Una gentildonna in vacanza

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Christy Carlyle

UNA GENTILDONNA IN VACANZA

Immagine di copertina:

Cover design by Amy Halperin

Cover illustration by Judith York

Cover photograph by Shirley Green

Cover images by iStock/Getty Images; Shutterstock (sfondo)

Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Lady Meets Earl Avon Books

An Imprint of HarperCollinsPublisher © 2022 Christy Carlyle

Traduzione di Graziella Reggio

Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollinsPublisher. Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale.

Harmony è un marchio registrato di proprietà HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

© 2023 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici settembre 2023

Questo volume è stato stampato nell’agosto 2023 da CPI Moravia Books

I GRANDI ROMANZI STORICI

ISSN 1122 - 5410

Periodico settimanale n. 1369 dello 09/09/2023

Direttore responsabile: Sabrina Annoni

Registrazione Tribunale di Milano n. 75 dello 01/02/1992

Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA

Distribuzione canale Edicole Italia: m-dis Distribuzione Media S.p.A. Via Carlo Cazzaniga, 19 - 20132 Milano

HarperCollins Italia S.p.A. Viale Monte Nero 84 - 20135 Milano

Questo libro è prodotto con carta FSC® indipendente per garantire una gestione forestale responsabile

Dedico il libro ai miei lettori. Grazie per essere rimasti con me, se avete letto altri miei romanzi, e grazie per la disponibilità a provare questo, se è il primo.

Ringrazio tutti coloro che, nelle diverse fasi, hanno contribuito alla pubblicazione di questo volume.

Londra, ottobre 1897

Per James Pembroke aveva inizio un giorno fortunato.

O almeno così sembrava.

L’aria mattutina pareva diversa dal solito, carica di una nuova energia.

La fitta nebbia salita dal Tamigi si arricciava intorno ai lampioni come fumo; tuttavia, mentre la vettura di piazza correva verso ovest, diretta al quartiere degli affari – per condurlo a un misterioso appuntamento in un orario insolito, ossia le otto di mattina – James scorse nel cielo, sopra l’orizzonte, qualche pennellata d’oro e rosa. Dopo tanti giorni di piovischio, forse il sole stava spuntando dalle nuvole, e questo lo rendeva più fiducioso.

Gli ultimi sei mesi gli avevano impartito una dura lezione, che aveva scalfito il suo ottimismo. A momenti James era stato tentato di arrendersi. Ma poiché tante volte, negli affari, aveva sfidato la sorte e seguito l’istinto, sapeva per esperienza che la fortuna era mutevole. A una serie di sconfitte poteva seguire un trionfo, così come una sola carta rischiava di porre fine a una serie di mani vincenti.

Lui stesso aveva vantato a lungo un successo così brillante da convincersi che nulla lo potesse offuscare.

Ed era bastata la decisione funesta di fidarsi della persona sbagliata per distruggere tutto quanto. James aveva perso il capitale, era stato costretto a vendere le navi mercantili e si era indebitato con un losco finanziatore. Ormai della società di trasporti, che lo aveva arricchito oltre ogni aspettativa, restava soltanto un ufficio in Wapping Street con il suo nome sopra l’ingresso. Anche questo sarebbe sparito presto. Il contratto di locazione, infatti, sarebbe scaduto alla fine dell’anno.

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Eppure quella mattina una scintilla di speranza gli ardeva nel petto, simile a una minuscola brace. Magari sarebbe riuscito a rimettere in sesto la Pembroke Shipping. Era ora che la fortuna ricominciasse a sorridergli.

Buona sorte, torna da me. Ormai ho imparato la dannata lezione.

E se stava davvero tornanndo, doveva tenersi pronto. Di colpo fu attanagliato dall’ansia, dal bisogno di muoversi, di agire. Quando rimaneva seduto troppo a lungo, tendeva a ripercorrere con la mente i fallimenti, tuttavia rimuginare non gli aveva mai giovato.

«Lasciatemi pure qui» indicò al vetturino.

Pagò per il passaggio e presto vide sparire la carrozza nella nebbia.

Dopo una rapida occhiata in giro per orientarsi, si diresse verso una piazzetta signorile, con case a schiera dipinte di bianco e, al centro, un giardino ben curato, recintato da una cancellata. Era una zona piuttosto atipica per uno studio legale. Del resto, tutto quanto, nella lettera che aveva ricevuto, era insolito.

Un avvocato mai sentito nominare gli aveva dato appuntamento a un’ora impossibile, senza rivelare chi lo avesse incaricato né lasciar trapelare nulla dell’argomento da discutere. Gli era sembrato così strano che, al principio, James aveva sospettato una truffa di qualche genere. In parecchi ambienti era considerato un bersaglio facile, dopo l’errore madornale che aveva commesso con l’ultimo investimento. Tuttavia la curiosità aveva sempre fatto parte della sua natura. La missiva misteriosa aveva stuzzicato il suo interesse e, dopo una giornata di riflessioni, si era convinto a correre un piccolo rischio per scoprire cosa avesse da dirgli il legale.

La brace accesa dentro di lui si azzardava persino a sperare che fossero buone notizie.

Un movimento improvviso, poco più avanti, attirò la sua attenzione. Risuonarono passi nella foschia e, un attimo dopo, emersero due attempate signore. Quella più alta, che camminava in testa, indossava un abito dalle maniche così voluminose da impedire alla compagna di starle al fianco.

«Buongiorno, signore.» James si levò il cappello e accennò un

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sorriso. La più alta vantava un’eleganza austera e, dal modo in cui sollevava il mento, lasciava intendere di essere nobile oppure ricchissima, o entrambe le cose. «Sapreste dirmi se sto andando nella direzione giusta per Selfridge Place?»

«Proprio così, sir» confermò quella piccola di statura.

«Avete salvato un uomo smarrito. Vi ringrazio» ribatté, strizzando l’occhio alla donna che lo aveva aiutato.

«Che gentile» sussurrò questa all’amica, mentre passava oltre.

Grazie al cielo, James conservava almeno un certo fascino. I modi affabili non lo avevano salvato dalla rovina finanziaria, ma forse lo avrebbero aiutato a schiudere qualche porta. L’istinto aveva determinato soltanto la metà del suo successo. Per il resto avevano contribuito la capacità di comprendere gli altri e di ottenere la fiducia dei soci d’affari.

