Il tradimento della principessa

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Helen Kirkman IL TRADIMENTO DELLA PRINCIPESSA

Wessex, Inghilterra meridionale, 716 d.C.

Era uno spirito di fuoco venuto per lei.

Tutti i presenti nella piccola sala del convento arretrarono, ma non Alina. Lei lo conosceva.

«Questa donna è mia. La prenderò e nessuno potrà fermarmi.»

Il fiato le mancò. Avrebbe fatto ciò che prometteva, quella creatura composta di luce, fuoco e forza inarrestabile. L'aveva già dimostrato.

Il suo sguardo vagò sul volto di lui, soffermandosi sui tratti fieri. Aveva amato quell'uomo con tutta se stessa, passando attraverso i folli estremi della gioia e della pena.

Ed era riuscita a distruggerlo.

Un debito che neppure l'amore poteva saldare.

E adesso era venuto per lei, il suo Northumbriano dall'anima selvaggia, intenzionato a prendersi ciò che voleva: non l'amore, ma la vendetta.

L'aveva tradito nel modo più assoluto. Non c'era motivo di perdonarla e non intendeva fornirglielo. Non se ne andava della sua stessa vita.

Fece un passo avanti, fuori dalla calca di tremanti sconosciute, raccolte attorno a lei. «Brand» gli disse.

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Era il termine sassone per fuoco. Un fuoco vivo.

Lui si mosse. Bastò il suo passo pesante da guerriero per creare il vuoto nella fredda sala, dove la dozzina di monache presenti indietreggiò con un fruscio di sottane. Alina restò ferma davanti a loro proprio com'era tornata dal frutteto, con la grezza, semplice tonaca macchiata di viola per il succo di prugnolo selvatico e le ciocche scompigliate e scure sfuggite alla scomoda restrizione del velo.

Un soggolo da suora davanti all'uomo più raffinato, generoso e degno di tutta la Britannia, di tutti i regni che la componevano.

«Ricordi,

Poteva uccidere, quella sobria ironia del Nord. Lei se n'era dimenticata. Poteva spezzare l'acciaio, proprio come la spada che Brand portava appesa al cinturone. Aveva dei serpenti incisi sull'elsa e lui vi posava la mano come se ne fosse una parte. Ed era in effetti così.

Brand tornò ad avanzare. Il sole che entrava dalla finestra aperta splendeva sui suoi capelli lucenti come il fuoco, sul bracciale d'oro che portava al polso, sull'elsa della spada e sulla fibbia ingioiellata della cintura di cuoio. Lei lo guardò incredula, sfregandosi gli stanchi occhi.

Ma era vero: tutto ciò che gli aveva sottratto a causa del ruolo che era stata costretta a ricoprire, le ricchezze, il rango, le fondamenta stesse della vita che lui conduceva un tempo, gli era stato restituito.

«Sembri sorpresa.»

«Stupefatta» gli rispose, alzando un sopracciglio scuro con lo stesso disdegno che riservava agli importuni vassalli nel palazzo della sua famiglia a Craig Phádraig. Mai mostrare delle emozioni inappropriate: era una delle lezioni che la vita le aveva impartito.

Sorrise, ma solo perché non riusciva a dire altro. Se parlava, lui avrebbe avvertito la paura nella sua voce.

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dunque.»

Gli occhi dorati di lui cercarono i suoi. «No, dovrei essere io stupefatto, visto che sto contemplando una morta vivente.»

Il cuore le sobbalzò nel petto. Per un attimo aveva pensato d'intravedere nelle profondità dorate di quegli occhi un riflesso di cosa poteva avergli fatto il suo forzato tradimento. Che adesso sembrava più grande, mille volte più profondo di quanto si aspettava...

«La principessa perduta dei Pitti. Oppure sto parlando con un'araba fenice risorta dalle ceneri?»

Non c'era altro che fuoco negli occhi di lui. Pensava che lei fosse stata uccisa e il suo corpo bruciato. Se n'era assicurata proprio perché Brand non la cercasse, certa che fosse una creatura impulsiva incapace di freddi calcoli. Tutti lo dicevano.

«Esatto» gli rispose, con un tono che corrispondeva alla perfezione alle sue sopracciglia altezzosamente aggrottate. «Sono risorta, si direbbe, proprio come te.»

Si costrinse a scivolare con lo sguardo sul profondo blu della tunica di lui e sui fili d'oro che ne decoravano gli orli, passando quindi al raffinato tessuto scuro delle brache e alle costose scarpe di pelle. Ma continuava a tornare ai monili d'oro e ai granati. Solo ciò che portava alla cinta e ai polsi gli avrebbe permesso di comprare più terre di quelle che possedeva quella piccola abbazia.

