Alice in Zombieland

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Gena Showalter Alice in Zombieland

TRADUZIONE DI GIORGIA LUCCHI

Se qualcuno mi avesse detto che la mia vita sarebbe cambiata in un momento, sarei scoppiata a ridere. Dalla beatitudine alla tragedia, dall'innocenza alla rovina? Ma per favore.

E invece è andata proprio così. Un attimo, un secondo, il tempo di un respiro, e tutto ciò che conoscevo e amavo è sparito.

Il mio nome è Alice Bell e la notte del mio sedicesimo compleanno ho perso la madre che amavo, la sorellina che adoravo e il padre che non ho mai capito finché non è stato troppo tardi. Fino a quell'istante, quando tutto il mio mondo è crollato e uno nuovo ha preso forma intorno a me.

Mio padre aveva ragione. I mostri camminano in mezzo a noi.

Di notte questi morti viventi, questi... zombie escono dalle loro tombe e bramano ciò che hanno perduto. La vita. Si nutriranno di voi. Vi infetteranno. E poi vi uccideranno. Se questo accadrà, anche voi uscirete dalla tomba. È un cerchio senza fine, come un topo che corre all'interno di una ruota di filo spinato: sanguina e muore lentamente mentre le punte acuminate gli penetrano sempre più nella carne, ma non ha modo di fermare lo slancio letale.

Gli zombie non conoscono la paura, non conoscono il dolore, ma hanno fame. Oh, se hanno fame. C'è un solo modo per fermarli, ma non posso spiegarvelo. Ve lo devo mostrare. Ciò che posso dirvi è che dobbiamo combattere gli zombie

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UN BIGLIETTO DA ALICE

per renderli inoffensivi. Per combatterli, dobbiamo avvicinarci a loro. E per farlo, dobbiamo essere un po' coraggiosi e molto folli.

Ma la volete sapere una cosa? Preferisco che il mondo mi consideri pazza mentre cado combattendo, invece di trascorrere il resto della vita nascondendomi dalla verità. Gli zombie sono reali. Sono là fuori.

Se non state in guardia, prenderanno anche voi.

E dunque, sì, avrei dovuto ascoltare mio padre. Mi aveva ripetuto mille volte di non uscire mai di notte, di non avvicinarmi mai a un cimitero e di non fidarmi mai, per nessun motivo al mondo, di qualcuno che volesse farlo. Avrebbe dovuto seguire i suoi stessi consigli... Invece si è fidato di me e io l'ho convinto a fare entrambe le cose.

Se potessi tornare indietro, farei migliaia di cose in modo diverso. Direi di no a mia sorella. Non chiederei a mia madre di parlare con papà. Non piangerei. Mi sigillerei le labbra e ingoierei quelle parole odiose. E a parte questo, abbraccerei mia sorella, mia madre e mio padre un'ultima volta. Direi loro che li amo.

Vorrei... oh, come lo vorrei.

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NELLA TANA DEGLI ZOMBIE

Sei mesi fa

«Per favore, Alice. Per favore.»

Me ne stavo sdraiata su una coperta nel giardino dietro casa a intrecciare una ghirlanda di margherite per la mia sorellina. Il sole splendeva luminoso mentre paffute nuvole bianche attraversavano un'interinabile distesa turchese. Mentre inspiravo il profumo intenso di caprifoglio e lavanda di un'estate dell'Alabama, cercavo di individuare forme tra le nuvole. Un lungo bruco con tante zampe. Una farfalla con un'ala un po' rovinata. Un grasso coniglio bianco che correva verso un albero.

Emma, otto anni, danzava intorno a me. Indossava un luccicante costume rosa da ballerina e i suoi codini sobbalzavano a ogni movimento. Era una versione in miniatura di nostra madre e il mio esatto contrario.

Entrambe avevano una cascata di capelli scuri e lisci e splendidi occhi dorati dal taglio all'insù. Mamma era minuta, arrivava a malapena a un metro e sessanta, e non ero certa che Emma arrivasse a un metro e cinquanta. Io? Avevo i capelli biondi e mossi, occhi azzurri e gambe lunghissime. Con il mio metro e settantacinque ero più alta della maggior parte dei ragazzi della mia scuola e spiccavo ovunque. Non potevo andare da nessuna parte senza che qualcuno mi lan-

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ciasse un'occhiata della serie ma-che-sei-una-giraffa?

I ragazzi non avevano mai dimostrato alcun interesse nei miei confronti, ma li avevo beccati un'infinità di volte a sbavare dietro a mia madre quando passava e una volta ne avevo addirittura sentito uno fischiare quando lei si era chinata per raccogliere qualcosa.

«Aliiii!» Emma, che si era fermata accanto a me, batté il piedino per attirare la mia attenzione. «Mi stai almeno ascoltando?»

«Tesoro, ne abbiamo parlato mille volte. Il tuo saggio può anche cominciare mentre c'è ancora il sole, ma finirà quando sarà già buio, e sai bene che papà non ci permetterà mai di uscire di casa. E la mamma ti ha iscritta al corso a patto che le promettessi che non avresti fatto i capricci se non fossi potuta andare ad allenamenti serali o... saggi.»

Lei mi salì addosso, e quando mi piantò quelle graziose ballerine rosa sulle spalle, il suo corpo leggero disegnò un'ombra sufficiente per riparare il mio viso dalla luce intensa. Divenne l'unica cosa che potevo vedere, oro luccicante che mi supplicava. «Oggi è il tuo compleanno e lo so, lo so che questa mattina me ne sono dimenticata... e questo pomeriggio... ma la settimana scorsa mi sono ricordata che stava arrivando – te lo ricordi, che l'ho detto anche a mamma, vero? – e adesso me ne sono ricordata di nuovo! Conterà pure qualcosa, no? Certo che sì» soggiunse prima che potessi rispondere. «Papà deve fare tutto ciò che gli chiedi. Quindi, se gli chiedi di lasciarci andare e...» La sua voce vibrava di desiderio, «... e gli chiedi se verrà a vedermi anche lui, ci verrà.»