Cinque minuti dopo, uscì dalla zona di case bianche e s’inoltrò in un quartiere di edifici di mattoni rossi. Si fermò di fronte a un palazzo senza pretese in Selfridge Place e controllò ancora una volta l’indirizzo indicato nella lettera.

Una lampada accesa dietro una finestra al pianterreno proiettava all’esterno un malsano bagliore giallastro. James lo avrebbe definito un cattivo presagio, se avesse creduto a simili idiozie.

Poiché l’ingresso non era chiuso a chiave, entrò con circospezione. Poco dopo risuonò una voce maschile.

«Sono qui, Mr. Pembroke.»

Seguirono il raschio di una sedia sul pavimento e un suono di passi rapidi. Quindi un uomo robusto, prossimo alla calvizie, si profilò nel vano di una porta.

«Mr. Cathcart?»

«Esatto. E siete in perfetto orario, Mr. Pembroke. Apprezzo la puntualità.»

«Dunque partiamo con il piede giusto.» James adottò il tono gioviale e disinvolto che usava in passato di fronte alle nuove prospettive d’affari. Di norma sorridere incoraggiava gli altri a fare lo stesso.

Ma non Mr. Mortimer Cathcart, avvocato.

Questi, infatti, abbassò il naso e lo esaminò da sopra la montatura degli occhiali, poi si ritirò nello studio al pari di una talpa che rientrava nella tana.

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«Accomodatevi, sir. Deduco dai vostri modi che quanto sto per annunciarvi vi coglierà alla sprovvista.»

Dannazione! A quanto pareva, si trattava di brutte notizie. Non occorreva un grande intuito per interpretare l’espressione arcigna del legale e il modo in cui spostava lo sguardo qua e là.

James sentì emergere un’amara risata, un chiaro segno di sfinimento. Così si spegneva la speranza che, quel giorno, si sarebbe liberato della cattiva sorte. Comunque era pronto ad affrontare il problema. Cosa poteva esserci di peggio che perdere la flotta mercantile creata nel corso di tanti anni?

Cathcart gli indicò una sedia dall’aria malferma, posta di fronte alla scrivania. Colto da un impeto di ribellione, James fu tentato d’insistere per rimanere in piedi mentre riceveva il duro colpo. Tuttavia il legale non aveva responsabilità se era stato incaricato di comunicargli brutte notizie. Anzi, l’idea pareva metterlo di malumore.

«Vi ringrazio» rispose infine e prese posto, tentando di sistemare le lunghe membra sulla sedia troppo piccola.

Cinque minuti dopo fu ben contento di essere seduto, poiché niente avrebbe potuto prepararlo alle parole pronunciate dall’avvocato.

«Per favore, ripetete, Cathcart» lo esortò in tono secco. «Con lentezza.»

Gli occhiali dell’anziano legale sobbalzarono insieme alle folte sopracciglia, poi l’uomo si schiarì la gola, abbassò lo sguardo sui documenti e infine lo fissò con nervosismo.

«Proprio così, sir, siete l’erede di Lord Rossbury. Vostro zio non aveva figli e suo fratello, vostro padre, è deceduto da parecchi anni. Come ovviamente sapete.» Tossicchiò di nuovo.

Certo, grazie. James aveva ben presente quando era mancato il padre, insieme alla madre, e preferiva tenere lontani quei ricordi. Tuttavia non aveva mai dimenticato che lo zio non gli aveva offerto una casa, un aiuto, nemmeno un briciolo di consolazione.

«Le mie condoglianze. La contea di Rossbury è vostra, poiché tre giorni fa, quando vostro zio...»

James non ascoltò il resto del discorso. O meglio, le parole precise del legale andarono via via sfumando, mentre un’emozione

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si appropriava del suo intero essere. Una sensazione esaltante, che scaldava come la prima sorsata di un buon whisky. Sollievo. Puro e dolce conforto. Un elisir contro tutte le angosce che lo assillavano da mesi. Fluiva nelle vene al pari di un vino estivo e lo inebriava di gioia.

James saltò su dalla sedia e vide Cathcart portarsi una mano alla gola, come per difendersi da un’aggressione.

«Vi potrei baciare, Cathcart.»

«Preferirei di no, Mr. Pembroke.»

«Allora danzerò una giga qui nel vostro studio.» James, che non ballava da mesi, mosse i piedi a ritmo. Sentiva la mancanza della musica, ma doveva pur esprimere l’esaltazione.

«Sir... milord, per favore. Potreste tornare a sedervi?» Cathcart indicò di nuovo la sedia davanti alla scrivania. «Ho molto altro da comunicarvi e vi prego di astenervi da ogni... esternazione finché non avrò svolto il mio dovere, come stabilito nel testamento di vostro zio.»

Lui, però, non riusciva a contenere il fremito di entusiasmo per la scoperta che la fortuna era tornata a sorridergli. Era stato vicino alla disperazione. Rimanere aggrappato alla speranza era diventato sempre più difficile mentre tante porte gli venivano chiuse in faccia, gli amici gli volgevano le spalle e pagare per le pure necessità si faceva problematico.

Eppure aveva perseverato, rammentando a se stesso che la tragedia patita in gioventù non era stata una maledizione, ma un insegnamento che aveva alimentato l’ambizione e favorito il successo.

Un grave errore di giudizio non poteva distruggerlo, soltanto ostacolarlo.

E tutto ciò aveva portato a quel momento fatidico. A quell’uomo curioso che gli arrecava sollievo in un modo che James non si era mai immaginato.

«Quanto?» chiese quindi al legale, restando in piedi dietro la sedia e serrando lo schienale di legno con tanta forza da farsi male alle dita. «Le risorse della contea. A quanto ammontano?»

Prevedeva che Cathcart sogghignasse di fronte alla domanda esplicita. Dopo anni di successo nel settore dei trasporti marittimi, James sapeva che i gentiluomini pretenziosi giudicavano

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disdicevole parlare apertamente di soldi. Ebbene, al diavolo l’ipocrisia!

«Occorre qualche spiegazione, milord.»

Milord. A quel punto il titolo era suo. Diamine, che svolta drastica per un martedì qualunque!

James mosse una mano in aria per esortarlo a continuare.

«C’è una tenuta...»

Sì, certo. Summer qualcosa. Il grande maniero nello Shropshire del quale gli aveva parlato più volte il padre, in tono a tratti nostalgico e a tratti risentito.

«Un incendio ha devastato l’edificio. Una vera tragedia. Per la maggior parte era molto antico, con una struttura in legno di quercia.»

