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MFf

Magazine For Fashion

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Supplemento al numero odierno di MF/Mercati Finanziari. Spedizione in abbonamento postale L. 46/2004 art. 1 C. 1 DCB Milano

n. 97. aprile 2019. Solo in abbinamento con MF/Mercati Finanziari - IT Euro 5,00 (3,00 + 2,00) trimestrale

international edition

Stephen Jones tra alcune sue creazioni. Foto Gio Staiano

accessory issue

the wowness stephen jones

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Where talent, innovation & creativity write a whole new story. A L E X A N D R E VA U T H I E R AMINA MUADDI ANDREA MONDIN ANNA BAIGUERA AT T I M O N E L L I ’ S B E N E D E T TA B R U Z Z I C H E S C A S TA Ñ E R

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the wowness by STEFANO RONCATO

Accessori sempre più essenziali. Al look, ma anche ai conti delle case di moda. E l’Italia rappresenta la meta privilegiata delle maison del lusso che aprono stabilimenti e scommettono su un patrimonio fecondo fatto di artigianalità e di materiali pregiati. Capace di dar vita a oggetti in grado di far innamorare. Le scarpe, da sempre passione e feticcio di donne e uomini, ma anche occhiali, cappelli, piccola pelletteria, fino ai gioiellisculture che hanno sfilato sulle passerelle dell’a-i 2019/20. Gli accessori si prendono di diritto il loro posto di primo piano, messi in risalto dal nuovo numero di MFF-Magazine For Fashion che fa parlare i grandi protagonisti come Pierre Hardy, con un curriculum con nomi come Dior, Balenciaga e Hermès. «Le forme degli oggetti della moda sono così sofisticate che sfuggono alle costrizioni», racconta in un’intervista esclusiva. Gli fa eco Stephen Jones, il cappellaio brit che dalla sua boutique in Covent garden spiega i segreti del suo lavoro, fatto di sogno: «I cappelli hanno molto a che fare con l’aria e guardano verso l’alto, quindi io volo». Accanto a loro altri volti, storie, racconti di successo di marchi che hanno scommesso tutto sull’accessorio, da Paula Cademartori a Giannico, fino a Zanellato. Il viaggio termina sulle passerelle, dove sono esplosi i colori fluo sulle décolleté e gli oggetti fetish, fino alle stampe tapestry e alle borse multi-set. Un universo in perenne trasformazione, capace di sparigliare le carte e dare un twist di carattere.

a lato, un'immagine dalla sfilata Chanel Fall-winter 2019/20 (foto stefano roncato)

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lo show Alexander McQueen a-i 2019/20 (foto stefano roncato)

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openview Stefano Roncato

32 giannico Ludovica Tofanelli

20 e 21 facecool Angelo Ruggeri

34 e 35 billion ways shoes Margherita Malaguti

22 e 23 when gucci met zumi Cristina Manfredi

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paula cademartori Sara Rezk

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zanellato Angelo Ruggeri

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Quick chat Angelo Ruggeri

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back to saddle bag Sara Rezk

40 e 41 rivoluzione in vista Fabio Gibellino

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amina muaddi Ludovica Tofanelli

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la pelletteria corre verso sud Andrea Guolo

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family business Sara Rezk

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buyers picks Elisabetta Campana e Margherita Malaguti

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gli accessori fanno volare i budget Elisabetta Campana

50 e 51 accessor-hype Angelo Ruggeri 52 a 55 seasonal tips Margherita Malaguti 56 a 60 pierre hardy Silvia Manzoni Foto Valerio Mezzanotti @ Callvalerio 62 a 66 stephen jones Tommaso Palazzi. Foto Gio Staiano 69 a 76 the best fendi aquazzura

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bottega veneta roger vivier valentino delvaux Dolce&Gabbana Sergio Rossi prada Sophia Webster gucci valextra dior officina del poggio 79 a 87 trends FLUO TAPESTRY SOFA MULTISET swan lake FETISH BOURGEOIS

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in covers

un dettaglio di hermès dallo show f-w 2019/20 (foto stefano roncato)

Pierre Hardy nel suo studio a Parigi Foto Valerio Mezzanotti @ Callvalerio

Stephen Jones tr l a cune sue creazioni Foto Gio Staiano

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Te l . 0 2 3 8 5 9 5 9 5 9 I C o u r t e s y o f S h e i l a H i c k s a n d S i k k e m a J e n k i n s & C o ., N e w Yo r k