Il mio compleanno. Già. Se l'erano dimenticato anche i nostri genitori. A differenza di Emma, non se n'erano, né se ne sarebbero, ricordati. L'anno precedente papà era stato troppo occupato a buttare giù un bicchierino di whisky dopo l'altro, blaterando di mostri che solo lui poteva vedere, e mamma era impegnata a ripulire il suo casino. Come sempre.

Quest'anno mamma aveva nascosto promemoria in tutti i cassetti per ricordarselo (li avevo trovati) e, come aveva puntualizzato, Emma ne aveva parlato espressamente dicendo:

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«Ehi! Tra poco sarà il compleanno di Alice! Penso che meriterebbe una festa», ma quella mattina mi ero svegliata e tutto era come sempre. Non era cambiato niente.

Pazienza. Ero un anno più vecchia, finalmente avevo sedici anni, ma la mia vita era sempre la stessa. Onestamente, non era un problema, avevo smesso di preoccuparmene molto tempo fa.

A Em, però, importava. Voleva ciò che io non avevo mai avuto: la loro totale attenzione.

«Dal momento che oggi è il mio compleanno, non dovresti fare tu qualcosa per me?» domandai, sperando di riuscire a distrarla dal pensiero del suo primo saggio di danza e del ruolo di principessa che, come le piaceva ripetere, sembrava nata per impersonare.

Lei si mise le mani sui fianchi, tutta innocenza e indignazione e, be', la cosa che preferivo di più in tutto il mondo. «Pronto? Lasciarti fare questo per me è il mio regalo di compleanno.»

Cercai di non ridere. «Ah, davvero?»

«Sì, perché so che hai talmente tanta voglia di vedermi ballare che potrebbe venirti la bava alla bocca.»

Mocciosa viziata. Ma era impossibile confutare il suo ragionamento: in effetti volevo vederla.

Ricordo la notte in cui nacque Emma. Un folle mix di paura ed eccitazione aveva impresso indelebilmente quel ricordo nella mia mente. Come avevano già fatto con me, i miei genitori avevano deciso di ricorrere a una levatrice a domicilio affinché, quando fosse arrivato il grande momento, mamma non dovesse lasciare la casa.

Ma anche quel piano era fallito.

Il sole era già tramontato quando erano iniziate le contrazioni, e mio padre si era rifiutato di aprire la porta alla levatrice per paura che un mostro la seguisse in casa. Così era stato lui a far nascere Emma, mentre mamma urlava come se stesse morendo. Io mi ero nascosta sotto le coperte, tremando e piangendo per la gran paura.

Quando tutto era tornato tranquillo, ero sgattaiolata in camera loro per assicurarmi che fossero sopravvissuti tutti. Pa-

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pà si dava un gran daffare, mentre mamma riposava a letto. Con passo titubante mi ero avvicinata e, per essere onesta, ero rimasta senza fiato per l'orrore. La piccola Emma non era per niente carina. Rossa e grinzosa, con un'orribile peluria nera sulle orecchie (sono felice di poter dire che in seguito è sparita). La mamma, tutta sorrisi, mi aveva chiamata per prendere in braccio la mia nuova, migliore amica.

Mi ero seduta accanto a lei, appoggiandomi ai cuscini, e lei mi aveva messo in braccio il fagottino che si dimenava. Mi aveva guardata con due occhi così belli che solo Dio stesso avrebbe potuto crearli, le sue minuscole labbra rosa si erano imbronciate e aveva agitato i piccoli pugni.

«Come vogliamo chiamarla?» mi aveva chiesto mamma.

Quando le dita corte e paffute si erano chiuse intorno a una delle mie, la pelle morbida e calda, avevo deciso che la peluria sulle orecchie non era poi così terribile. «Lily» avevo risposto. Avevo un libro sui fiori e i gigli erano i miei preferiti. La risata dolce di mia madre si era riversata su di me. «Mi piace. Che ne dici di Emmaline Lily Bell? Dal momento che il vero nome della nonna è Emmaline, sarebbe bello onorarla come abbiamo onorato la mamma di papà quando sei nata tu. Chiameremo il nostro piccolo miracolo Emma, per fare prima, e noi tre divideremo un segreto meraviglioso. Tu sei la mia Alice Rose, lei la mia Emma Lily e, insieme, voi due siete il mio bouquet perfetto.»

Non avevo avuto bisogno di tempo per pensarci. «Okay. D'accordo.»

Emma aveva gorgogliato e io lo avevo interpretato come un segno di assenso.

«Alice Rose» disse Emma nel presente. «Ti sei persa di nuovo nelle tue fantasie, proprio nel momento in cui ho più bisogno di te.»

«D'accordo, va bene» mi arresi con un sospiro. Non ero capace di dirle di no. Mai, né mai lo sarei stata. «Ma non ho intenzione di affrontare l'argomento con papà. Lo dirò a mamma e chiederò a lei di parlarne con lui.»

Una scintilla di speranza si accese negli occhi di mia sorella. «Davvero?»

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«Sì, davvero.»

Un sorriso radioso le sbocciò sulle labbra e lei riprese a saltellare. «Per favore, Alice. Devi parlarle subito. Non voglio fare tardi e, se papà accetterà di partire presto, potrò scaldarmi dietro il palco con le altre ragazze. Per favore. Fallo subitoooo!»