«Un incendio?»

«Due anni fa, milord. Quasi tutti i beni di valore dentro la dimora sono stati danneggiati, se non distrutti. I dipinti, gli arazzi, gli arredi... Ai tempi vostro zio era già indebitato e quindi, secondo gli appunti dell’amministratore della tenuta, non è stato effettuato alcun restauro.»

L’adrenalina si raggelò nelle vene di James mentre il cervello si sforzava di assimilare la notizia che aveva ereditato un titolo, ma non una contea.

«E i terreni?» Erano edificabili. Non che lui disponesse dei fondi necessari per costruire. Non ancora.

«Le terre rientrano nell’eredità, come ovvio. Potete ricostruire come ritenete opportuno.» Cathcart si sistemò gli occhiali sul naso. «A quanto pare, è rimasta qualche pietra del vecchio maniero di Summervale e potrebbe essere utile per erigere un nuovo edificio sul posto.»

«Qualche pietra? Mi state dicendo che ho ereditato un titolo e un mucchio di sassi?»

L’avvocato volse verso di lui il viso rugoso e, per la prima volta, espresse una certa emozione. «Purtroppo, negli ultimi anni della sua vita vostro zio si era ridotto ad abitare nel corpo di guardia.»

James tentò di provare un simile senso di compassione per l’uomo che si era rifiutato di accoglierlo quando era rimasto orfano, oltre due decenni prima, tuttavia non ci riuscì.

«Quindi non c’è una vera tenuta. E i fittavoli?»

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«Non ne figurano. L’amministratore afferma che molti se ne sono andati da anni per cercare lavoro in città.»

«Non restano beni di valore?»

«No, milord. O almeno nessuno che sia catalogato.»

«Neanche conti bancari?»

«Temo di no, milord. Tranne i fondi necessari per pagare in parte i debiti del defunto conte.»

Con un sospiro, James si passò una mano sul volto. Avvertiva un vuoto nel petto, una sensazione ormai familiare. Tuttavia la speranza ardeva ancora. Una scintilla minuscola, che si rifiutava di spegnersi.

«Altre proprietà?» Possibile che lo zio gli avesse lasciato soltanto un inutile titolo nobiliare?

«Ah, sì!» Cathcart frugò tra i documenti e infine estrasse un foglio più piccolo. «Una proprietà non vincolata, anche se non figurano valutazioni nei registri della contea. C’è soltanto l’accenno a un maniero in Scozia.»

«Quindi magari è ridotto anche quello in macerie.» Negli ultimi tempi, era proprio il genere di sorte che gli toccava: una sfortuna nera.

«L’atto di proprietà descrive un edificio di due piani, situato in un terreno di sedici acri a nord di Edimburgo. Non c’è molto altro.» Cathcart lo guardò inarcando un sopracciglio. «Invermere?» gli chiese quindi, come se il nome avesse potuto destare qualche ricordo.

«Non sapevo niente di mio zio, della sua vita e delle sue proprietà. E soltanto adesso apprendo che, a quanto sembra, era incapace come me di gestire il denaro.»

Il legale si schiarì la gola.

«Altre buone notizie, Cathcart? Proprio nessuna?»

«Mi dispiace, milord. Avete ereditato il titolo e il maniero in Scozia, che ho appena menzionato.» S’interruppe un istante per rivolgergli un’occhiata comprensiva, un po’ forzata. «Mi occorre la vostra firma su alcuni documenti. Poi vi consegnerò la chiave del maniero e una lista di conti da esaminare.»

«Debiti da saldare, intendete.»

«Esatto.»

Dovranno aspettare finché non pagherò i miei.

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James si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla scrivania e firmò dove richiesto con una sorta di amara rassegnazione. Mentre scribacchiava in fretta, più volte, la propria firma, l’avvocato continuava a rimescolare i fogli in maniera assai irritante.

Infine, quasi rivolto a se stesso, borbottò: «C’è un altro dettaglio».

James lo fissò in volto e attese che l’uomo ricambiasse il suo sguardo. «Ditemi.»

«Si accenna a una signora, una certa Lady Cassandra Munro, definita due anni fa come residente all’indirizzo in Scozia, tuttavia non risulta che abbia mai pagato l’affitto alla contea. Viene anche nominata nel testamento come destinataria di un certo gioiello.» Cathcart si soffermò a guardarlo, in attesa.

«Una mantenuta?»

«Così suppongo, milord.»

«Mi pare una strada lunga da percorrere per fare visita all’amante.»

Il vecchio arrossì sotto i favoriti e James ridacchiò quasi per l’eccesso di pudore.

«Nessuna indicazione che vi risieda ancora.»

«Ebbene, in questo caso, non sarà per molto.» Se il maniero rappresentava l’unico mezzo per risollevarsi in parte dal dissesto finanziario, la signora si sarebbe dovuta trovare un’altra sistemazione.

Era semplice.

James rimise il cappuccio alla stilografica del legale, la posò e si alzò in piedi. «Mi spedirete tutto quanto?» Non aveva alcuna voglia di ritrovarsi quella pila di carte sulla scrivania, però comprendeva il peso della responsabilità. E al presente spettava a lui.

«Invierò una lettera a Lady Cassandra Munro per informarla del gioiello e della vostra intenzione di prendere possesso dell’immobile. Desiderate che aggiunga qualcosa riguardo ai vostri progetti per Invermere?»

Un moto di compassione strappò a James un sospiro. Probabilmente Lady Cassandra si era illusa di ricevere in eredità la dimora, considerato che lo zio le aveva accordato il permesso di abitarci.

Di recente lui aveva ricevuto così tante brutte notizie che esita-

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va a comunicarne ad altri. Tuttavia non aveva alternative e intendeva provvedere di persona.

«Andrò io stesso in Scozia. Devo prendere accordi per vendere la proprietà al più presto.»

«Certo, milord.»

Questa volta, l’uso dell’appellativo gli generò un brivido. Suo padre aveva previsto di ereditare il titolo e, in un futuro, passarlo a lui. Proprio per questo quando il vecchio conte, il nonno di James, si era ammalato, tutti loro si erano affrettati a prendere il treno per lo Shropshire.

Il pensiero risvegliò i ricordi più cupi. Quelli che lo tormentavano da anni, assumendo nuove forme notte dopo notte. Gli tornarono in mente l’acre odore di fumo, il frastuono del metallo che si torceva mentre il convoglio deragliava, e le grida dei passeggeri. E poi la voce della madre. Stai calmo, tesoro. Andrà tutto bene.

