì nell'aria gelida; infilò i mezzi guanti, fatti ormai più di rammendi che di maglia originale, coprì con lo scialle i poco appariscenti capelli castani, e si incamminò per la strada, decisa a ignorare gli abitanti più sgradevoli del quartiere.

Avrebbe trovato Jacobs al vicino caffè, dove venivano ricoverati cavalli e carrozze. Le circostanze li avevano già costretti in passato a prendere in prestito una carrozza, quando Lady Caroline si era fatta cacciare da un ballo in maschera, anche se in quell'occasione erano riusciti a restituirla in tempo, senza che qualcuno se ne accorgesse. Forse quella notte non avrebbero avuto la stessa fortuna, ma preferiva non pensarci. Per il momento, doveva concentrarsi solo sul modo di tirare sua madre fuori dalla tana del demonio. Una cosa alla volta.

Jacobs la stupì favorevolmente, presentandosi con un calessino che poteva trasportare al massimo due donne e poco altro. Elinor salì a bordo prima che l'anziano cocchiere scendesse ad aiutarla, e un attimo dopo partirono.

Era una notte fredda e senza luna di inizio febbraio, e se il modesto veicolo aveva mai avuto in dotazione delle coperture per riparare le gambe dal freddo, queste erano scomparse

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ormai da tempo. Elinor si tolse lo scialle dal capo e se lo avvolse intorno alle spalle, rabbrividendo. Ci sarebbe voluta almeno un'ora per arrivare al castello del conte, sempre che non morisse congelata prima. Eppure, il freddo l'aiutava a concentrarsi su qualcosa di meno inquietante di ciò che l'aspettava. Si aggrappò al sedile che oscillava avanti e indietro. Jacobs viaggiava a velocità folle, ma lei aveva la più assoluta fiducia nelle sue capacità. Sarebbero arrivati allo château sani e salvi; il resto dipendeva da lei.

Non era particolarmente preoccupata, sapendo esattamente che aspetto aveva. Era alta, un po' troppo magra, a causa delle condizioni della loro dispensa, con capelli e occhi castani, e un brutto naso. A dire il vero, meditò, non era poi così male; era sottile ed elegante, e da vecchia sarebbe stato perfino affascinante. Ma non aiutava certo quando si era giovani e si voleva apparire belle.

Comunque fosse, aveva ben altro a cui pensare. Se si fosse imbattuta in quel dannato conte, lui avrebbe dato un'occhiata ai suoi abiti informi e ai capelli trasandati e non l'avrebbe nemmeno vista. Era quello che succedeva con la maggior parte degli uomini. Senza dubbio sarebbe riuscita a trovare sua madre e a portarla via, e le strane cose che accadevano in quello château sarebbero state solo un ricordo lontano.

Se avesse avuto fede in Dio avrebbe pregato, ma aveva rinunciato a quel genere di conforto sei anni prima. E poi, Nanny e Lydia avrebbero pregato per lei con il massimo fervore, e se mai esisteva un Dio le avrebbe senz'altro ascoltate. Lydia era troppo carina per poterla ignorare, e Nanny troppo fiera. Forse era solo a Elinor che non prestava attenzione.

Chiuse gli occhi. Quella giornata era stata un disastro dall'inizio alla fine, e la speranza improbabile di una piccola eredità appariva un'inezia in confronto al disastroso futuro che le aspettava ora che le loro speranze di ereditare il titolo e le proprietà erano svanite. Per il momento, decise, avrebbe te-

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nuto per sé quella consapevolezza. Non c'era bisogno di angosciare anche Nanny Maude e Lydia.

L'avvocato, Mr. Mitchum, le aveva suggerito di incontrare il nuovo erede, lo sconosciuto che avrebbe avuto il controllo sulla sua rendita, ma lei aveva lasciato l'ufficio in un accesso d'ira. Prima o poi avrebbe dovuto incontrare quel lontano cugino, ed era stata davvero stupida ad andarsene in quel modo. Perché se c'era anche la minima possibilità di mettere le mani su quel lascito, non poteva permettersi il lusso di lasciarsela sfuggire per orgoglio.

Prima, però, doveva trovare sua madre.