Mi sollevai a sedere e le misi la ghirlanda di margherite intorno al collo. «Ti rendi conto che le probabilità di successo sono scarse, vero?»

Una delle regole base di casa Bell era: mai uscire di casa se non potevi tornare prima che facesse buio. Papà aveva sistemato delle protezioni contro i mostri, per assicurarsi che nessuno di loro potesse entrare. Dopo l'imbrunire... si restava a casa, punto. Chiunque si trovasse all'esterno, nel brutto mondo cattivo, era completamente privo di difese e considerato una potenziale preda di caccia.

La paranoia e le fissazioni di mio padre mi avevano fatto perdere parecchie attività scolastiche e un'infinità di eventi sportivi. Non ero mai andata a un appuntamento con un ragazzo. Certo, avrei potuto uscire a pranzo con qualcuno nei fine settimana o fare qualche altra patetica cosa del genere, ma a dire il vero non mi interessava avere un ragazzo. Davvero. Non mi andava di spiegare che mio padre era pazzo e che a volte ci chiudeva tutti nella cantina "speciale" che aveva costruito come ulteriore protezione contro un uomo nero che non esisteva. Fantastico, eh?

Em mi gettò le braccia al collo. «Puoi farcela, lo so. Tu puoi fare tutto!»

La sua fiducia nei miei confronti era così... commovente.

«Farò del mio meglio.»

«Il tuo meglio è... Oh, no!» Si allontanò da me più che poté, il viso raggrinzito per l'orrore. «Sei tutta sporca e bagnata e adesso anch'io sono tutta sporca e bagnata.»

Ridendo, mi lanciai verso di lei. Em strillò e corse via. Una mezz'ora prima mi ero bagnata con la canna dell'acqua, sperando di rinfrescarmi. Ma non avevo certo intenzione di dirglielo: torturare la propria sorella era troppo divertente.

«Tu rimani qui, d'accordo?» C'era il rischio che mamma

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dicesse qualcosa che avrebbe potuto ferirla e che a me sfuggisse qualcosa che l'avrebbe fatta sentire in colpa per avermi costretta a fare quel tentativo, e allora Emma sarebbe scoppiata in lacrime... E io detestavo quando piangeva.

«Certo, certo» mi assicurò lei, alzando le mani in segno di resa.

Ma aveva risposto così in fretta che non me la bevvi. Aveva intenzione di seguirmi per origliare, ne ero certa. Era subdola, la ragazzina. «Promettimelo.»

«Non posso credere che non ti fidi di me.» La sua mano, delicata come una farfalla, si posò sul cuore. «Così mi ferisci, Alice.»

«Per prima cosa, devo farti le mie più sincere congratulazioni: la tua recitazione è migliorata moltissimo» dissi, applaudendo. «Secondo, promettimelo immediatamente, altrimenti tornerò a concentrarmi sull'abbronzatura che non riuscirò mai ad avere.»

Em si alzò in punta di piedi con un sorrisetto malizioso, sollevò le braccia sopra il capo e ruotò lentamente su una sola gamba. Il sole scelse proprio quel momento per allungare uno dei suoi raggi ambrati verso di lei, creando l'illuminazione perfetta per quella splendida piroetta. «Okay, okay. Te lo prometto. Contenta, adesso?»

«Estatica.» Emma poteva essere subdola, ma non infrangeva mai una promessa.

«Farò finta di sapere cosa vuole dire.»

«Significa... Oh, non importa.» Stavo perdendo tempo e lo sapevo. «Vado e torno.»

Con l'entusiasmo di un candidato al plotone di esecuzione, mi alzai e mi voltai verso la nostra casa, una villetta di due piani che papà aveva costruito nel fiore dei suoi giorni da costruttore edile, con mattoni marroni in basso e assi di legno marrone e bianco in alto.

Squadrata, straordinariamente comune e totalmente anonima. D'altra parte, era proprio ciò che voleva, aveva detto.

Mentre camminavo, il rumore delle infradito sul selciato creava una specie di mantra. Non. Fallire. Non. Fallire. Alla

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fine mi trovai di fronte alla portafinestra della cucina e scorsi mia madre che cucinava, andando avanti e indietro tra i fornelli e l'acquaio. La osservai, colta da una vaga sensazione di nausea.

Non fare la pappamolla. Puoi farcela.

Spinsi la porta ed entrai. L'aria odorava di aglio e concentrato di pomodoro. «Ciao» dissi, sperando di non essere rimpicciolita per la paura.

Mamma mi guardò mentre scolava la pasta e sorrise. «Ciao, bimba. Hai finito di prendere il sole o è solo una pausa?»

«Pausa.» L'incarcerazione forzata durante la notte mi induceva a trascorrere quanto più tempo possibile all'aperto durante le ore di luce, che mi scottassi diventando rossa come un gambero o no.

«Be', ottimo tempismo, comunque. Gli spaghetti sono quasi pronti.»

«Sì, bene.» Durante i mesi estivi cenavamo alle cinque in punto. In inverno addirittura alle quattro. Così, qualunque stagione fosse, potevamo essere al sicuro nelle nostre stanze prima del tramonto.

La pareti erano rinforzate con non so quale tipo di acciaio, porte e serrature erano inviolabili. E, sì, era proprio per via di quel tipo di dettagli che la nostra cantina da fantascienza, oltre a essere decisamente eccessiva, veniva chiamata "il sotterraneo", ma provateci voi a ragionare con un pazzo.

Fallo e basta. Dillo, e poi non ci pensi più. «Ehm, ecco, io...» Spostai il peso del corpo da un piede all'altro. «Oggi è il mio compleanno.»