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PEOPLE

facecool

Un racconto in dieci tappe tra moda e design, Alla ricerca di personaggi che stanno riscrivendo il concetto di creatività legata al mondo degli accessori. Talenti con un cool factor da scoprire. By Angelo Ruggeri

Aurélia Ammour e David Tourniaire-Beauciel WORK as: founders / FOR: shoes 53045 / WHERE: paris Lei è un’ex manager del sistema moda che ha lavorato per Lvmh e Kering. Lui è uno dei più quotati shoes designer degli ultimi anni, che ha lavorato per Jean-Paul Gaultier, con Phoebe Philo da Chloé, con Martin Margiela, Riccardo Tisci da Givenchy, Demna Gvasalia da Balenciaga (con il quale ha realizzato le iconiche sneakers Triple S), oltre a essere oggi anche il creative director di Clergerie. Insieme hanno fondato il marchio Shoes 53045 che presenta per ora un unico modello di chunky sneaker, le Bump’air, con maxi suola composta e voluminosa, rimanendo però super confortevole e leggera.

Salar Bicheranloo e Francesca Monaco WORK as: creative directors / FOR: salar milano / WHERE: milan

foto Pamela Bargnesi

Le loro origini hanno contribuito a dar vita a un marchio dai forti contrasti. Salar Bicheranloo è nato in Messico e ha studiato disegno industriale. Successivamente ha conseguito una specializzazione in moda al Politecnico di Milano. Qui ha iniziato la sua esperienza lavorativa presso l’atelier di Alessandro Mendini. Francesca Monaco invece è italiana e, dopo una laurea in design della moda, ha lavorato cinque anni presso l’ufficio stile di Costume national. Nel 2010 hanno fondato il brand di borse e calzature Salar Milano. Che utilizza materiali preziosi, forme uniche e ispirazioni provenienti da tutto il mondo.

Michele Chiocciolini WORKs as: creative director / FOR: michele chiocciolini / WHERE: florence Michele Chiocciolini è designer, pittore, grafico e architetto. Nel 2013 è stato tra i vincitori del talent show televisivo Fashion style, che gli ha aperto le porte di collaborazioni come quella con Colorado film. Nel 2015 ha fondato l’omonimo brand Michele Chiocciolini, un progetto di accessori completamente made in Italy. Supportato dalla sorella Francesca, nel maggio del 2017 ha firmato un contratto di licenza con Glem, società del gruppo Dicart e distributore in esclusiva del materiale ecologico Clarino crust, utilizzato a partire dalla primavera-estate 2018 per tutte le creazioni del marchio.

Umberto De Marco WORKs as: founder / FOR: yatay / WHERE: milan Classe 1987, dopo essersi laureato in economia e finanza all’università Bocconi, Umberto De Marco ha iniziato a lavorare per Coronet China e poi per Moncler in America. Tornato in Italia, è entrato in Coronet spa, l’azienda di famiglia leader nell’industria dei materiali tecnici per calzature e pelletteria. Ha supervisionato la startup dell’azienda vietnamita per poi inserirsi a fianco del padre nel board del gruppo. Nel 2015 è stato nominato presidente. Due anni dopo, ha intrapreso il percorso che lo avrebbe portato a lanciare sul mercato Yatay, il brand di sneaker made in Italy prodotte utilizzando materiali sostenibili e rinnovabili.

Roberto Dibenedetto WORKs as: owner e creative director / FOR: nove25 / WHERE: milan Cresciuto con una passione per la gioielleria, il design, gli accessori e la moda, Roberto Dibenedetto ha fondato il marchio di gioielleria Nove25 nel 2005. Tutto è iniziato in un piccolo negozio, dove i clienti sono stati subito attratti da una proposta moderna e non convenzionale di gioielli. Ma la vera determinante del successo è stata la capacità di essere il primo brand a offrire ai clienti un monile personalizzato. Negli anni, il marchio è diventato sempre più famoso, ma è rimasto fedele alla propria mission di interpretare le idee e le emozioni dei clienti e creare gioielli che permettano a ogni persona di esprimere se stessa.

