Mfl30 lug 2013

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MFL Supplemento al numero odierno di MF/Mercati Finanziari. Estero: BE 6,00 €. Spedizione in abbonamento postale L. 46/2004 art. 1 C. 1 DCB Milano

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Magazine For Living n. 30. LUGLIO 2013. Solo in abbinamento con MF/Mercati Finanziari - IT Euro 4,50 (3,00 + 1,50) BIMESTRALE

HOUSE/ABITARE IN NON CASE, TRASFORMATE IN MAISON D’AUTORE FASHION/NELL’ATELIER ARTISANAL DI MAISON MARTIN MARGIELA ART/SCULTURE ANIMALI NATE DAL RIUTILIZZO DI OGGETTI QUOTIDIANI

BEAUTY

METAMORFOSI ARCHITETTONICHE. ECO ARREDO. E DESIGN SOSTENIBILE. IL CONTEMPORANEO RECUPERA CODICI ARCAICI




A.D. nAtAliA corbettA / fotogrAfiA mArio ciAmpi

“made in italy ”

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Openview

RecycleBeauty

Oggetti di recupero, trasformati in altro d’autore. Non case pronte a diventare maison speciali. Architetture diroccate a cui viene data una nuova anima. Progetti living dallo spiccato sapore eco-solidale. Concetti fashion imbastiti utilizzando un filo green al 100%. Il nuovo numero di MFL -Magazine For Living, progetto editoriale studiato per raccontare un lifestyle di lusso, indaga scandagliando i meandri di una recycle beauty, una bellezza originale nel suo essere unica, reincarnazione di oggetti che hanno affrontato una vita precedente. Che si tratti di vecchie mappe topografiche trasformate in abiti o di motori automobilistici pronti a diventare street bicycle di lusso; che si parli del relitto di un Boeing 747 diventato casa sulle colline di Malibu o di una vecchia torre-cisterna d’acqua, nel cuore di Londra, che oggi è una magione lussuosa. In scena la metamorfosi, il cambiamento. Per scrivere nuove regole di bellezza. Come quelle che animano il portfolio speciale di questo numero: 14 ritratti in black & white per dipingere l’uomo, 14 volti chiamati a interpretare i fashion cult dell’autunno-inverno 2013/14. In una rilettura delle classiche foto da divo hollywoodiano, calate nel contemporaneo. Stefano Roncato


Sommario 8 10 e 11 12 a 17 18 e 19 20 22 24 26 28 30

in Cover 01

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01 - ARTEMIDE. Solium, lampada da terra in acciaio e fiberglass. Design Karim Rashid 02 - FLEXFoRM. Guscio, divanetto rivestito in pelle. Design Antonio Citterio 03 - DESALTo. Exagon, tavolini dalla forma alveolare. Design Tokujin Yoshioka 04 - GALLERIA o. Kidassia chair, sedia creata in collaborazione da Fendi e i fratelli Campana

60 a 63

05. KRISToFFER TEJLGAARD & BENNY JEpSEN. L’esterno della costruzione peoples meeting dome di Allinge, in Danimarca

82 a 87

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Artwork: Giorgio Tentolini

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Evergreen/A new icon for Poltrona Frau di Camilla Gusti Follie/Trasformazione di Cristina Morozzi Atmosfere/Trash di Michele Bagi Collectibles/Rinascere animali di Matteo Zampollo Exhibition/Star-cheology di Francesca Manuzzi Art/Il mondo in una stanza di Francesca Manuzzi Museum/Un museo a pois di Francesca Manuzzi Photography/Melting kitsch di Sasha Carnevali Installazioni/Le mille porte di Seoul di Matteo Zampollo Projects/Rinascita religiosa di Francesca Manuzzi People/Recupero d’artista di Silvia Manzoni Objects/Il Carma su due ruote di Matteo Zampollo Food/Vintage tea time di Francesca Manuzzi Furniture/Piccoli souvenir di luce di Matteo Zampollo Fashion/Mapping around di Francesca Manuzzi Icone/The Green carpet queen di Sasha Carnevali Water tower di Francesca Manuzzi, foto Matt Clayton Natural beauties di Cristina Morozzi, artwork Marta Bandirini e Maria Tentolini Margiela’s handmade di Elisa Rossi, foto Nicolas Valois @ Erichennebert 747 flying house di Francesca Manuzzi, foto Sarah Jane Boyes e David Hertz Recycled di Cristina Morozzi, artwork Giorgio Tentolini Converstable di Matteo Zampollo, foto Martin Gardner @ Spacialimages.com Product/Natural, Paper, Crudi, Intrecci, Multipli di Cristiano Vitali Story teller/Conquistare il mondo di Camilla Gusti



2009

Evergreen

A new icon for Poltrona Frau «Archibald è una nuova tipologia di poltrona, in contrasto con gli archetipi esistenti. Si adatta perfettamente alla comodità soffice ed esclusiva di Poltrona Frau, mentre l’artigianalità nella lavorazione della pelle riflette la ricercatezza e il know-how tradizionali dei mastri guantai. La sua purezza formale esprime eleganza, leggerezza ed eternità». A parlare è Jean-Marie Massaud, designer francese e ideatore di uno dei fiori all’occhiello di Poltrona Frau. Presentata nel 2009, la seduta Archibald è un inno alla meditazione e al relax, tanto da essersi aggiudicata nel 2010 il prestigioso Wallpaper designer awards come miglior poltroncina nella categoria Best domestic design e rinnovando il successo internazionale del sodalizio tra la maison d’arredamento deluxe e il grande progettista che vantava già nel 2007 il Wallpaper designer awards per il suo divano Kennedee, incoronato Best sofa. Il lavoro di Massaud può definirsi una perfetta integrazione tra oggetto e individuo e la nuova icona dello storico brand

d’arredo ne è la riprova. Il design avvolgente studiato dal creativo viene esaltato dal libero gioco di pieghe che la pelle, lavorata con maestria artigianale, crea su tutta la parte interna dello schienale, rendendola mossa e accogliente. La struttura di schienale e sedile è in acciaio con imbottitura in poliuretano espanso ottenuto da stampo ed espanso sagomato con ovatta poliestere nelle zone dove occorre offrire maggiore comfort. Il molleggio è ottenuto con cinghie elastiche. Il basamento si compone di quattro piedi in fusione di alluminio e telaio in tubolare di acciaio con finitura canna di fucile. Il rivestimento della scocca è in Pelle Frau®. Nel pieno rispetto del posizionamento del marchio, Jean-Marie Massaud ha saputo interpretare i valori intrinseci di Poltrona Frau in chiave contemporanea creando forme coerenti con quel senso di tradizione, internazionalità e innovazione che caratterizza la storicità di Poltrona Frau, da sempre proiettata nel futuro del design. Camilla Gusti

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Follie

Trasformazione

Ri-utilizzo e re-impostazione di un pensiero, per modellare una bellezza primitiva e raffinata Il nuovo arredamento sperimenta possibilità impreviste con un’attitude ironica e giocherellona Due imbuti di rame ed ecco fatta Bacuri, una efficace e inedita lampada da tavolo (nella foto a sinistra). Si tratta una delle ultime creazioni di Sergio J. Matos, 34enne designer brasiliano, appassionato di cultura autoctona, soprattutto di quella della zona del Mato Grosso di cui è originario. Trasformazione e recupero per i creativi brasiliani, più che da una necessità di sopravvivenza dato che il paese è uno dei pochi in crescita, dipendono dalla loro capacità di guardare le cose da un altro punto di vista. Fernando e Humberto Campana, designer paulisti di massima notorietà internazionale, dicono di sentirsi come bambini, perché abitano in un paese ancora giovane. Sono dei bambini, con lo stupore nello sguardo, tuttora in grado di scorgere nelle povere cose quotidiane possibilità impreviste. Lo stupore pare essere una qualità diffusa tra la nuova generazione di designer brasiliani che, invece di guardare alla vecchia Europa, cercano fonti d’ispirazione nel proprio paese, affidandosi a una capacità, quasi sciamanica, di trasformazione. E come per incanto, da un fare progettuale che ha le caratteristiche del bricolage, utilizzando le mani e l’ingegno, libero da pregiudizi estetici, ecco nascere oggetti impensati, dotati di una singolare bellezza. Primitiva, ma raffinata e sempre sorridente. Quasi che il design, più che un mestiere, sia un gioco.

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Martino Gamper

Régis-R

Si fa chiamare il re della plastica. A Parigi Régis-R si è fatto conoscere allestendo nel Marais il bar di Csao-Compagnie du Senegal et de l’Afrique du ovest. Raccoglie oggetti quotidiani di plastica, li assembla, li ricicla e li trasforma, con risultati spesso sorprendenti. A Milano durante il Salone del mobile è stato presentato con una esposizione personale nel 2009, «Piuttosto crepare», ricca di sorprese. Al Centre Pompidou nel 2011 ha allestito «La Grotte de creation», una sorta di laboratorio pieno di scarti policromi di plastica pensato per stimolare i visitatori a manipolare i materiali plastici. Esuberante, entusiasta, raccoglie plastiche eterogenee e le trasforma in caverne di Ali Babà, o in oggetti decorativi. Il suo repertorio è vario stilisticamente. Varia dal ready made alla creazione di oggetti inediti, mediante assemblaggi di scarti di plastica eterogenea. Rinnova il suo repertorio, ma resta fedele alle materie plastiche, regalandogli possibilità inaspettate. Dai suoi assemblaggi nascono lampade che hanno il fascino di pezzi déco o di creazioni Tiffany (nella foto a sinistra).

L’incontro sul tema della Metamorfosi tra Moroso e Martino Gamper era predestinato. Martino vinse nel 2011 la prima edizione del premio Moroso award for contemporary art e l’azienda l’ha voluto mettere alla prova, invitandolo in azienda. Si è infilato il grembiale blù e si è messo a lavorare a fianco degli operai, integrandosi alla perfezione, perché, come sostiene Patrizia Moroso: «Martino è una persona felice di fare quello che fa, con le mani, senza disegno». Si è fatto dare gli schiumati e li ha radunati in una stanza. Li ha tagliati a metà e poi riassemblati, scompigliando le carte, per creare otto ibridi (nella foto a sinistra) che ha rivestito con patchowrk di scarti tessili per restituire nuova vita a tessuti abbandonati nei magazzini. Di ciascun ibrido ha creato la parte centrale che funziona da ammortizzatore tra le due diversità. Martino definisce queste Metamorfosi: «Più che una creazione, una traduzione». E ammette di essersi divertito a costruire degli incontri/scontri tra personalità diverse, mettendo in relazione differenti linguaggi progettuali.

