BN39 MIETITORE D'ANIME

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Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Sins Of The Heart HQN Books © 2010 Eve Silver Traduzione di Caterina Pietrobon Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2011 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Bluenocturne maggio 2011 Questo volume è stato impresso nell'aprile 2011 da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd) BLUENOCTURNE ISSN 2035 - 486X Periodico quindicinale n. 39 del 13/05/2011 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 118 del 16/03/2009 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano


Dedica

Osservare. Ascoltare. Valutare. Rivedere. Sono cose che mi ha insegnato mio padre. Da bambino pensavo che rivedere fosse quella piÚ importante. La collera di mio padre era di natura fisica e mi piombava addosso se i miei pensieri non filtravano abbastanza velocemente. Se era d'umore comprensivo, mi era consentito avere un'opinione mia. Ma, se il suo umore era appollaiato sul filo di una lama, allora non mi era concessa altra opinione che la sua. Osservo, ascolto, valuto e rivedo anche ora, ma adesso mi servo di questi strumenti per farmi le mie idee piuttosto che per emulare le sue. Mi ci è voluto un po'. Ad averci a che fare, il caro vecchio paparino può trasformarsi nel diavolo in persona. Dagan Krayl



1 Salvatemi da quel dio che ruba le anime, Che beve avidamente la corruzione, che vive di ciò che è putrido, Che è re delle tenebre, che dimora nell'oscurità, Che temono coloro che si trovano tra i deboli. Chi è? È Seth. È Sutekh. Libro egizio dei morti, 17 Chicago, Illinois, undici anni prima Nell'angolo estremo di una stanza, nel seminterrato di una fabbrica abbandonata, una donna era rannicchiata su un materasso lurido, con caviglie e polsi legati da una corda di nylon giallo. Teneva la testa piegata e i lucenti capelli scuri e ondulati le ricadevano sul volto nascondendolo. Il bagliore accecante della lampadina che pendeva dal soffitto sottolineava la curva innaturale del dorso. Il terrore aveva un modo tutto suo di far urlare i mortali. Dagan Krayl si chiese perché invece lei fosse silenziosa. Si spostò leggermente per vedere meglio attraverso la stretta fessura della porta. Un locale piccolo, spoglio. Pa7


vimento in cemento. Pareti in truciolato. Niente finestre. Il materasso era macchiato. Vecchie macchie di un marrone rossastro, scure e spesse. Il sangue di qualcuno. Non della donna. Non ancora. Chiunque l'avesse lasciata lì sarebbe tornato. Quindi lei aveva un buon motivo per essere terrorizzata. E per gridare. Le femmine umane gridavano. A volte anche i maschi umani. Lei, invece, non lo faceva. Sia il suo silenzio che i suoi bizzarri movimenti lo incuriosirono. La testa ondeggiava su e giù, come una boa tra le onde. Su. Giù. Il respiro le usciva raschiante, più uno stridio che un singhiozzo, accompagnato da un digrignare sommesso. Che diavolo stava facendo? Da quella posizione non riusciva a capirlo. Lei s'interruppe, si spostò leggermente di lato e ruotò una spalla contro la guancia per allontanare gli scuri capelli ondulati. Quindi riabbassò il capo tornando al proprio compito. Il digrignare riprese e lui comprese che stava rosicchiando la corda con i denti, nel tentativo di recuperare la libertà. Una scintilla di interesse s'accese in lui. Sembrava che, a prescindere da quanto la situazione fosse disperata, il suo spirito fosse a brandelli, ma non abbattuto. Uno spirito combattivo. Degno d'ammirazione. Batté le palpebre, trasalendo alla propria considerazione. Lei non era affatto affar suo. Lui era lì per raccogliere e uccidere. Non quella donna. La preda che cercava aveva un'anima annerita, mac8