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Steph Korey e Jen Rubio Steph Korey ha alle spalle una carriera nelle aziende direct-to-consumer, in particolare nello sviluppo della catena di fornitura, nella strategia di merchandising e nella creazione di ambiziose culture aziendali che rendono vincenti i team. Jen Rubio, invece, vanta una solida carriera nel branding e nel settore creativo. Forte della sua esperienza nei social media, ha ridefinito il modo di interagire tra consumatori e brand. Insieme, nel 2016, hanno fondato il marchio di valigie Away, che oggi conta oltre 250 dipendenti. E che collabora con Peace direct, un’organizzazione non profit che promuove la pace nel mondo.

foto Masha Maltsava

WORK as: founders / FOR: away / WHERE: New york

foto Daniela Spector

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Olivier Leone e Julia Toledano WORK as: design directors / FOR: nodaleto / WHERE: paris Lei fa la designer ed è figlia di Sidney Toledano, businessman che ha dedicato tutta la sua carriera al settore della moda, dirigendo marchi come Karl Lagerfeld, Guy Laroche, Chloé e la fashion unit di Puig. Lui, invece, è image director. Insieme hanno fondato il marchio Nodaleto, anagramma di Toledano, che ha svelato durante l’ultima fashion week di Parigi la prima collezione, dal nome Very first drop, prodotta totalmente a Venezia, e che rappresenta un tributo all’eredità della famiglia di Julia. Tra attitude anni 70, design evoluto e sex-appeal francese come omaggio al fotografo Guy Bourdin.

Andrea Mondin WORKs as: creative director / FOR: andrea mondin / WHERE: milan Con un background artistico e un curriculum che conta esperienze lavorative in maison come Roberto Cavalli, Dolce&Gabbana e Versace, nel 2016 Andrea Mondin ha lanciato la sua linea omonima di calzature che strizzano l’occhio alla couture, grazie alla quale ha conquistato il premio come miglior designer di accessori nel concorso Who’s on next. Le sue collezioni sono un trionfo di artigianalità, design elegante e materiali di alta qualità. È stato selezionato come protagonista del Fashion hub market nel febbraio 2019, progetto organizzato da Cnmi-Camera nazionale della moda italiana.

Tomas Than WORKs as: founder / FOR: tomas than / WHERE: milan Tiene alla sua riservatezza e non ama le etichette come età o paese di provenienza. Si definisce, infatti, un «Nomade globale» che giunge da quel mondo orientale molto ricco di storia e di tradizioni. La sua anima è un mix di culture, colori, profumi. Tomas Than ha fondato il suo marchio omonimo da un ricordo, dalla poesia dei mistici orientali, dalla bellezza di quei luoghi. Ogni collezione di borse maschili e femminili si ispira all’architettura e all’arte afghana e iraniana dove la leggerezza, ovvero ciò che toglie quello che è di troppo e che non consente l’armonia della forma, diventa uno dei valori più importanti per il marchio.

Genevieve Xhaet WORKs as: founder e creative director / FOR: flapper / WHERE: milan Di nazionalità italo-belga, è nata nel 1982 a Biella. Ha studiato moda a Milano presso l’Istituto Marangoni ed è diventata presto l’assistente personale di Pierangelo D’Agostin, con cui lavora per le collezioni di Jil Sander, Malo, Druhmor, Cruciani e Hlam. In seguito, ha collaborato con Barbisio, storico marchio di cappelli, dove sono cresciute la sua passione per l’headwear e la manodopera. Successivamente ha fondato Flapper, brand di copricapi unici che mixano sapientemente funzionalità ed eleganza, innovazione e tradizione. Oltre a materiali di alta qualità e handmade raffinato.

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when gucci met zumi zumi rosow. interview by cristina manfredi