Non poteva permettersi di guardarlo in volto, perché se lo faceva, lui avrebbe potuto leggere tutto ciò che intendeva nascondergli. Un suono metallico echeggiò

quando Brand mosse la mano.

Se lo avesse guardato, lui avrebbe colto il suo terrore.

«Quindi? Il passato è stato dimenticato?»

Lei rialzò la testa. «Sì.»

Un lampo gli attraversò gli occhi. Tutto l'oro che indossava, gli spessi bracciali dalle raffinate decorazioni, la fibbia del cinturone, la punta d'argento del fodero

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della spada, parvero diventare all'improvviso degli spenti orpelli di piombo davanti alla loro vivida luminosità. Iridi color ambra illuminate da dentro. Fuoco liquido.

«Davvero? Vogliamo vedere se è proprio così?»

Alina cercò di non guardarlo. «Ma certo che è così. Ciò che è stato è stato. Cosa ti aspetti che ricordi? La fuga? La perdita? Il disastro?»

Lui s'avvicinò. «Tutte cose a cui non smetto di pensare.»

Si fermò davanti a lei. Emanava un'aura di potenza, dalle grandi spalle alle ruvide mani di guerriero fino al fisico di un eroe che pareva uscito da una sanguinaria saga sassone. La forza di lui ispirava paura; lo splendore che l'adornava suscitava soggezione.

Ma nulla di tutto questo importava, solo le fiamme che gli riempivano gli occhi.

Nessuno riusciva a sostenere a lungo il suo sguardo. Lei avvertì un fruscio e un debole sussulto attorno a sé, come se una dozzina di monache fossero arretrate ancora tirando il fiato tutte insieme.

Ormai dovevano essersi addossati alle pareti di legno, la badessa, il prete, le sorelle e forse tutti coloro che popolavano l'abbazia del Wessex meridionale che le aveva dato rifugio. Ma quando quello spirito di fuoco la raggiunse, le parve che loro due fossero le uniche persone rimaste nelle Terre di Mezzo.

Fece un respiro che le bruciò la gola. Non riusciva a dirgli altro. Nulla per attenuare la verità: continuava ad amarlo ed era proprio per questo che lo aveva lasciato.

«Brand.» Solo questo riusciva a pronunciare, giusto il suo nome, come qualcuno che recitava un incantesimo che poteva essere mortale. «Brand.»

Lui si fermò, quasi sfiorandola ma trattenendosi all'ultimo. Era destinata a non sentire più la profonda e inquietante magia del suo tocco. Fremeva per provarla di nuovo persino adesso, spinta da un innegabile desi-

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derio. Tutto, ogni parola, persino il semplice suono del suo nome, era investito da quelle fiamme ardenti.

Era così alto da dover reclinare la testa per guardarlo. Ricordava che aveva dovuto farlo di continuo. E si portava tutto nel cuore, tutto ciò che c'era da conoscere su quell'uomo. Lo nascondeva nelle profondità dello spirito perché il pensiero di lui, l'idea di ritrovarselo di nuovo davanti, era ciò che le aveva impedito d'impazzire nell'esilio che si era autoimposta. Così riusciva a sopravvivere, col ricordo di quando l'aveva visto la prima volta nell'opulenta sala della Corte di Bamburgh, la sua prigione. Un raggio di luce nel buio.

La stessa cosa accadeva adesso. Luce e fuoco. Solo che allora quel fuoco la scaldava fino alla parte più segreta e nascosta del suo essere, in un luogo che non aveva mai creduto esistesse in una creatura come lei.

E tuttavia, lo stesso fuoco pareva consumarla proprio in quel momento. Era così potente da incendiare l'aria attorno a lei, impedendole di respirare. Per questo la testa le girava, come se stesse per svenire. «Non abbiamo più nulla da dirci...» balbettò.

Da qualche parte dietro di lei nella sala della badessa, sentiva dei passi sulle stuoie sottili che coprivano il pavimento di terra battuta. Si voltò, incontrando gli sguardi di volti pallidi, affascinati, terrorizzati. Si chiese se anche lei appariva così nella tonaca che non le apparteneva, il volto bianco come gesso, gli occhi sgomenti e disperati.

«Fuori di qui» tuonò lui con tutta l'imperiosità di Athelbrand, Principe di Bernicia. «Adesso! Lasciatemi solo con questa donna.»