chiata dal peggior tipo di viscidume, dall'accumularsi della condotta disonesta e del livore di tutta una vita. Niente di meno avrebbe mai soddisfatto il caro vecchio paparino. Sutekh, Signore del Caos. Pasteggiava solo a base di malignità e vizi. Il male era la prelibatezza che lo faceva impazzire. Quale mietitore d'anime e figlio maggiore, Dagan aveva il compito di procurarglielo. Il vecchio disponeva di un piccolo esercito di mietitori, ma solo di quattro figli e in loro riponeva delle aspettative ben precise. Da dietro una spalla lanciò uno sguardo lungo lo stretto corridoio scuro. L'enorme spazio al piano superiore l'aveva già controllato. Gli restavano da esplorare i budelli sotterranei della fabbrica abbandonata. La sua preda era lì, da qualche parte, e lui avrebbe dovuto continuare la propria caccia anziché stare a osservare quella donna. Ma qualcosa gli impediva di lasciarla e vagare alla ricerca di un'anima oscura. Sapeva come ci si sentiva a lottare e a battersi, a desiderare spasmodicamente la libertà. Attento a quel che desideri. Non recitava così un comune adagio mortale? La libertà non era sempre una delizia. Da una tasca dei jeans strappati e scoloriti estrasse un lecca lecca, la cui plastica trasparente crepitò mentre la apriva e toglieva. Se lo ficcò in bocca e attese finché l'aroma non gli esplose contro il palato. Cocco... ananas... piña colada. Non era il suo gusto preferito. La prossima volta se ne sarebbe ricordato. Ripiegò l'involucro in due, poi in quattro e se lo ficcò in tasca, perché sporcare era contrario al suo modo di essere, persino in quel buco schifoso di fabbrica abbandonata nell'estrema periferia sud di Chicago. Si riaprì e scricchiolò nel silenzio. La testa della donna si sollevò di scatto. Doveva aver 9


sentito. Voltò il viso verso di lui, batté le palpebre un paio di volte e poi si raggelò, immobile. Dagan non sapeva se lei poteva vederlo, ma di certo lo sentiva. Che sorpresa... Un lungo graffio le rigava il collo e un livido recente spiccava sulla guancia destra, gonfia e arrossata in stridente contrasto con la calda sfumatura caramello della pelle liscia. L'avevano malmenata, ma aveva ancora addosso i vestiti. Non pareva che fosse stata violentata. Non ancora. Immaginò che lei lo considerasse un fattore positivo. Non era imbavagliata. Il suo rapitore non se n'era preoccupato perché non c'era nessuno in giro che la potesse sentire, o forse perché gli piaceva sentirla urlare. Solo che lei non lo faceva. Non gridava. Dagan trovò la cosa interessante. Avanzando nella stanza, si portò un dito alle labbra – Stai calma – e allungò l'altro braccio all'indietro per richiudere la porta alle proprie spalle. Non era certo del motivo per cui voleva che lei stesse zitta. Lasciandola gridare, il suo rapitore si sarebbe precipitato lì, risparmiandogli la seccatura di andarlo a cercare. Ma lui voleva restare un po' con lei. Solo un momento. Perché? Un momento per fare cosa? La sola risposta che trovò fu un: Oh, al diavolo!. Gli occhi della donna si spalancarono per poi socchiudersi. Begli occhi. Verde e bronzo, a mandorla. Il contrasto tra il loro colore, quello scuro della pelle e quello ancora più scuro delle ciglia era sconvolgente. Per un istante, Dagan non vide che lo sguardo fiero, come quello di una tigre. La stanza scomparve, rimasero solo quegli occhi. Che gli entrarono dentro, trovando qualcosa che lui non sapeva di aver perduto, che, anzi, in primo luogo, non sapeva nemmeno di possedere. 10


