La trappola del libertino

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Eva Shepherd LA TRAPPOLA DEL LIBERTINO

Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Tempting the Sensible Lady Violet Harlequin Historical © 2022 Eva Shepherd Traduzione di Marianna Mattei

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises ULC. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

© 2023 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici gennaio 2023

Questo volume è stato stampato nel dicembre 2022 da CPI Black Print, Spagna, utilizzando elettricità rinnovabile al 100%

I GRANDI ROMANZI STORICI

ISSN 1122 - 5410 Periodico settimanale n. 1339 del 25/01/2023

Direttore responsabile: Sabrina Annoni Registrazione Tribunale di Milano n. 75 dello 01/02/1992 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano

HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano

Agli scrittori di romanzi rosa della Nuova Zelanda e dell'Australia.

Dedica

Londra, 1891

Lord Jake Rosemont batté sul tavolo rivestito di panno verde per chiedere un'altra carta. I suoi compagni di gioco si scambiarono occhiate incredule. Jake sapeva cosa stavano pensando: sommato, il valore delle carte che aveva davanti era pari a diciotto. Senz'altro era meglio accontentarsi di quel numero, piuttosto che rischiare di superare il ventuno e perdere tutto.

Persino il mazziere, solitamente imperturbabile, inarcò un sopracciglio come se mettesse in dubbio l'avvedutezza di quella mossa.

Come sempre, Jake si domandò perché gli altri non riuscissero a vedere ciò che a lui risultava ovvio. La partita era già in fase avanzata; le carte erano state in gran parte distribuite, ma dal mazzo erano stati pescati pochi due e pochi tre. Le sue possibilità di vincita erano alte, mentre il rischio era basso.

Il mazziere girò una carta. Un tre. Gli uomini seduti al tavolo borbottarono all'unisono, mentre le giovani donne che si erano radunate a osservare alle loro spalle emisero risolini e mormorii di approvazione, tanto

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per fargli capire di apprezzare un vincente e di essere disposte a dimostrargli personalmente tale apprezzamento.

«Avete davvero una fortuna del diavolo» commentò un marinaio con un'ancora tatuata sul braccio nerboruto prima di assestargli una pacca sulla spalla, forse nella speranza che un po' di quella fortuna si trasmettesse anche a lui.

Jake accolse il complimento con un cenno del capo e spostò verso di sé le monete e le banconote ammucchiate sul tavolo, andando ad accrescere il gruzzolo che aveva già accumulato.

Avrebbe potuto informare il marinaio e gli altri giocatori che, se si fossero presi il tempo di osservare quali carte venivano distribuite e di effettuare poi qualche rapido calcolo, anche loro avrebbero potuto capire quando era il caso di rischiare e quando era preferibile eccedere nella cautela.

«Il mio amico è davvero fortunato!» esclamò Herbert Fortescue. «Fortunato al gioco come in amore. Diversamente da me, che non ho successo in nessuno dei due ambiti.»

Di nuovo gli uomini seduti al tavolo borbottarono e di nuovo Jake indovinò cosa stessero pensando. Ci risiamo! Per tutta la serata, mentre si spostavano da una casa da gioco di Londra all'altra, Herbert aveva raccontato a chiunque fosse abbastanza incauto da prestargli attenzione del proprio amore non corrisposto per la bella Lady Bianca Maidstone.

Due signorine imbellettate si affiancarono a Herbert e lo presero sottobraccio, sussurrandogli di conoscere il modo perfetto per distrarlo dai suoi dispiaceri. Ma l'infelice innamorato non intendeva farsi consola-

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re e se le scrollò prontamente di dosso.