Massimiliano Adami

Massimiliano Adami nel panorama della nuova creatività italiana è una felice eccezione: è il designer che, per il suo fare artigianale al pari di un alchimista, assomiglia ai colleghi olandesi, tedeschi e inglesi, nuovi artigiani con le mani in pasta, che hanno scelto di autoprodurre gli oggetti improbabili che l’industria non ritiene convenienti. Il designer crea pezzi scultura affogando oggetti quotidiani nella gommapiuma che poi taglia a metà, lasciando in bella vista le improbabili inclusioni. Il suo ultimo progetto ruota sempre attorno alla gomma piuma che si colora di inedite sfumature di colore per diventare sagoma di arredi ispirati al gusto barocco (nella foto a sinistra). Alla base di queste nuove sorprendenti creazioni, c’è un complesso processo, quasi alchemico, per dare alla gommapiuma i colori dell’arcobaleno e una consistenza da goloso marzapane. a cura di Cristina Morozzi



Atmosfere

Trash «Una testimonianza dei fatti accaduti in Italia e nel mondo; gli avvenimenti più importanti, un contrasto, un paradosso, tra il tutto e il niente quotidiano, il vivere silenzioso comune a noi tutti». Con queste parole l’artista argentino Guiller Montalbano ha spiegato la sua installazione, 365, battezzata negli spazi della galleria Tallulah studio di Milano. Un tableaux silenzioso e gigante chiamato a raccontare un anno di spazzatura. Perché per 365 giorni il creativo sudamericano ha raccolto i suoi rifiuti non organici giornalieri, conservandoli minuziosamente in teche di legno di 30 centimetri, una sorta di diario intimo composto tra il 31 marzo 2011 e il 28 marzo 2012. «Ho iniziato 365 come una sfida contro me stesso e allo stesso tempo la possibilità di comunicare qualcosa di inspiegabile che avevo nella testa, la volontà di provare a fare un manifesto intimo», ha spiegato Guiller Montalbano, «per creare quest'opera ho raccolto i rifiuti di ogni giorno e li ho disposti in scatole quadrate di legno di 30 cm, costruite da me e con in fondo incollata la prima pagina de la Repubblica a testimoniare il giorno e le cose che succedevano nel mondo. Mi sono sentito strumento di 365, un operaio al lavoro di qualcun altro, di uno sconosciuto spettatore». A lato, l'opera 365 – GUILLERMONTALBANO (2011-2012) in scena alla Galleria Tallullah studio di Milano fino al 31 luglio 2013

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Atmosfere L'uscita finale della collezione The Horn of Plenty (Cornucopia) portata sotto i riflettori da Alexander McQueen a Parigi nel marzo 2009

Una montagna di detriti. Un accumulo gigante colato di pece, posato su un lagno specchiato percorso da venature profonde. Monumento a una carriera che nel marzo del 2009 festeggiava il suo 25° compleanno. Erano vecchie sedie, pannelli di compensato, ninnoli, fregi barocchi e luci, cornici arzigogolate, piramidi, copertoni e ombrelli vittoriani: un mucchio gigantesco composto dai resti degli allestimenti di show precedenti. Alexander McQueen aveva scelto questo setting per raccontare la sua fatica creativa targata autunno-inverno 2009/10. E la sua fatica creativa si chiamava The Horn of Plenty, Cornucopia, a testimoniare la decadenza dell'abbondanza. Raccontava un percorso semplice, di autocitazionismo: rivisitare l’archivio costruito in 15 anni di lavoro e riutilizzarlo in una nuova collezione dal sapore romanticamente dark, elegante e dal piglio architettonico. Il percorso concettual-estetico rifletteva il sentire di McQueen nei confronti del fashion system e del suo modo di obbligare i designer a essere geni creativi in continuazione, relegando ogni collezione nel cestino della spazzatura della storia non appena effettuata la vendita. La stagione successiva sarebba arrivata la collezione della rinascita, ambientata in una fiabesca Atlantide. Prima del tragico gesto compiuto nel febbraio del 2010.

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Schrottarmee - Pyramids people, l'esercito di uomini-spazzatura creati dall'artista tedesco HA Schult (Hans-J端rgen Schult) ed esposti nel maggio 2002 sotto le piramidi di Giza. Photo courtesy: Thomas Hoepker


Atmosfere

Un esercito faraonico schierato all'ombra delle piramidi di Giza, in Egitto. Una distesa di cento uomini-spazzatura che ricordano il cinese Esercito di terracotta. A dare i natalia a questa installazione sui generis, intitolata Schrottarmee (Trash people), è stato l'artista tedesco HA Schult, alias HansJürgen Schult, che nel maggio del 2002 invase lo storico monumento egiziano con le sue truppe multicolor. In realtà il suo lavoro in giro per il mondo è iniziato nel 1996 e da allora le sue statue a grandezza naturale, realizzate con vecchie lattine, rifiuti elettrici e altra spazzatura metallica, hanno fatto il giro del mondo. Sbarcando a Mosca, sulla Piazza Rossa (1999), in Cina sulla Grande Muraglia (2001) ma anche in Antartide (2008). Senza considerare le numerose piazze delle capitali europee prese d'assalto da questo esercito surreale. «Con queste opere-performance ho voluto portare all'attenzione del mondo la guerra della spazzatura», ha spiegato il creativo teutonico, «che è una delle più grandi battiglie che l'umanità dovra affrontare di qui ai prossimi anni, per cercare di difendersi dalla valanga di rifiuti che vuole colonizzare il nostro pianeta». Michele Bagi

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Collectibles

Rinascere animali Oggetti di recupero ed elementi trash a cui è stata data una seconda vita, dotata di zampe e ali. I più diversi materiali riciclati diventano uno zoo di animali selvaggi. Che animano una giungla urbana creata da artisti differenti, ai quattro angoli del globo Uno zoo urbano. Nato dall’assemblaggio di materiali inaspettati, plastici, ruvidi. In un mondo che appare sordo alle grida di aiuto dell’ambiente, soffocato dai rifiuti, sono proprio le forme animali a nascere dagli scarti cittadini. È una fauna creata ex novo nei quattro angoli del globo, che anima una giungla post industriale a New York come a Tokyo. Sono i cavalli di Sayaka Ganz, artista giapponese che opera con materiali di riciclo. Plastica, preferibilmente. Mossa da un animo ecologico, ha come motto: «If we value our resources we will waste less». E la sua valutazione sul materiale porta a una serie di forme dai movimenti armonici, incredibilmente leggere. Letteralmente in aria, invece, le opere a grandezza naturale di Barbara Franc: partendo da semplice fil di ferro, modellato con sapienza, è passata col tempo a unire latta e altri materiali, per creare nuove forme, specializzandosi, in ultimo, con volatili di piccole dimensioni. Sono costumi di rafia che si muovono frusciando, i maxi cavalli che la mente di Nick Cave ha creato a partire dal 1993 e che ora sono andati in scena per l’installazione temporanea «Heard NY». Ad animare i quadrupedi di ultima generazione, ballerini coraggiosi, che hanno fatto vivere i pesanti costumi all’interno del Grand Central terminal di New York. Ugualmente colorati, ma molto più giocosi per natura, gli animali di Robert Bradford. Giocosi, perché la materia prima sono proprio i giocattoli che Bradford incolla come un mosaico. Su base di legno, l’artista inglese incolla e incastra i toys più disparati, dalle pistole ad acqua ai personaggi snodabili. Ma guai a non prenderlo sul serio: «Tutti noi manteniamo dei lati infantili, ma la mia arte è molto seria. Un collezionista delle mie opere mi ha detto che la differenza tra un uomo e un bambino sta nella dimensione dei loro giocattoli». E se tra i giocattoli degli adulti si possono contare anche le automobili, allora il coreano Yong Ho Ji utilizza anche lui parti di giocattoli. I suoi lavori a grandezza naturale di fauna reale o immaginata sono impressionanti. Come impressionanti i tagli e la tecnica con cui lavora i copertoni usati. Dal ruggito dei motori a quello degli animali. Matteo Zampollo

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A sinistra, due creazioni di Sayaka Ganz (photo Valentina Ragozzino). In basso da sinistra, l’opera A pair of Long-tailed Tits di Barbara Franc, i cavalli creati da Nick Cave per il progetto «Heard NY» (photo Travis Magee, courtesy Creative time), Dark sniff di Robert Bradford e Bear 1 di Yong Ho Ji


Exhibition

Star-cheology artisti emergenti internazionali. Nella collettiva appaiono così, i monumenti non autorizzati della vecchia Hollywood in No More Stars di Rä di Martino, le statue anomale di un paesaggio tra le rocce del Perù in Monuments di Pablo Hare o i video Education di Amalia Pica, che mostrano l’ubiquità delle statue equestri in ogni Pease worldwide. E poi, i graffiti presi in prestito dai muri di Lima da José Carlos Martinat, le installazioni audio Cross section of a revolution di Haroon Mirza, che pongono al centro del percorso i rifiuti tecnologici come audiocassette, tastiere per pc e cd, vittime per eccellenza dell’uso-disuso rapido, dell’era internet in continua evoluzione. Mentre il declino dell’industria cinematografica peruviana viene messo in luce da Archaeology as fiction di Eliana Otta. In una sorta di excursus in cui il riciclo diventa mezzo per creare arte, senza coinvolgere plastica e lattine. Francesca Manuzzi

Una delle opere di Pablo Hare esposta a «Project Space: Ruins in Reverse»

George Lucas vs Steven Spielberg. Un disco volante sotto metri cubi di sabbia e un T-rex che tenta di scattare contro la preda. Poi, ammassi di inerti, selezionati e votati a opera d’arte, appaiono nelle sale della Tate modern di Londra, come prova di una nuova archeologia. Architettata con prodotti d’alta ingegneria umana, abbandonati perché la saga continua e si passa alla tecnologia successiva. Ufo e dinosauri non sono più grandi sculture da filmare negli studios, ma disegni che diventano animati grazie alla computer grafica di Maya o 3Ds Max. La televisione con il tubo catodico si trasforma in mobile su cui appoggiare i fiori di fianco a un gigantesco schermo a Led. Ogni cosa ha il suo tempo, c’è poco da obiettare, ma il progetto «Project Space: Ruins in Reverse», curato da Flavia Frigeri della Tate modern in partnership con Sharon Lerner del Museo de Arte de Lima, ricicla e fa diventare nuove star e forme d’arte vecchi fasti dimenticati, grazie al lavoro di sei

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poltronafrau.com

Ginger Ginger, designed by Roberto Lazzeroni design

L’intelligenza delle mani. La bellezza, quella vera, ha anche un’anima. Noi di Poltrona Frau la pensiamo così. Ecco perché, da sempre, ci affidiamo alle mani esperte dei nostri artigiani, che seguono le principali fasi di lavorazione e scelgono i materiali più pregiati. Solo così possiamo offrirvi ogni volta la migliore qualità italiana.


Art

Il mondo in una stanza È un moderno Michelangelo che gioca con la calce, un’ape operaia, un creatore di giocattoli giganti. Ma anche l’Hänsel e Gretel del ready-made, che invece di costruire case di marzapane, le edifica come farebbe un panettiere, assemblando sfilatini croccanti dal cuore morbido. Così Urs Fischer sbarca al Moca| The museum of contemporary art dove rimarrà fino ad agosto inoltrato, spalmandosi sugli 11 mila metri quadrati d’esposizione, sotto l’attenta cura di madame Jessica Morgan, responsabile dell’area internazionale della Tate Modern di Londra. Fischer non è estraneo agli italiani, che già nel 2011 l’avevano ammirato alla Biennale di Venezia e lo scorso anno a Palazzo Grassi, ma negli Usa porta un paniere ampio, un portfolio da fiore all’occhiello. Tra precipitazioni di 1.500 gocce di gesso e vernice in resina, sculture del Giambologna in paraffina che colano e si deperiscono durante lo scorrere della mostra; poi esseri e oggetti a perdita d’occhio, coniati in argilla cruda, come in una Pompei artificiale. L’artista svizzero, classe 1973, porta a

Due opere di Urs Fischer al Moca di Los Angeles. Photo Stefan Altenburger

Los Angeles la sua prima retrospettiva museale completa, in una varietà d’opere che mettono in luce l’ampia gamma di supporti e tecniche utilizzate per esprimere la caducità dell’arte in concomitanza con un ritratto personale della condizione umana attuale. Il tutto distribuito tra gli spazi del Moca e della Geffen contemporary, portando sotto i riflettori la predilezione di Fischer per il piano fantastico, in un mash-up di pop, dada e surrealismo. Il coup de théâtre lo architettano il macabro, il sesso riletto nella sua accezione glamour, la violenza, le fratture, il collage in una mescola potentissima con giganti orsacchiotti, sogni distrutti figurati con un letto ricoperto di macerie e lumière sciolti come gli oggetti dei quadri di Salvador Dalì. Il mondo dell’artista è in continua mutazione, prende per mano lo spettatore e lo conduce nel rapporto conflittuale di repulsione e attrazione verso i suoi oggetti, che stimolano la curiosità e la repellono. Tra action figure e rovine partenopee. Francesca Manuzzi


p. Paola Navone - ph. Andrea Ferrari

LE EMOZIONI NON VANNO RACCONTATE, VANNO VISSUTE.