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di

si abbandonò sulla sedia massiccia, accarezzando dolcemente, con le sue affusolate dita candide, gli artigli scolpiti nelle decorazioni in legno dei braccioli. Appoggiò il capo all'imbottitura di velluto, esaminò i suoi ospiti impazienti e si concesse un debole sorriso. Una profusione di candele illuminava anche gli angoli più bui del salone, e lui poteva vederli tutti, i suoi cosiddetti amici e conoscenti, che fremevano pregustando i licenziosi divertimenti che li attendevano. Tre giorni e tre notti di piaceri proibiti, tra giochi d'azzardo e sesso sfrenato con chiunque accettasse, prostituta o gentiluomo, femmina o maschio. Aveva organizzato finti rituali satanici, così che i partecipanti potessero sentirsi davvero malvagi invocando una forza oscura. Personalmente non credeva all'esistenza del demonio né di un dio buono, ma biascicare in latino davanti a una croce capovolta dava loro l'impressione di potersi concedere qualunque piacere. C'erano oppio, brandy, vino e anche del buon whisky scozzese, che sarebbero stati bevuti fino all'ultima goccia prima che il festino avesse fine e che ogni corpo fosse soddisfatto, che ogni anima si svuotasse di qualsiasi illusione di moralità.

Lui avrebbe osservato ogni cosa, dando sfogo alla lussuria quando ne avesse avuto voglia, e sovrintendendo a tutto con velato interesse. Si era sempre domandato fino a dove ci si

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Francis Alistair St. Claire Dominic Charles Edward Rohan, Conte Giverney, Visconte Rohan, Barone di Glencoe,

potesse spingere, nella ricerca del proprio piacere. Sapeva che i suoi appetiti erano fuori del comune, e talvolta il solo piacere personale non bastava a soddisfarlo. Aveva bisogno del perverso godimento degli altri, e a questo provvedevano i suoi più che disponibili accoliti.

C'erano uomini e donne che aspettavano solo una sua parola, alcuni in abiti talari, altri pressoché ignudi. Riconobbe Lady Adelia, che nonostante le proporzioni giunoniche indossava una camiciola trasparente più adatta a un'esile ballerina; suo marito era tra i gentiluomini che sfoggiavano splendide vesti femminili e imbronciavano le labbra rosso carminio in impaziente attesa.

Fece scorrere lo sguardo su di loro, i suoi discepoli nell'arte del peccato, e si raddrizzò sulla sedia, gettando indietro i lunghi capelli non incipriati.

«Bambini miei» disse in francese, lingua compresa da tutti i presenti, inglesi, francesi e immigrati tedeschi. «Benvenuti alla Festa dell'Esercito Celeste. Vi consumerete l'un l'altro come consumereste l'ostia consacrata, berrete il vino come se fosse sangue benedetto, e sazierete i vostri appetiti senza che alcuno vi giudichi. Per le prossime tre notti, le insignificanti regole della buona società sono bandite. Il nostro motto sarà... Fa' ciò che vuoi.»

«Fa' ciò che vuoi» ripeterono tutti in coro con grande serietà, come novizi che prendevano i voti, e lui si lasciò sfuggire un sorriso. Erano così determinati nella loro ricerca della malvagità, da muoverlo al riso.

Fece un cenno con la mano, e i polsini di pizzo di Fiandra della camicia ondeggiarono. «Andate e peccate» concluse, la sua voce profonda e grave che echeggiava nell'immenso salone.

Le porte che davano accesso al resto del castello si spalancarono tra gli applausi. I festeggiamenti iniziarono, e Francis Rohan tornò ad adagiarsi sulla poltrona, desiderando di esse-

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re di nuovo a Parigi con un bicchiere di brandy e un buon libro, senza peccatori impazienti che cercavano la sua attenzione.

Si annoiava. Aveva assistito a quasi tutte le depravazioni possibili e a molte di esse aveva partecipato di persona, eppure doveva ancora trovare qualcosa che spezzasse la sua interminabile ennui. Certo, poteva ancora provare il piacere fisico, ma era solo un sollievo momentaneo. Se ne aveva voglia poteva vagare per le stanze del suo château e assistere ad atti proibiti dalla chiesa e dallo stato, o veder vincere e perdere intere fortune al solo girare di una carta. Poteva guardare uomini che cedevano ai loro più bassi istinti senza timore di alcuna ripercussione, ma alla fine tornava al suo opulento trono sforzandosi di tener vivo almeno un blando interesse.