Jake riportò la propria attenzione sulle carte, consapevole del fatto che il giudizio appena pronunciato su di lui dall'amico era doppiamente errato. La fortuna non c'entrava nulla: né con il gioco, né con l'amore. Quando giocava a carte, Jake sfidava semplicemente la sorte. E per quanto riguardava l'amore... si trattava di un ambito che, grazie a Dio, rimaneva avvolto nel mistero. Certo, aveva avuto parecchie donne, ma senza mai amarne nessuna. Ed era pienamente soddisfatto di quella situazione. Se poi si parlava di matrimonio, quella condizione a cui Herbert anelava disperatamente, Jake non riusciva a immaginare un solo motivo per cui un uomo sano di mente potesse volersi legare a un'unica donna per il resto della vita. Era pura follia.

Alcune persone, fra cui anche sua madre, avrebbero detto che, a ventisei anni, era opportuno che si desse da fare per trovare una moglie adatta a lui. Ma Jake si permetteva di dissentire. Aveva visto fallire abbastanza matrimoni combinati, compreso quello dei suoi genitori, da ritenere che fosse meglio evitare un simile destino.

Per fortuna gli sforzi materni di combinare un buon matrimonio per i propri figli erano al momento concentrati sul fratello maggiore di Jake, Luther. Undici anni prima, alla morte del padre, il Duca di Southbridge, Luther aveva ereditato il titolo e la responsabilità di mandare avanti le tenute a esso annesse. Ora non gli serviva altro che una duchessa dal lignaggio impeccabile per garantire continuità alla stirpe.

Diversamente da Jake, Luther era perfetto per il ruolo di duca. Come il loro defunto padre non aveva

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mai mancato di evidenziare, Luther possedeva tutte le qualità superiori dell'aristocratico, mentre Jake non era mai stato altro che una completa delusione.

Gettò le carte sul tavolo, sparpagliandole ovunque. Solo il gesto fulmineo del mazziere impedì loro di cadere a terra.

Seguirono altre mani, durante le quali Jake continuò a vincere molto più che a perdere, e il mucchio di denaro davanti a lui seguitò a crescere. Si avvicinava il momento di defilarsi. Le sue vincite avevano attirato l'attenzione del proprietario della bisca, che già da alcune partite era uscito dalla propria tana per affacciarsi alla balconata da cui era solito sorvegliare la sala da gioco. Adesso si era spostato nei pressi del bancone del bar e da lì osservava Jake con attenzione.

Al loro tavolo era già stato offerto da bere più volte, nella speranza che l'alcol fungesse da antidoto alla fortuna di Jake. Ora una procace damigella gli si era seduta sulle ginocchia e gli accarezzava i capelli, sussurrandogli tutti i modi in cui avrebbe potuto aiutarlo a spendere quel denaro. Bastava che si alzasse e la seguisse al piano di sopra.

«Sei molto graziosa e allettante, mia cara» le rispose, dandole un buffetto sulle guance imbellettate e facendola garbatamente alzare dal suo grembo. «Ma non stasera.»

Per quanto quei diversivi lo divertissero e non inficiassero minimamente le sue possibilità di vincita, il proprietario del locale non era altrettanto divertito. Come in ogni altra casa da gioco, chi vinceva era visto di buon occhio solo se incoraggiava gli altri a puntare ancora più alto, e solo se poi perdeva tutto ciò che si era guadagnato. Invece i giocatori che prendevano più

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di quanto restituivano non erano mai ben accolti.

Nella maggior parte delle case da gioco il solo fatto di essere figlio di un duca sarebbe bastato a proteggere Jake dalle ire del proprietario. Ma in una bettola come quella, il rango di Jake, ammesso che fosse noto al proprietario, non rivestiva alcuna importanza. Erano i soldi a contare. Che a vincerli fosse il figlio di un duca o uno spazzino, se costui causava al banco perdite troppo ingenti non era un ospite gradito. Tale anonimato aveva i propri vantaggi, ed era uno dei motivi per cui Jake preferiva frequentare locali così infimi.

Un altro mucchio di denaro venne sospinto verso di lui. Con la coda dell'occhio vide il proprietario rivolgere un impercettibile cenno di intesa al tizio muscoloso posizionato all'ingresso.

Questi attraversò la sala affollata mentre i clienti vocianti si zittivano di colpo e si affrettavano a spostarsi per consentirgli di puntare dritto su Jake.