Invece non era stato così. E James aveva perduto entrambi i genitori.

Tutto per perseguire un titolo senza valore.

Sentirsi chiamare Lord Rossbury gli sarebbe sempre parsa una maledizione.

«Come vi permettete?»

James udì da un isolato di distanza l’urlo oltraggiato della governante. La cadenza gallese di Mrs. Wilton era inconfondibile e il tono era venato di paura. Dopo aver superato una balia che spingeva una carrozzina sul marciapiede della piazzetta, si mise a correre verso la propria casa.

La porta principale era socchiusa e due estranei fronteggiavano la signora. Appena James li vide, sentì il sangue gelarsi nelle vene e, subito dopo, la collera che ribolliva in seguito alla grave delusione di quella mattina si mutò in furia.

Gli scagnozzi di Archibald Beck? Questi aveva sempre lanciato vaghe minacce di conseguenze, qualora James avesse mancato di saldare il debito. Non c’era dubbio che Archie Beck fosse un violento, anche se, di norma, colpiva tramite intermediari come quei due, senza mai sporcarsi le mani. Era vero che James rimandava il pagamento da mesi, ma questo era troppo. L’errore

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era stato suo. Non ammetteva che venissero messi in pericolo i domestici.

Valutò gli intrusi mentre spingeva il battente e varcava la soglia. Erano due omaccioni in completi vistosi, con le cuciture che rischiavano di scoppiare per contenere i muscoli.

«Statele alla larga.» Si sfilò in fretta il soprabito e lo gettò sul tavolo dell’atrio. Mentre si sbottonava i polsini della camicia, rivolse uno sguardo interrogativo alla governante. «Siete illesa?»

Malgrado le gote arrossate e gli occhi sbarrati per il terrore, lei confermò con un brusco cenno. «Sì, sir.»

«Questi uomini sono entrati a forza e hanno insistito per parlare con voi, sir.» Jeffries, l’anziano maggiordomo, costretto dalle ginocchia reumatiche a rimanere quasi sempre nel seminterrato, si avvicinò appoggiandosi a un bastone.

«Cosa volete?» James si sistemò davanti a Mrs. Wilton e alla cameriera e al lacchè che le stavano alle spalle. Rimboccandosi con metodo le maniche, tentò di indovinare chi, tra i due, fosse il capo. Sarebbe stato il primo ad assaggiare i suoi pugni, se la situazione fosse precipitata.

Mrs. Wilton intervenne prima che gli intrusi aprissero bocca.

«Sostengono di avere buoni motivi per portare via i quadri e l’argenteria. Mi hanno persino chiesto di aprire la vostra cassaforte e consegnare l’intero contenuto.» Si avvicinò di un passo a James e sussurrò: «Dicono che avete debiti, sir. È vero?».

In realtà si trattava di un solo debito, dovuto a uno sbaglio disastroso, ossia essersi fidato di Archibald Beck.

«È ora di pagare il capo.» Il bruto pronunciò la frase in una sorta di annoiato borbottio cockney, come se, in passato, l’avesse già ripetuta centinaia di volte.

Il compare, più basso e robusto, affermò con maggior decisione: «L’ora è già passata. Sganciate i soldi, Pembroke, altrimenti prendiamo noi ciò che possiamo».

«Andate al diavolo!»

Il tarchiato gli si avventò contro e James reagì con un rapido pugno in faccia.

«Per l’inferno!» strillò il malfattore, tenendosi il naso.

Lui si preparò a colpire ancora, ma l’uomo si limitò a guardarlo in cagnesco.

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«Fuori di qui» intimò James a denti stretti mentre quello più alto si chinava, come per udirlo meglio. «Fuori. Di. Qui.»

«Non senza quello che dovete.» Appena l’omone si diresse verso il salotto, Jeffries sollevò il bastone da passeggio e lo mise di traverso nel vano della porta per sbarrarlo. Poi porse a James la pistola che aveva in tasca.

Un’arma piccola, a canna corta, con un grosso tamburo a revolver.

Lui la prese, la diresse verso il più alto e alzò il cane, senza nemmeno sapere se fosse carica.

«Andatevene con il vostro compare, finché potete.»

L’omaccione divenne circospetto e fece per infilare una mano dentro il soprabito.

«Evitatelo.» James gli si avvicinò con uno scatto e gli puntò l’arma al cuore. «Avvisate Beck che riavrà presto il denaro. Però niente più intimidazioni, minacce alla servitù o irruzioni in casa mia. Chiaro?»

Quello più basso iniziò ad arretrare, tenendosi il naso dolorante, invece il grosso rimase dov’era e lanciò un’occhiata alla canna della pistola, premuta contro il suo petto.

«Quando pagherete?»

«Come ho affermato, presto.»

«Il capo non aspetterà a lungo. Vi è capitato un colpo di fortuna, Pembroke?» Malgrado il tono dubbioso, il volto ostile rimase immobile, come scolpito nella pietra.

«Quello che mi è capitato è un titolo nobiliare. Da tre giorni sono il Conte di Rossbury.»

L’omone inarcò le sopracciglia e Mrs. Wilton trasalì, poi mormorò un’esclamazione. Jeffries proruppe in un risolino rauco e Jenny, la cameriera, strillò come se avesse appena scorto un topolino nella dispensa.

«Riferitelo al vostro capo» riprese James, spostando l’arma dal petto del furfante e agitandola per indicare l’uscita.

Appena i due se ne andarono, tutti emisero un sospiro di sollievo e la governante chiuse la porta a chiave.

«Una contea?» domandò Jeffries a bassa voce.

«A quanto pare.»

«Milord, perbacco!» Nel pronunciare il titolo onorifico, Mrs.

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Wilton incurvò le labbra in un sorrisino orgoglioso. «Ci dobbiamo preparare per il trasloco?»

«Non ora.» James non aveva tempo per dilungarsi in spiegazioni. Al momento contava soltanto una cosa. «Mi occorrono invece i bagagli per un viaggio in Scozia.»

I membri del personale si scambiarono occhiate perplesse.

«Quando partirete, milord?» s’informò il maggiordomo.

«Subito.»

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Quando Lady Lucy Westmont prendeva una decisione, era pressoché impossibile dissuaderla.