Mamma rimase a bocca aperta e le sue guance impallidirono. «Oh, bambina mia, mi dispiace tanto. Non volevo... Avrei dovuto ricordarlo... Mi ero scritta perfino dei bigliettini. Buon compleanno» terminò, contrita. Si guardò intorno con l'aria di chi spera che un regalo possa materializzarsi di colpo per effetto della sola forza di volontà. «Mi sento terribilmente in colpa.»

«Non preoccuparti.»

«Mi inventerò qualcosa per farmi perdonare, te lo giuro.»

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Che i negoziati abbiano inizio, allora! Raddrizzai le spalle. «Dici sul serio?»

«Certo.»

«Bene, perché Em ha un saggio stasera e vorrei andarci.»

Pur irradiando tristezza, mamma cominciò a scuotere il capo ancora prima che terminassi la frase. «Sai che tuo padre non acconsentirà mai.»

«Allora parlagli. Convincilo.»

«Non posso.»

«Perché?»

«Perché no» gracchiò.

Volevo bene a quella donna, davvero, ma era frustrante come nessun altro. «Come sarebbe a dire perché no?» insistetti. Non avevo intenzione di arrendermi, nemmeno se si fosse messa a piangere. Meglio le sue lacrime che quelle di Em.

Mamma si voltò con la stessa grazia di Emma mentre portava il colapasta al fornello e versava il suo contenuto nella pentola. Una nuvola di vapore la avvolse e, per un momento, sembrò parte di un sogno. «Emma conosce le regole. Capirà.»

Come avevo dovuto capire io, sbattendoci la testa migliaia di volte prima di arrendermi? La rabbia divampò.

«Perché lo fai? Perché sei sempre d'accordo con lui pur sapendo che è completamente fuori di testa?»

«Non è...»

«Invece sì!» Battei un piede a terra, come faceva Em. «Piano» mi richiamò all'ordine lei. «È di sopra.»

Già, ed ero pronta a scommettere che fosse già ubriaco.

«Ne abbiamo già parlato, tesoro» riprese lei. «Credo che tuo padre veda qualcosa che noi non possiamo vedere. Ma prima di lapidarci, dà un'occhiata alla Bibbia: una volta anche il nostro Signore e Salvatore fu perseguitato. Centinaia di persone dubitarono di Gesù.»

«Ma papà non è Gesù!» E in chiesa con noi ci veniva di rado.

«Lo so, non è quello che volevo dire. Credo esistano forze che operano tutto intorno a noi. Forze del bene e forze del male.»

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Non potevo lasciarmi coinvolgere in un'altra discussione sul bene e sul male con lei. Proprio non potevo. Credevo in Dio e credevo che ci fossero angeli e demoni là fuori, ma noi non dovevamo mai vedercela con le forze del male, no?

«Vorrei che divorziassi da lui» borbottai, poi mi morsi la lingua, pentita, ma non avevo intenzione di scusarmi.

Mamma per lavoro trascriveva su carta le registrazioni di medici e sanitari, quindi stava in casa e digitava, digitava, digitava sul suo computer, sette giorni su sette. Durante i weekend, come in quello splendido sabato sera, faceva anche da infermiera a mio padre, lo ripuliva, andava a prendere e portare cose per lui. Meritava molto di più. Era giovane, per essere una madre, e maledettamente carina. Era sensibile e divertente e meritava qualcuno che la viziasse.

«La maggior parte dei ragazzi desidera che i loro genitori stiano insieme» mi rispose in tono tagliente.

«Io non sono come la maggior parte dei ragazzi. Grazie a voi.» Il mio tono di voce fu ancor più tagliente.

Io volevo solo... quello che avevano gli altri ragazzi. Una vita normale.

Di colpo la rabbia svanì e lei sospirò. «Alice, tesoro, so che è dura per te. So che vorresti di più per te stessa e un giorno l'avrai. Ti laureerai, troverai un lavoro, ti innamorerai, viaggerai, farai ciò che il tuo cuore desidera. Ma per il momento, questa è casa di tuo padre e le regole le stabilisce lui. Tu le seguirai e rispetterai la sua autorità.»

Tratto dal Manuale Ufficiale dei Genitori, capitolo: Cosa dire quando non avete una vera risposta per vostro figlio.

«E forse» aggiunse, «quando avrai una famiglia tua, ti renderai conto che tuo padre ha fatto ciò che ha fatto per proteggerci. Ci vuole bene, e la nostra sicurezza è la cosa più importante per lui. Non odiarlo per questo.»

Avrei dovuto saperlo. Il discorso sul bene sul male girava sempre intorno ad amore e odio. «Hai mai visto uno dei suoi mostri?» domandai.

Una pausa, una risatina nervosa. «Mi sono rifiutata di rispondere a questa domanda le altre mille volte che me l'hai posta, cosa ti fa credere che risponderò proprio oggi?»

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«Consideralo un regalo di compleanno, dal momento che non intendi darmi ciò che desidero davvero.» Era un colpo basso e lo sapevo. Ma, ancora una volta, mi rifiutai di chiedere scusa.

Lei trasalì. «Non mi piace parlare di queste cose con voi ragazze, non voglio spaventarvi ulteriormente.»

«Noi non siamo spaventate» ribattei. «Sei tu quella che ha paura!» Calmati, fai un respiro profondo. Inspira... espira... Dovevo cercare di essere razionale. Se avessi sclerato, mi avrebbe mandata in camera mia e sarebbe finita lì. «In tutti questi anni dovresti aver visto almeno un mostro. Voglio dire, sei quasi sempre con papà. Stai con lui anche di notte, quando gira per casa armato.»