Vi fu un momento in cui Alina pensò che né il prete, né il falegname venuto a riparare il recinto delle pecore intendessero obbedire, che avrebbero cercato di aiutarla. Che non si rendessero conto che non c'era nulla che potessero fare per lei.

Vide la mano ingioiellata di lui stringere l'elsa dora-

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ta con i serpenti incisi. Seguì un rumore inconfondibile, quello del metallo che sfregava il legno rivestito in pelle del fodero della spada.

«Andate!»

Tutti uscirono. Non potevano far altro. Lei vide il rimorso sui loro volti, le schiene rigide. La porta si chiuse e poi più nulla.

Brand posò la lunga lama, lucida e ferale, sul rozzo tavolo di legno. Non ne aveva bisogno, poiché non c'era nulla che lei poteva fare. S'appoggiò con una spalla alla parete, tanto vicino da permetterle di notare il breve respiro che tirò. Ne seguì un altro più profondo, poi parlò. «Bentornata tra noi, Alina» disse quella voce sassone, dolce e ruvida, nell'idioma di lei, il celtico.

Lo parlava molto bene, ma mai come un Pitto o uno Scozzese, bensì come un Britanno. Era un accento che aveva sentito per buona parte dell'infanzia, una melodia che ricordava bene. Bastò per mandare in frantumi la sua risolutezza.

«Sono venuto a riportarti indietro.»

«Indietro...»

Erano le parole che Brand le diceva ogni notte in sogno. Solo che i sogni non c'entravano nulla con la realtà.

«Alina, sono qui per te. Ripartiremo subito.»

Lei chiuse la mente contro la melodia e l'effetto di quella voce, contro una felicità che non esisteva più. Quello era il presente. Il suo futuro sarebbe stato diverso. Con uno sforzo, si concentrò sulle parole di Brand e il loro significato. «Partire per dove?»

«Bernicia. Bamburgh.»

Non si potevano pronunciare quelle parole nella sua lingua. Erano Sassoni, esattamente come lui. E, proprio come lui, appartenevano alla Northumbria.

Il regno che guerreggiava così spesso contro il suo.

«Non posso tornare indietro» gli disse in sassone. Perché era proprio una catastrofe accaduta in Nor-

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thumbria che li aveva divisi. «Né si può cambiare il passato. Non per...» Alina incespicò su un termine troppo pericoloso persino per venir pronunciato, un termine intriso di amarezza. Noi. «Non per me.»

«Continui a credere di appartenere a quel nithing a cui ti ha promessa quel folle di tuo padre. A Hun.»

Lei arretrò. Non poté evitarlo. Le sue dita, nascoste sotto le ampie maniche della tonaca presa in prestito, si chiusero dolorosamente a pugno. «Mio padre mi ha legittimamente fidanzata...»

«A un assassino?»

Lei affondò le unghie nel palmo. «La promessa di unirmi a un parente di Re Osred di Northumbria è concepita per avvantaggiarlo...»

«Almeno sei riuscita a capirlo.»

Alina trasalì. «Maol è un Principe dei Pitti. Ha il dovere di proteggere il suo regno. Il mio.» Tacque un attimo, incerta su come continuare. «Proteggerlo da voi. Siamo sempre circondati da problemi, causati sia dagli Scozzesi a occidente che dagli Anglosassoni a sud. Anch'io avevo il dovere di fare quello che potevo.»

«Dovere? Quindi è stato un attacco di coscienza che ti ha spinta a tornare da Hun?»

Lei scrutò quegli occhi che avevano visto perdite più brutali di quanto fosse possibile per sopravvivere. Una cosa del genere non doveva più succedere. Non a causa sua.

Un innocente era già morto.

Non esisteva un'altra decisione.

«Sì» gli rispose. «Un attacco di coscienza.»

La fiamma scintillante che gli accendeva lo sguardo divenne selvaggia. Il cuore prese a galopparle nel petto e il pavimento sotto i suoi piedi parve muoversi come se fosse vivo.

Che i santi le dessero la forza che serviva per affrontare tutto ciò.

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«Ma anche se alla fine non avessi capito qual era il mio dovere, sarei comunque tornata da Hun» continuò senza neppure sbattere gli occhi. «Non perché era il ruolo che mi spettava, ma perché l'ho scelto io liberamente.» Poi inclinò la testa. Le pareti parvero avvicinarsi. «Ho sbagliato a permetterti di portarmi via da lui, ho sbagliato a fuggire con te. Per questo ti ho lasciato. Ti ho fatto credere di essere morta proprio perché non mi cercassi. Ciò che abbiamo fatto era un peccato, un folle, stupido, impulsivo errore.»