Una donna si separò dai vivaci partecipanti al festino e si diresse verso di lui. Una mezza maschera le copriva il volto e indossava un abito elaborato, dal quale il suo corpo procace sembrava strabordare. Il corpetto era allacciato davanti, e lui sospettava che sotto i nastri allentati ci fosse solo la sua carne matura. Lo avrebbe divertito sciogliere quei lacci, perché Marianne aveva i seni più spettacolari che avesse mai visto. Ed era una che conosceva le regole. A lui non piaceva baciare, e lei raramente commetteva l'errore di avvicinare le labbra alle sue. Usava invece quella sua bocca magnifica altrove, e poteva continuare per un'ora o più, sotto gli occhi dei più timidi tra i suoi ospiti.

Le fece un cenno con la mano e lei si avvicinò con un sorriso malizioso sulle labbra. Labbra prive di rossetto, perché sapeva quello che preferiva da lei. Quando la donna salì sulla pedana che i suoi folli seguaci gli avevano costruito, lui notò con uno sguardo di approvazione che l'allacciatura alla pigra scendeva fino alla vita, e che in effetti sotto non indossava nulla.

La fece sedere sulle proprie ginocchia, e iniziò a giocare

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con le stringhe del corsetto, allentandole finché i suoi seni bianchi come latte furono esposti all'aria fresca della notte. I capezzoli le si inturgidirono per il freddo, e lui sentì l'improvviso impulso di succhiarli.

«Piegatevi all'indietro» disse con voce annoiata, e lei ubbidì immediatamente, inarcandosi sul bracciolo della sedia e offrendosi a lui. Francis chinò il capo sfiorandole con la lingua il seno, quando un rumore improvviso attirò la sua attenzione. Si rizzò di nuovo, infastidito, trascinando con sé Marianne.

«Guai in vista, Francis» annunciò Charles Reading con la sua voce roca e indolente. «E comunque è troppo presto perché tu assaggi quel banchetto.»

Marianne si girò e gli sorrise, più allegra di quanto Rohan si sentisse in quel momento.

«Che genere di guai?» chiese. «Non sono dell'umore di assistere a un duello, e nemmeno di impedirlo. Se vogliono ammazzarsi a vicenda, lascia che facciano. Ci penserà la servitù a pulire il sangue.»

«Non è quel genere di guai. Credo che questo ti piacerà. Io stesso lo trovo... irresistibile.»

Quelle parole furono più che sufficienti a ottenere la sua attenzione. Erano ben poche le cose che Charles Reading trovava divertenti, ed erano sempre insolite, quindi di possibile interesse per lui. «Allora non farmi aspettare. Conduci qui questo guaio.»

«Ce l'ha uno dei tuoi valletti. Willis stava per mandarla via quando sono intervenuto, sapendo che ti saresti divertito. Devo dirgli di portarla qui?»

«Dovrei andarmene» disse Marianne, tentando di chiudersi il vestito sui seni. Lui, però, non era d'accordo.

«Restate, invece» ordinò con freddezza, prima di rivolgersi a Charles. «Una lei, dunque? Una lei interessante? Trovo difficile crederlo. In ogni caso, portala qui. Se non altro, possia-

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mo darla in pasto ai signori e alle signore della camera verde.»

Reading era un bell'uomo, se si trascurava la cicatrice che gli sfregiava il lato destro del volto e che rendeva il suo sorriso una smorfia contorta. Abbozzò un inchino. «Ai vostri ordini, milord.» Arretrò in una parodia di servile umiltà, e Francis lo osservò mentre chiamava un domestico.

Era uno dei suoi compagni più divertenti. Come lui, aveva scarso riguardo per la decenza, ma vedeva le cose con la fiera passione della giovinezza, facendo sentire a Francis tutto il peso dei suoi trentanove anni. In verità, si sentiva come se ne avesse ottanta.

Si accorse che Marianne si dimenava, tentando di chiudersi il vestito, ma fu facile per lui bloccarle la mano in una stretta forte come una morsa. Ricordò che le piaceva il dolore, e quindi continuò deliberatamente a stringerla, gentile ma implacabile. Se doveva godere di lei più tardi quella sera, come immaginava, non voleva che si eccitasse troppo presto. Altrimenti sarebbe andata a sfogare le proprie energie con qualcun altro, e lui preferiva essere il primo.