Quando ebbe raggiunto il loro gruppo, l'uomo li fissò dall'alto del suo naso storto che testimoniava un passato da pugile. «Adesso questo tavolo è chiuso» annunciò, incrociando le braccia sopra il petto massiccio e facendo guizzare i muscoli degli avambracci tatuati.

Gli altri giocatori lasciarono cadere le carte, si alzarono e si dileguarono fra la folla. Era decisamente giunto il momento di andarsene.

Jake gettò una moneta di mancia al mazziere, raccolse le proprie vincite e, con un gesto discreto, le infilò nella tasca dell'energumeno.

«Grazie, Lord Jake» mormorò l'ex pugile dal naso rotto senza quasi muovere le labbra, premurandosi di mantenere un'espressione sufficientemente bellicosa.

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«Sapete che sto solo facendo il mio lavoro.»

«Lo so» rispose Jake, sempre sottovoce. «E sì, me ne vado. Non vorrei mettervi nei guai.»

L'energumeno annuì e prese Jake per il braccio, come per volerlo cacciare a forza.

Jake conosceva Bill dai suoi trascorsi di pugile. Aveva vinto delle belle somme scommettendo su quell'uomo dotato di tanta agilità nelle gambe quanto di forza nelle braccia. Ma dopo aver passato una vita a incassare più pugni di quanti potesse sopportarne, Bill si era ritirato e aveva trovato l'unico lavoro disponibile per uno come lui: scaraventare damerini e ubriaconi fuori dalle case di gioco.

Se come pugile aveva riportato grandi successi, mettendo da parte una bella somma di denaro, Bill era poi caduto vittima di un ciarlatano che gli aveva consigliato dei pessimi investimenti, a causa dei quali aveva perso tutto ciò che aveva guadagnato a suon di pugni.

Dunque ora aveva bisogno di quel lavoro, ma non di restare coinvolto in risse. Bill aveva una famiglia da mantenere e per poter supportarla stava cercando di aprire una palestra di pugilato, che gli garantisse un'entrata più cospicua della misera paga di un buttafuori.

«Come stanno i ragazzi?» si informò Jake mentre Bill fingeva in modo alquanto convincente di trascinarlo fuori dal locale.

Per poco l'uomo non si tradì sorridendo. «Benone. La piccola Maisy ha vinto un concorso letterario alla scuola domenicale, la settimana scorsa. La sua maestra dice che è molto intelligente e dotata.»

«Ne sono lieto» disse Jake, ingobbendosi tutto co-

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me se temesse di essere percosso. «Usate quei soldi per comprarle un regalo come premio.»

«Non mancherò, e grazie ancora, Lord Jake, siete un vero galantuomo» bisbigliò Bill. «E qui non siete più il benvenuto» aggiunse a voce abbastanza alta da farsi udire dal padrone, per poi spalancare la porta e scaraventare fuori Jake.

Un atterrito Herbert lo raggiunse all'esterno e rimase a fissare con apprensione l'uscio già richiuso, quasi aspettandosi che da un momento all'altro ne uscisse una banda di malintenzionati. «Vi è andata bene. Non augurerei a nessuno di essere preso a pugni da quel tizio. Avete visto che mani enormi? E che braccia? Sembravano cosciotti di prosciutto!» Herbert volse lo sguardo giù per il vicolo prima di riportarlo su Jake. «E ora cosa facciamo? Stiamo esaurendo i posti dove vi è permesso di giocare.»

Purtroppo Herbert aveva ragione. Jake possedeva un'unica dote: la bravura nel vincere a carte. Ma a cosa gli sarebbe servita tale dote se nessuno gli avrebbe permesso di sfruttarla? Adesso che era stato espulso anche da quella bisca malfamata gli restavano ben poche opzioni.