Brand era governato dagli impulsi. Perciò avrebbe capito...

«Sono tornata a ragionare. Sapevo che Hun era pronto ad accogliermi di nuovo. Anche tu avresti dovuto immaginarlo.»

Teneva la testa inclinata nello stesso, arrogante angolo di Brand. Anni interi di pratica non si scordavano facilmente, tuttavia le sue gambe continuavano ad arretrare. Per sfuggire da lui oppure dalla mostruosa caterva di menzogne che stava pronunciando? Non lo sapeva.

Come spiegargli il fatto che si trovava nel Wessex?

Lui prese ad avanzare mentre lei indietreggiava barcollando, passo dopo passo, fino a costringerla nello spazio ristretto vicino al rozzo inginocchiatoio. La luce che gli ardeva negli occhi era implacabile. «Conosco fin troppo bene ciò che è stato.»

«Allora...» Adesso era la mente di Alina a galoppare, sia per la sorprendente presenza di lui che per la disperazione dei suoi pensieri. «Perché...» Il resto le restò in gola.

Perché sei qui? Che cosa sai? Hai intuito... hai per caso intuito una delle mie menzogne?

Ciò che è stato, le aveva detto. E il significato di quell'affermazione penetrò pian piano attraverso il caos che le imperava dentro. Il suo sguardo andò alla spada posata sul tavolo: la lama temprata, l'elsa dorata

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su cui erano incisi dei serpenti attorcigliati per dare protezione. Un'arma letale.

Il codice della vendetta.

«Hai trovato Hun.» La voce le mancò e il suo sguardo cercò quello di lui, nel disperato tentativo di capire quanto avesse scoperto.

«Sì, l'ho trovato. Che cosa si era messo in testa? Credeva davvero che una missione diplomatica a sud mi avrebbe fermato? Credeva davvero che non l'avrei seguito fin qui?»

«Qui?»

«Ah, quanta sorpresa fasulla. Anche tu lo credevi quando sei venuta nel Wessex assieme a lui? Che non ti avrei più trovata?»

Alina aprì e chiuse la bocca senza emettere un suono, senza neppure respirare.

«Mi stupisce pensare a cosa tu e il tuo amante avete creduto. Hun non sapeva neppure che Re Osred non era più tra noi e che la missione diplomatica nel Wessex che svolgeva per il suo sovrano non aveva più senso. Mi ha guardato con la tua stessa sorpresa.»

Ma non era la sorpresa a conferirle quell'aria da folle terrorizzata, bensì il terribile turbamento. Aveva attraversato tutta la Britannia per sfuggire a Hun e Brand era venuto a sud sulle sue tracce senza che lei lo sapesse. E neppure Hun.

«Allora...»

«Conosci già la risposta. Non può esisterne un'altra, dato che io sono qui e Hun no. L'uomo a cui eri promessa è morto. L'ho ucciso io.» Un lampo attraversò i suoi occhi dorati. «Probabilmente ti sei chiesta perché ti trascurava tanto.»

La crudezza di quelle parole sommerse tutto. Eppure sotto serpeggiava un'altra emozione: sollievo. Era sbagliato, senza dubbio un peccato, soprattutto in un luogo come quello. Ma... Hun era morto. Non poteva più toccarla, né farle del male.

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Dovette aggrapparsi alla parete dietro di lei per non cadere.

Brand la guardò impietrito. «Sei davvero sgomenta.»

Non capiva il motivo. Alina glielo lesse negli occhi. Per qualche ragione, non sapeva che Hun non aveva la minima idea di dove trovarla.

La fortuna le stava arridendo. Se non perdeva la testa, ne sarebbe uscita in qualche modo. Il cerchio si era chiuso. Lei aveva scelto di fuggire nel Wessex e Hun era venuto proprio in quel regno per una missione ordinata da Re Osred, il suo sovrano.

«Dovevo aspettarmi che avresti reagito così.»

La cruda amarezza nel tono di Brand la scottò come un marchio. Ma, nonostante tutto, avrebbe potuto gettarsi tra le sue braccia in quel momento stesso, giusto per sentire la sua voce e il suo tocco. Persino se intendeva ucciderla.

L'incubo colmo di paura e ripugnanza che aveva preso forma il giorno in cui aveva guardato negli occhi di ghiaccio il suo promesso sposo era passato. Finito. Fece un tremulo respiro.