Un attimo dopo comparve uno dei valletti, insieme a Willis, il suo servitore da una vita, e in mezzo a loro quella che era indubbiamente una donna, e indubbiamente non una delle prostitute giunte dalla città. Questo sì che sarebbe stato divertente, pensò. Si appoggiò allo schienale e fece loro cenno di avvicinarsi, mentre Reading restava sullo sfondo a osservarlo.

«Cosa abbiamo qui, Willis?» domandò con la sua voce più mite. Era troppo sperare in qualcosa di davvero divertente, ma forse poteva avere qualche momento di distrazione.

La donna, invero una sciatta creatura, sollevò il capo e lui si ritrovò a fissare i suoi caldi occhi castani, colmi di un tale disprezzo che per un attimo ne rimase affascinato. Poche persone gli avevano mai mostrato così apertamente la loro avversione.

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«E chi sarebbe costei?» chiese oziosamente. «No, non ditemelo... Qualcuno ha pensato di vestire una prostituta come una straccivendola per procurare del divertimento in più. Anzi no... forse dovrebbe rappresentare una giovane dama caduta in ristrettezze, o magari una bottegaia. Anche se non riesco a vedere come una bottegaia potrebbe accrescere il nostro spasso. Tiratele su la testa.»

Il valletto si mosse per eseguire l'ordine e la ragazza lo morse come una cagna rabbiosa. L'uomo fece il gravissimo errore di colpirla sulla bocca, e quando lei alzò la testa aveva del sangue sul labbro. «No» dichiarò Francis con calma. «Non credo che sia una prostituta, Willis. Non con un naso come quello. Le prostitute hanno nasini graziosi, mentre questa giovane dama ha un naso importante. Forse dovreste semplicemente lasciarla andare via.»

Quella piccola creatura trasandata gli lanciò un'occhiata furiosa. Anche se in realtà non era poi così piccola, considerò Francis. Di certo era più alta della maggior parte delle donne di sua conoscenza.

La giovane tentò di parlare, ma Willis la precedette. «Dice che sta cercando sua madre, milord.»

Francis scoppiò a ridere. «È la figlia di una prostituta? E poi, cos'altro avremo?»

Lei fu tanto temeraria da rispondere: «Mia madre non è una prostituta», e l'interesse di Francis crebbe. Aveva una bella voce, energica, bassa, e sicuramente apparteneva alla nobiltà inglese. Era stato esiliato da quel paese ventidue anni prima, ma aveva intrattenuto ospiti titolati a sufficienza per riconoscere che si trattava dello stesso tono con cui parlava lui quando si esprimeva nella sua lingua madre

«In tal caso, non è qui» le rispose. «Le donne qui presenti sono solo prostitute. Perfino lei, la bella Marianne. Certo, è una prostituta titolata, ma pur sempre una prostituta.» Attese, nella speranza che Marianne se ne andasse, ma lei continuò a

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stargli seduta in braccio, con i seni completamente esposti.

La ragazza, o meglio la donna, lo guardò. Aveva senz'altro superato l'adolescenza, poteva essere sulla ventina, e il suo labbro sanguinava ancora.

«Lasciatela andare, Willis» concesse pigramente. «E occupatevi del valletto. Temo che gli si dovrà impartire una dura lezione. In questa casa nessuno viene picchiato, a meno che non lo trovi eccitante. E posso dirvi che la signorina non è eccitata.»

Il valletto trattenne il fiato, allarmato, e fu così sciocco da tentare di scusarsi e spiegare, mentre Willis lo spingeva fuori dalla stanza insieme a un altro robusto domestico comparso a dargli man forte. Rohan lasciò il polso di Marianne, e lei con noncuranza richiuse il vestito, nascondendo i suoi tesori.

«Potete lasciarci, Marianne» la congedò Francis. «Ho di meglio da fare, stasera.»

Se ne disinteressò completamente, mentre la donna si allontanava. Sarebbe stata molto arrabbiata, il che avrebbe reso le cose più eccitanti, se avesse deciso di trascorrere del tempo con lei più tardi, quella sera. Anche se al momento dubitava che sarebbe accaduto.