L'unica volta che avevo osato avventurarmi al pianterreno dopo mezzanotte, per andare a prendere un bicchiere d'acqua dal momento che avevo dimenticato di portarmene uno in camera, avevo visto mio padre che marciava avanti e indietro con una pistola in mano, fermandosi davanti a ogni finestra per guardare fuori. All'epoca avevo tredici anni ed ero quasi morta d'infarto. O forse di imbarazzo, perché avevo rischiato seriamente di farmela addosso.

«D'accordo, se ci tieni tanto a saperlo, te lo dirò. No, non li ho visti» rispose, la cosa non mi sorprese affatto. «Ma ho visto la devastazione che causano. E, prima che tu mi chieda come faccio a sapere che erano stati loro, lasciami aggiungere che ho visto cose che non si possono spiegare in altro modo.»

«Per esempio?» Sbirciai dietro di me. Em era andata a sedersi sull'altalena e si stava dondolando avanti e indietro, ma non mi staccava di dosso i suoi occhi da falco.

«Non ho intenzione di parlarne. Ci sono cose che è meglio tu non sappia, indipendentemente da ciò che dici. Non sei ancora pronta. I neonati possono digerire il latte, ma non la carne.»

Non ero una neonata, bla, bla, bla

La preoccupazione distorceva i tratti di Emma. Mi costrinsi a sorridere e lei si illuminò subito, come se ormai fosse cosa fatta. Come se non l'avessi già delusa milioni di volte prima.

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Come quando voleva andare alla mostra d'arte della sua scuola, dov'era esposto il suo globo di cartapesta. O quando il gruppo Scout di cui faceva parte era andato in campeggio. Come le centinaia di volte che la sua amica Jenny le aveva telefonato per chiederle di andare a dormire da lei. Alla fine Jenny aveva smesso di chiamare.

Falle pressione... non puoi fallire stavolta...

Affrontai mia madre. Mi voltava le spalle e non si era ancora allontanata dai fornelli. Stava tirando fuori gli spaghetti uno per volta dalla pentola, controllando la cottura come se fosse la cosa più importante del mondo. Quel balletto non era una novità: mamma era un asso nell'evitare di affrontare i problemi, e aveva appena iniziato a carburare.

«Dimentica i mostri e quello che hai o non hai visto. Oggi è il mio compleanno e vorrei solo che andassimo al saggio di mia sorella come una famiglia normale. Tutto qui. Non sto chiedendo la luna. Ma se non hai il coraggio di farlo, va bene. Se non ce l'ha papà, non c'è problema. Chiamerò una delle mie compagne di scuola e andremo senza di voi.» Ci voleva almeno mezz'ora di macchina per andare in città, quindi andarci a piedi era escluso a priori. «E sai una cosa? Se mi costringi a fare così, spezzerai il cuore a Em e io non te lo perdonerò mai.»

Lei inspirò bruscamente, si irrigidì. Probabilmente l'avevo scioccata. Io ero quella calma, in famiglia. Non sbottavo quasi mai, raramente davo fuori di matto. In genere accettavo e andavo avanti.

«Alice» disse e io digrignai i denti.

Eccolo che arriva, il rifiuto Lacrime di rabbia mi bruciarono gli occhi, cadendomi sulle guance. Le asciugai con il dorso della mano. «Scusa tanto se non riesco a perdonarti. Ti odio per questo.»

Lei si voltò verso di me, sospirò. Incurvò le spalle, sconfitta. «Va bene, d'accordo. Gli parlerò.»

Em brillò letteralmente per tutta la rappresentazione. E dominò il palco, senza preoccuparsi di suscitare l'invidia di chi aveva intorno. Onestamente, le altre ragazze non regge-

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vano il confronto. E non era l'orgoglio fraterno a parlare. Era un dato di fatto.

Piroettò, sorrise e abbagliò tutti, e tutti la ammirarono, rapiti come me. Sicuro. Quando il sipario calò, due ore dopo, ero così felice per lei che sarei potuta scoppiare. E forse feci saltare i timpani delle persone sedute davanti a me. Credo di aver applaudito più forte di tutti e i miei fischi erano abbastanza acuti da causare emorragie cerebrali.

Quella gente se ne sarebbe dovuta fare una ragione. Quello era il miglior compleanno di sempre. Per una volta i Bell avevano preso parte a un evento come una famiglia normale.

Ovviamente mio padre rischiò di rovinare tutto continuando a guardare l'orologio e voltandosi verso la porta come se da un momento all'altro qualcuno potesse lanciare in sala una bomba H. Quindi, quando gli spettatori balzarono in piedi per una standing ovation e nonostante la felicità, ero così tesa che le mie ossa praticamente vibravano come corde di violino.

Comunque fosse, non mi sarei lamentata. Non una parola sarebbe uscita dalle mie labbra. Miracolo dei miracoli, era venuto anche lui. Okay, il miracolo era stato introdotto da una bottiglia del suo whisky preferito e avevamo dovuto infilarlo in auto come il ripieno di crema in un cannolo, ma non aveva importanza: era venuto!

«Dobbiamo andare» disse alla fine dello spettacolo, dirigendosi verso la porta. Con il suo metro e novanta sovrastava tutti quelli che lo circondavano. «Prendi Em e andiamo.»

Nonostante i suoi difetti, nonostante la fatica di vivere con una persona come lui, gli volevo bene e sapevo che non poteva fare a meno di essere paranoico. Aveva cercato di curarsi con le medicine, ma non aveva avuto fortuna. Aveva provato con la psicoterapia ed era peggiorato. Vedeva mostri che nessun altro vedeva e si rifiutava di credere che non esistevano, che non volevano mangiarlo e uccidere tutte le persone che amava.