Solo Brand si era rivelato più forte della paura.

«Alina...»

Stava per toccarla. Con lo sguardo colse il breve luccichio dell'oro quando lui mosse la mano. La protezione di Brand era come una benedizione dal cielo, ma adesso non ne aveva più diritto. Si tirò indietro prima che potesse raggiungerla, cedendo all'incontenibile forza dell'istinto. Le sue colpe la rendevano impura. Non voleva che la toccasse. Non Brand.

«Non preoccuparti, starò bene. Ma è stata una sorpresa. Non sapevo che...» Deglutì, in bocca l'amaro sapore della bile. «Come... come...» Cercò un modo per addolcire la domanda, ma non ci riuscì. Forse perché non esisteva. Non c'erano parole per chiedere all'uomo che amava com'era arrivato a uccidere la ripugnante

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creatura a cui era stata promessa, anzi, venduta.

Però doveva saperlo. Se c'era altra sofferenza, se vi era stata...

«Come...»

«Vuoi sapere come l'ho ucciso?»

«Sì, voglio sapere com'è andata.»

Come hai fatto a liberarmi.

Si raddrizzò, ma questo significò incrociare l'intenso sguardo di quegli occhi color ambra, più puri e più caldi dell'oro fuso. Per un fugace istante, il loro calore parve bruciare tutto, ogni amara, orrenda catastrofe, lasciando emergere solo la purezza.

Ma anche quel momento si ruppe, poiché non poteva esistere tra loro. Le ombre reclamavano tutto.

Lei non aveva mai voluto che andasse così, sotto nessun aspetto, ma la vita non teneva conto delle intenzioni. Solo di ciò che accadeva.

«Allora ti racconterò che cos'è successo a Hun. Ma non adesso e non qui. Andiamo. Stiamo perdendo tempo.»

«Perdendo...»

«Tempo.» E poi si mosse, la creatura dei suoi sogni, spostando con grazia il peso dalla parete in pietra grezza a cui s'appoggiava. Adesso non c'era altro che il guerriero in quegli occhi dorati e in quel fisico possente. «È un lungo viaggio fino a Bamburgh.»

«Bamburgh? Ma non intenderai riportarmi davvero in Northumbria, a Bernicia, dopo quanto è successo. Hun è morto. È... è tutto finito.»

«Vuoi dire tra noi?» Brand si protese verso di lei, intrappolandola con la sua mole e con le grandi mani che le poggiava ai lati della testa. «No, non è così. Non ancora.»

Una morsa le strinse il cuore. Vendetta. Vedeva l'ampiezza delle sue spalle, l'armoniosa e muscolare pienezza del suo corpo. Ma vedeva anche i suoi occhi. E non intendeva guardare altro.

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Lui non le aveva mai fatto del male.

Stavolta, però, lei era colpevole di una morte ingiusta.

«Tu non mi rapirai. Non ne hai motivo.»

«Ah, che scarsa memoria ti ritrovi.»

Alina trasalì. Brand non si mosse. Non c'era più nulla del gioioso, impulsivo, generoso cavaliere che l'aveva conquistata. Dell'uomo capace di pietà e misericordia.

Gli occhi di lui parvero attraversare la difesa offerta dalla semplice tonaca da suora per posarsi sulla sua pelle, bruciandola, anche se non c'era nulla in quello sguardo dell'innamorato gentile. Rimaneva solo il predatore.

La forza in quel corpo da guerriero era assoluta. Lei lo sapeva. Non era disposto a mostrarle alcuna pietà e non aveva motivo di farlo.

Sostenne il suo sguardo, cercando di pensare, di elaborare meglio ciò che doveva dirgli.

«Se Hun è morto, allora è tutto finito. Passato. Non può esistere alcun motivo per volermi...»

«Devi ritenermi davvero stupido.»

Muscoli micidiali si mossero. La mano di lui si tese e Alina riuscì solo a intravedere il suo volto implacabile prima che le afferrasse il polso. La sua stretta era come un ceppo di acciaio temprato. Impossibile sfuggirgli.

«Non verrò con te.»

Brand la tirò a sé con uno strattone e il suo braccio, tutto il suo corpo magro e snello, sbatté contro di lui. Pensava di essersi in qualche modo abituata alla forza di quei muscoli, ma adesso doveva constatare di non essersi neppure avvicinata a conoscerla.