Alzò lo sguardo sull'insegna appesa sopra la porta e si lasciò sfuggire una risata. Regina Vittoria. L'ultima volta che vi si era recato quel posto si chiamava Il covo del boia. Dovevano averlo cambiato nel vano tentativo di conferirgli un tocco di raffinatezza. Se la loro anziana sovrana avesse saputo di aver dato il proprio nome a una bettola frequentata da giocatori d'azzardo, ladri, vagabondi e donne di malaffare, non ne sarebbe rimasta affatto compiaciuta.

«So io cosa possiamo fare» annunciò Herbert, illu-

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minandosi in viso come un cucciolo a cui era stato dato un nuovo osso da rosicchiare. «Potremmo andare nel Norfolk, questo fine settimana, al ritrovo in campagna a casa della famiglia Maidstone.»

Jake emise un borbottio simile a quello dei giocatori al loro tavolo poco prima e si avviò lungo il vicolo fiocamente illuminato.

«Non fate così, vecchio mio. Sarà divertente» disse Herbert, rincorrendolo per raggiungerlo.

Jake ne dubitava. La Stagione stava per iniziare: i ritrovi in campagna avevano il solo scopo di offrire alle fanciulle che vi avrebbero partecipato un vantaggio sulle loro avversarie nel cercare di accalappiare gli scapoli più ricercati. Jake evitava quanto più possibile gli eventi mondani e non intendeva sottoporsi alle sgradite attenzioni delle numerose signorine a caccia di un marito. Per quanto Luther fosse il miglior partito sulla piazza, come secondogenito di un duca anche Jake era più ambito di quanto avrebbe voluto.

Svoltarono in una strada secondaria e Herbert lo afferrò per il braccio con sguardo supplice. «Mi fareste un tale favore! Vi sarei debitore per sempre.» Sbatté ripetutamente le palpebre e, con sommo orrore, Jake ebbe l'impressione che l'amico stesse lottando per trattenere le lacrime, ma alla scarsa luce non poté esserne certo. «Non mi occorre altro che di poter passare un po' di tempo da solo con la mia bellissima Bianca per dichiararle i miei sentimenti, e non ci riuscirò mai senza il vostro aiuto.»

Jake scosse il capo, impietosito da ciò che il cosiddetto amore poteva fare di un uomo. Era bastata una graziosa debuttante per ridurre quel giovanotto solitamente assennato a un rammollito farneticante.

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«Vi prego, Jake, dovete venire. La sorella di Bianca è lo chaperon più invadente che io abbia mai incontrato e mi ha dato a intendere di non trovarmi simpatico. Sono certo che Bianca sia attratta da me. Non dovrete fare altro che distrarre lo chaperon per concederci qualche prezioso istante da soli.»

Attraverso il dedalo di viuzze sbucarono nell'affollata strada principale e Jake fermò una vettura di piazza per farsi portare al club. Mentre procedevano nel traffico notturno di Londra, l'espressione di Herbert da affranta divenne indispettita. «Se non fosse per quella sorella, forse sarei già fidanzato con la mia cara Bianca. Quando ci siamo conosciuti, durante la loro visita nella tenuta dei miei genitori, per me è stato amore a prima vista e sono sicuro che valga lo stesso per lei. Solo che non ho mai avuto occasione di averne conferma. La sorella era sempre tra i piedi.»

Era una storia infelice che Jake aveva udito fin troppe volte e senz'altro avrebbe udito ancora nel corso della serata.

Herbert si accasciò sul sedile. «È una zitella intristita e vuole che chiunque altro sia triste e solo come lei.»

«E questa sarebbe la donna che dovrei intrattenere per tutto il fine settimana? Una zitella intristita?»

«Solo voi ne sareste capace» dichiarò Herbert, drizzandosi a sedere. «Non ho mai visto una donna in grado di resistervi quando sfoderate il vostro fascino. Non dovrete fare altro che tenere occupata la zitella e lasciarmi per un po' da solo con Bianca.»

«E cosa ne penserà la zitella? Come reagirà quando un perfetto sconosciuto si darà da fare per affascinarla e distrarla?»