L'attimo trascorse lasciandolo con il polso che gli batteva un po' più forte e il respiro a un tratto più rapido. E lui si rese conto che all'origine non c'era una semplice attrazione sessuale. C'era... qualcos'altro. Il suo sguardo corse alla bocca di lei, alle labbra turgide, piene, quindi scese ancora seguendo la spessa catena d'argento che serpeggiava sotto la scollatura del top sporco e poi scompariva tra il generoso rigonfiamento dei seni. La stanza doveva essere una cella frigorifera per la carne e il chiaro abbozzo dei capezzoli non lasciava dubbi sul fatto che lei sentisse freddo. Dagan non aveva alcuna fretta di distogliere lo sguardo. Non poteva farci niente se apprezzava il panorama. Potrei riscaldarla, rincuorarla. L'insolito pensiero aveva un fascino particolare. I seni le si sollevavano e abbassavano a ogni respiro affrettato. A fatica distolse lo sguardo, lasciandolo però ancora a indugiare su di lei con maggior calma e avvertendo un chiaro disagio nel notare cose che prima gli erano sfuggite. Cose come una pelle incredibilmente liscia e soda. Non una ruga. Nemmeno un segno. Nemmeno una macchia. Maledizione. Non poteva fissarle il seno! Solo in quel momento si accorse che non era affatto una donna. Era poco più di una bambina. Di diciannove, forse vent'anni. «Quanti anni hai?» «Diciannove.» Corrugò la fronte. «E mezzo.» E mezzo. Ecco. Questo tagliava la testa al toro. Troppo giovane. Fin troppo giovane per lui. E una mortale, per giunta. Di solito non si scomodava per le mortali. Erano troppo... umane. Negli Inferi tra spiriti femmine e semidee non aveva che l'imbarazzo della scelta, se aveva bisogno di levarsi un prurito. 11


Ma aveva distolto lo sguardo troppo tardi. Lei aveva visto esattamente dove si era smarrita la sua attenzione. «Grande abbastanza per non arrendermi.» La voce era bassa e fiera. «E non avrai un bel niente senza combattere, uomo bianco.» Lo sguardo gli cadde sulle corde gialle che la legavano. «Non ho l'abitudine di legare le mie amanti.» Un lento sorriso gli curvò le labbra. «A meno che non lo chiedano.» «Non lo sto chiedendo.» Lo fissò, con l'atteggiamento e l'espressione di un gatto messo alle strette. Pronto a combattere. Con le unghie e con i denti. Con qualunque cosa potesse servire. Una che aveva del fegato. E bella. La combinazione era affascinante. Diciannove anni. E mezzo. «Cazzo.» Era lì per raccogliere un'anima nera, non per pensare a rilassarsi, e stava rapidamente giungendo alla conclusione che prima si sbrigava e se ne andava meglio era. Strinse il lecca lecca con i denti, ne spezzò una parte, e lo frantumò con i molari. «Cazzo» gli fece eco lei. «Già, direi che riassume bene la situazione, mezzosangue.» Niente lo sorprendeva facilmente, ma quello sì. Era stata picchiata, legata e lasciata a cuocere lentamente nel proprio terrore, ma aveva ancora le palle per chiamarlo mezzosangue. E uomo bianco. Era stato apostrofato in modo peggiore. E a ragione. «Stai con lui in questa storia?» Nonostante lo sfoggio di coraggio, la domanda tradiva un significativo tremore. Lui si tolse il lecca lecca di bocca, la osservò per un istante, poi se lo rificcò in bocca spingendolo di lato con la lingua, mentre lei restava assolutamente immobile, solo gli occhi si muovevano per seguire le sue azioni. «Per lui suppongo che tu intenda il tuo rapitore.» Al suo annuire deci12


so, proseguì: «No, non sto con lui in questa storia». Un lampo di speranza le ravvivò gli occhi. «Sei qui per liberarmi?» «Liberarti?» Gli venne quasi da ridere. «No.» Se era alla ricerca di un salvatore, poteva star fresca. Non sarebbe venuto nessuno. Nessuno tranne lui. Un vero peccato per lei. A quella replica, le guance impallidirono, ma il mento le si sollevò di scatto un po' più in alto. «Allora vuoi uccidermi?» Socchiuse gli occhi. «Perché, se è così, mettiti in fila. Penso che lo stronzo che mi ha legata rivendicherà il suo diritto di precedenza.» No, quella sera non l'avrebbe fatto. Dagan non aveva nessuna intenzione di permettere a quel bastardo di toccarla. Nell'istante in cui quel pensiero prese forma, lo polverizzò annientandolo. Non era lì per proteggere quella ragazza stranamente seducente. Era lì per uccidere e prendersi quello che gli serviva: un'anima nera per alimentare il potere di Sutekh. Non la sua. La sua anima era luminosa come un riflettore. Sutekh l'avrebbe risputata con un colpo di tosse, come se fosse un grumo di peli. «Non è questa la notte in cui morirai.» «Sul serio?» Lei sollevò il capo e spinse indietro una spalla con fare vezzoso. Un'altra sfida. E ancora niente lacrime. Interessante. «Sul serio?» ripeté, perplesso. Infine si rese conto che lei gli stava chiedendo se le stesse dicendo la verità. «Non sono qui per te. Sono venuto per un'anima dannata.» A quella parola la ragazza si accigliò, ma non gli chiese una spiegazione. Aveva ben altro in mente. «Buon per te. 13