La madre lo sapeva e il fratello e la sorella lo avevano imparato a proprie spese. Ancora più importante, Lucy ne era cosciente. E aveva imparato ad apprezzare se stessa anche se gli altri la giudicavano un po’ strana e gli scapoli rispettabili le stavano alla larga a causa della nomea di... come l’aveva definita quel signorotto durante un ballo, l’estate scorsa?... bisbetica intrigante.

Benché avesse informato il gentiluomo in questione che era un idiota dalla mentalità ristretta, non poteva davvero confutare l’accusa. Quando era richiesto dalla situazione, infatti, aveva la lingua tagliente. Inoltre era molto brava a intromettersi nelle faccende altrui, anche se, ai suoi occhi, si trattava piuttosto di un aiuto.

Cosa c’era di male nell’essere la persona alla quale ci si rivolgeva quando occorreva assistenza? Lucy andava fiera della propria fama di giovane signora pronta a soccorrere gli altri, in caso di necessità.

La capacità di risolvere i problemi era assai apprezzata. Proprio la settimana prima, sua madre era andata nel panico perché non era riuscita a trovare un accordatore di pianoforti in tempo per la cena di quella sera. Come ovvio, Lucy era subito intervenuta. Non aveva idea di come si accordasse un piano, ma, quando aveva saputo che l’esperto si era dichiarato impegnato per l’intera settimana, si era recata di persona al suo laboratorio. Dopo avergli spiegato che il padre, il Conte di Hallston, era un diplomatico della regina e che l’ambasciatore invitato a cena era un grande appassionato di pianoforti, che magari un giorno avrebbe avuto bisogno di un bravo accordatore, lo aveva persuaso a recarsi a casa loro in giornata.

Quindi sì, forse a volte s’immischiava. E poteva rivelarsi testarda quando intendeva raggiungere uno scopo. Comunque trovava sempre un modo per sistemare le cose.

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Quella sera aveva due obiettivi: uno, assicurarsi che il ricevimento organizzato dalla madre si svolgesse senza il minimo intoppo; due, mantenere la promessa fatta al padre d’impegnarsi per essere socievole, quindi notare se qualcuno la notava e sorridere nel caso un gentiluomo l’avesse guardata. Fino ad allora nessuno l’aveva degnata di uno sguardo.

Comunque lei ci stava provando. Non aveva mai preso in mano il romanzo né l’album per schizzi. Anche se, come ovvio, li aveva portati con sé. Uscire dalla sua stanza senza un libro o un quaderno per disegnare sarebbe equivalso ad avventurarsi fuori casa svestita. La madre affermava che li usava come uno scudo, una barriera tra se stessa e il mondo. Invece era vero l’opposto. Entrambi, infatti, la ponevano in relazione con la realtà, rendendola attenta e interessata nei confronti di chi la circondava.

Lucy vantava un certo talento artistico e aveva imparato a usare la macchina fotografica, tuttavia era sicura che i genitori non le avrebbero mai permesso di trasformare queste capacità in una professione.

Il matrimonio era il destino che le prospettavano, però lei non era più tanto sicura di volerlo.

Nel profondo del cuore sognava di diventare abbastanza brava da godere di riconoscimento nel campo dell’arte, proprio come la zia Cassandra. Dopo la morte del lord scozzese con il quale era fuggita durante la sua prima Stagione, la zia era rimasta in Scozia e si era fatta un nome a Edimburgo come ritrattista.

Lucy ne ammirava il talento, ma anche l’indipendenza. Se solo una donna avesse potuto vivere così senza dover prima diventare vedova...

«Mi hai abbandonata.» La voce di Lady Miranda Farnsworth, sua cara amica, la sottrasse alle riflessioni.

«Non è vero. Non lo farei mai.» Anzi, era rimasta in sua compagnia, alla Farnsworth House, quasi per l’intera giornata, prima di rincasare per la cena di famiglia. Miranda si sarebbe sposata poco più di due settimane dopo e Lucy la stava aiutando a decidere su... be’, tutto quanto.

«Ho un problemino» le sussurrò l’amica.

«Spero che non riguardi l’organza.» Lucy gemette tra sé al ricordo di quando si era ritrovata sepolta da rotoli di stoffa di ogni

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genere e tinta, proposti dalla sarta. «L’hai già scelta stamattina. E dopo un’attenta valutazione.»

«No, non ha niente a che fare con le nozze. Ti avevo promesso di non pensarci per tutta la serata.» Si avvicinò con fare cospiratorio. «Si tratta dei posti a tavola. Senza dubbio tua madre ci ha riflettuto a lungo, però speravo di trovarmi abbastanza vicino a Heath.»

«Vuoi che ne scambi un paio?»

«Oh, davvero? Mia cara Lucy, cosa farei senza di te?»

«Non preoccuparti. Tra poco mi allontano di nascosto e provvedo.»

Miranda si rilassò in maniera visibile e bevve un sorso di punch.

«Non infrange troppo le regole di Mrs. Winterbottom, vero?» scherzò.

Tra le amiche, Lucy era nota come una devota di Mrs. Winterbottom, che aveva scritto il manuale per le donne che aspiravano all’autonomia: La vera signora. A suo parere, non si limitava a fornire utili consigli riguardo all’etichetta, ma era anche un punto di riferimento per organizzare la propria vita nel modo migliore e offriva preziosi suggerimenti per non perdere la calma di fronte ai problemi.

«Mrs. Winterbottom sostiene l’autosufficienza e la necessità di trovare da sole la soluzione per le piccole difficoltà.» Con un largo sorriso, concluse: «Mi approverebbe».

«Heath!»

Lo strillo acuto di Miranda, che chiamava per nome il fidanzato, le fece sobbalzare lo stomaco. Lucy prese fiato prima di voltarsi verso il giovane alto e biondo che aveva appena attraversato il soggiorno dei genitori per salutarle.

«Signore.» Accennò un inchino alla futura sposa e infine lanciò un’occhiata a lei.

Grazie al cielo, non la lasciava più senza fiato. Anzi, Lucy si domandò come mai quel giovanotto avesse suscitato il suo interesse. Forse a causa dell’allegria che spesso gli brillava negli occhi. Era dotato di una cordialità spontanea, che lei invidiava.

Era sempre stata più brava ad aiutare gli altri che ad affascinarli. Il fratello minore era un seduttore nato e la madre riusciva a sciogliere il cuore più duro con un’occhiata dolce e qualche parola gentile. Invece Lucy non vantava simili talenti. In compenso

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era capace di ascoltare, tranquillizzare tutti quanti e appianare le difficoltà.