«Oh, senz'altro ne sarà lusingata. Così avrà qualche

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bel ricordo con cui consolarsi nelle lunghe notti solitarie. Ripenserà ai preziosi momenti in cui uno degli scapoli più ricercati di Londra la ricoprì di attenzioni e sospirerà nostalgica.»

La carrozza a nolo si fermò davanti al loro club e Jake pagò il vetturino.

«Vi prego, vi prego, ditemi di sì» piagnucolò Herbert mentre entravano nell'edificio. «Sono disperato, Jake. Mi serve davvero il vostro aiuto. Per favore.»

«Oh, d'accordo» dichiarò Jake con uno sbuffo, tanto per risparmiare all'amico l'imbarazzo di supplicarlo davanti a tutti i membri del club e, che Dio non volesse, di ricominciare a piangere.

«Grazie, grazie! Siete il migliore amico che si potrebbe desiderare. Forse Bianca e io daremo il vostro nome al nostro primo figlio.»

Herbert lo seguì nella sala del biliardo con un sorriso trasognato sul volto, quindi iniziò a elencare i possibili nomi dei loro figli.

Jack posizionò le palle sul tavolo e fece un tiro, meravigliandosi di come l'amore potesse rovinare un uomo e compiacendosi di non aver mai sperimentato quella condizione debilitante.

«Cosa hai fatto?» Violet fissava la sorella minore, che invece sorrideva come se nulla fosse.

«Ho organizzato un ritrovo a casa nostra per questo fine settimana» ripeté Bianca. Aveva fermato Violet quando l'aveva incrociata in corridoio, per comunicarle quell'informazione come se fosse stata una notizia di poco conto, a stento degna di essere menzionata.

«E cosa prevede, esattamente, la tua opera di organizzazione?» le chiese.

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«Ebbene, ho mandato inviti a tutti i miei amici e a svariati scapoli appetibili. Hanno tutti accettato. Saremo una ventina. Sarà un vero spasso! Oh, e ho anche deciso a quali giochi di gruppo giocheremo.»

«E...?»

Bianca scosse il capo e aggrottò la fronte. «E cosa? Mi sembra già abbastanza, no? O credi che dovremmo anche ballare? Sì, probabilmente hai ragione, ballare sarà divertente.»

«E come intendi sfamare i nostri invitati?»

Bianca la guardò sbalordita, come se Violet le avesse appena chiesto come intendeva volare fino alla luna. «Be', ci penseranno i domestici, non credi?»

«Se ricordi, Bianca, abbiamo dato la settimana libera alla cuoca per permetterle di andare a trovare la sorella malata in Scozia.»

Bianca sorrise. «Sì, e ne era davvero felice. Ha detto che sua sorella non sta bene da tempo e che ha bisogno di qualcuno che le prepari del buon brodo sostanzioso. E le minestre della nostra cara cuoca sono insuperabili. Sono sicura che sua sorella si riprenderà in un baleno.»

«Bianca, se la cuoca è assente, chi preparerà da mangiare per i tuoi amici?» Violet si impose di tenere a freno l'impazienza. «Inoltre, ci saranno anche i domestici al seguito degli ospiti. Ogni signorina sarà accompagnata dalla propria cameriera personale e ogni gentiluomo dal proprio valletto. Ciò aumenterà le bocche da sfamare. E alcuni arriveranno con la propria carrozza, con tanto di cocchiere e forse di lacchè. Infine potrebbero esserci anche degli chaperon. E tutto questo senza una cuoca.»

«Be', della cucina potrà occuparsi qualcun altro, no?»

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«Chi?»

Bianca si strinse nelle spalle esili. «Non lo so. Qualcun altro fra i domestici. Ne abbiamo parecchi. Uno di loro saprà pur cucinare!»

Come evocate da quella frase, due cameriere passarono davanti a loro munite di scope e piumini per la polvere. Bianca rivolse alla sorella un sorriso esultante, come se ciò risolvesse il problema.