Ma non è che magari prima potresti aiutarmi con questo piccolo inconveniente?» La voce trasudava sarcasmo. Sollevate di scatto le mani legate, le allontanò l'una dall'altra per quel mezzo centimetro consentito dal legaccio e fece subito una smorfia sentendo la corda che sfregava contro la pelle già irritata. «Ce l'hai un coltello?» Mentre Dagan fissava i segni rossi che le solcavano i polsi, qualcosa di strano e insolito sollevò la testa e si srotolò profondamente dentro di lui. Aveva visto migliaia di ferite, la maggior parte inferte dalle sue stesse mani. Ma la vista della sua bella pelle scura sanguinante ed escoriata era... sconvolgente. Per un attimo quella sensazione lo disorientò. Non aveva alcun motivo di preoccuparsi della sua sofferenza. «Allora, il coltello?» Lo sollecitò lei. E lui avvertì un implicito deficiente nel tono di voce. O forse anche idiota. «Niente coltello.» Non gli serviva. In tre passi annullò la distanza che li divideva. Si tolse il bastoncino del lecca lecca dalle labbra, se lo infilò in tasca, quindi strinse la corda nel pugno. Le pupille le si dilatarono mentre emetteva un gemito soffocato. Ogni muscolo del suo corpo si tese. Ma lei non si ritrasse. Si limitò a guardarlo con quegli occhi incredibili. Un suono dal corridoio. Dei passi. «Liberami!» sibilò. «Dopo.» Si stava già allontanando. «Dopo che cosa?» I respiri brevi e affannati, lo sguardo che andava a scatti alla porta chiusa... chiaramente la sua paura stava crescendo. Divertito, Dagan si domandò perché lei fosse tanto spavalda e impertinente mentre parlava con lui e fosse invece terrorizzata da quell'umano in corri14


doio. Le sue priorità erano assolutamente sbagliate. Portandosi di nuovo un dito alle labbra, le impose il silenzio mentre si inseriva nello stretto spazio tra la parete e l'infisso. Se era furba, se ne sarebbe stata buona. Se lo avesse tradito, questo avrebbe solo reso il suo lavoro più... sporco. A denti stretti, le dita conficcate nei palmi delle mani, lei seguì i suoi movimenti e gli rivolse un veloce cenno d'assenso, mentre la porta si socchiudeva cigolando. Una bionda con addosso jeans attillati e tacchi alti avanzò lentamente nella stanza, aprendo la porta completamente con una spallata. Subito dietro di lei c'era un uomo alto, vestito di nero, i capelli castani e unti che gli arrivavano alle spalle. Con una mano serrava il polso della bionda e con l'altra teneva un lungo coltello da caccia stretto contro la coscia. La ragazza sul materasso vacillò e gridò: «Marcie! Sei viva! Oh, grazie al cielo!». Marcie si bloccò e il tizio la strinse con maggiore forza. A quanto pareva, il bastardo aveva in mente di violentare e assassinare non una ragazza, ma due. Ambizioso. Il disgusto gli attorcigliò lo stomaco. Dagan era l'esatto contrario della bontà, ma aveva un codice morale. Saldava sempre i propri debiti. La sua parola era la sua legge. Rifiutava di mentire. E, come era vero il suo bisogno di zucchero, non scopava mai le ragazzine appena uscite dal liceo per poi tagliar loro la gola. Marcie si scostò i capelli dal volto. Aveva qualcosa di duro nello sguardo, come se sapesse come stavano le cose e le stesse bene così. Girando la testa, lanciò un'occhiata in tralice al materasso e alla ragazza. 15