«Mi avevate promesso un ballo» rammentò lui con un sorriso ammaliato a Miranda.

La zia di questa, che fungeva da chaperon per quella sera, aveva notato la scena e si era avvicinata. Lucy lo intese come un segnale. Rivolse un cortese cenno di saluto alla signora e uno a Mr. Heath Ogilvy, diede una stretta rassicurante al braccio dell’amica e, dopo essersi scusata, si diresse alla sala da pranzo.

Giunta sulla soglia, rimase sorpresa nel sentir parlare, ma poi riconobbe una delle due voci e alzò gli occhi al cielo. L’aroma di fumo di sigaro non lasciava dubbi.

Il fratello e il suo amico Nigel, in piedi in un angolo del locale, fumavano e confabulavano, ridacchiando in un modo che lasciava intuire il genere d’argomento, senza dubbio inadatto per orecchie sensibili.

Poiché le davano la schiena, Lucy entrò in punta di piedi e chiuse dietro di sé la porta scorrevole.

«Charlie, cosa fai qui dentro?»

Lui saltò quasi fuori dagli stivali. «Diamine, Lucy! Mi spedirai nella tomba ancora prima che metta piede sul Continente.» Con un gesto enfatico, si batté una mano sul petto e, con l’altra, fece segno all’amico di allontanarsi. «Scappa subito, Nigel. Affronterò da solo il drago.»

Nigel spense il sigaro nel vaso di una palma e sgattaiolò via.

«Sarei un drago? In realtà mi piace l’idea.» Lucy porse un piattino da tè al fratello per riporvi il proprio sigaro. «È disgustoso. Papà avrebbe un colpo apoplettico se ti vedesse.»

«Ebbene, non mi vedrà, e tu, in quanto mia sorella preferita, non glielo riferirai.»

«La tua preferita è Marion.» La sorella maggiore era la prediletta di tutti. Una perfetta combinazione di bellezza, bontà e intelligenza. E l’anno del suo debutto si era accaparrata un duca. Il che aveva elevato a un’altezza vertiginosa le aspettative per Lucy. Tuttavia, grazie al cielo, dopo tre Stagioni infruttuose, i genitori le avevano risparmiato l’umiliazione di affrontarne un’altra.

«Marion chi?»

«Molto spiritoso.» Lucy si spostò lungo il tavolo, esaminando i

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cartellini segnaposto. «Adesso dimmi se hai notato i nomi di Mr. Ogilvy e di Lady Miranda.»

«Miranda è laggiù.» Charlie indicò a sinistra con un gesto vago. «Benissimo. La lascio là, vicino a me, e sposto lui.»

«Ogilvy? Non è il damerino di cui eri invaghita?»

«Non ne ero invaghita.»

Il fratello occupò una sedia e incrociò le braccia al petto. «Sì, invece. Arrossivi e facevi facce strane ogni volta che veniva a cena.»

«Come investigatore sei terribile.»

«E tu come bugiarda.»

«Ah, eccolo.» Lucy recuperò il cartellino di Heath e lo collocò di fronte a quello di Miranda. Al suo fianco sarebbe stato eccessivo, quindi lo lasciò sul lato del tavolo dov’era stato sistemato in origine, ma qualche posto più in là. «Così andrà bene, credo.»

«La mamma avrebbe un colpo apoplettico se ti vedesse.» Con un sogghigno, Charlie ripeté le sue stesse parole.

«Dunque siamo pari.» Lucy udì qualche accordo di pianoforte. «E dovremmo tornare tutti e due nel salotto.»

«Santo cielo, hai ragione!» A sorpresa, il fratello scattò in piedi, come se avesse avuto fretta di raggiungere gli ospiti, dai quali era stato felice di scappare pochi minuti prima.

«Certo, però non mi aspettavo che acconsentissi con tanta prontezza.»

«Papà vuole che parli con Balfour. Ha qualcosa a che fare con l’ambasciata francese. La persona giusta da contattare prima del viaggio.»

Mentre si dirigevano alla porta, Lucy lo fermò posandogli una mano sul braccio. «Quale viaggio?»

«La primavera prossima. Visiterò il Continente.» Stringendo tra le dita i risvolti della giacca, Charlie sorrise con orgoglio. «La mia grande avventura.»

Lucy si proponeva con fermezza di non invidiare il fratello e la sorella. O meglio, si sforzava di evitarlo. Marion era molto bella e sposata bene; Charlie era avvenente e un po’ scapestrato, ma adorabile.

E lei? Si accontentava di rendersi utile agli altri, vantare un certo talento nel disegno ed essere definita una bisbetica intrigante.

Tuttavia, con il passare del tempo, si ritrovava a desiderare qual-

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cosa di più. Magari, in un recesso del cuore, aveva sempre bramato un’avventura sua.

Il fratello le premette una mano sulla spalla. «Scusami, Lu. Credevo lo sapessi. Se ti senti esclusa, magari puoi chiedere a papà il permesso di accompagnarci.»

Con una risatina, lei lo sogguardò inarcando un sopracciglio. «Avresti davvero voglia di portare una sorella nella tua grande avventura?» Charlie aveva ventun anni ed era già noto per le tendenze libertine. La sua risposta era prevedibile.

Dopo aver gonfiato il petto, emise il fiato con un sospiro teatrale. «No, non proprio.»

«Lo immaginavo. Basta che tu mi spedisca un sacco di lettere e cartoline, dopo esserti levato dai guai nei quali ti caccerai di sicuro.»

Lui le impresse un bacio sulla guancia e sorrise, poi la precedette fuori dalla sala da pranzo.

Lucy si trattenne per qualche istante da sola a riflettere sui luoghi che le sarebbe piaciuto visitare, se fosse stata libera di partire in viaggio. Poi fu strappata alle fantasticherie da un crescendo della musica.

Si fermò nel corridoio per chiedere a una cameriera di passaggio se procedeva tutto bene in cucina, quindi si diresse al salotto grande, dov’erano riuniti gli invitati.

Miranda la notò appena varcò la soglia e lei le sorrise.

«A posto» le assicurò muovendo solo le labbra e l’amica rispose portandosi una mano sul cuore.