«Cucinare richiede delle capacità ben precise e per preparare la colazione, il pranzo, la cena e il tè di metà mattina e metà pomeriggio per almeno quaranta persone ci vuole parecchia esperienza. Ecco perché disponiamo di una cuoca, specializzata proprio in queste attività.»

Il viso di Bianca si rannuvolò. «Oh.»

«Già... oh!»

Bianca fece di nuovo spallucce e sorrise. «Risolverai tutto tu, vero, Violet? Sei così brava a risolvere le cose.»

«Non ci penso nemmeno. Ti toccherà annullare gli inviti.»

«No» gemette Bianca, mentre le lacrime le spuntavano agli occhi. «No, no, non posso. Non posso proprio. E comunque in molti saranno già per strada e arriveranno questa sera. Devi aiutarmi. Ti prego, ti supplico.» Afferrò il braccio di Violet e la fissò con sguardo implorante.

Per quanto Violet le volesse bene, a volte Bianca era davvero esasperante. Spesso si faticava a credere che fossero sorelle. Erano entrambe alte di statura, ma lì si esaurivano le somiglianze. Bianca era flessuosa ed elegante, con pelle chiara, occhi azzurri e i capelli biondi della madre, mentre Violet era formosa, con

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capelli e occhi castani e un incarnato olivastro del tutto fuori moda. E anche le loro personalità non avrebbero potuto essere più diverse.

Ma forse era colpa di Violet se Bianca aveva quel carattere. Dalla morte della loro madre, dieci anni prima, avvenuta quando Violet aveva sedici anni e Bianca solo otto, la sorella maggiore aveva fatto praticamente da madre alla minore. L'aveva viziata e assecondata nel disperato tentativo di consolarla per quella terribile perdita. Era forse per questo che adesso Bianca si comportava in modo poco avveduto ed eccessivamente emotivo?

Violet non aveva tempo di trovare una risposta a quella domanda. «D'accordo, ma non invitare nessun altro, capito? E la prossima volta che ti viene in mente una cosa del genere consultati prima con me.»

Sua sorella batté le mani compiaciuta e ritrovò il sorriso. «Grazie, grazie. Oh, questo sarà un fine settimana meraviglioso. Non vedo l'ora che inizi e anche i miei amici ne sono entusiasti.» Si allontanò lungo il corridoio canticchiando un motivetto allegro mentre Violet andava nella direzione opposta, verso lo studio del padre.

Bussò alla porta ed entrò prima ancora che lui avesse modo di rispondere.

«Bianca ha invitato venti persone a casa nostra nel fine settimana e la cuoca non sarà di ritorno per altri sette giorni.»

Suo padre sollevò lo sguardo dalle mappe astronomiche ammucchiate sullo scrittoio. «Oh, benone, cara. Spero che vi divertirete un mondo.»

Violet sospirò. Perché darsi la pena di informare suo padre di qualcosa? Era convinto che la tenuta si

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gestisse da sola, o perlomeno era ciò che voleva credere. Finché era Violet a pensare a tutto, lui era ben lieto di restare chiuso nel proprio studio, sepolto fra libri e carte. Era un altro dei motivi che avevano costretto Violet a prendersi cura di Bianca alla morte della madre. Suo padre era un uomo affettuoso, ma non si era mai mostrato all'altezza del difficoltoso compito di allevare due figlie piccole. Preferiva di gran lunga accompagnarsi a studiosi e accademici e discutere degli ultimi progressi della scienza, anziché cercare di confortare una bambina che aveva perso la propria bambola prediletta.

«Dobbiamo trovare qualcuno al villaggio che possa venire ad aiutarci, anzi, più di una persona. Donne in grado di cucinare per parecchia gente.»

«Sì, pensaci tu, da brava. Oh, e dobbiamo anche darci da fare per trovare un nuovo amministratore per la tenuta, il prima possibile, e risolvere i problemi alla taverna.»