«Mi sembra di vivere in un fantastico sogno consapevole, è come se fossi entrata a fare parte di un circolo magico fatto delle persone più adorabili che abbia mai incontrato». L’immagine potente e ipnotica di Zumi Rosow, attrice e musicista americana, custodisce un cuore gonfio di entusiasmo per essere diventata musa di Alessandro Michele nella creazione di quella che ha tutte le carte in regola per diventare una nuova it-bag. Si chiama proprio Gucci Zumi il modello che il direttore creativo ha lanciato lo scorso settembre durante la trasferta parigina della sfilata primavera-estate 2019 della griffe. In quell’occasione, Michele aveva voluto che fosse proprio Zumi a portare in passerella la borsa che è frutto dell’incontro tra il suo carisma underground e un raro pezzo d’archivio degli anni Sessanta, dove si incrociano anche due elementi iconici della maison, la doppia G e il morsetto. E ora le ha chiesto di impegnarsi in un tour mondiale con una serie di eventi organizzati in alcune boutique del brand, per trasmettere al pubblico la sua energia traboccante e raccontare l’universo della nuova borsa. Com’è nata questa liason artistica con Alessandro Michele? La prima volta che l’ho incontrato mi è sembrato un illuminato, sprigiona un’aura davvero particolare e sa vedere quella di chi gli sta intorno. È un grande osservatore e assorbe tutti gli stimoli con cui entra in contatto. Ci siamo sentiti come se ci conoscessimo da sempre. Io non ho partecipato al processo creativo della borsa, l’ho vista solo dopo che l’aveva completata e l’ho considerata la grande ricompensa che l’universo mi ha dato per tutti gli anni in cui ho lottato per poter essere ciò che sono. Che cosa l’ha colpita di più di questa esperienza che sta vivendo durante gli eventi Gucci in giro per il mondo? La sorpresa incredibile di scoprire che a Kyoto il poeta Alaska Lynch mi aveva dedicato una serie di versi che poi ha letto durante la serata. E poi l’after party al Metro club, un locale con una storia pazzesca. Una delle band con cui mi esibisco, i Black lips, aveva fatto un concerto proprio lì prima che mi unissi a loro, un dettaglio che mi ha fatta sentire a casa. In realtà, era previsto che io mi limitassi a un semplice dj set, ma siccome percepivo l’attenzione della gente su di me, con gli smartphone alzati per filmare, ho sentito il bisogno di improvvisare una performance. Volevo trasmettere il senso di essere lì per

ballare e per lasciarci andare: la cosa ha funzionato e alla fine ci siamo scatenati tutti insieme. Il suo è un background a metà tra recitazione e musica, come si è trovata nel mondo della moda? Ci sono molti punti di contatto tra il teatro e certi aspetti scenici del fashion business. Sono da sempre una appassionata della storia del costume, della moda e dei tessuti. Ed è un sogno per me essere entrata a fare parte di questa Gucci family, dove l’obiettivo non è soltanto vendere degli oggetti di lusso, ma promuovere concretamente sia le arti sia la diversità, in ogni sua forma. Qual è la Gucci Zumi che ama di più? Mi piacciono molto tutte le varianti realizzate con i pellami esotici. E ho un’autentica passione per le versioni più piccole, con la tracolla a catena. Mi diverto molto a indossarne diverse tutte insieme. È vero che si occupa anche di disegnare gioielli? Sì, creo principalmente pezzi unici usando metalli differenti come l’ottone, il bronzo, l’argento e cerco catene e pietre vintage, ma anche cuoio, porcellane d’epoca oppure ossi su cui dipingo. Li considero come talismani, o una specie di corazza per proteggere l’individualità di ciascuno. Ultimamente avevo un po’ rallentato, ma devo assolutamente organizzarmi perché continuo a ricevere richieste e ho un bel po’ di pezzi da finire che aspettano solo di andarsene in giro per il mondo. Quali sono i suoi prossimi progetti? Sto lavorando alla registrazione di un nuovo disco con i Black lips che dovrebbe uscire a breve. Ma c’è anche un sacco di bella musica registrata con il mio altro gruppo, i Crush, che scalpita per essere presentata al pubblico. Stiamo per lanciare un video e siamo già pronti a girarne un secondo. Se dovesse riassumere il senso della collaborazione con Alessandro Michele, come la definirebbe? Quando l’universo ti allinea con qualcuno che vibra con la tua stessa frequenza, allora quella frequenza entra in risonanza e si crea un unico tono.

nella pagina accanto, un ritratto dell’attrice e musicista americana zumi rosow in un look gucci