La bambina in mezzo alla stanza lo guardava con malanimo, perché di una bambina si trattava, qualunque fosse la sua età. Era una vergine, intatta e mai baciata, innocente e furiosa, e lui era certo che si sarebbe immensamente divertito. «Dunque ditemi, piccola. Cosa vi ha condotto qui?»

Era evidente che lei avrebbe voluto mandarlo all'inferno, ma le giovani perbene non si comportavano in quel modo. Sforzandosi di contenere la propria rabbia, si strinse addosso il patetico mantello e raddrizzò le spalle, decisa a mantenere la calma. «Sto cercando mia madre» ripeté. «Mi rendo conto che faticate a comprendere l'inglese più semplice. Forse i costumi dissoluti a cui siete avvezzo iniziano ad avere delle ripercussioni sulla vostra mente, nel qual caso avete tutta la

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mia compassione, ma è di mia madre che mi preoccupo. Credo sia arrivata qui con Monsieur St. Philippe, ed è davvero importantissimo che io la riconduca a casa il più presto possibile. Non sta bene.»

«St. Philippe?» ripeté lui. «Credo che fosse in compagnia di una donna, in effetti, ma non ci ho fatto caso. Voi siete chiaramente una donna adulta, il che mi induce a credere che vostra madre sia di conseguenza abbastanza vecchia da prendere le sue decisioni da sola.» Fece schioccare le dita, e subito un domestico si materializzò dall'ombra.

«Portate una sedia a mademoiselle. Ha l'aria stanca.»

«No!» esclamò lei. «Non sono interessata a conversare con voi, Monsieur le Comte. Ho solo bisogno di mia madre.»

«E io ho bisogno di dimostrare che sono un padrone di casa come si deve» ribatté lui.

«Finora, tuttavia, non vi siete comportato come si deve» replicò lei in tono pungente. «Perché cambiare adesso?»

Francis fu divertito dalla frecciata. Si alzò, posando il bicchiere di vino. «Ottima osservazione, mademoiselle...?»

«Non occorre che sappiate il mio nome.»

«Se non me lo dite, come potrò aiutarvi a trovare vostra madre?» obiettò lui in tono ragionevole, scendendo dalla pedana.

La fanciulla non si scompose... Era abbastanza coraggiosa da entrare nella tana del leone e non indietreggiare di fronte a lui, doveva concederglielo. «Harriman» rispose infine. «Mi chiamo Elinor Harriman. Mia madre è Lady Caroline Harriman.»

Lui si immobilizzò. «Cristo Santo. Quella vecchia cagna sifilitica è qui? Non preoccupatevi, tesoro mio. La troveremo subito. Non ho intenzione di permetterle di circolare tra i miei ospiti. Mi stupisco che St. Philippe abbia avuto l'ardire di portarla qui. A meno che non l'abbia fatto solo per attirare la mia attenzione.»

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«Perché mai dovrebbe farlo?» chiese la giovane, sconcertata. Lui di solito trovava l'innocenza piuttosto noiosa, ma quella di Mademoiselle Elinor Harriman era stranamente attraente.

«Perché ha un debole per me, e io non mi sono mai mostrato interessato.»

«Ha un debole per voi? Ma è un uomo.»

«Lo è, infatti» replicò lui con dolcezza. «Ma come avete potuto vivere a Parigi per così tanto tempo senza conoscere queste faccende?»

«Come sapete da quanto tempo vivo a Parigi?» ribatté lei.

«Lady Caroline Harriman lasciò quell'idiota buono a nulla del marito e venne a Parigi con le due figlie circa dieci anni fa, e da allora è stata in costante declino. Mi sorprende che sia ancora viva.»

«A malapena» commentò la fanciulla in tono cupo. «Posso andare a cercarla, per favore, invece di restare qui a parlare con voi? Probabilmente si è data al gioco d'azzardo, e vorrei fermarla prima che spariscano gli ultimi soldi di casa.»

«Un'intenzione lodevole, bambina mia. Io vorrei fermarla prima che diffonda il contagio tra i miei ospiti. Sono categorico, per quanto riguarda la salute delle prostitute...»

«Mia madre non è una prostituta!»

Era arrossita in modo affascinante, notò Francis. Era troppo magra – probabilmente perché non aveva mangiato a sufficienza negli ultimi mesi – e lui si concesse la fugace fantasia di nutrirla con bocconcini di carne e pasticcini mentre giaceva nuda sul suo letto.