Nient'altro. Solo un'occhiata. Niente terrore. Niente paura. Niente compassione. Una freccia dal barbiglio affilato e lucente trafisse la mente di Dagan, che strinse gli occhi vedendo le cose sotto una nuova luce. Marcie non era legata. Non tentava di sottrarsi alla presa del proprio aguzzino, anzi... alla sua stretta si rilassava, cedendogli. La sua postura, le spalle dritte, la testa alta non tradivano nulla che assomigliasse alla paura. E aveva le labbra incurvate in un debole sorriso. Be', che mi venga un colpo. Quel bastardo non aveva sequestrato due ragazze. Ne aveva una che era determinato a violentare e uccidere. E una determinata ad aiutarlo. Inferi, territorio di Sutekh Gahiji si trovava sulla tribuna in pietra arenaria e osservava la fila di anime che attendevano di entrare a chiedere umilmente un momento, un solo momento, del tempo di Sutekh. Lo conoscevano con quel nome, e anche con altri: Seth, Set, Seteh, Signore del Caos, Signore del Male, Signore del Deserto, il Possente dalla Duplice Forza. Alcuni lo chiamavano persino con il nome greco di Tifone, un dio noto per la crudeltĂ e la rabbia cieca. Coloro che credevano questo non lo conoscevano affatto. Sutekh non cedeva mai alla rabbia cieca: era molto piĂš pericoloso. Freddamente analitico, metodico nelle proprie azioni, la sua furia era piĂš calcolatrice che esplosiva. Era un uomo d'affari che riusciva a cogliere ogni sfaccettatura, a vedere di ogni sua decisione tutte le possibili implicazioni future. 16


La fila delle anime si allungava al punto che Gahiji non aveva speranza di scorgerne la fine. Ogni volta che a una di esse veniva concesso l'ingresso, altre dozzine si aggiungevano alla coda. Venivano a implorare i favori del Signore del Caos. Alcune erano loro stesse delle divinità minori, molto al di sotto del rango e del potere di Sutekh, ed erano lì per blandirlo e lusingarlo così da ottenere ciò che volevano. Altre erano le anime di quelli che non erano riusciti a trovare il Campo dei Giunchi, il paradiso della vita dopo la morte. Forse in vita avevano compiuto azioni malvagie. Forse non avevano superato i test della divinità che avevano scelto. Altri ancora non avevano potuto oltrepassare i ventun cancelli di Osiride. A certi mancava la possibilità di pagare Caronte e quindi non sarebbero stati traghettati al di là del fiume Stige. Gli Inferi erano suddivisi in territori ben definiti, ciascun dio e semidio governava il proprio regno. Per entrare le anime dovevano giocare secondo le regole. Ma a volte non le conoscevano nemmeno. Così giungevano da Sutekh, il più potente signore degli Inferi, a implorare un'esenzione o un modo illegale per entrare nell'oltretomba che avevano scelto. Ognuno aveva una sua storia, ognuno voleva il favore di Sutekh. I più sarebbero stati respinti. A volte, Gahiji si chiedeva se l'essere condannati a vagare nel nulla dei laghi di fuoco piuttosto che essere ammessi all'oscura presenza del Signore del Caos di per sé non fosse già un beneficio. Non che lui avesse motivo di lamentarsi. Non aveva mai rimpianto il momento in cui si era umiliato davanti al suo padrone, mai rimpianto quell'aldilà e il potere che gli era stato conferito. 17


Voltò la testa all'avvicinarsi di una serva che gli portava un rotolo di pergamena con i nomi, che gli tese con un profondo inchino per poi andarsene senza mai voltargli le spalle. Un atto di rispetto. L'interazione fu sufficiente a richiamare l'attenzione della folla sottostante. Le teste si sollevarono, le facce rivolte verso di lui. Alcuni aprirono la bocca come per invocarlo, poi sembrarono ripensarci e, a una a una, le labbra si richiusero in silenzio. Sapeva quello che vedevano. Un uomo di media altezza, robusto, il volto una maschera minacciosa di rabbia che non era voluta, ma nata da una casualità dei tratti, a causa della disposizione delle labbra pallide e sottili e dei piccoli occhi scuri, del naso aquilino e di una fronte ampia, tutti disposti su un cranio massiccio adornato da un anello di capelli grigio acciaio, tosato con cura. In vita non era stato un bell'uomo. E l'essere diventato un mietitore d'anime non gli aveva giovato. Distolse lo sguardo dalla fila infinita di supplici e ritornò nel salone di ricevimento. Si trattava di un vasto spazio dalle pareti e dal pavimento in pietra arenaria. Il soffitto era alto. Le colonne allineate lungo la stanza erano abbellite da dipinti dai colori brillanti: il fiume, il delta, il suolo fecondo con i campi e le classiche raffigurazioni egizie degli schiavi al lavoro. Il fondo della stanza si apriva su un giardino privato con palme, fiori di loto e uno stagno tranquillo nel quale nuotavano pesci esotici originari del Nilo. La stanza in sé era quasi spoglia, a parte un piccolo salottino a un'estremità. Le sedie erano in legno del Libano, con intarsi in argento e avorio e il sedile in cuoio ben teso. Su una pedana rialzata si stagliava un trono intagliato con 18