Era un uomo enorme. Lo sentiva respirare, sentiva il calore del suo fiato sfiorarle la pelle delicata del viso, come una parodia delle carezze tra innamorati che un tempo si scambiavano. Purtroppo era solo un respiro

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che alimentava la rabbia, la soverchiante potenza della sua forza. Il fuoco.

Le faceva male, ma non pensava che se ne rendesse conto. Il fuoco divampava troppo alto.

Strinse i denti, decisa a non emettere neppure un gemito. E lui se ne accorse all'improvviso. La terribile stretta sul polso s'allentò bruscamente, tanto bruscamente che le gambe tremanti rischiarono di cedere se Brand non l'avesse trattenuta. Erano così vicini. E anche se la sua stretta non faceva più male, Alina sapeva che non sarebbe mai riuscita a spezzarla.

Si costrinse a parlare. «Non obbligarmi a tornare» gemette. I loro respiri affannosi si mischiarono. Lei sentì tutti i sensi sfuggire al suo controllo. E solo a causa della vicinanza di lui.

«Vuoi davvero restare qui?»

Alina rialzò la testa. L'orrendo soggolo, schiacciato dal braccio di Brand, si strappò e un intrico di folte ciocche le cadde sulle spalle. Scure, non bionde come i Sassoni, nero corvino sul lino grezzo e chiaro della tonaca.

Non c'era nulla che potesse fare. Non riusciva a muoversi.

Vide lo sguardo di lui vagare sull'imbarazzante esibizione di ciò che doveva restare nascosto, e le fiamme che gli riempivano gli occhi assunsero una sfumatura diversa. Doveva temerlo, e in effetti era così.

E tuttavia, il fiero calore che lo riempiva trovò un'eco dentro di lei, non richiesto ma del tutto inarrestabile.

E Brand lo capì. La vampata consapevole e famelica che gli attraversò lo sguardo le era decisamente familiare. Nessuno dei due era mai riuscito a nasconderla ogni volta che si desideravano.

La sua mano le scivolò sul braccio.

Quel tocco era instabile come il suo respiro, caldo e per nulla controllato. Ma questo non sminuiva la sua

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forza. L'avrebbe avvicinata, per poi stringerla come se...

Balzò indietro, ma non le venne permesso di allontanarsi. La stretta si rafforzò sulle sottili ossa del polso.

«Abbiamo fatto le nostre scelte, Alina, e adesso dobbiamo rispettarle.»

Le coprì la mano con la sua, avvolgendola nel suo calore. Poi chiuse le dita, sfiorandole la pelle con un tocco persino... gentile.

Fu questo a sottrarle la determinazione, la forza. Si sentì barcollare come se stesse per accasciarsi, ma Brand non le permise neppure quello. Le sue mani le strinsero il busto, sostenendola dolcemente con quel tocco esperto che apparteneva solo a lui. Riusciva a scioglierla dentro, dandole l'impressione che il corpo si dissolvesse, inerme davanti al suo vigore.

Le mani che la sostenevano scesero verso i fianchi, le reni, sorreggendola e intensificando la sensazione di fluttuare. Erano calde e la forza che mostrava era assoluta. Non l'avrebbe lasciata cadere, non era mai successo. Il tocco di lui era l'unica cosa a questo mondo di cui riusciva ancora a fidarsi. La sua forza, il suo calore, potevano sostenerla. Contro tutto.

Se lei glielo avesse permesso.

«Avevi paura? Per questo non hai voluto andare fino in fondo, vivere una vita da esiliata insieme a me? Per questo ti sei rifugiata qui?»

Oh, la seduzione di quella voce che non ardeva più di rabbia. La voce di Brand. Intrisa di qualcosa che non aveva prezzo: la comprensione.

Quanto sarebbe stato facile rispondergli di sì. Lei si era fatta intimorire da tutto, persino dall'amore.

Poteva ammettere le sue paure, lì nel rifugio offerto da quelle braccia poderose, e forse Brand l'avrebbe perdonata. Forse le avrebbe aperto le porte del luminoso presente, e della luminosità ancor maggiore che solo lui poteva recare. Anche adesso quella luce lo avvol-

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geva, abbagliandola col chiarore di quella chioma incolta che sembrava attrarre ogni raggio di sole che entrava nella sala, esaltando gli occhi selvaggi e dorati che la stavano scrutando.

Erano occhi vivi. Si potevano descrivere solo così. Vedevano dietro la facciata. Conoscevano e accettavano tutte le passioni, le speranze, le contraddizioni e le inadeguatezze con cui gli esseri umani erano stati creati. Forse avrebbero capito anche l'altra paura, quella che trovava difficile descrivere a parole: il timore che lei aveva di amare, grande quasi come il desiderio di farlo.