Proprio come Bianca, il padre di Violet menzionò la cosa come se fosse di poco conto, ma subito alla giovane si irrigidirono le spalle, sapendo che un nuovo fardello stava per piombarle addosso. «Quali problemi alla taverna? E cosa c'è che non va con l'amministratore attuale?»

Suo padre si spostò dallo scrittoio alla libreria e lasciò scorrere la punta del dito sul dorso dei tomi, cercandone uno in particolare. «Ah, eccolo qui.» Estrasse il volume in questione e lo sfogliò.

«Papà, cosa è successo alla taverna e cosa c'è che non va con l'amministratore?»

«Cosa?» L'uomo sollevò il capo e parve quasi sorpreso di vedere Violet nel proprio studio. «Oh, già. Sì,

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sembra che Charles se ne sia andato. Bianca è informata di tutto. Una delle ragazze del villaggio le ha raccontato che Charles era...» Fece una smorfia, cercando le parole più adatte. «Diciamo... amorosamente coinvolto con la locandiera del Vello d'oro.»

Quella era, perlomeno, un'attività in cui Bianca eccelleva. Adorava spettegolare, dunque veniva sempre informata delle eventuali lamentele dei fittavoli. Non che poi Bianca facesse mai alcunché per porvi rimedio, se non ricordarsi, di tanto in tanto, di riferirle a Violet.

«Ma la locandiera non è sposata con l'oste?»

«Esatto. Corre voce che lei e Charles siano fuggiti chissà dove e che l'oste non ne sia affatto contento.»

«Non mi sorprende.»

Suo padre rimise il libro a posto e ne estrasse un altro prima di guardare la figlia. «Pare che sia sconvolto e che si rifiuti di aprire la taverna. Gli uomini del villaggio sono furiosi. O così sostiene Bianca. Le donne del posto l'hanno avvertita che, se la taverna non riaprirà al più presto, potrebbe scoppiare una rivolta. E non solo fra gli uomini che non possono concedersi una bella bevuta, ma anche fra le mogli che sono stufe di averli fra i piedi quando devono preparare la cena. La faccenda ha generato scompiglio in tutto il villaggio.»

«Ebbene, all'oste non resta che riaprire i battenti e leccarsi le ferite in un altro momento.»

«Già, già, esatto. Forse dovresti occupartene tu, Violet.» Suo padre sventolò una mano come se simili situazioni potessero risolversi per magia. «Ed è meglio non rimandare troppo. Non vogliamo che i fittavoli insorgano per le strade, no?»

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«Quindi vi aspettate che io trovi una cuoca entro stasera; che assuma un nuovo amministratore; che rattoppi il cuore infranto dell'oste e lo convinca a riaprire la taverna prima che scoppi una rivolta al villaggio.»

«Sì. So che troverai il tempo. Tanto non è che tu abbia altro da fare.» Per la prima volta da quando Violet era entrata, suo padre le dedicò la propria, completa attenzione. «Non te lo dico abbastanza spesso, Violet, ma non so cosa faremmo senza di te. Grazie al cielo quell'uomo...» S'interruppe e alzò lo sguardo, frugandosi nella mente in cerca di quel particolare nome, poi abbassò gli occhi e sorrise. «Grazie al cielo quel Randolph Simeon ti ha lasciata all'altare. Io e Bianca saremmo davvero persi se ti avesse sposata e allontanata da noi.»

Il dolore serrò in una morsa il petto di Violet, ma, come d'abitudine, lei strinse i denti e attese che passasse. Suo padre non aveva avuto intenzione di ferirla e lei non avrebbe mai permesso che lui o chiunque altro capisse quanto quel ricordo le risultava umiliante.

«Immagino che io debba darmi da fare, allora» commentò a denti stretti.

«Benissimo, cara.»

Uscita dallo studio, Violet si appoggiò alla parete, chiuse gli occhi ed esalò un lento, profondo respiro per cercare di allentare la morsa che le serrava il petto. Poi raddrizzò le spalle e si avviò a passo di marcia lungo il corridoio, cercando di decidere quale problema risolvere per primo.

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