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L’estensione dello Städel museum di Frankfurt am Main - Photo courtesy Norbert Miguletz

Museum

Un museo a pois

Un bunker d’arte, un green building votato alla sperimentazione museale ospitato in un’area di 27 mila metri cubi. Sotterraneo e illuminato da 195 lucernai rotondi come tanti piccoli dischi volanti sbarcati sul territorio di Frankfurt am Main. Questo l’abbecedario dell’estensione dello Städel museum, celebre museo nato nel 1878 nel cuore della città tedesca, progettato dallo studio teutonico Schneider+Schumacher, che nel 2008 ha vinto il bando di concorso della municipalità, sbaragliando studi d’architettura d’alto voltaggio. Quattromila metri quadrati non erano sufficienti per la città che vanta un elevato fervore artistico e di design. Ne occorrevano altri 3 mila, ma celati sotto una sorta di collinetta di cemento armato piantumata e trasformata in prato. Un parco a pois, grazie alla fitta rete di finestre che lo puntellano e che hanno un diametro gradiente che varia dall’esterno verso il centro della protrusione sferica, una sorta di gigantesco bozzo della crosta terrestre, dal metro e mezzo

fino a 2,5. La matrice che diventa essa stessa un’opera di land art ha permesso l’ampliamento del museo senza precluderne l’attività, oltre a diventare luogo di happening e installazioni all’aperto. La struttura è dotata di un sistema integrato di schermatura fotosensibile che permette al sole di irradiare le opere, limitando i danni della luce diretta, e illuminando il giardino dal tramonto fino al mattino succesivo con luci al led. Dodici colonne dai 6 agli 8 metri di altezza supportano la spessa copertura, che mantiene freschi gli spazi nei mesi caldi senza particolari impianti di climatizzazione, contraltare di uno speciale sistema geotermico di piloni che corrono fino al centro della terra e riscaldano gli ambienti. L’estensione è collegata al corpo centrale dello Städel grazie a una scala costruita nel foyer dello spazio originale, in modo da cabotare il visitatore verso il building sottoterra e creare un continuum espositivo. Francesca Manuzzi


CINQUETERRE designed by Vico Magistretti. Photography: Marcus Gaab


Photography

Melting kitsch L’hanno chiamato l’Andy Warhol marocchino per il suo innato istinto per l’esegesi pop: Hassan Hajajj si divide tra Londra e Marrakech, dove fotografa musicisti, uomini che fanno i danzatori del ventre, incantatori di serpenti, donne e ragazze nascoste dal niqab. Sono sconosciuti e amici che Hassan, un passato da stylist e interior designer, adorna in costumi da lui stesso ideati, e che ritrae poi su sfondi approntati per strada o nei mercati. Le stampe, che misurano attorno al metro, vengono poi montate all’interno di cornici eclettiche, composte da copertoni colorati con vernici viniliche, zerbini di plastica, griglie di legno che contengono lattine di bibite o scatolette di olive. «Ogni scatto ha una sua fonte d’ispirazione», ha raccontato l’artista 52enne. «Può nascere dal modello, dall’abito che ho voglia di mettergli addosso, da una tela che voglio usare in quella location. Ad esempio volevo ritrarre un gruppo di donne che indossavano velo e djellaba, ma per farlo ho usato stoffe di moda in Europa: camouflage, animalier, pois. Le ho affidate a un sarto e con stampe che imitano i brand più conosciuti (e contraffatti) ho realizzato le babucce e i niqab». Al momento rappresentato in Italia dalla galleria fiorentina Aria con la mostra «VogueArabe», Hassan ha vissuto fino all’adolescenza a Larache e ha poi raggiunto, con il resto della famiglia, il padre già emigrato in Inghilterra. Dell’infanzia ricorda le occasioni in cui la madre agghindava lui e i fratelli con i vestiti che il papà mandava dall’estero, li profumava, li pettinava e li portava dal fotografo locale per un ritratto di famiglia. Altre volte i ritratti erano scattati da artisti di strada che si trascinavano dietro dei cavallini di plastica e mettevano in testa ai bambini un capello da cowboy. Il gusto per il kitsch, genuino e ironico allo stesso tempo, gli scorre nel sangue e sa usarlo, attraverso i brand più noti in ogni angolo del pianeta, per attrarre l’attenzione dello spettatore e portarlo dentro la foto. «Ritraggo delle mie amiche, donne marocchine che potrebbero appartenere a tutto il mondo arabo, donne al tempo stesso fiere e reali: persone che vogliono mostrare la nostra cultura, l’orgoglio, la forza, i nostri abiti tradizionali, lo stile urban, il nostro swagger», ha concluso, «ho usato i riferimenti Louis Vuitton e Coca-Cola per aggiungere un pizzico di gusto, per dimostrare che alla fine siamo tutti uguali». Sasha Carnevali Nelle immagini, alcune opere di Hassan Hajajj

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L’installazione 千 doors di Choi Jeong-HWa

Installazioni

Le mille porte di Seoul «Nel 1989 non sapevo dipingere, ma mi piaceva camminare. Camminando, ho notato come le persone normali costruissero le cose meglio di quanto facevano gli artisti o i professionisti. Lo facevano in modo molto più naturale. Così presi una decisione: non volevo diventare un artista, piuttosto una persona ordinaria che pensa come un artista». Inizia così, tra le strade di Seoul, una carriera che invece di artistico ha più di un aspetto. Choi Jeong-Hwa, uno dei nomi simbolo della generazione artistica orientale, ha sempre utilizzato materiali comuni per costruire opere inaspettate. Quando dice che non sapeva dipingere, in realtà, si sottovaluta, avendo già a fine anni 80 ricevuto premi per i suoi lavori. Ma da allora si è dedicato completamente alle installazioni e al riciclo. «Elevating dumpster diving to high art», come definiscono i suoi lavori i critici. Carica di forti rimandi pop,

la sua arte è in realtà una riflessione ben più profonda, che vive sul reale utilizzo delle cose e sulla seconda vita che queste possono avere. E spesso capita di trovarla per strada, dietro un angolo, vista la sua avversione per i musei più classici, per le categorie settoriali che l’arte ordinaria tende ad avere. Così capita di passeggiare come lui stesso faceva e di scontrarsi con un palazzo di dieci piani rivestito di porte. Di mille porte per l’esattezza. Tutte recuperate e reinventate dallo stesso Jeong-Hwa. La struttura imperiosa, battezzata semplicemente 千 doors, mille porte, appunto, è frutto di un lavoro di ricerca e riciclo immenso. E che ormai da anni si staglia nel panorama della capitale coreana, come una sorta di palazzo pixelato, rivestito com’è di forme e colori diversi, recuperate in tantissimi anni di ricerca. Matteo Zampollo

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photo: www.studioventuno.eu

www.ceramicaflaminia.it Mono’Noke’/Patrick Norguet, Compono System/Cappellini e Talarico


Il santuario di Meritxell ricreato da Ricardo Bofill Taller arquitectura

Projects

Rinascita religiosa Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Secondo questo principio, sui Pirenei, nei pressi di Andorra, è avvenuto il miracolo che lo prova. Una volta che il santuario di Meritxell, di origine romanica, fu distrutto da un incendio nel 1972, salvo abside e altare, lo studio di Ricardo Bofill ne ha fatto un luogo sacro dell’architettura moderna. Ma senza seguire un approccio archeologico, andando a riposizionare mattone su mattone, emulandone i vecchi fasti, al contrario edificando un nuovo luogo, reinterpretando i principi teoretici dell’architettura neoclassica, senza trascurare cenni catalano-mudejar. Pavimenti e facciate seguono

uno schema simbolico-numerico, d’armonia geometrica, à la Leon Battista Alberti e Palladio, facendo un uso neopitagorico di pilastri squadrati e cerchi. Gli archi si rincorrono sul viadotto, gli escamotage decorativi stressano l’interdipendenza tra gli elementi, ancora simbolici, come le giganti gradinate, gli anfiteatri, la torre, la fontana zampillante, i sentieri nella foresta. «Ogni luogo deve essere trattato come una casa», ha raccontato Bofill. E così accade. Un flash di luce invade la navata principale, con elementi in bianco e nero e un gioco di specchi che illude ampiezza infinita. Francesca Manuzzi

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design CRS ALBED

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People

Recupero d’artista «La bellezza non è il motivo del mio lavoro, è il traguardo da raggiungere». Questa la filosofia dell’olandese Piet Hein Eek. Che crea partendo dalla materia e che, nel suo atelier, non butta mai nulla L’importante non è il bello. Con un sorriso disarmante, Piet Hein Eek, designer olandese tra i più richiesti del momento, ribalta, con qualche rapido postulato, l’ordine delle idee che oggi circolano sull’estetica degli oggetti che fanno parte del nostro universo quotidiano. Ma come? Da anni viene spiegato che bere in una bella tazza esalta il piacere del gusto e che un computer dall’estetica raffinata provoca emozioni mai raggiunte con strumenti informatici dall’aspetto più banale? «Tutti lo dicono, quindi qualcosa di vero ci sarà», ha spiegato con il suo sorriso un po’ sognante stampato in volto, come se una parte della sua attenzione fosse catturata da qualcosa di lontano e indefinibile. «Però non è la bellezza che motiva il mio lavoro, e questa non rappresenta per me un traguardo da raggiungere. Quando si mangia bene, non credo che il piatto sia poi così importante. Un oggetto per me deve associare semplicità e funziona-

lità, non essere complicato perché alla fine tutto quello che è troppo elaborato finisce con l’essere inutilmente costoso. E causare degli sprechi. La difficoltà del mio lavoro sta proprio qui: rendere speciale un oggetto semplice». Quando si osservano le sue creazioni, si capisce meglio dove vuole arrivare. Sedie, tavoli e armadi dalle geometrie precise, tagliati ad angolo retto, sprigionano una sensazione di solidità senza tempo e un approccio integrale con la materia, che diventa alla fine l’indiscussa protagonista dell’opera. «Fare un oggetto semplice è forse anche più difficile oggi che un tempo. C’è una corsa verso l’originalità, verso l’estetica perfetta, ma non mi riconosco in questo movimento, per me il processo creativo è più importante del risultato e va controllato dall’inizio alla fine perché è l’unico modo, secondo me, di ottenere un buon risultato. Accettando anche i possibili sbagli che possono intervenire. In questo mi sen-