maestria e decorato in oro, sul quale sedeva il signore di Gahiji. Quel giorno Sutekh aveva deciso di essere bello, di assumere una sembianza umana e il bel colorito di tre dei suoi quattro figli. Era una menzogna. Il suo aspetto non aveva nulla in comune con quello dell'uomo dalla pelle e dai capelli dorati che sedeva regale e rilassato. Lui mutava il proprio aspetto come gli altri si cambiavano d'abito. Nessuno conosceva la sua vera forma, nemmeno Gahiji, che era ormai al suo fianco da quasi duemila anni umani. Sebbene le raffigurazioni kemetiche fossero quelle di un uomo con la coda biforcuta, la testa canina, le orecchie quadrate e il naso lungo e pendente di un oritteropo, Gahiji non aveva mai visto il proprio padrone assumere quella sembianza. Pensava che il suo vero aspetto dovesse essere più oscuro, più spaventoso. «Qualcuno di interessante?» chiese Sutekh, prendendo un dolcetto al miele da un tavolino sulla sua destra. «I soliti emissari degli altri territori in cerca del vostro appoggio.» Dei e semidei confinanti, tutti che macchinavano per ottenere una posizione vantaggiosa negli Inferi, o che cercavano di cementare un'alleanza con il più potente di tutti loro, gli inviavano continuamente tirapiedi con doni. Il servitore osservò l'elenco e lesse diversi nomi. Ascoltando attentamente, Sutekh sembrava soppesarli uno a uno. «No» lo interrompeva. E poi ancora: «No». Quindi. «Sì, gode del favore di Ade. Potrebbe avere una proposta a cui sono interessato. Tienilo per ultimo.» Dispose così chi ricevere finché udì: «Abasi Abubakar, Sommo Sacerdote dei Setnakht, adoratori di Sutekh. Ha dato la vita per potervi parlare». Allora si voltò a guardare a destra. Lì, in un angolo privo 19


di luce, il dorso contro la parete, il volto rivolto verso la sala, sedeva Lokan, il più giovane dei suoi figli. Era lui il suo ambasciatore negli altri territori. Spesso, a lui toccava fare una fila infinita in attesa della possibilità di portare le parole del padre a un'altra divinità. Non quel giorno. Quel giorno sedeva nell'ombra a guardare e ad ascoltare. Per imparare. Anche se non osava domandarlo apertamente, Gahiji sapeva che negli Inferi c'era chi si meravigliava della gerarchia politica di Sutekh e si chiedeva perché fosse il minore e non il maggiore dei suoi figli a sedere al suo fianco. La verità era di una semplicità disarmante. Il Signore del Caos preferiva addestrare il figlio che nutriva il maggior desiderio di imparare e ne gioiva: Lokan era un politico nato, suo erede sotto così tanti aspetti... A un minimo cenno di Sutekh, Lokan si sporse in avanti appoggiando un avambraccio su una coscia e chiese: «Ma Abasi Abubakar come ci è riuscito?». «Ha scelto cinque innocenti e li ha uccisi, di persona, lentamente, con la spada delle cerimonie. A ogni decesso, ha assorbito il male delle proprie azioni permettendo alla propria anima oscura di alimentarsi. Quindi ha pregato e implorato che un mietitore d'anime lo trovasse.» «Innovativo.» Lokan tornò ad appoggiarsi. «Ma i mietitori d'anime non rispondono alle invocazioni umane.» «No, infatti. E gli umani non rinunciano alla propria vita per una semplice conversazione. Neanche per parlare con me.» La voce era priva di sarcasmo. Sutekh rifletteva, rimuginava sull'informazione. Era fatto così. Ascoltava. Valutava. Capiva. Vedeva i motivi e le conseguenze. Non agiva mai in fretta. «E quando al Sommo Sacerdote non si è presentato nessun mietitore?» chiese infine. «Ha continuato a supplicare e a pregare, senza mangia20