Ecco che aveva compiuto una buona azione per la serata. Di norma questo le arrecava una notevole soddisfazione, però lo scambio con il fratello le aveva acceso nel cuore una scintilla di desiderio, repressa troppo a lungo. Charlie era più giovane di tre anni, eppure godeva di una libertà molto maggiore della sua. Come ovvio, Lucy sapeva che i maschi erano trattati in modo ben diverso dalle femmine, tuttavia non lo apprezzava. A suo parere, i genitori non avrebbero dovuto adeguarsi a simili idee antiquate.

Aveva una mezza idea di dirlo al padre, quindi si mise in punta di piedi per spiare oltre le spalle di un suo vecchio amico, sperando di riuscire a prenderlo in disparte per qualche minuto. In occasioni come quelle, il genitore era sempre attorniato da persone.

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Proprio quando aveva deciso di rimandare il colloquio a più tardi e raggiungere invece Miranda, vide avvicinarsi la madre.

«Lucy, grazie al cielo.» La donna tentava di mostrarsi calma e serena, ma le note acute della voce lasciavano intendere che qualcosa non andava. «Lady Braithwaite» le sussurrò. «La poverina si era addormentata in poltrona, in un angolo, quindi ho chiesto a Jenkins di accompagnarla nel mio salottino. Andresti a controllare se sta bene? Credo sia solo molto stanca, ma se occorre chiamare il dottor Whitaker non esiteremo.»

«Non vi preoccupate, mamma. Vado subito da lei.»

«Grazie, ragazza mia. Betina Braithwaite non è certo superba, ma di sicuro non gradirà sussurri beffardi perché è così affaticata, oppure ha bevuto troppo cordiale.»

Lucy non ebbe difficoltà a uscire dal soggiorno senza farsi notare. Il padre, infatti, stava brindando in onore dell’ambasciatore e richiamava l’attenzione della maggioranza degli ospiti.

Quando entrò nel salottino, trovò Lady Braithwaite adagiata sul divano, che si sforzava di tenere gli occhi aperti. Alice, la nipote che l’aveva accompagnata, le era accanto in piedi, in ansia evidente. Al suo ingresso, le rivolse un sorrisino nervoso.

Dopo che si fu avvicinata, le confidò: «Non so se riuscirò a convincerla a spostarsi nella sala da pranzo. È assai testarda».

Lucy conosceva Lady Braithwaite sin dall’infanzia e apprezzava i suoi modi schietti e determinati. In fondo era giusto che le megere restassero unite.

«Sarò lieta di tenerle compagnia e di chiedere di servirle un vassoio qui, se preferisce evitare il chiasso del salone. Me ne occupo io, Alice. Voi godetevi la serata, vi prego.»

La ragazza si mordicchiò per un istante un labbro, poi cedette. «Grazie, milady. In effetti mi è stato richiesto un ballo, dopo cena.»

«Ebbene, allora andate» la esortò Lucy con un sorriso sincero. Se avesse ricevuto un invito a ballare, non se lo sarebbe lasciato sfuggire... anche se dipendeva dal gentiluomo, ovvio. Il visconte lascivo e piuttosto anziano che le aveva fatto una delle poche proposte di matrimonio che avesse ricevuto nel corso di tre Stagioni rientrava senza dubbio nella lista degli scapoli da evitare come cavalieri.

Dopo che Alice se ne fu andata, Lucy si sedette con cautela all’e-

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stremità opposta del sofà, attenta a non disturbare la Contessa di Braithwaite.

Sprofondò nei cuscini. Quel locale, abbastanza piccolo da essere accogliente, le aveva sempre comunicato una sensazione di calma. Era stato decorato dalla madre in delicati toni pastello e nell’aria aleggiava il suo profumo di giunchiglie, mescolato a quello dei fiori freschi.

Nel complesso, Lucy era contenta di stare lontana dal soggiorno affollato, ma continuava a tornare con la mente all’idea di viaggiare in terre lontane.

Poco dopo, la contessa si svegliò e si accorse della sua presenza.

«Lady Lucy, siete stata precettata per farmi da infermiera, povera ragazza?»

«Niente affatto, milady» le rispose tranquilla. «Mi sono offerta volontaria di rifugiarmi qui, insieme a voi, e adesso possiamo goderci un po’ di pace.»

«La gradisco sempre di più. Negli ultimi tempi dormo male e ho qualche difficoltà in serate come questa, che si protraggono fino a tarda notte. L’età, capite. Succede a tutti, prima o poi.» Emise una risatina di gola. «Voi, però, siete giovane e dovete tornare a divertirvi.» Le diede un colpetto affettuoso sul braccio.

«Stasera sono un po’ distratta, quindi preferisco anch’io il silenzio.» Lucy prese un morbido scialle di cashmere dalla poltrona della madre, davanti al fuoco, e lo stese sulle gambe della contessa.

«Davvero? Ditemi cosa passa per la vostra mente vivace, mia cara.»

«Le limitazioni imposte dalla condizione di donna nubile» rispose con franchezza lei, quasi senza pensarci, mentre perlustrava la libreria in cerca di qualcosa da leggere alla contessa per passare il tempo.

«Ricordatemi quanti anni avete.»

«Ventiquattro.» Lucy si girò verso l’anziana nobildonna e si accorse che la stava osservando con un sorrisino. «Senza dubbio alla mia età eravate già sposata.»

«Sposata e con due bambini.» Lady Braithwaite strizzò le palpebre.

Lucy si aspettava una predica sulle gioie della vita coniugale, oppure un cupo avvertimento riguardo al destino delle donne che

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finivano nel dimenticatoio. Trasse un lungo respiro e si morse la lingua per evitare di dichiarare le sue opinioni in proposito.

«Abbiamo esperienze diverse, comunque a ventiquattro anni avevo le idee chiare, e immagino anche voi. Siete davvero contraria all’idea del matrimonio?»

«Niente affatto.» I genitori di Lucy dimostravano che si poteva essere felici, anche se occorreva pazienza, che spesso le mancava, e la capacità di accettare compromessi, un’altra sua difficoltà.

«A quanto intendo, Lord e Lady Hallston vi lasciano libera scelta.»

Lucy intuì dove avrebbe portato il discorso. Si rendeva conto di essere più fortunata di tante ragazze con le quali aveva debuttato, anni addietro. Molte, infatti, erano state date in sposa a uomini orribili, oppure persuase dai genitori a contrarre matrimoni nei quali l’amore non aveva alcun ruolo.