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Piet Hein Eek, nella foto a sinistra, è stato invitato da Ruinart a realizzare un oggetto ispirato all’universo della maison di champagne. Hein Eek ha disegnato uno scrigno in un legno patinato e vissuto. In parallelo ha anche creato una monumentale opera d’arte: un arco di 5 metri di altezza e 7 metri di larghezza (nella foto a lato) formato da moduli di legno che riprendono i trapezi delle scatole classiche, decorati da 224 bottiglie

to diverso dagli altri designer: io non cerco a tutti i costi di raggiungere il successo». Con una predilezione per il legno («Lo apprezzo perché ne conosco i pregi, ma tutti i materiali mi piacciono... ognuno ha le sue qualità e diventa un linguaggio per le storie che l’oggetto racconta») nel suo atelier vige un vocabolario legato al riutilizzo di materiali di scarto. «Sono attento alle tematiche dell’ambiente senza che questo si traduca in atti militanti. Il mio più recente progetto di design può sembrare stravagante: utilizzare gli scarti di legni tagliati in listarelle di 40 cm per 40. Nel mio atelier non viene gettato quesi niente e questa è una sfida che mi piace e trovo divertente. Il riciclo è importante. Mi sono sempre sentito a disagio all’idea di buttar via qualcosa. Credo che dovremmo cambiare il nostro modo di consumare per evitare gli sprechi. Rivedere il lusso sotto altre forme». Imprevedibile e sognatore, ha costruito il suo regno a Eindho-

ven, nell’ex stabilimento industriale della Philips, diventato un vero spazio di vita grazie a un negozio, a uno spazio multiculturale per mostre, spettacoli e concerti. «Io e il mio socio, Nob Ruijgrok, volevamo un luogo nel quale sperimentare a 360 gradi. Ci è venuta l’idea di aprire le porte ad alcuni giovani artisti, di organizzare concerti di musica, soprattutto classica perché questa mi accompagna sempre, soprattutto quella cantata, e durante le fasi creative è una presenza ininterrotta. Questo spazio mi ispira molto». E ben presto è nato anche un ristorante, con caratteristiche che rispecchiano la sua filosofia, pronta ad abbracciare tutti i sensi. «Nel nostro ristorante i piatti nascono dall’ingrediente, un po’ come le mie opere. E capita di mangiare accanto a oggetti e decori d’artista che cambiano in permanenza. Suggerisce insomma nuovi percorsi». Silvia Manzoni


Una bicicletta di Project Carma

Objects

Il Carma su due ruote La somma è zero. Pareggiare i chilometri corsi col motore con quelli sudati con la forza delle gambe. Il progetto, che strizza l’occhio all’ecologia e mette d’accordo tutti i fan delle due ruote ad ogni costo, si chiama Project Carma. Come quella entità che invochiamo quando qualcosa va male, per sperare in un futuro più roseo, e pareggiare la iella. L’idea è facile, a dirsi. Prendere il telaio della macchina e lavorarlo per creare una bici. In una sorta di ideale redenzione agli occhi della discussione che tocca i punti nevralgici del vivere urbano, l’ecologia e la mobilità. Soprattutto in una città come Lisbona, particolarmente colpita e di conseguenza sensibile verso certi aspetti della quotidianità. A realizzare il progetto nella capitale portoghese la mente ipercreativa della filiale locale di Leo Burnett, una delle firme più importanti al mondo in campo pubblicitario. Assieme al B-Bicycle culture magazine, dedicato alla cultura del muoversi su due ruote, ha contattato Rcicla bicicletas per la realizzazione fisica del riciclo. Che si è occupata del lavoro più sporco: tranciare, saldare, fondere. Con uno studio estetico dal carattere forte, l’officina ha tro-

vato tutti (o quasi) i componenti delle biciclette tra i cumuli in disuso degli sfasciacarrozze. E, dopo un lavoro finissimo di pulitura, ha presentato ai committenti delle piccole opere d’arte di artigianato. Oggi le biciclette sono disponibili nelle principali città portoghesi, a disposizione di tutti coloro che si sentono in debito con l’ambiente e vogliono sistemarsi il karma. Oltre alle due ruote, è stata ideata anche una serie di accessori, anch’essi creati con pezzi di auto, reinventati in una collezione completa e utilissima per le pedalate quotidiane, in collaborazione con Rasto. Il tutto è stato battezzato con un evento in grande stile a Lisbona. Che, dai racconti dei presenti, si è aperto con l’aria di quello che doveva essere un mezzo fallimento: allestimenti in ritardo, impianto musicale non funzionante e una serie infinita di problemi. Tutti improvvisamente risolti quando i partecipanti hanno iniziato a pedalare liberamente con i modelli di prova. Se fosse vero, sarebbe la prova tangibile del potere del karma. Arrivato di corsa su due ruote. Matteo Zampollo

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Il Paper & tea store di Charlottenburg a Berlino. Photo Ludger Paffrath

Food

Vintage tea time

Bianchi, gialli, verdi, oolong, neri, aromatizzati. Comunque emblema di cerimonia, in buona parte delle culture, a tratti bourgeois. La bevanda per eccellenza della Regina inglese e delle signore bene del globo, da gustare assieme a una buona dose di chiacchiericcio. Poi, ridotta a bustine di Twinings pseudo-insapore. Nella storia Occidentale si parla di tè da supermarket o tea shop quasi farmacia, in cui il cliente è servito e riverito. Paper & tea store nasce con l’idea di rompere lo schema. Jens de Gruyter, il canadese nipote d’arte ideatore di P & T, dopo aver viaggiato in lungo e in largo l’Asia, ha deciso di racchiudere il suo sapere e la possibilità di self discovery tra i muri bianchi dello store in Bleibtreustrasse a Berlino, progettato da Fabian von Ferrari. Nasce per dissacrare e riportare il five o’clock tea a un momento conviviale profondo. Una sorta di mix tra il negozio tradizionale di tè e un luogo educativo, un museo in vendita, che dà la possibilità al consumatore di toccare con mano, degustare in autonomia le più disparate varietà di

questa bevanda. Del resto chi pensa che una bustina differente o il brand siano gli unici criteri a modificare il gusto di un tè, si sbagliano. Non solo esiste un’ampissima varietà di foglie, ma il taste può variare grazie a forma e dimensione della teiera, così come dalla temperatura dell’acqua con cui viene infuso. Nello store tutto è heritage, recuperato dal passato: dai teapot originali e provenienti da tutto il mondo fino alle gabbie reimpiegate per racchiudere le luci che illuminano gli spazi. Il concept store espone i 70 differenti tipi di tè provenienti da sette Paesi con sample di vetro rotondi posti su grossi blocchi a isola di legno, con una vera e propria carta d’identità che ne specifica made in, istruzioni per l’uso, background ed essenza. Nello store anche una Gongfu tasting station, dalla tradizione cinese, dedicata ad aiutare i clienti a «concentrarsi su sapore e aroma del tè in piccoli sorsi», ha raccontato de Gruyter. Che per questo motivo ne beve fino a 40 tazze al giorno. Francesca Manuzzi

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La Capsule lamp dello studio Design systems ltd

Furniture

Piccoli souvenir di luce

Di quelle palline trasparenti, prese sul lungomare grazie a un nonno che ci viziava, ne abbiamo pieni i ricordi. L’infanzia di chiunque ha provato un brivido lungo la schiena a scoprire cosa nascondeva quel mini-contenitore di plastica trasparente. E oggi, quel piccolo brivido è diventato elemento di decoro. Il merito va alla Design systems ltd, uno dei nomi cult del design made in Hong Kong, che ha realizzato la Capsule lamp. Si presenta come un piccolo sogno per i più piccoli: una lampada a sospensione, circondata da fini supporti a cui sono appese delle palline trasparenti. Proprio gli stessi contenitori dei giocattoli, amati dai più piccoli. Tutto può essere personalizzato: dal numero di decorazioni al tipo di oggetto da inserirci. Pezzi di vita, ricordi, frammenti importanti, souvenir o semplici micro-oggetti: come delle piccole cornici, messe in evidenza dall’illuminazione, le capsule si prestano a contenere ogni (piccola) idea che può saltare in mente. La struttura è

100% flessibile e trasformabile. Il legno chiaro è stato scelto apposta per mettere in risalto i colori degli oggetti tutt’attorno alle luci, trasformando la lampada in una sorta di albero natalizio da decorare. Creato inizialmente per il marchio di abbigliamento per bambini Actif wear, il lavoro dello studio di Hong Kong ci ha messo poco a incontrare i favori del pubblico e ottenere in fretta una produzione su larga scala. Tutto merito della creatività targata Design systems ltd, l’azienda creatrice con sede a Hong Kong e un distaccamento a Shenzen, rappresenta una delle novità nel campo del design e dell’architettura in Estremo Oriente. Fondata nel 1999, ha già conquistato diversi riconoscimenti sul mercato asiatico, forte anche del carattere del suo fondatore, Lam Wai Ming, inserito dall’autorevole China international design & art fair tra i i 100 interior designer orientali da tenere d’occhio. Matteo Zampollo

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Quattro abiti topografici creati da Elisabeth Lecourt

Fashion

Mapping around Come bambole di carta, quelle con cui giocavano le bambine negli anni 60. Ma i loro vestitini applicabili ritraggono i viaggi pionieristici di esploratori doc. La carta delle rotte di Sir Francis Drake verso Santo Domingo, una porzione di Parigi, una mappa militare di Bacon in Virginia, una veduta a volo d’uccello di Gerusalemme. L’opera della franco-londinese Elisabeth Lecourt «Les robes géographiques» altro non è che una mappa topografica di veri viaggi in contrapposizione al viaggio interiore, più simile al feeling delle regate in solitaria degli skipper Giovanni Soldini o del giovane Andrea Fantini alle prese con la Jaques Vabre. La Lecourt, sulla scia del lavoro di Louise Bougeois e Julio Cortazar, esegue uno studio attento del corpo, della don-

na, in particolare di se stessa, come individuo sradicato e nostalgico. E crea piccoli capolavori cartacei, che celano un tassello di storia e di vita, nostalgico, ma dai tratti baby. Creando un armadio completo di jumpsuit, camicie, petite robe e giacchine. Che piega dopo piega prendono forma come in un origami geopolitico. In un guardaroba della memoria, una sorta di autobiografia redatta con i vestiti anziché con le parole. In una continua ricerca di un habitat utopistico per l’identità. Tra heritage e un viaggio ai confini del mondo, che si spinge verso le colonne d’Ercole della fantasia naïf di una 40enne fanciullina, in cui l’abito diventa la meta stessa del viaggio. Interiore e non. Francesca Manuzzi

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第3期 / 2013年夏

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La Moda

I Protagonisti

Le analisi del settore


Icone

The Green carpet queen

Tutto è nato da una semplice sfida: affrontare i red carpet di tutto il mondo, insieme al marito Colin Firth, indossando soltanto abiti sostenibili, creati con la complicità delle maison. È questo il manifesto di Livia Giuggioli Firth e del suo progetto Gcc

Un ritratto di Livia Firth in Gucci. Photo Marco Cella

Era un grazioso negozio che faceva angolo su una strada di Chiswick, a Londra, dove le fan di Colin Firth si recavano sperando di incontrare il loro idolo mentre sceglievano lampadine a basso consumo e provavano maglie di cotone biologico. Perché Eco age, lo sapevano tutti, non era solo il primo concept store al mondo dedicato all’ecologia e al vivere sostenibile, ma la boutique gestita da Livia Giuggioli, la bella moglie italiana del celebre attore british. Oggi il piccolo ed elegante edificio coperto da edera è interamente impegnato dagli uffici dell’azienda, che non si occupa più di retail, fatta eccezione per il progetto Eco age by Livia Firth, una selezione di capi e accessori in vendita su Yoox.com. Il main job della società è brand consulting. I clienti? La maggior parte appar-

tengono al mondo della moda, ma ci sono anche squadre di calcio, cementifici, miniere, banche. «Siamo particolarmente orgogliosi della collaborazione con Wembley», ha spiegato il ceo Nicola Giuggioli. «È risultato lo stadio più sostenibile del mondo, più di quelli di ultima generazione costruiti per le Olimpiadi. Non solo: grazie alle buone pratiche implementate, la struttura risparmia più di un milione di sterline all’anno. Dovrebbe essere un esempio per tutti: la fase più dura del nostro lavoro infatti consiste nel far capire alle aziende che essere socialmente responsabili è un buon affare, tanto in termini di comunicazione e immagine, quanto in termini economici». Nicola è il fratello minore di Livia; nel 2006, finiti gli studi in economia si era accorto che se avesse voluto