Acquisire quella totale accettazione, vedersela offrire come il più generoso dei regali, sarebbe stato un balsamo miracoloso applicato su ferite mortali.

Mentre lo toccava e lo guardava, si chiedeva se lui gliel'avrebbe donato anche se non l'amava più. Sempre ammesso che un tempo fosse davvero riuscita a conquistarsi il suo amore. Una cosa del genere le pareva impossibile.

Ma che dire se Brand davvero capiva, se davvero la perdonava? Perché possedeva un senso dell'onore così finemente bilanciato, il peso del passato sarebbe tornato nuovamente a gravargli sulle spalle.

E lei non poteva permetterlo.

Era la sola responsabile delle ombre che aleggiavano dietro la luminosità e la forza di quegli occhi così vivi.

Lo guardò e il calore di lui parve filtrarle fin nelle ossa. «Sì, avevo paura» gli rispose lentamente. «Ma non di Hun. Riuscivo a capirlo e sarei dovuto restare con lui. Ciò che mi ha spaventata è stata la criminale follia di ciò che ho fatto con te.»

Brand non disse una parola, né si mosse. Si limitava a fissarla con una durezza capace di farla sanguinare.

«Io...» Ma il resto della frase le rimase in gola. E se

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lui non le avesse creduto? Persino adesso? E se quegli occhi che tutto vedevano fossero riusciti a cogliere il suo inganno?

S'affannò a scandagliare la propria mente in cerca di qualcosa da dirgli, qualcosa capace di convincerlo. Qualcosa per spiegargli come mai l'aveva trovata tremante in una desolata abbazia del Wessex. Wessex. Hun.

«Sono venuta a sud per incontrare Hun.» Il lento, beffardo tono della sua voce completò la menzogna che avrebbe siglato il suo destino. «E per fuggire da te.»

Brand chiuse gli occhi, come per tagliarla fuori. Il dono, la possibile comprensione, svanì d'incanto. Tutto ciò che restava era la sua forza terrificante, la potenza che si faceva beffe di ogni limite terreno e si prendeva tutto.

Non disse altro. Si limitò ad afferrarla per poi avviarsi verso la porta. I suoi pesanti stivali si trascinavano stancamente sul pavimento di terra battuta, scalciando via le stuoie sottili.

Le stringeva il braccio e lei doveva lottare per non incespicare sull'orlo delle gonne lunghe fino ai piedi. Provò a opporsi, a contrastarlo.

Era l'unica cosa che le restava, una sorta d'istinto di conservazione. Lottò con una forza, con una risolutezza che non apparteneva a lei, ma a una gatta selvatica fuori controllo. Riuscì a rompere la stretta, ma solo perché l'aveva colto di sorpresa e perché, per un fugace istante, Brand si trattenne.

Lo colpì con tutte le sue forze e il braccio sinistro di lui sbatté contro la parete, strappandogli un grido di sorpresa o magari di dolore. Dolore. Gli aveva fatto male più di quanto pensasse. Doveva agire adesso. Adesso o lei, lui, sarebbe stato perduto.

La gatta selvatica tornò a colpire, insistendo sul braccio dolorante per poi lanciarsi verso la porta. Do-

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veva farcela. Le sue mani si mossero frenetiche sul rozzo chiavistello di ferro, spezzando l'ultima delle sue unghie un tempo attentamente curate.

Lui la catturò. Rapido come un fulmine. Alina si dimenò disperatamente, lanciandosi contro il tavolo. Il tavolo... le sue dita trovarono la spada. Il palmo destro si piegò sull'elsa con i serpenti incisi. Non poteva, non intendeva usarla perché era un'arma letale, ma neppure voleva arrendersi.

Perché non c'era la sua sicurezza in ballo, ma quella di Brand.

Alzò la spada, ma era troppo lunga e difficile da maneggiare. Si ritrovava in trappola nello spazio ristretto tra il tavolo e la panca contro la parete. Nonostante gli sforzi, non riusciva a tenerlo lontano brandendo la lama. «Non toccarmi!» gli gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. Ma era una sciocca e persino di più se pensava di fermare uno spirito di fuoco come Brand con una semplice spada.

«Lasciala, donna! Mettila giù. Finirai col farti male.»