«Sì. Anche se, a dire il vero, la possibilità di scelta è limitata a un uomo troppo vecchio e poco gentile.» Non poteva mentire riguardo a una faccenda ben nota nella cerchia della sua famiglia.

«Non abbandonate le speranze, ragazza mia. Ho incoraggiato le mie figlie ad aspettare finché non fossero state sicure.» La contessa passò una mano sullo scialle di lana, steso sulle gambe, e posò il capo sul damasco rosa. Un attimo dopo chiuse gli occhi.

Lucy era troppo agitata per leggere. Rimisesulla mensola il libro che aveva preso e attizzò il fuoco, ormai morente. Notò quindi una pila di lettere sulla scrivania, vi si sedette e accese la lampada a olio sul ripiano.

Ormai da tempo aiutava la madre a sbrigare la corrispondenza. Le parve un buon sistema per tenere la mente occupata mentre vegliava accanto alla contessa dormiente.

Separò gli inviti dalle missive personali e sorrise quando ne trovò una da parte della zia Cassandra. Come d’abitudine, questa aveva decorato la busta con ghirigori e motivi floreali, colorati con pennellate di acquerello. Dopo avere ammirato la bravura della zia, Lucy aprì la lettera e cominciò a leggerla. Era affettuosa, schietta ed espressiva. Lei sorrise nel notare il proprio nome.

Mandatemi qui Lucy.

Colta da un piccolo brivido di piacere, scorse in fretta le righe

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per scoprire per quale motivo la zia avesse bisogno della sua assistenza.

Non permettete che Lucy diventi una zitella infelice. Ha uno spirito troppo vivace per ridursi così. L’ho notato sin da quando era bambina. Essendo anch’io una sorella di mezzo, so quanto sia facile mirare sempre a rendersi utili, anziché concedersi una passione propria. Merita molto più di questo.

Lucy rilesse più volte quelle parole, fino a imprimersele a fuoco nella mente. Zitella infelice la feriva nel profondo e generava una sorta di disperazione che le faceva male al cuore.

No. Non era lei. Spinse da parte il foglio e si concentrò su altre missive, tuttavia aveva la vista offuscata dalle lacrime. Si asciugò in fretta le guance e riprese in mano la missiva della zia.

Mandatemi qui Lucy.

Mentre leggeva di nuovo la frase, trasalì, poiché comprese le vere intenzioni dell’amata parente.

Non era una lettera di condanna né di critica, ma piuttosto un faro di luce, una sagola di salvataggio lanciata dalla Scozia.

Un’occasione offerta a Lucy per decidere di testa propria.

Risuonò un colpo di gong per annunciare la cena, tuttavia la contessa non si mosse. Un attimo dopo si sentì bussare piano, poi la madre entrò nella stanza e richiuse la porta dietro di sé.

«Sono venuta a vedere come sta la nostra ospite» sussurrò mentre superava in punta di piedi la signora e si affiancava a Lucy. «Cosa credi che l’affligga?»

«È solo molto stanca, mamma. Però sarebbe meglio, penso, farle servire un vassoio con la cena o almeno un tè. Dubito che stasera gradisca sedere a tavola con gli altri.»

«E tu?» La madre le portò dietro l’orecchio un ciuffo di capelli del suo stesso biondo miele. «Non voglio che ti sacrifichi. Posso chiedere a Jenkins di venire qui a vegliarla.»

Lucy si alzò e le prese la mano. Era in preda a un impulso che non poteva contenere.

«Mamma, voglio andare in Scozia.»

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«In Scozia...»

«Per fare visita alla zia Cassandra.» Le mostrò la lettera. «Mi ha invitata.»

La madre si portò l’indice alle labbra. «Non svegliamo Lady Braithwaite.» Poi strinse la mano di Lucy tra le sue. «Certo che puoi andare da lei, cara. Ne discuteremo in seguito e cercheremo un momento adatto in primavera per recarci là insieme.»

«No, mamma. Voglio viaggiare da sola e partire adesso. Al più presto.»

La madre corrugò la fronte e contrasse gli angoli della bocca. «Lucy, cosa ti succede?»

Certo, non era da lei. Troppo a lungo, infatti, aveva permesso che succedesse tutto agli altri, senza mai vivere esperienze personali. Tuttavia possedeva anche la vivacità di spirito alla quale accennava la zia nella missiva, ed era giunto il momento di farla valere.

«Ci vado, mamma» dichiarò infine, con una calma determinazione mai provata in passato. «Desidero un’avventura tutta mia.»

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Questo mese

Cuori imprigionati

Nicole locke

Francia, 1297 - Prigioniera nella fortezza del temibile Ian di Warstone, Margery è sorvegliata dal minaccioso Evrart, che nasconde un cuore gentile dietro quel corpo granitico.

Una gentildonna in vacanza

christy carlyle

inghilterra-Scozia, 1897 - Invitata dalla scandalosa zia in campagna, Lady Lucy scopre che la donna è scomparsa e che lo zotico con cui ha viaggiato è il proprietario della casa!

Il tesoro scozzese

GiNa coNkle

londra, 1753 - Mary sta dando la caccia al tesoro perduto di Arkaig, ma quando un nemico mortale incombe, si ritrova a dover collaborare con l’affascinante Thomas West.

La rivalsa del guerriero

Michelle WilliNGhaM

inghilterra, 1205 - Piers di Grevershire è un figlio illegittimo, ma vuole lottare per la terra che gli spetta. E per ottenerla deve vincere la mano di Lady Gwendoline.

Prossimo mese

Una principessa in fuga

charis Michaels

londra, 1803 - Sfuggita anni prima alla Rivoluzione francese, la Principessa Regine d’Orleans viene affidata a Killian Crewes, il Sistematore Reale, perché la distragga...

Alleanza con la nemica

lissa MorGaN

galleS, 1091 - Quando il cavaliere normanno Rolant Guyarde si accorge che il giovane soldato che ha catturato è in realtà la bellissima signora del castello decide di aiutarla.

Il rapimento dell’ereditiera

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rep. dominicana, 1905 - L’audace ereditiera Amalia Troncoso assume il ribelle Julián Fuentes perché la rapisca, così da ottenere l’eredità che le spetta dal crudele zio.

Lo scandaloso segreto di Lady Amelia

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londra, 1894 - Lady Amelia Lambourne gestisce in segreto una rivista per sole donne e quando conosce il suo affascinante e carismatico rivale, Leo Devenish, non esita a...

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