Icone


Livia Firth durante le prove nell’atelier milanese di Gucci; l’abito, parte del Green carpet challenge, è stato indossato al Festival di Cannes di quest’anno. Photo Marco Cella

installare dei pannelli solari sul proprio tetto non avrebbe trovato un negozio su strada dove rivolgersi. È nato così Eco age, con lo scopo di fornire un punto vendita affidabile per chi volesse rinverdire la propria casa, con la direzione artistica di Livia che sceglieva complementi di arredo e vestiti. «Ci siamo man mano accorti che le donne compravano molti più golfini che cuscini e la nostra attenzione si è spostata sulla moda: la richiesta per vendere anche online era diventata tale che non era più gestibile», ha ricordato la designerimprenditrice. Allo stesso tempo, l’altalenarsi delle leggi sulle energie rinnovabili ha costretto i Giuggioli ad abbandonare quel ramo: tre anni fa avevano progetti in corso per 50 megawatt, quando il governo inglese bloccò gli incentivi a sei mesi dal loro battesimo, mandando da un giorno all’altro in bancarotta il 50% delle aziende che operavano nel solare. «Finché le rinnovabili non diventano finanziariamente sostenibili senza i contributi statali, noi non ci entriamo più. Era bello mettere la turbina eolica nel campo di una famiglia, ma la realtà è che abbiamo un impatto maggiore operando nel B2B: il messaggio è molto più forte se lo diffondi attraverso nomi famosi», ha continuato ancora Nicola. La pietra miliare nella storia di Eco age la depone la nota giornalista del Guardian e della BBC Lucy Siegle: autrice del libro-inchiesta To die for: is fashion wearing out the world?, esperta in green living e moda etica, sfida Livia ad affrontare tutti i tappeti rossi del circuito cinematografico del 2010 vestendo solo abiti sostenibili: riciclati, vintage, upcycled (nati cioè da materie di scarto trasformate in qualcosa di più prezioso), creati con tessuti biologici, cuciti da manodopera trattata con rispetto, trasportati con una carbon footprint pari a zero. È il Gcc-Green carpet challenge, che Livia abbraccia con entusiasmo e che promuove mentre il marito rastrella i più importanti premi di categoria per la sua interpretazione in A single man, diretto da Tom Ford. Da Stella McCartney a Dolce & Gabbana, da Giorgio Armani a Valentino, da Tom Ford a Givenchy e Gucci, oggi i brand del lusso fanno tutti a gara per vestire lo star system seguendo i dettami del Gcc. Gli Oscar, i Golden globes, il Festival di Cannes, il Met Ball sono le sue vetrine di eccellenza. «Ma non volevo essere sempre e solo io a fare la cover girl per il Gcc, non vedevo l’ora di passare il testimone», ha puntualizzato Livia; suo malgrado, pur avendo raccolto proseliti in tutto il gotha del cinema (da Meryl Streep a Cameron Diaz, da Nicole Kidman a Marion Cotillard) rimane il volto più legato a questa nobile impresa. «È grazie alla determinazione di Livia, ai suoi modi gentili ma molto persuasivi, alla sua profonda comprensione di come lavorano i designer e come bisogna fare per render loro facile la sostenibilità che il Gcc ha fatto passi da gigante», ha proseguito la Siegle, che ha messo in moto un importante progetto co-firmato con Gucci. Si tratta di tre borse dotate di passaporto Gcc a certificazione della filiera totalmente trasparente, create con pellami provenienti da allevamenti brasiliani che non operano la deforestazione, conciati con tecniche eco-friendly. Cambiare il sistema dall’interno si può e si deve; non significa compromettersi, ma al contrario indicare una nuova via: è molto più pragmatico ed efficiente che smettere di produrre un oggetto per paura di farlo male. Sasha Carnevali

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water tower Un costo di ristrutturazione stellare. Alto come gli otto piani della torre. Tra i refurbish di Kennington, a Londra, svetta un’ex cisterna d’acqua che emula il campanile di San Marco e si arricchisce di un cubo abitativo hi-tech Testo Francesca Manuzzi Foto Matt Clayton



A lato, dall’alto, la sala da pranzo con lampadario a bulbi ideato dalla proprietaria, Leigh Osborne, la zona living e la camera da letto decorata da grandi righe. In apertura, una veduta della Water tower situata a Kennington, nel cuore di Londra

Un investimento alto come la torre. Otto piani in otto mesi, non un giorno di più. Questa la schedule prevista da Leigh Osborne, property developer e proprietario, assieme alla compagna Graham Voce, dell’edificio più alto della zona di Kennington e svettante su buona parte di Londra. Così alto che nel 2010 dal loro attico al 36° piano della Strata tower avevano scovato quella torre derelitta, meravigliosamente abbandonata, circondata da condomini di nuova costruzione. La torre, di ceppo gotico veneziano e che emula il campanile di San Marco a Venezia, fungeva da serbatoio idrico per la vicina Lambeth workhouse and hospital, demolita nel 2007 per far posto a nuove unità abitative, con la conseguente cessione della torre a intemperie e colonie di uccelli, che ne avevano fatto il loro rifugio causando costosissimi danni. Di enorme valore storico quindi, ma non abbastanza da giustificare un investimento per il restauro che oscilla tra i 2 e i 3 milioni di sterline (tra 2,3 e 3,5 milioni di euro circa), contando che l’edificio è quotato oggi 603 mila sterline, poco meno del doppio rispetto alla cifra pre-furbishment. Ma si comprendono le ragioni dei costi elevati: senza contare i tempi della spinosa burocrazia inglese, per eseguire il surgery totale dei 1.200 metri quadrati d’edificio risalente al 1867 (quell’anno il più alto di Londra) sono stati necessari tre anni effettivi di lavoro. La coppia, oltre alle tre camere e ai quattro bagni interni alla struttura, scavati nell’architettura della torre, ha studiato una moderna estensione di 300 metri quadrati. Una sorta di gigantesca appendice che ospita cucina, zona living, palestra e ingresso. Anche questo intervento non rimane estraneo alla parcella dell’impresa edile, vista la necessità di scoperchiare le case d’epoca georgiana e ricostruirne il tetto, per fare spazio alla scatola di vetro. Non ultimo, al top floor, raggiungibile con un ascensore che sostituisce la miriade infinita di gradini, svetta la prospect room, ex cisterna in ferro battuto con una capacità di 750 mila galloni d’acqua, completamente panoramica, grazie alle maxi-finestre in vetro a tutta altezza. «I soldi sono evaporati per le dozzine di operai necessari per ultimare il lavoro in tempi brevi», ha spiegato Osborne. Ma il risultato è decisamente all’altezza dell’ambizioso progetto.

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Natural beauties Riassemblaggi di elementi normali. Forme ispirate al creato. Texture dall’appeal organico, elementi eco e riletture di oggetti d’archivio Il design di nuova generazione gioca con il passato per re-inventarsi E vestire l’abitare quotidiano scegliendo un linguaggio di semplicità a cura di Cristina Morozzi - artwork Marta Bandirini e Maria Tentolini


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Fratelli Boffi

Collage Chester, divano creato abbinando elementi di diversi imbottiti classici, rivestito in pelle, velluto liscio e devorĂŠ. Design Ferruccio Laviani


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Fendi casa

Cerva, poltrona con schienale in legno curvato e rivestimento in velluto jacquard artigianale


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Edra

Favela, letto matrimoniale con struttura e testata costituite da un assemblaggio di legni naturali. Design Fernando e Humberto Campana


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Poliform

Ipanema, poltrona con struttura in legno massello, finitura rovere, seduta in cuoio e seduta in tessuto o pelle. Design Jean Marie Massaud


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Flexform

Helen, chaise longue con struttura in metallo e rivestimento in cuoio. Design Antonio Citterio


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Poltrona Frau

Letizia, poltrona disegnata nel ‘54 da Gastone Rinaldi e riproposta nel 2013; con struttura in acciaio e imbottitura in poliuretano espanso


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B&B Italia

Tobi Ishi, tavolo con basi in Baydur速 e piano in boiacca di cemento, laccato di colore rosso vivo. Design Edward Barber & Jay Osgerby


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Giovannetti

Anfibio, divano/letto icona degli anni 70, riproposto oggi in pelle vintage. Design Alessandro Becchi


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Fabbian

Cloudy, lampada a sospensione in vetro soffiato, realizzata con stampi in acciaio. Design Mathieu Lehanneur


margiela’s


handmade

Si chiama Artisanal ed è la crasi fra arte e artigianato, uniti insieme per dare un’anima all’alta moda concettuale di Maison Martin Margiela. Pezzi unici riletti con materiali di ricerca, collezionati dal 1988 a oggi e scovati in giro per il mondo Testo Elisa Rossi - Foto Nicolas Valois @ Erichennebert


Nelle immagini, look e accessori Maison Martin Margiela Artisanal. Make up, Julie B @ Box management; hair, Stephanie Farouze @ Jed Root; models, Alexina @ Elite Paris; fashion editor, Yasmine Benabdelkrim Location, l’atelier Maison Martin Margiela di Parigi, in rue Saint Maur

a

ntoine-Laurent Lavoisier direbbe: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Un tutto che per Maison Martin Margiela è rappresentato da palloncini, tappi di penne Bic e pettini per capelli. Ma anche parrucche, ombrelli, dischi di vinile, nastro isolante, carte da gioco e qualsiasi cosa sia in grado di portare con sé un’emozione ancestrale. La haute couture firmata dalla griffe gravitante nell’orbita della Otb-Only the brave

di Renzo Rosso, contraddistinta dal numero 0 ed evocativamente indicata dal nome Artisanal, viaggia per il globo fin dal 1988, anno della sua nascita, in un lavoro di gelosa ricerca di capi, accessori e oggetti a cui donare il soffio di una seconda esistenza. Il diktat è semplice, trasformarli in modo nuovo, conservandone i segni del tempo, rielaborandoli e reinterpretandoli. Il risultato che ne deriva è inevitabilmente una collezione densa di anima e

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senza tempo, che prende vita dal lavoro certosino fait à la main nell’atelier al 163 di rue saint Maur, nella Ville Lumière, dal quale scaturiscono vere e proprie opere d’arte. Come la giacca sartoriale della primavera-estate 2012 creata intrecciando braccialetti coloratissimi recuperati nell’ombelico del mondo Inca, a Cuzco, in Perù, per un lavoro artigianale complessivo di 157 ore, passando per l’abito da marinaio della primavera-estate successiva, dove

la replica di un ricamo anni Venti trovato al mercato delle pulci di Saint Ouen, fuori Parigi, è stato assemblato insieme a fili di seta come pennellate di pittura e poi tagliato per diventare una creazione speciale che ha richiesto 110 ore di cucitura. O ancora, il collo di fiori della printemps-été 2010 fatto con ghirlande riassemblate in 120 ore di intrecci. Per uno spartito di materiali e lavorazioni a comporre la sinfonia unica di ogni pezzo.