re né bere nulla, rinchiudendosi in una stanza con i defunti finché alla fine non è morto anche lui.» Sutekh rimase in silenzio per un istante. Dal giardino giungeva il profumo dei fiori di loto. Il suono dell'acqua che gocciolava lungo le rocce della cascata nello stagno era rilassante e dolce, l'atmosfera era ingannevolmente placida. «Il servo di Ade lo vedrò dopo. Voglio proprio sapere per quale motivo quest'umano ha deciso di sacrificare la propria vita e come questo sacrificio potrebbe tornare a mio vantaggio.» Ebbe così inizio la processione delle anime prescelte alle quali veniva concesso del tempo. Sutekh era immancabilmente cortese e ascoltava ogni supplica, ma la conclusione era invariabilmente la stessa. Spiegava loro con gentilezza che no, purtroppo non poteva riportarli in vita. Non rientrava nei suoi poteri. Quindi offriva a ciascuno di loro un favore, un dono. Gli sarebbe piaciuto che una persona amata ancora in vita ricevesse del denaro? Che un bambino avesse la possibilità di studiare? Che magari i vecchi genitori venissero confortati durante il lutto? Quando i supplici gli afferravano la mano ringraziandolo, lui scuoteva la testa e diceva: «Sono molto felice di fare questo per voi. Lo faccio di tutto cuore. Il cuore di un amico. Gli amici hanno cura gli uni degli altri. Io vi concedo questo e voi diventate parte di me». Li osservava attentamente mentre si lasciavano cullare dalla sua bellezza dorata, dalla voce dolce e dall'aura di potere che emanava. Gahiji l'aveva già visto accadere moltissime volte. «Ti terrò qui con me, amico mio. Proprio qui. Non in un luogo remoto, ma vicino a me, il più vicino possibile. Lo vuoi anche tu?» E loro annuivano ansiosi. 21


Lui attendeva solo quello, il loro chiaro e risoluto consenso. Quindi faceva redigere a Gahiji i termini dell'accordo sul grande libro aperto su un piedistallo al centro esatto dell'immensa sala. Esigeva che ogni dettaglio venisse registrato. Non aveva alcun desiderio di derubarli, in fin dei conti. Gli piaceva essere corretto. Per lui era importante. Così, con calligrafia chiara e leggibile, il mietitore scriveva nel libro rilegato in pelle umana trattata con tannino e trasformata in cuoio. Le pagine erano di pergamena, ottenuta più o meno nello stesso modo. Ma quello era un segreto che conoscevano solo Sutekh e Gahiji. Un piccolo scherzo tra loro. A turno, uno dopo l'altro, una volta trascritto l'accordo, i supplici si rilassavano sollevati. Non avevano ottenuto esattamente ciò per cui erano venuti – un ritorno alla vita che si erano lasciati alle spalle – ma avevano ottenuto qualcosa. Sembrava sempre che trovassero la cosa confortante. Forse li induceva a credere che la vita negli Inferi non sarebbe poi stata tanto male. Quando Sutekh tendeva loro la mano, gli si avvicinavano per prendergliela. Erano sempre così pietosamente grati. Fino a quando lui spalancava le fauci, slogandosi l'articolazione come un serpente e inghiottiva intera l'anima del supplice facendo esattamente ciò che aveva preannunciato: tenerli il più possibile vicini a sé. Naturalmente loro non sospettavano neanche lontanamente che lui intendesse renderli proprio parte di sé, assorbire la loro energia, il loro potere. A Sutekh piacevano soprattutto le anime oscure. Quelle intrise dell'avidità, della malignità e dell'odio che avevano portato dalla vita. Erano i pranzi più saporiti, più nutrienti. 22