Solo che Alina preferiva far del male a se stessa piuttosto che ferirlo. Si voltò verso la porta, sbilanciata, barcollante, i piedi impacciati nelle scarpe troppo strette fornite dalle monache. Colpì la parete con la spalla e la spada le sfuggì di mano, volando a mezz'aria per poi ricadere verso di lei. La lucida punta d'acciaio era davanti ai suoi occhi, riempiendole la visuale. Non riusciva a spostarsi perché anche lei stava cadendo.

Così morivano i guerrieri, si disse, proprio così. Una lucida lama d'acciaio e niente scampo. Non appena cadde a terra, qualcosa la colpì, spostandola di lato.

Seguì il silenzio. Un profondo silenzio. Nulla si muoveva tranne lei, intenta a tastare ogni parte del suo corpo come un animale terrorizzato. Non era ferita, non davvero... Ma ancora non percepiva movi-

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menti tranne i suoi. Si rimise agilmente in piedi non appena constatò che non era ferita, ma solo un po' ammaccata.

E poi vide il sangue. Usciva con un piccolo, sottile rivolo da sotto l'ammasso di costosi indumenti addossati alla parete.

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Il Regno di Northumbria, situato nella parte più settentrionale d'Inghilterra, doveva far fronte a molti pericoli. Alle sporadiche lotte interne s'aggiungevano le guerre con i vicini, ovvero il Regno dei Pitti nella Scozia nordorientale e il Regno di Mercia nelle Midlands inglesi.

Re Cenred regnò per due anni prima di venir spodestato da Osric, fratello del suo predecessore e rivale, Re Osred. Ma l'avvicendamento doveva essere frutto di un compromesso, perché Osric nominò come successore il fratello di Cenred, Ceolwulf.

Ceolwulf riuscì a restare sul trono, con una breve interruzione, per nove anni e venne immortalato come il più glorioso dal famoso storico anglosassone Beda.

Beda era convinto che se la storia avesse riportato gli atti generosi di uomini degni, l'attento lettore si sarebbe sentito incoraggiato a imitare le loro buone azioni. Le arti, come la scrittura, la miniatura e la lettura dei libri, fiorirono in Northumbria con un successo che sfidava le turbolenze politiche.

A parte i sovrani, tutti i personaggi che descrivo nel romanzo sono frutto della mia fantasia. I tempi in cui vivono, lottano e trionfano sono stati ricostruiti al meglio delle mie possibilità.

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L'arte di catturare un duca

BRONWYN SCOTT

LONDRA, 1825 - Quando Guinevere Norton, pittrice di nobili natali, incontra l'erede del Duca di Creighton, rimane molto colpita dal fascino del suo cliente, nipote di un ragià indiano.

Il cavaliere proibito

INGHILTERRA, 1337 - La giovane vedova Johanne aiuta un cavaliere ferito, convinta che lui potrà proteggere il suo castello dai nemici. E gli propone uno strano fidanzamento.

Il tradimento della principessa

HELEN KIRKMAN

INGHILTERRA, 716 - Alina, Principessa dei Pitti, è stata costretta a tradire Brand, l'amore della sua vita, per salvarlo. Ora, però, lui l'ha ritrovata ed è intenzionato a vendicarsi.

Amore e dintorni

EUGÉNIE MORGANTI

INGHILTERRA-FRANCIA, 1890 - Claude accetta l'offerta di lavoro di un periodico francese e si trasferisce a Bordeaux. Lì si innamora del calore di quella terra e del giovane medico

ELLA MATTHEWS

Cuori imprigionati

NICOLE LOCKE

FRANCIA, 1297 - Prigioniera nella fortezza del temibile Ian di Warstone, Margery è sorvegliata dal minaccioso Evrart, che nasconde un cuore gentile dietro quel corpo granitico.

Una gentildonna in vacanza

CHRISTY CARLYLE

INGHILTERRA-SCOZIA, 1897 - Invitata dalla scandalosa zia in campagna, Lady Lucy scopre che la donna è scomparsa e che lo zotico con cui ha viaggiato è il proprietario della casa!

Il tesoro scozzese

GINA CONKLE

LONDRA, 1753 - Mary sta dando la caccia al Tesoro Perduto di Arkaig, ma quando un nemico mortale incombe, si ritrova a dover collaborare con l'affascinante Thomas West.

La rivalsa del guerriero

MICHELLE WILLINGHAM

INGHILTERRA, 1205 - Piers di Grevershire è un figlio illegittimo, ma vuole lottare per la terra che gli spetta. E per ottenerla deve vincere la mano di Lady Gwendoline

Dal 2 settembre

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