Una veduta esterna della Wing house immersa nei suoi 22 ettari di terreno, sulle colline di Malibu

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747 ying house Le ali sono tetto. Il reattore una fontana. La fusoliera è muro portante e i finestrini dÊcor alle pareti. La Wing house vola tra il cielo e le colline di Malibu, assemblata con i pezzi di un Boeing 747 ormai in disuso. Per creare una mansion hollywoodiana, giocata tra acciaio e vetro Testo Francesca Manuzzi Foto Sarah Jane Boyers e David Hertz

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Houston abbiamo una soluzione. Lamiera hi-tech e vetro, a tutta altezza sul paesaggio circostante. Finestre che incorniciano quella Malibu cinematografica, fatta di effetti speciali, corse senza fine su aerei più pazzi del mondo e navicelle spaziali, che sbarcano in mezzo all’Area 51 e vengono messe sotto analisi per poi diventare casi da X-files. In pochi secondi si delinea uno scenario, fantasticando, in un battito d’ali o su un battito d’ali. Quelle che materializzano il tetto della Wing house. Una casa che atterra sui colli più famosi del mondo, pezzo dopo pezzo, smantellando uno di quei velivoli dismessi che un tempo quelle zone le sorvolava. Così, lo studio di architetti David Hertz Architects Inc FAIA,

& Sea-Studio of environmental architecture, impegnato con il suo team di dieci persone nell’edilizia green da oltre trent’anni, ha smembrato un Boeing 747-200 aricraft, ne ha trasportato la carcassa inerte nel luogo predestinato e gli ha dato nuova vita, trasformandolo in una mansion dai tratti avanguardisti. Con ali, carlinga e fusoliera a comporne la struttura, sezioni di lamiera che custodiscono i finestrini come elementi decorativi degli interni, che si irrorano di luce grazie alle maxi finestre e si scaldano con muri in cemento armato e furniture in legno di teak. La casa, posta su un appezzamento di terreno di 22 ettari sulle colline di Hollywood, in California, che permette una splendida vista

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A sinistra, una veduta d’insieme del giardino della casa con piscina e padiglione dedicato alla meditazione. A destra, alcuni ambienti della zona giorno, una camera da letto e l’area lettura

panoramica sulla valle, l’Oceano pacifico e le sue isole, appartiene a una donna misteriosa che come diktat ha espresso la necessità di avere ambienti delimitati da forme curvilinee come il corpo femminile. «La scelta di optare per la struttura di questo tipo di aereo è venuta dopo un’attenta ricerca svolta in base alla topografia della zona. La scelta è ricaduta sul 747, con la sua forma delle ali così flessuose. Con i loro 760 metri quadrati di superficie, sono la configurazione ideale per preservare la vista sulla zona circostante e provvedere a un tetto che si autosupporti, senza l’aggiunta di particolari studi d’edilizia aggiuntivi», ha spiegato David Hertz. La struttura del velivolo rappresenta


A lato, uno dei balconi della casa con dettaglio sul tetto ottenuto con una delle ali del Boeing. In basso, da destra, la cucina in legno di teak, il bagno e la camera da letto padronale con vista sulla natura circostante

un impatto incredibile per lo smaltimento, considerando la sua enorme massa. Ma è anche un tesoro di materie prime, che conta 70 metri di lunghezza, 59 di larghezza, 19 di spessore e 5 mila metri cubi di volume di carico, il tutto per una cifra che si aggira intorno ai 50 mila dollari di valore commerciale e un costo di trasporto on-site, via elicottero, di 8 mila dollari l’ora, prezzo non esageratamente eccessivo se si considerano i costi per lo spostamento di un intero rifornimento di materiali per edificare una casa dalla A alla Z. «I piani regolatori di questa regione degli Usa non impediscono di costruire buona parte di una casa reimpiegando questo genere di strutture, se non l’obbligo di registrare il tutto alla Faa-Federal aviation administration, dichiarando che si tratti di una residenza, in modo da non confondere i piloti di altri velivoli che sorvolino l’edificio», ha proseguito l’architetto. La Wing house prende vita dal gioco di assemblamenti delle due ali principali come tetto della Main residence, i due stabilizzatori di coda vengono invece impiegati per quello della camera da letto padronale, 15 metri di fusoliera per la copertura del building dedicato allo studio d’arte della proprietaria di casa e la dependance per gli ospiti sfrutta le lamiere della cabina della First class e una porzione della carlinga. Con il materiale rimanente sono stati poi costruiti il fienile degli animali, un padiglione dedicato alla meditazione e reimpiegando i finestroni della cabina di pilo-

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In queste foto, tre momenti della costruzione della Wing house. In basso a destra, la fontana ideata utilizzando un reattore del velivolo

taggio, un lucernario-solarium. L’effetto d’insieme sembra mimare le peripezie di un gruppo di superstiti de Il volo della fenice di Robert Aldrich: dopo essere sopravvissuti a un atterraggio di fortuna eccoli pronti a costruire, con i pezzi del mezzo che per errore li ha condotti in un luogo ameno, una fantastica magione a 5 stelle, 100% eco-friendly ed etica. Perché il plus imprescindibile dell’abitazione, infatti, è proprio la sua sostenibilità e l’attenzione green del progetto con cui è stata messa in piedi. Il solo fatto di aver riutilizzato un intero Boeing, classificato ormai come 100% post-consumer waste, per erigere una residenza indipendente

completa di sei strutture ausiliarie, fa guadagnare all’edificio un ulteriore valore, anche commerciale. Senza contare la quasi totale autosufficienza della casa, con alimentazione a energia solare triplicata dalla superficie specchiata e metallica delle sue strutture, un sistema di riscaldamento a irradiamento, la ventilazione naturale, anch’essa amplificata dal posizionamento ad hoc delle ali e la mancata necessità di ingegnerizzazione dei pezzi, già precedentemente studiati in fase di progettazione dell’aeromobile. Parafrasando lo slogan dell’American airlines, David Hertz sa come far volare le sue case.

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iGuzzini e la dimensione urbana della luce

P

er iGuzzini il design è sempre stato sinonimo di individuazione di soluzioni che migliorano la percezione dello spazio attraverso la luce, applicando tecnologie innovative, la ricerca e lo studio di nuovi materiali. Una concezione del prodotto visto nei suoi usi finali e nel suo inserimento nell’ambiente. Da questa filosofia e dalla genialità creativa di Enzo Eusebi nasce Albero, un nuovo progetto luminoso che pone l’attenzione più sulla struttura portante del nuovo progetto che sull’elemento illuminante. Lavorando sul concetto di modularità, il designer ha smontato la tradizionale monoliticità del supporto, proponendo un sistema di settori sovrapposti e componibili. Una tale flessibilità consente non solo di modificare l’aspetto esteriore del supporto stesso, ma prefigura la possibilità di dotare i diversi elementi di particolari funzioni. Il sistema di illuminazione diventa così un ingrediente interattivo della scena urbana, in grado di supportare la luce ma anche gli elementi di comunicazione, gli impianti per la sorveglianza e la sicurezza come webcam. www.iguzzini.it

Tutti i dati e le informazioni contenuti nel presente Focus sono stati forniti dall’Azienda che ne garantisce correttezza e veridicità, a soli fini informativi.


cappellini

Crystal ball, vaso in ceramica e vetro. Design Matteo Zorzenoni

artemide

Florensis, lampada da terra con testa in alluminio dotata di ramificazioni. Design Ross Lovegrove

baxter

Bergerlong, poltrona in edizione speciale, con rivestimento ispirato alla drapperia maschile

desalto

Element, porta televisore in metallo Design Tokujin Yoshioka

minotti

Dalton, libreria in legno con ripiani sfalsati. Design Rodolfo Dordoni

Recycled


la murrina

Ballroom, lampadario con otto bracci, a supporto di candelieri in vetro metallizzato. Design Samuele Mazza

visionnaire

Sigfried, seduta dall’alto schienale con gambe anteriori decorate

fiam

Macramini, tavolino con base in vetro filato intrecciato e piano in vetro. Design Lucidi e Pevere

flexform

Pleasure up, divano componibile con telaio di metallo e cuscini in piuma

Recuperare non è solo un imperativo etico: è un’attitudine emotiva, molto contemporanea, che sollecita a scegliere creazioni capaci di durare nel tempo. La tendenza attuale, per arredare la casa, privilegia infatti rivisitazioni,

tipologie di memoria, assieme a virtuosi esempi di riciclaggio e di ibridazione. Riciclare e trasformare sono oggi un imperativo. Le risorse in esaurimento non si possono più sprecare e la spazzatura non deve continuare a crescere, invadendo

le città. Conviene aver cura delle cose e farle durare riscoprendo l’antica arte di mantenere e aggiustare. In tempi di parsimonia, vale la pena recuperare non solo gli oggetti ma anche le loro memorie. Invece di rincorrere sempre

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il nuovo, in cerca di stili e tendenze emergenti, è il caso di soffermarsi a considerare gli oggetti patinati dal tempo, i pezzi icona, che non conoscono l’usura degli anni, gli arredi dotati di un sapore di vissuto e, forse, anche le gozzaniane buone cose


foscarini

Tuareg, lampada da terra composta da elementi tubolari. Design Ferruccio Laviani

whirlpool

6° Senso Absolute Platinum Combi 70, frigorifero con tecnologia 6° Senso fresh control

kitchen aid

Twelix artisan, forno dotato di tre metodi di cottura differenti

jesse

Pétale, lampada a sospensione con cupola in rivestita in tessuto bianco. Design Odile Decq

schiffini

Mesa, cucina componibile in versione isola. Design Alfredo Haberli

poliform

Host, tavolo in metallo satinato con piano in vetro verniciato. Design Rodolfo Dordoni

cassina

Motek, sedia con foglio di feltro sintetico. Design Luca Nichetto di cattivo gusto. Le creazioni che non mostrano l’usura degli anni, in grado di essere al di sopra del gusto epocale, offrono non solo l’eleganza di un disegno originale, ma anche, in filigrana, una avvincente trama narrativa. Gli interior designer più

colti e raffinati raccomandano la contaminazione: il nuovo assieme all’antico, lo stile abbinato al design, il lusso in compagnia del rustico. Tramonta il coordinato e si fa strada l’eclettismo. La fantasia va a braccetto con il buon senso, il

pratico con l’artistico. Molte aziende hanno imboccato la strada della morigeratezza: non la novità per forza ma riedizioni di pezzi storici, come ha fatto Poltrona Frau con la poltroncina Letizia di Gastone Rinaldi, disegnata nel 1954. Oppure

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aggiornamenti, come Giovannetti, che ha riproposto una icona del proprio catalogo, il divano letto Anfibio, disegnato nel 1970 da Giovanni Becchi, dotandolo di un nuovo rivestimento in pelle vintage. Altri marchi hanno scelto d’essere


accademia

Nest, lampade a sospensione con diffusore intrecciato a mano. Design Ouch studio

casamania

Toshi, famiglia di madie con pattern geometrici. Design Luca Nichetto

mattiazzi

Medici, seduta in legno verniciato. Design Konstantin Grcic

cassina

TL3, tavolo in metallo e vetro. Design Franco Albini

ingo maurer

Campari, lampada da tavolo con bottigliette di Campari

cappellini

Daddy, sgabello in legno massello Design Martin Solem

cappellini

Candy Shelf, libreria con struttura in acciaio e ripiani in legno. Design Sylvain Willenz

rassicuranti, presentando pezzi di memoria, attualizzati da realizzazioni tecnologiche all’avanguardia. Ritornano le tipologie classiche: le chaiselongue, le toilette, le poltrone avvolgenti e importanti, dotate anche di poggia piedi, i grandi specchi

a muro, i lampadari e le appliques. Anche designer di provata fede moderna si sono dedicati a colte rivisitazioni. Konstantin Grcic ha creato per Mattiazzi, azienda veneta specializzata nella fabbricazione di sedie in legno, Medici, una sua

versione della classica seduta Adirondack e ha ripensato, in versione led, la famosa Parentesi di Achille Castiglioni (OK per Flos). Si affermano i designer/artisti/artigiani, quelli che manipolano, trasformano, ibridano, e che sanno guardare