Spettava a Gahiji poi organizzare il contatto con il mortale rimasto al mondo e assicurarsi che quanto promesso venisse esaudito. Sutekh credeva nell'adempimento dell'accordo stipulato con l'anima che aveva ingerito, annientato, rapinato di qualsiasi speranza di rinascita o di vita futura. Non solo una vita spenta, ma un'immortalità rubata. Non esisteva un aldilà per quell'anima, né Paradiso né Inferno né Campo di Giunchi. Niente Valhalla né altre versioni dell'oltretomba. Nulla. Non c'era che la fame vorace di Sutekh. In cambio, concedeva ai loro amati ancora in vita esattamente quanto avevano concordato e, nell'agire così, condannava anche quegli ultimi allo stesso identico destino. In fin dei conti, un contratto era un contratto, e al termine delle loro vite sarebbero venuti a lui, quando li avesse chiamati. Seduto in un angolo della sala, Lokan osservava e imparava. Ma Gahiji notò come, al momento dell'ingestione, l'espressione del figlio tradisse disgusto, persino ripugnanza, lasciando intuire che la sua parte umana provava dei residui di emozione, forse di compassione nei confronti di quelle anime pietose. Lui non aveva mai osato affrontare l'argomento con il padrone. Gli piaceva troppo il suo ruolo di mietitore d'anime e di fidato braccio destro per aprire bocca incautamente e criticare il figlio. E diventare cibo, invece di semplice procacciatore. Ma si era ripromesso di tenere d'occhio Lokan. Per ogni evenienza. Provava una specie di... rabbia nei confronti di tutti i figli di Sutekh. Non avevano idea del dono che avevano ri23


cevuto, dell'onore, del potere, della bellezza di essere ciò che erano. Quando lui, Gahiji, era diventato mietitore d'anime, il suo corpo umano era stato rafforzato e trasformato, ma non era paragonabile a ciò che avevano loro. Erano i figli di Sutekh, frutto del suo seme. Gli eletti. Sarebbero sempre stati più potenti, e dunque odiati per quello. A quel punto, fece entrare Abasi Abubakar nella sala. I modi di Sutekh erano diversi, ora. Era riservato, calmo e non faceva alcuno sforzo per mettere il supplice a proprio agio. «Maestro» sussurrò il Sommo Sacerdote, gettandosi a terra e protendendo le dita verso le punte delle sue scarpe, ma senza toccarle. Sarebbe stato troppo audace. Stava piangendo, le spalle gli tremavano, e quando Sutekh lo pregò di alzarsi, riuscì solo a sollevare il capo, sul viso l'espressione gioiosa di un fanatico. Sutekh rivolse un cenno al suo fedele che, avvicinatosi, prese il supplice per un braccio aiutandolo a mettersi in ginocchio. «Parla» lo invitò in tono gentile. Abasi gettò un'occhiata a Gahiji e si accigliò. Poi sollevò la testa di scatto nello scorgere Lokan, seduto nell'angolo, immobile come la morte. S'inumidì le labbra con un'espressione turbata. «Posso parlarvi da solo?» Per poco Gahiji non scoppiò a ridere per la sorpresa. In tutti quei lunghi anni a fedele servizio non ricordava di aver mai sentito una simile richiesta. Con un'espressione di commiserazione e rammarico, Sutekh mormorò: «Sei alla presenza di mio figlio e del mio servo più fedele. Sono come il pollice e l'indice della mia mano destra. Parla liberamente. Sappi che non riveleranno mai ciò che sentiranno». S'interruppe. «Non vorrai che insulti il loro onore allontanandoli, vero?» Parole pronunciate 24


con cortesia, intrecciate alla promessa di un terribile castigo nel caso in cui fosse stato commesso l'oltraggio. Il Sommo Reverendo impallidì, deglutì e iniziò a parlare e, mentre portava alla luce gli strati della sua conoscenza, Gahiji a stento riuscì a non tradire la propria sorpresa. Avevano un piano, quei Setnakht. Che poteva anche avere successo. «Ora, di grazia, Maestro» proseguì Abasi in un tono divenuto più fiducioso via via che parlava, «concedete che io condivida con voi quanto so sulle Figlie di Aset.» Di nuovo, Gahiji dissimulò la propria sorpresa. Le Figlie di Aset erano gli antichi nemici di Sutekh, come lo erano Aset stessa e suo marito Osiride. «Lo concedo» rispose lui con un gesto noncurante della mano, appoggiandosi allo schienale del trono.

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