Sorrise beffardo della propria stupidità. Le vergini erano fin troppo fastidiose, e anche la fiera Mademoiselle Harriman gli avrebbe procurato più guai di quanto valesse

«Tutte le donne in questa casa sono sgualdrine, bambina mia. E anche tutti gli uomini, se è per questo. Lasciate che vi offra un bicchiere di vino, e potremo parlarne.»

«Siete malato di mente, esattamente come mia madre»

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sbottò lei, voltandosi di scatto. «Vado a cercarla.»

Francis non aveva l'abitudine di lasciare che una donna gli voltasse le spalle impunemente, così la prese per un braccio con una certa rudezza, costringendola a voltarsi verso di lui. E si ritrovò di fronte un visetto furioso e una piccola pistola puntata contro il suo stomaco.

Gli avrebbe sparato senza pensarci due volte, si disse Elinor, desiderando che la mano non le tremasse tanto. Se lui se ne fosse accorto, avrebbe dedotto che lei era inoffensiva, e allora sarebbe stata obbligata a fare fuoco davvero. Cosa che lei invece preferiva evitare, a meno che non vi fosse costretta.

Rohan la lasciò andare, alimentando la speranza di Elinor che lui fosse un uomo ragionevole, ma non indietreggiò, e parve più divertito che spaventato.

Il Re degli Inferi era esattamente come lo descrivevano, sia nel bene che nel male, pensò Elinor. Si diceva che avesse la capacità di sedurre una badessa, o addirittura il papa in persona, e ora capiva perché. Non era solo la sua bellezza fisica, comunque notevole. Aveva occhi di un blu intenso sotto ciglia lunghissime, la carnagione pallida e quel genere di bocca che poteva indurre disperazione e delizia... Ma come diavolo le venivano in mente pensieri di quel genere?

Appariva più giovane dell'età che gli attribuivano, intorno ai quarant'anni, e i suoi lunghi capelli scuri, striati d'argento, lo facevano apparire pericoloso. Era alto e si muoveva con la grazia elegante di un ballerino. Le stava troppo vicino – a lei e all'arma che aveva rubato a Jacobs mentre si occupava della vettura – e la guardava con troppo interesse e nessun timore.

«Voi non avete intenzione di spararmi, mia cara» le disse con calma, senza neanche tentare di toglierle la pistola dalla mano tremante. Perché tremava, non poteva nasconderlo.

«Non voglio farlo. Ma la sicurezza di mia madre è...»

«Vostra madre è una morta che cammina» rispose Francis,

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con voce noncurante e crudele. «Lo sapete quanto me. Perché non ve ne tornate a casa, mentre io la cerco e ve la mando?»

«Voi non capite. Non posso permettermi di lasciarle sperperare al gioco tutto il nostro denaro» ripeté lei. Si vergognava di ammettere quanto poco avevano, ma la maggior parte dei presenti era in grado di perdere una fortuna in una sola mano. Tuttavia, non occorreva che lui sapesse che erano sul lastrico.

«Allora, faremo in modo che ciò non accada» replicò lui, con quella sua voce carezzevole. Non c'era da stupirsi se la gente cadeva ai suoi piedi... quella voce poteva incantare gli angeli. «Sapete di non volermi sparare. Pensate al caos che si scatenerebbe. Per non parlare delle spiegazioni che dovreste dare.» Allungò la mano e le tolse delicatamente la pistola.

«Molto graziosa» commentò, guardando l'elegante oggetto con l'impugnatura di madreperla. «Se avete così tanto bisogno di denaro, potreste vendere questa.»

«Chi vi dice che abbiamo bisogno di denaro?» ribatté lei, decisa.

«I vostri abiti, bambina. Vestite come una straccivendola. Cosa indossa vostra madre... tela di sacco e cenere?»

«Se così fosse, non l'avrebbero certo lasciata entrare qui.»

«Oh, al contrario. Cenere e tela di sacco potrebbero dirsi assai appropriate. Dopo tutto, questa è una riunione dell'Esercito Celeste, sapete.»

Elinor cercò di non reagire a quelle parole proibite. Tutti avevano sentito parlare dell'Esercito Celeste, l'associazione segreta di malvagi aristocratici con troppo tempo a disposizione. I racconti andavano dal ridicolo allo sconcertante: si parlava di messe nere e sacrifici di vergini, orge, atti blasfemi e via discorrendo, ma nessuno aveva mai ammesso apertamente l'esistenza del gruppo. Fino alla frase noncurante di Rohan.