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zanellato

franco zanellato. interview by Angelo ruggeri «Sono figlio di un guantaio veneto e l’amore per la pelle è qualcosa che ho sempre avuto così come la voglia irrefrenabile di sperimentare, testare nuove ricette, ma anche capire effetti e reazioni chimiche». Franco Zanellato, ceo e direttore creativo di Zanellato, si presenta con queste parole. La sua eleganza e la sua determinazione sono meravigliose, e trasmettono tutta la passione per il mondo della moda e del design. Nel passato, infatti, ha coltivato l’arte del savoir-faire nell’attività di famiglia, poi è andato a lavorare e studiare più approfonditamente la materia nella conceria di Arzignano, dove ha continuato a sperimentare. «Ho visitato tutte le aziende che lavorano il cuoio», ha spiegato il creativo in questa intervista. Quando ha capito che fare il designer sarebbe stato il lavoro della sua vita? Mia nonna mi diceva che ero testardo e avevo buon gusto. Lei, infatti, non riusciva a vestirmi: ero io che sceglievo cosa indossare. Aveva ragione, amo le cose belle e nel corso del tempo ho coltivato la mia passione per la materia. Sono, come si dice dalle nostre parti, un «Bòcia de botéga», cioè un ragazzo che impara il mestiere perché cresciuto nella bottega. Quali sono i valori di Zanellato? Tradizione artigianale e qualità. I nostri maestri artigiani lavorano accanto ai giovani dell’Accademia Zanellato, un percorso formativo che consente di tramandare l’esperienza del saper fare italiano, dell’innovazione, della cura e dell’amore per i dettagli. L’atelier Zanellato è il luogo dove l’alta tradizione artigianale della pelletteria incontra lo stile contemporaneo. Come è nato il modello di borsa Postina? Il mio obiettivo è sempre stato quello di creare qualcosa di mio, un prodotto finito, qualcosa di iconico. In un mondo di fast fashion, cercavo la borsa che andasse oltre il tempo. Si può dire che Postina nasca da un desiderio che ho cullato fin dall’infanzia, quello di voler costruire uno scrigno da custodire e tramandare, mai da possedere.

Cosa cercano le clienti in una borsa di Zanellato? Penso che cerchino uno stile di vita. Italiano, dinamico con la nostra it-bag Postina. Minimal, sensuale con Nina Zanellato. Rigoroso, essenziale, elegante, invece, con il modello Duo. Quali sono state le celebrity che hanno amato Zanellato negli anni? Valeria Golino, Karolina Kurvova, Margareth Madè, Cristiana Capotondi, Isabella Ferrari, Natasha Stefanenko, Ludovica Sauer e Barbara Snellenburg, per citarne alcune. Ma le mie celebrity sono anche le collezioniste di Zanellato. Prima fra tutte, mia moglie Federica. Come dialoga Zanellato con il mondo dei millennial? La moda è prima di tutto osservazione e passione per la ricerca. E i millennial sono il presente e il futuro della moda. Ho cercato di inserire, nelle mie collezioni, novità seasonal che proprio ai millennial strizzano l’occhio: funny pack, zaini e mini-bag di tendenza. Qual è il suo rapporto con i social network? Ho un mio profilo Instagram e posto quello che mi appassiona, dagli scatti backstage delle presentazioni, a quelli personali con la mia famiglia, fino a viaggi e suggestioni d’arte. C’è qualcosa che cambierebbe nel sistema moda italiano di oggi? Vorrei che non ci fossero politiche commerciali così aggressive. La mia filosofia di fondo non è mai stata quella di vendere ma costruire qualcosa. Camminare, non correre, continuare a fare un prodotto iconico. La nostra forza è la qualità. Come si vede nel futuro prossimo? Ancora più affamato, determinato e folle. Questo è quello che mi auguro di continuare a fare con la grinta e l’ottimismo che fino a oggi non mi sono mai mancati. Ha mai pensato a una linea di borse super preziose? Potrebbe essere una nuova fonte di ricerca. Si vedrà.

in alto, un ritratto di franco zanellato (foto giovanni gastel)

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back to saddle bag making of. by sara rezk

Era il 1999 quando John Galliano, allora direttore creativo di Dior, ha dato vita a un oggetto destinato a diventare l’accessorio di un’intera generazione di donne. Sulla passerella primavera-estate 2000 della maison sfilava una piccola borsa dalle forme che evocavano il mondo equestre. Lo stesso mondo che le ha dato il nome: Saddle bag. Le linee, infatti, ricordano quelle di una sella. All’alba del nuovo millennio, è diventata la borsa più ambita da star e donne comuni. Eletta reginetta dei guardaroba anche dalla più esperta delle modaiole del tempo Sarah Jessica Parker, alias Carrie Bradshaw, nella serie cult Sex and the city, che in una puntata ne ha sfoggiato un modello bianco. Anche se quello che ha consacrato la Saddle bag come accessorio must, in piena logomania, era quello nella stampa ideata nel 1967 dal direttore creativo Marc Bohan, dal nome Dior oblique. Lo stesso a cui si è ispirato l’attuale mente stilistica womenswar della griffe, Maria Grazia Chiuri, nel riportare in