In un certo senso quasi lo capivo. Una notte, circa un anno prima, Em piangeva perché aveva dovuto rinunciare all'ennesimo pigiama party. Io me l'ero presa con nostra madre che, turbata dal mio insolito sfogo, ci aveva raccontato quello che

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aveva definito "l'inizio della battaglia di nostro padre contro il male".

Da bamb ino, papà aveva assistito al brutale assassinio del suo stesso padre, un omicidio che si era con sumato di notte, in un cimitero, durante la visita alla tomba di nonna Alice. Quell 'evento lo aveva traumatizzato. Quindi sì, lo capivo.

Questo mi aiutava a sentirmi meglio in quel momento? No. Era un adulto, e avrebbe dovuto saper gestire i propri problemi con saggezza e maturità, no? Voglio dire, quante volte mi ero sentita dire: Comportati da adulta, Alice, oppure: Solo un bambino farebbe una cosa del genere, Alice?

La mia posizione al riguardo? Evitate di predicare bene e razzolare male, gente! Ma in fondo che ne sapevo, io? Non ero un'adulta onnisciente, semplicemente si aspettavano che mi comportassi come tale. E sì, avevo proprio un gran bell'albero genealogico: assassini e traumi in ogni singolo ramo contorto. Non mi sembrava molto giusto.

«Andiamo» sbottò lui in quel momento.

Mia madre gli fu subito accanto per tranquillizzarlo. «Calmati, tesoro. Andrà tutto bene.»

«Non possiamo restare qui. Dobbiamo tornare a casa, al sicuro.»

«Vado a prendere Em» dissi. Il senso di colpa cominciava a farsi sentire. Forse gli avevo chiesto troppo. E anche a mia madre, che avrebbe dovuto strapparlo fuori dall'auto quando infine saremmo stati nel nostro garage a prova di mostri. «Non preoccuparti.»

La gonna mi si ingarbugliò intorno alle gambe mentre attraversavo la folla e passavo dietro il sipario. C'erano bambine dappertutto, ciascuna con addosso più trucco, nastri e lustrini delle poche spogliarelliste che mi era capitato di vedere in televisione. Mentre cambiavo canale, sia ben chiaro, e mi ero fermata assolutamente per caso su programmi che non avrei dovuto guardare. Padri e madri abbracciavano le figlie, lodandole e porgendo loro fiori, congratulandosi per l'ottimo lavoro, io invece dovetti afferrare mia sorella e battere in ritirata, trascinandomela dietro.

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«Papà?» domandò lei, per niente sorpresa.

Le lanciai un'occhiata da sopra la spalla. Era impallidita, e i suoi occhi dorati sembravano troppo vecchi e saggi per il suo visino d'angelo. «Già.»

«Entità dei danni?»

«Non preoccuparti, potrai ancora presentarti in pubblico senza doverti vergognare.»

«Allora la considero una vittoria.»

Anch'io.

La gente si era spostata nel foyer come uno sciame di api, metà aspettava, l'altra metà si dirigeva verso le porte. Fu lì che trovammo nostro padre. Si era fermato vicino alle finestre e scrutava il parcheggio. I lampioni illuminavano il tragitto fino alla nostra Tahoe, che mamma aveva parcheggiato illegalmente nel posto per i disabili più vicino, così da poter scendere e risalire più facilmente. La sua pelle aveva assunto una sfumatura grigiastra e aveva i capelli dritti in testa, come se avesse passato le dita tra le ciocche troppe volte.

Mamma stava ancora cercando di calmarlo. Grazie al cielo era riuscita a disarmarlo prima che uscissimo di casa. In genere portava pistole, coltelli e stelle ninja ogni volta che osava uscire.

Appena li raggiunsi, lui si voltò e mi afferrò per le braccia, scuotendomi. «Se vedi qualcosa nell'ombra, qualunque cosa, prendi tua sorella e scappa. Mi hai sentito? Prendila e torna subito dentro. Chiudi le porte, nasconditi e chiedi aiuto.» I suoi occhi erano blu elettrico, da allucinato, e le pupille si erano dilatate fino a coprire quasi del tutto le iridi.

Il senso di colpa divampò dentro di me. «Lo farò» gli assicurai, posando le mani sulle sue. «Non preoccuparti per noi. Mi hai insegnato a difendermi, ricordi? Proteggerò Em, a qualunque costo.»

«Okay» disse lui, anche se non sembrava per niente soddisfatto. «Allora va bene.»

Avevo detto la verità. Non so per quante ore mi fossi allenata con lui nel giardino dietro casa, imparando a bloccare potenziali aggressori. Certo, quelle lezioni in teoria servivano a impedire che i miei organi interni diventassero la cena di

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qualche essere decerebrato, ma l'autodifesa era sempre autodifesa, giusto?

Mia madre riuscì a convincerlo ad avventurarsi all'esterno. Nel frattempo la gente ci scoccava occhiate sconcertate che cercai di ignorare. Camminammo tutti insieme, come una vera famiglia, mettendo un piede davanti all'altro così in fretta che sembrava volassimo. Mamma e papà davanti, Em e io pochi passi dietro di loro, tenendoci per mano mentre i grilli frinivano, fornendoci una bizzarra colonna sonora.

Mi guardai intorno, cercando di vedere il mondo come doveva vederlo mio padre. Scorsi un lungo tratto di catrame nero... mimetizzazione? Un mare di macchine... possibili nascondigli? E dietro i boschi che coprivano le colline... luogo di riproduzione degli incubi?

In alto nel cielo splendeva la luna, piena e meravigliosamente nitida. C'erano ancora delle nuvole, arancioni e un po' inquietanti. E quello era... no, impossibile... Battei le palpebre, rallentai. Caspita, sì! Era proprio lui. La nuvola a forma di coniglio mi aveva seguita. Bizzarro.