Elinor lo guardò, innervosita dalla sua altezza e dalla sua ostentata ricchezza. Era vestito impeccabilmente di satin nero, con eleganti calze ricamate che gli fasciavano le gambe

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slanciate e scarpe ingioiellate con il tacco alto che aumentavano la sua già ragguardevole statura. Indossava un panciotto ricamato che teneva sbottonato, ed era senza giacca. Le sue dita bianche e affusolate erano cariche di anelli, e notò che portava perfino un orecchino di zaffiri che fino a un attimo prima era rimasto nascosto dai lunghi capelli sciolti, come uno zingaro. La maggior parte degli uomini indossava parrucche e teneva i capelli corti. Il Conte di Giverney era evidentemente troppo vanesio per ricorrere a simili scorciatoie.

«Avete guardato a sufficienza?» le chiese con garbo. «Volete che mi volti, in modo che possiate osservare anche il mio didietro?»

Lei non arrossì. «Mi piace conoscere i miei nemici. Lasciatemi andare a cercare mia madre, o portatemi voi stesso da lei.»

«Oh, sicuramente preferisco questa seconda possibilità. E poi non ho ancora deciso se siamo nemici o meno.» Gettò la pistola verso la pedana, facendola cadere con precisione infallibile sul cuscino della poltrona. «Temo, mia cara Miss Harriman, che non trovereste mai vostra madre in mezzo ai... festeggiamenti. Dovrete accompagnarmi attraverso i nove gironi dell'inferno.»

«Non sono una bambina, Monsieur le Comte.»

«Quello è il mio titolo francese. Per gli inglesi, io sono il Visconte Rohan» precisò lui.

«Qualcun altro porta quel titolo» disse Elinor, ripetendo uno dei pettegolezzi che aveva sentito.

«Infatti» confermò lui. «Siete gentile a ricordarmelo. Ma quell'uomo è un impostore e nulla più.» Iniziò a slacciarsi l'elegante fazzoletto da collo, e lei osservò le sue lunghe dita bianche e ingioiellate come ipnotizzata.

Francis sciolse la fascia, aprendo la camicia, e lei distolse lo sguardo dalla fastidiosa vista del suo torace nudo. Lo udì ridere, poi le sue mani si posarono di nuovo sulle sue spalle, fa-

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cendola voltare. «Non temete, piccola mia. Non vedrete nulla che possa turbarvi» disse, legandole la fascia sugli occhi. Elinor avrebbe voluto respingerlo, lottare, ma questo gli avrebbe dato il pretesto per toccarla ancora, e meno si sentiva sfiorare dalle sue dita fresche, meglio stava. «Così va bene» affermò lui, con carezzevole tono di approvazione. «Ora porgetemi il braccio, e vi darò un assaggio di dannazione.»

«Trovate davvero così divertente la blasfemia?» disse lei, cercando di non sobbalzare quando lui le prese la mano e se la posò sul braccio.

«Sempre.»

Elinor non aveva mai toccato un braccio che non fosse coperto da strati e strati di indumenti, compresa una giacca. Il diavolo che sovrintendeva a quella festa, Monsieur le Comte o qualunque altra cosa fosse, indossava solo una sottile camiciola di tessuto impalpabile. E nel suo improvviso mondo di oscurità, lei fu acutamente consapevole della sensazione che le dava quel braccio sotto le dita: il tendine e l'osso, l'inatteso tepore della pelle in contrasto con le mani – e il cuore – così freddi.

«Siete pronta, bambina mia?» le domandò, senza nascondere la nota scherzosa nella voce.

Elinor non intendeva fargli capire che era terrorizzata. Gente come Rohan prosperava sul timore altrui, e se lei aveva una sola possibilità di sopravvivere, doveva nascondere la propria paura. «Come lo sono stata per tutta l'ultima, tediosa mezz'ora» rispose simulando un tono annoiato.

«Allons-y» mormorò il visconte, e lei non ebbe bisogno di guardarlo per sapere che non si era lasciato ingannare. «Andiamo.»

Ed Elinor non poté far altro che lasciare che lui la trascinasse con sé verso l'abisso.

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