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le cose esistenti da un altro punto di vista per farle rinascere sotto altre spoglie. Virtuosi del recupero trasformano specchi rotti e banali oggetti di plastica in lampadari stile Tiffany (Regis), imbuti in lampade da tavolo (Sergio Matos) e assem-


daniela gerini

Anthea, lampada da tavolo in vetro e paralumi in tessuto dipinto a mano

la murrina

Specchio con applique, della serie Jardin de verre. Design Alessandro La Spada

fabbian

Ray, lampada in policarbonato bianco e metallo verniciato. Design Lagranja design

misuraemme

Margareth, letto in rovere e testata rivestita in tessuto. Design Marelli e Molteni

magniflex

Cuscino in Magnigel memoform standard, modellabile con pressione e calore

frette

Set di lenzuola colorate in cotone con orlo a giorno

alessandra baldereschi

Seduta della serie Poppins, in legno laccato, imbottita in tessuto sintetico

atelier mo.ba

Contenitore in legno della serie Leaves, con intaglio di foglie

Recycled


venini

Luminosa, colonna in vetro di Murano policromo. Design Alessandro Mendini

il giardino di legno Venezia, tripolina in massello di teak e cotone imbottito. Design CRS Silat

ceramica flaminia

Vasca della serie Oval in pietra luce. Design Giulio Cappellini

baroncelli

Emily, specchio in vetro anticato

culti

Profumo per ambiente

fiam

Vanity flair, consolle in vetro, con piano e accessori intrecciati. Design Alessandra Pasetti

marsotto edizioni

Galata, tavolino in marmo. Design Konstantin Grcic

oluce

Lys, lampada da terra. Design Angeletti Ruzza

blaggi casuali di assicelle di legno grezzo in testiere di letti (Fernando e Humberto Campana per Edra). Altri si dedicano all’arte del collage, contaminando pezzi di arredi. Dalle spregiudicate ibridazioni di Martino Gamper e Ferruccio Laviani, ad

esempio, sono nate inusuali sagome di divani. Si lavora, più che sull’invenzione, sulla rivisitazione, facendo tesoro della lezione dei grandi maestri. Il design non sale più sul palcoscenico ma si accomoda con discrezione in casa, cercando di

adeguarsi al vivere quotidiano. Il progetto ritrova la sua missione originaria, esprimendosi in forme discrete e pertinenti. Il linguaggio della creatività ha moderato i toni: all’urlo preferisce il sussurro. L’interior ha ritrovato il ritmo tranquillo

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di una narrazione che si dipana sul filo della memoria per suggerire atmosfere capaci di evocare le sane e buone consuetudini. testo Cristina Morozzi artwork Giorgio Tentolini


Testo Matteo Zampollo Foto Martin Gardner at spacialimages.com

Fino al 1900, alla Manor house di Headbourn Worthy soggiornavano cavalli di razza. Dopo un periodo in rovina, le stalle della tenuta hanno trovato una nuova vita deluxe, in mezzo al raffinato countryside, tipically british

conve 78


erstable 79


S

e tutti i racconti devono iniziare con «C’era una volta», allora anche questo inizia allo stesso modo. C’era una volta un cavallo bellissimo, uno dei più promettenti della zona di Winchester, nell’Hempshire, Inghilterra del Sud. Si chiamava Lovely cottage. Era nato, però, in un periodo non proprio felice. Le pressioni belliche dei primi decenni del Novecento gli avevano quasi portato via le possibilità di gareggiare in libertà. È noto quanto la passione per i cavalli e le corse degli inglesi tramutino ogni quadrupede con velocità sopra la norma in un piccolo tesoro, oggi come allora. Così Lovely cottage, il bellissimo cavallo dell’Hempshire, aveva quasi perso le speranze di diventare anche un cavallo di successo. Ma la guerra finì e le corse ripresero. Soprattutto ne riprese una: il Grand national, la corsa più dura dell’Inghilterra di quel periodo, come riportava-

no i giornali dell’epoca («The world’s toughest test»). Dopo una pausa di sei anni, nel 1946 si riaprirono le porte di questo percorso estenuante, quasi cinque miglia di siepi, acqua, fango e terra. Lovely cottage venne acquistato da John Morant nel 1944, per 2 mila sterline, e il 5 aprile dell’anno successivo fu lui a decidere che avrebbe partecipato alla 103ª edizione del Grand National. A cavalcarlo, però, non c’è nessun fantino famoso, nemmeno un professionista, ma il capitano Robert Petre, in giorno di permesso dal suo ruolo nelle guardie scozzesi. Il nostro cavallo non era esattamente tra i favoriti; le quotazioni non erano delle peggiori, ma il pagamento era uno scoraggiante 25 a 1. La folla era quella delle grandi occasioni. Si fremeva sugli spalti, dal via fino alla fine della corsa. Come era successo più volte, in gara accaddero disgrazie: molti cavalli caddero. Il favorito, Prince

Nelle immagini in questa pagina, alcuni spazi interni dell’abitazione, caratterizzati dall’utilizzo dei muri originali delle stalle. Nella pagina a lato, il lungo corridoio in total white che collega tutte le stanze. In apertura, una veduta esterna dell’abitazione immersa nelle campagne inglesi

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Sopra, una delle camere da letto principali, situate all’estremità finale della casa; un pannello di vetro satinato separa la zona letto dal bagno privato

Regent, corse in testa gran parte della gara. Ma nell’ultimo giro accadde l’imprevedibile: con solo sei fantini ancora in sella, fu Bobby Petre con Lovely cottage a passare in testa e a vincere di quattro lunghezze la gara. La folla era in estasi. I booker non esattamente, vista la portata delle vincite. Lovely cottage, il bellissimo cavallo dell’Hempshire, era ritornato a essere vincitore. Un vincitore pronto per le sue stalle nel villaggio di Headbourne worthy, alla Manor house, accarezzato dal suo proprietario, che ha visto ripagato il suo investimento dei due anni precedenti. Ma di lì a pochi anni i soldi finiscono e termina anche la manutenzione delle stalle, che in pochi anni caddero in rovina. La storia recente, però, ha voluto che tutto il complesso fosse restaurato da Andy Ramus, dello studio AR. È stato lui a innamorarsi a prima vista delle stalle, ormai ridotte a rovine e a voler dare loro una nuova vita. Immerse nella campagna dell’Hampshire, con una storia del genere alle spalle, erano il posto perfetto per creare una maison sui generis. Lo studio ha lavorato in un’ottica ben precisa, mantenere ciò che era già presente. Partendo

dal riportare i muri esistenti all’antica vita; il compito successivo è stato quello di trasformare le scuderie in una casa contemporanea. Per rispettare i toni della proprietà, è stato scelto un approccio pulito, moderno e neutrale, che contrasta con le pareti in legno originali, permettendo di distinguersi come pezzi d’arte. Molti dei servizi esistenti sono stati ristrutturati: gli abbeveratoi dei cavalli originali sono stati puliti e convertiti per essere utilizzati come lavelli; i vecchi anelli delle stalle sono ora portaasciugamani. Nelle scuderie trovano posto tre ampie camere da letto matrimoniali. Essendo la proprietà su un piano unico, sono state divise sapientemente le zone notte e giorno, con un corridoio di collegamento che attraversa tutto l’edificio. L’atmosfera pulita, illuminata dai lucernari e dalle ampie aperture originali, contrasta con la natura circostante che caratterizza anche le parti più antiche della costruzione. E la rende oggi una dimora dal mix perfetto. Dove gli appassionati di corse equine possono anche immergersi nei ricordi e rivivere ogni giorno il ritorno a casa di Lovely cottage.

81


Product

02-poliform

01-workhouse

Natural

Il design alla riscoperta delle sue materie primarie Legno, tessuto e ferro, lasciati al loro stato originale, che regalano improvvisi tocchi in stile hobo chic 01-WORKHOUSE. Turned Table, tris di tavolini in legno intagliato a vivo. 02-POLIFORM. Mad Chair, poltroncina imbottita. Design Marcel Wanders. 03-SAMBONET. Terra.Cotto, pentole in terracotta. Design Stefania Vasques. 04-LABT. Table, tavolo in legno. con rami di legno spontanei.

04-labt

05-MOROSO. Selvedge, sedia in legno e seduta in tessuto a sacchetto Kvadrat. 06-BAXTER. Jaipur, tappeto in fibra naturale corredato da frange. 07-KVADRAT. Ready made curtain, sistema di fissaggio a parete per tende. Design Ronan e Erwan Bouroullec. 08-FORMABILIO. Alop, seduta-tavoli-

03-sambonet

05-moroso


no, con contenitore e tre materassini. 09-157+173 DESIGNERS. Table Industrial Lamp, lampada da tavolo in legno e filo colorato. 10-PORRO. Mikado, mobile-credenza in listelli di legno intrecciati. 11-USUALS. Happy tractor, trattore realizzato con ceppi di legno di scarto.

10-porro

09-157+173 designers

08-formabilio

07-kvadrat

06-baxter

83

12-DILMOS. Recipienti in frammenti di vetro usato e riassemblato, collezione Patchwork. Design Nendo. 13-LEMA. Booken, mobile/libreria. Design Raw Edges. 14-CASAMANIA. Compass, scala pieghevole in legno. Design GamFratesi. ricerca di Cristiano Vitali

12-dilmos

11-usuals

13-lema

14-casamania


Product 02-pro-gest

01-designer|faber

Paper 03-essent’ial

Un arredamento dall’anima re-use, figlio della cellulosa Che, imitando e sfruttando le potenzialità della carta, regala un tocco assolutamente eco friendly a pezzi design 01-DESIGNER|FABER. Linea, libreria in metallo piegato. Design Antigone Acconci+Riccardo Bastiani. 02-PRO-GEST. Poltrona dalla collezione P-one in cartone riciclato, tessuto, metallo e legno. 03-ESSENT’IAL. Acidula, sacchino in fibra di cellulosa, tinto in capo. 04-FRITZ HANSEN. Jonofon, grammofono in cartone e funzionante. Design

Jon Helgi Holmgeirsson. 05-PIANOPRIMO. Blow, mensole in metallo laccato, a forma di foglio di carta. 06-A4ADESIGN. Dynamo, tavolo con struttura e piano in cartone ondulato. 07-JAQUIÒ. Brunch, tovagliette lavabili in materiale riciclabile. 08-SPOTTI. Geo, cuscini origami, in seta e cotone prepieghettata. ricerca di Cristiano Vitali