«Guarda le nuvole» dissi a Em. «Noti niente di strano?»

Una pausa poi: «Un coniglio?».

«Esatto. L'ho visto anche questa mattina. Deve pensare che siamo proprio straordinari.»

«Perché è così, infatti.»

Mio padre si accorse che eravamo rimaste indietro, tornò indietro di corsa, mi afferrò per il polso e mi trascinò con sé, più veloce, sempre più veloce... mentre io tenevo stretta la mano di Emma e mi trascinavo dietro lei. Avrei preferito lussarle una spalla piuttosto che lasciarla indietro, anche solo per un secondo. Papà ci voleva bene, ma una parte di me temeva che ci avrebbe lasciate lì, se lo avesse ritenuto necessario.

Aprì la portiera dell'auto e mi scaraventò dentro come un pallone da calcio. Emma mi raggiunse un secondo dopo e condividemmo un momento di eloquente silenzio dopo esserci sistemate.

Divertente, dissi muovendo solo le labbra.

Buon compleanno, replicò lei, altrettanto silenziosa.

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Non appena si sedette sul sedile del passeggero, papà bloccò le portiere. Tremava troppo per riuscire a mettersi la cintura di sicurezza e si arrese. «Non passare davanti al cimitero» disse a mia madre. «Ma portaci a casa più in fretta che puoi.»

Avevamo evitato il cimitero anche all'andata, benché fosse ancora giorno, allungando inutilmente un tragitto già lungo.

«Certo. Non preoccuparti.» La Tahoe si accese con un ruggito e mamma inserì la retro.

«Papà» intervenni, nel tono più ragionevole che riuscii a usare, «se prendiamo la strada più lunga, resteremo imbottigliati dove ci sono i lavori.» Vivevamo appena fuori dalla grande, splendida Birmingham e il traffico di per sé poteva diventare un orribile mostro. «Potremmo metterci mezz'ora in più. E tu non vuoi che rimaniamo imbottigliati nel traffico al buio, vero?» Avrebbe raggiunto livelli di panico tali che tutte noi avremmo artigliato le portiere pur di fuggire.

«Tesoro?» disse mia madre. L'auto arrivò all'uscita dal parcheggio, dove avrebbe dovuto svoltare a destra o sinistra. Se fosse andata a sinistra, non saremmo mai arrivati a casa. Davvero, se fossi stata costretta a sopportare mio padre per più di mezz'ora sarei saltata fuori del finestrino e, con un gesto pietoso, avrei portato Emma con me. Se mamma avesse svoltato a destra il tragitto sarebbe stato breve, avremmo dovuto affrontare un breve attacco di panico e tutto si sarebbe risolto in poco tempo. «Andrò così veloce che non riuscirai nemmeno a vederlo, il cimitero.»

«No. Troppo rischioso.»

«Per favore, papà» dissi, pronta a usare la manipolazione. Dopotutto lo avevo già fatto. «Fallo per me. È il mio compleanno. Non vi chiederò nient'altro, lo prometto, anche se vi siete dimenticati quello dell'anno scorso e non mi avete fatto nemmeno un regalo.»

«Io... io...» Il suo sguardo continuava a guizzare qua e là, scrutando gli alberi vicini alla ricerca di un qualsiasi movimento.

«Per favore. Emma deve andare a letto, altrimenti si trasformerà in Lily della Valle delle Spine.» L'avevamo sopran-

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nominata così molto tempo prima, leggendo un libro di Patrick Carron, perché quando era stanca, si trasformava in una creatura intrattabile che si lasciava dietro una scia di cadaveri.

Em fece una smorfia e mi diede un pugno scherzoso. Io mi strinsi nelle spalle, un gesto universale per dire: be', è vero.

Papà sospirò rumorosamente. «Okay. Okay. Ma, mi raccomando, infrangi la barriera del suono, amore» disse, baciando la mano di mia madre.

«Hai la mia parola.»

I miei genitori si scambiarono un sorriso dolce. Mi sentii quasi in imbarazzo per averlo notato; una volta era sempre così, loro due si scambiavano occhiate del genere di continuo, ma con gli anni i sorrisi complici erano diventati sempre meno frequenti.

«D'accordo, andiamo.» Mamma svoltò a destra e, con mia enorme sorpresa, cercò davvero di infrangere la barriera del suono, violando tutti i limiti di velocità, passando da una corsia all'altra, suonando alle auto troppo lente e lampeggiando perché le dessero strada.

Ero impressionata. Le poche volte che mi aveva dato lezione di guida era sempre stata un fascio di nervi, con il risultato che trasformava in un fascio di nervi anche me. Non eravamo andate lontano e non avevamo osato superare i trenta chilometri all'ora anche fuori del nostro quartiere.

Non smise un attimo di chiacchierare mentre guidava e io controllai l'ora sul cellulare. I minuti scorrevano e ne passarono dieci senza nessun incidente. Ne mancavano ancora venti.

Papà teneva la faccia premuta contro il finestrino, il suo respiro accelerato appannava il vetro. Forse stava ammirando le montagne, le vallate e gli alberi lussureggianti illuminati dai lampioni, invece di cercare mostri.

Sì. Come no.

«Allora, come sono andata?» mi sussurrò Emma.

Le presi la mano e la strinsi. «Sei stata strabiliante.»

Le sue sopracciglia scure si avvicinarono e io capii cosa stava per arrivare. Sospetto. «Giuri?»

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«Giuro. Sei stata fantastica. In confronto a te le altre bambine hanno fatto schifo.»

Em si coprì la bocca per fermare una risatina.