04- fritz hansen

07-jaquiò 05-pianoprimo

06-a4adesign

08-spotti


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Product

02-moronigomma

01-serralunga

Crudi

Materiali rough, non lavorati. A prima vista ruvidi ma inaspettatamente confortevoli. Scavando nel fondo delle sue origini, il design ritrova le radici più vere 01-SERRALUNGA. Terra, coprivaso a forma di cumulo di terriccio. 02-MORONIGOMMA. Forest collection, cuscini e pouf in tessuto stampato. 03-GOLRAN. Tappeto della collezione Decolorized, decolorato e ritinto. 04-A LOT OF. Skeleton chair, con serie di appendini di legno. Design Pedro Paulo Franco. 05-MORONIGOMMA. Forest collection, sgabello con tessuto stampa legno. 06-MOOG. Beam, panca in massello

03-golran

di legno antico e appoggi in metallo 07-Y’A PAS LE FEU AU LAC. Spatz, appendiabiti fornito senza mattoni. 08-BACCARAT. Nave, lampada in bambù e cristallo blu. Design Fernando e Humberto Campana. 09-CERAMICA FLAMINIA. Fold, rubinetto in acciaio. 10-BYAMT. Ballpoint Pen Random Pattern, prodotta da RollOut, carta da parati. Design Alissia Melka-Teichroew. ricerca di Cristiano Vitali

05-moronigomma

04-a lot of 06-moog

07-y’a pas le feu au lac 08-baccarat

09-ceramica flaminia 10-byamt


Product

02-accademia

01-calligaris

03-rodrigo almeida

Intrecci

04-fabbian

Uncinetti tricot dal touch green definiscono un nuovo knitting, figlio dell’arredare ecologico. Che si anima di incroci naturali e continue intersezioni handmade 01-CALLIGARIS. Variations, intervento estetico con corde su sedie. Design Stephen Burks. 02-ACCADEMIA. Nest, lampada in faggio e paralume in treccia sintetica. 03-RODRIGO ALMEIDA. Abebè, lampada con paralume intrecciato. 04-FABBIAN. Stick, applique in lamelle di legno a effetto fisarmonica. 05-B&B ITALIA. Papilio, poltrona da esterni in fibra vinilica intrecciata. 06-PORADA. Belt, panca con seduta

a fasce di legno intrecciate. 07-MOOG. Nest, poltrona con struttura e seduta in tubolare di legno. 08-DEDON. Dala, cestini e portalanterne in fibra naturale e cuoio intrecciato. 09-AREA PAVIMENTI. Modulo randomico, pavimentazione da esterno realizzata in teak. 10-BUDRI. Earthquake, tavolino realizzato con resti di piastrelle del terremoto emiliano del maggio 2012. ricerca di Cristiano Vitali

05-b&b italia

06-porada

08-dedon

09-area pavimenti

07-moog

10-budri


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02-gandia blasco

01-ligne roset

03-labt

Multipli

Moltiplicazioni frattali come pattern di stampo ecologico Le ripetizioni diventano ossessioni a tutto recycle e disegnano nuove forme per il vivere contemporaneo 01-LIGNE ROSET. Itisy, tavolino composto da quattro piani tondi uniti. 02-GANDIA BLASCO. Mangas space, composizione di tappeti, pouf e poltrone. Design Patricia Urquiola. 03-LABT. JR, trolley su ruote multiuso in legno naturale, laccato o intagliato. 04-CAPPELLINI. Inflated wood, poltrona in legni brasiliani Jacarandá e Ipé. Design Zanini de Zanine. 05-NILUFAR. Leather chest of drawers,

mobile contenitore composto da valigie cassetto. Design Marten Baas. 06-45 KILO. Hang Jack, sistema multipresa a sospensione. Design Daniel Klapsing & Philipp Schöpfer. 07-ATTICO. Ecstasy, dressing table a quattro specchi in quercia e rame. 08-POLTRONA FRAU. T904, panca in tubolare curvato, legno e serie di cuscini riposizionabili. ricerca di Cristiano Vitali

04-cappellini

06-45 kilo

07-attico

08-poltrona frau 05-nilufar


Story teller

Conquistare il mondo

È questo l’obiettivo di Boffi che, forte dei suoi 66 milioni di euro di fatturato, punta a crescere in Asia e Oceania senza dimenticare il business dell’area italiana Innovazione e design come espressione di un’eccellenza tutta italiana. Questi i valori che da sempre contraddistinguono Boffi, l’azienda nata nel 1934 dalla geniale intuizione del suo fondatore, Piero Boffi. Negli anni 50 i figli Dino, Paolo e Pier Ugo entrano in azienda e iniziano a sviluppare le intuizioni del padre legando indissolubilmente l’anima creativa dell’impresa a quella produttiva e tecnologica. A partire dalla preziosa collaborazione con progettisti colti e seguaci del modernismo, come Asti, Favre e Casé. La svolta arriva alla fine degli anni 80, quando Paolo Boffi arruola Roberto Gavazzi e Piero Lissoni. L’azienda in pochi anni conquista un ruolo primario nei principali mercati internazionali, lavorando per ritagliarsi nuovi spazi di mercato grazie anche agli audaci progetti di brand extension nel settore dell’arredo bagno. Nel 2010 la società allarga ulteriormente la sfera delle sue attività verso i sistemi di armadi e sempre in quell’anno realizza, con Fantini, una collaborazione per dare vita a un nuovo marchio, Aboutwater, con lo scopo di creare una nuova linea di rubinetti frutto della creatività di Boffi e del know how tecnologico dell’azienda di Pella, da distribuire sui circuiti internazionali di entrambe le aziende. Con 64 negozi nel mondo di cui 24 di proprietà e con un fatturato di 66 milioni di euro, Boffi continua a confermare che l’esperienza e l’innovazione sono gli elementi su cui si fonda la sua identità e i suoi prodotti di valore così come ha raccontato in questa intervista Roberto Gavazzi, amministratore delegato di Boffi. D. Data la situazione economica attuale, qual è adesso l’obbiettivo primario di Boffi? R. Diventare sempre più internazionali. È sull’estero, o meglio nel mercato del mondo nella sua globalità che si gioca il futuro. Attualmente abbiamo 24 negozi monomarca diretti, 40 negozi monomarca indiretti, 223 concessionari in Italia e 116 concessionari all’estero. In questi ultimi due o tre anni abbiamo cercato di rafforzare la nostra presenza sia in Asia che in Oceania aprendo nuovi negozi e creando posizioni di area manager che sviluppino sia il settore retail che il settore contract. Puntiamo soprattutto sul canale monomarca perché rappresenta in pieno lo stile del marchio. E per rendere ancora più percepibile quest’ultimo il nostro art director Piero Lissoni ha sperimentato la formula innovativa di uno spazio arredato come un’autentica casa con il loft BY a New York e con l’Appartamento di Milano in via

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Solferino, inaugurato nell’aprile 2010. D. Qual è il mercato che pesa di più sul fatturato? R. Il mercato più grande in termini di dimensione singola è ancora l’Italia con un 20% oggi, molto basso rispetto a quello che sono i canoni dei costruttori di cucine. Le cucine made in Italy esportano circa il 20% e vendono sul mercato nazionale l’80%, noi invece con il 20% di mercato nazionale, siamo i più grandi esportatori in termine di percentuale sul fatturato e saremo tra i primi 4 o 5 in termini di volumi, probabilmente saremo il principale esportatore di cucine italiane considerando che il nostro export è indirizzato verso negozi monomarca, quindi è un export pesante che si fa notare nelle città. Fuori dall’Italia Stati Uniti mercato numero 1 seguito dagli europei: Francia, Regno Unito, Svizzera e Germania. D. Quanto pesa il segmento del contract? R. Pesa ancora molto poco, tra l’8 e il 10% circa, siamo molto selettivi. Il progetto più importante realizzato è stato a Toronto per la catena di hotel Shangri-La. Apart hotel appartamenti all’interno di progetti hotellerie che prevedeva 400 cucine. D. Com’è cambiato il ruolo della cucina all’interno della casa negli ultimi cinque anni? R. La cucina è ormai sempre più aperta al living e conviviale, tende a dialogare sempre più con gli altri ambienti della casa. È diventata un prodotto d’arredo, non solo uno spazio funzionale, e come tale deve essere presentata. Man mano che sale il prezzo d’acquisto delle proposte, l’acquirente si diverte a studiare delle soluzioni su misura. Negli ultimi anni stiamo assistendo a un interesse crescente da parte di uomini e di giovani che vanno a vivere da soli non più solo delle donne, giustificato dal fatto che le nostre cucine sono molto più maschili che femminili. Sono oggetti rigorosi, spigolosi con poche concessioni alle curve, caratterizzate da colori freddi, bianco nero grigio, anche se stiamo aggiungendo molti materiali come legni, pietre. D. Da dove è nata l’idea di diversificare e di dedicarsi anche al segmento bagno e armadi? R. Quando sono entrato in azienda, nel 1989, c’era già questa diversificazione. I bagni e gli armadi erano due re-

altà molto piccole, non occupavano più del 2%. Da principio la politica che abbiamo attuato con Paolo Boffi è stata quella di fortificare al massimo la cucina e allo stesso tempo trovare delle opportunità di allargamento laterale del nostro business che ci permettessero di avere una coerenza sia produttiva che distributiva, senza snaturare il marchio. Negli anni 90 abbiamo iniziato a lavorare al progetto bagno offrendo al mercato la possibilità di realizzare tutta l’area con un unico marchio. Ai tempi era una proposta nuovissima, nessuna azienda riusciva con un unico brand a coprire tutta la zona dedicata al wellness. Ancora adesso non sono tantissimi quello che lo possono fare. Aiutati anche dal fatto che in quegli anni quella parte della casa incominciava ad essere considerata non più una zona di servizio da tenere nascosta ma un vero e proprio spazio benessere da personalizzare e da curare nei minimi dettagli. D. Qual è la vostra filosofia? R. Ci consideriamo venditori di soluzioni di singoli prodotti. Dietro al nostro sistema produttivo c’è una grande possibilità di costumizzazione, adattabilità al cliente, è necessaria nell’alto di gamma. Proponiamo soluzioni di livello adeguato per ogni richiesta, sempre con qualità di personale e altissima professionalità. Cerchiamo di offrire sistemi su misura per le tre aree più complesse della casa, che sono anche quelle che supportano l’aiuto di un architetto. D. Qual è la cucina che vendete di più? R. La cucina più apprezzata dai nostri clienti si chiama XILA, è degli anni 60 ed è uno primissimi successi di Boffi. Prima cucina disegnata in Italia senza maniglie. È un oggetto rigoroso, il più bello della nostra azienda. È ancora quasi la metà del nostro venduto nel settore cucine. D. Quali i vostri obiettivi dei prossimi cinque anni? R. I nostri obiettivi principali sono espandere la parte internazionale e ridurre sempre di più il peso dell’Italia. Continuare a sviluppare i tre sistemi della casa, soprattutto gli armadi che è il nostro segmento più debole. Crescere nel contract che ha fortissime potenzialità in Asia e per ultimo creare delle alleanze strategiche sul nocciolo duro della produzione in modo da essere sempre i migliori. Camilla Gusti

Nelle foto sopra e lato, alcuni prodotti firmati Boffi. A sinistra, in alto, Roberto Gavazzi, amministratore delegato di Boffi

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Indirizzi

MF

il quotidiano dei mercati finanziari

157-173

157-173designers.eu

giOvannetti

giovannetticollezioni.it

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guiller mOntalbanO

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mattiazzi

mattiazzi.eu

bOffi

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mOOg

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cappellini

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mOrOnigOmma

moronigomma.it

carma prOject

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mOrOsO

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cassina

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nicOlas valOis

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chOi jeOng-hwa

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pianOprimO

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piet hein eek

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