Non potei fare a meno di aggiungere: «Hai presente il ragazzino che ti ha fatto fare la piroetta? Credo sia stato tentato di scaraventarti giù dal palco, in modo che finalmente qualcuno guardasse anche lui. Davvero, tutti gli occhi erano puntati su di te».

La risatina proruppe, ormai inarrestabile. «Quindi stai dicendo che, quando sono inciampata, se ne sono accorti tutti.»

«Sei inciampata? Vuoi dire che non era la coreografia del balletto?»

Lei mi diede un cinque. «Bella risposta.»

«Tesoro» intervenne mamma in tono allarmato. «Perché non metti un po' di musica?»

Mi chinai in avanti e guardai fuori dal parabrezza. Sì, ci stavamo avvicinando al cimitero. Se non altro non c'erano altre auto nelle vicinanze, così nessuno avrebbe assistito all'imminente crisi di nervi di mio padre. Perché sarebbe crollato, era sicuro. Sentivo la tensione crescere nell'aria.

«Niente musica» disse lui. «Devo concentrarmi, restare in allerta. Devo...» Si irrigidì, stringendo il bracciolo del sedile tanto che le nocche sbiancarono.

Trascorse un momento di silenzio, teso e pesante.

Il suo respiro accelerò, diventò sempre più rapido, finché esclamò con voce stridula: «Sono là fuori! Ci attaccheranno!». Afferrò il volante e lo girò bruscamente. «Non li vedi? Stiamo andando dritto verso di loro. Torna indietro! Devi fare inversione di marcia!»

La Tahoe sterzò bruscamente ed Emma gridò. Le afferrai la mano e la strinsi, rifiutandomi di lasciarla andare. Il cuore mi martellava contro le costole, la pelle era coperta da un velo di sudore freddo. Avevo promesso di proteggerla e l'avrei fatto.

«Andrà tutto bene» le dissi.

Tremava così forte da scuotere anche me.

«Tesoro, ascoltami» disse mia madre cercando di calmarlo. «Siamo al sicuro qui dentro. Nessuno può farci del male. Dobbiamo...»

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«No! Se non torniamo indietro ci seguiranno fino a casa!»

Mio padre era completamente fuori di sé e non aveva sentito niente di ciò che mia madre gli aveva detto. «Dobbiamo tornare indietro!» Afferrò di nuovo il volante, lo girò ancora, con maggior forza, e in quel caso l'auto non si limitò a sterzare, ma fece un testacoda.

Continuò a girare come una trottola per quella che mi sembrò un'eternità. Serrai la presa sulle dita di Emma.

«Alice!» urlò lei.

«È tutto okay. È tutto okay» ripetei, come se fosse un mantra. Il mondo ronzava intorno a noi, sfocato... l'auto sbandava... mio padre imprecò... mia madre boccheggiò... l'auto si inclinò, si inclinò...

FERMO IMMAGINE.

Ricordo quando Em e io facevamo quel gioco. Alzavamo al massimo il volume del nostro iPod dock – rock martellante – e ballavamo come se avessimo un attacco epilettico. Poi una di noi urlava fermo immagine e ci bloccavamo di colpo, cercando di non ridere, finché una di noi non urlava la parola magica che ci faceva muovere di nuovo. Balla!

In quel momento avrei voluto poter urlare fermo immagine e rimettere a posto la scena e i protagonisti. Ma la vita non è un gioco, vero? BALLA.

L'auto si staccò dall'asfalto, si capovolse, cadde a terra, rovesciata, poi si ribaltò di nuovo. Il suono del metallo che si accartocciava, del vetro che andava in frantumi e le grida di dolore mi risuonarono nelle orecchie. Fui scaraventata avanti e indietro sul sedile, il mio cervello diventò un frappé alla ciliegia dentro la scatola cranica, mentre un susseguirsi di colpi e urti mi toglieva il fiato.

Quando finalmente ci fermammo ero così intontita e confusa che mi sembrava ci stessimo muovendo ancora. Almeno le urla erano cessate. Sentivo solo un fischio nelle orecchie.

«Mamma? Papà?» Silenzio. Nessuna risposta. «Em?» ancora niente.

Mi guardai intorno. Avevo la vista un po' appannata, qual-

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cosa di caldo e umido mi colava tra le ciglia, ma ci vedevo abbastanza bene.

E ciò che vidi mi distrusse.

Urlai. Mia madre era coperta di tagli, il corpo pieno di sangue. Emma era riversa sul sedile, la testa con un'inclinazione innaturale, la guancia squarciata. No. No, no, no.

«Papà, aiutami. Dobbiamo tirarle fuori!»

Silenzio.

«Papà?» Lo cercai... e mi accorsi che non era più nell'abitacolo. Il parabrezza era in frantumi e lui giaceva immobile su una distesa di frammenti di vetro qualche metro più avanti. C'erano tre uomini in piedi intorno a lui, illuminati dai fari dell'auto.

No, non erano uomini, mi resi conto. Non potevano esserlo. Avevano la pelle cascante e butterata, i vestiti sporchi e laceri. I capelli pendevano in ciocche rade dagli scalpi chiazzati e i loro denti... erano così taglienti mentre... mentre si lanciavano su mio padre e svanivano dentro di lui, per riemergere un secondo dopo e... e... divorarlo.

Mostri.

Cercai di liberarmi, dovevo portare Em in salvo – Em, che non si muoveva e non piangeva – dovevo raggiungere mio padre, aiutarlo. Urtai qualcosa di duro e tagliente con la testa. Avvertii un dolore devastante, ma cercai di resistere mentre le forze mi abbandonavano, la vista si offuscava...

Poi fu notte-notte per Alice e non seppi altro.

Almeno per un po'.

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