auge questo pezzo a 20 anni dalla sua nascita. «La volevo più grande e robusta, ma anche colorata, con ricami, frange o perline perché, come un camaleonte, questa borsa si adatta a tutte le situazioni», ha spiegato la designer. La tela Dior oblique è tessuta su telai dagli artigiani della maison in Toscana, che prima effettuano il ritaglio, lavorando sui modelli e utilizzando la «i» di ogni Dior come punto di partenza, così da garantire la precisione estetica in ogni pezzo. Poi, quando gli 11 elementi sono pronti, un altro artigiano assembla le due parti che compongono la patta e li modella aiutato da un martello a testa tonda. In seguito cuce la parte anteriore e posteriore sui lati e alla base della borsa. Avviene poi l’impressione delle parole Christian Dior Paris effettuata a caldo sulla tasca interna. A lavoro ultimato, si aggiungono i pezzi metallici che la impreziosiscono: la D e le due fibbie CD ai lati. Nella fase finale, la borsa è controllata nei dettagli, proprio quelli che l’hanno resa iconica e immortale.

dall’alto, la saddle bag di dior e alcune fasi della sua lavorazione

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THE NEW FRAGRANCE

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AMINA MUADDI interview by ludovica tofanelli

Una passione fin da bambina. Per Amina Muaddi le scarpe rappresentano una vera e propria ossessione, tanto da decidere di farne una professione, prima come co-founder di Oscar Tiye, dal quale è uscita nel 2017, poi collaborando con Alexandre Vauthier per il lancio della shoe line del couturier, per il quale continua a disegnare le calzature. Fino alla creazione nel 2018 del suo brand omonimo, Amina Muaddi. «È il progetto più vicino al mio cuore, al 100% mio e al 100% me. Mi rivolgo a donne uniche, intelligenti, femminili, divertenti», racconta la designer in quest’intervista a MFF-Magazine For Fashion. Quando ha deciso di diventare una designer di calzature e perché? Ho sempre desiderato lavorare nella moda. Sono cresciuta con la passione per le scarpe. Ero ossessionata dai tacchi di mia madre, quando avevo 4 anni sfilavo in giro per casa con i suoi stiletto. Poi, quando ho avuto il mio primo paio a 14 anni, piuttosto bassi, mi sono sentita davvero felice. Dopo aver finito gli studi all’Istituto Europeo di Design ho iniziato a lavorare come stylist e fashion assistant, prima a L’uomo Vogue e poi da GQ America. Non mi sentivo però soddisfatta, volevo seguire la mia passione. Tornai in Italia e andai nella zona di Padova e Venezia. Ho trascorso circa un anno studiando la filiera della calzatura. A 26 anni ho lanciato il mio primo marchio e ora Amina Muaddi, ripartendo da zero. Quali sono gli elementi chiave del suo brand? Femminilità, alta qualità, freschezza. Mi piace che le donne si sentano empowered, cool e glamour, rimanendo sofisticate ed eleganti. Amina Muaddi è il progetto più vicino al mio cuore, al 100% mio e al 100% me. Mi rivolgo a donne uniche, intelligenti, femminili, divertenti, curiose. Donne cool che amano la moda ma non la prendono troppo sul serio. A cosa è ispirata la fall-winter 2019/20? È un’ode alla libertà, al divertimento senza vincoli, alle notti psichedeliche. La scena glamour

degli anni 70 che incontra quella dei primi anni 2000. Come primo volto del brand ha scelto Tina Kunakey. Perché? Tina incarna la massima bellezza moderna. Io ho un background misto e volevo qualcuno che lo rappresentasse, un melange di culture. È stato incredibile lavorare insieme. È una persona speciale, bella dentro e fuori. Alcune delle sue scarpe prendono il nome di amiche come Gilda D'Ambrosio… Ho deciso di chiamare le mie scarpe in base alle mie amiche e ai nomi delle mie muse. Donne che amo, mi piacciono e ammiro. Good shoes take you good places… È vero? Assolutamente. Le scarpe giuste hanno il potere di accrescere la fiducia e l’umore di una donna. E una donna forte e sicura può andare solo nei posti migliori. Cosa rappresenta per lei una scarpa? Sono come sculture, anche quando non sono indossate. Mi piace lavorare con le loro proporzioni e creare un prodotto con un equilibrio che lusinghi e faccia star bene le donne. Qual è oggi la chiave per il successo di un nuovo brand? È diverso per tutti. Aspetti importanti sono la passione, il duro lavoro, la modernità, il talento, le capacità imprenditoriali, le capacità comunicative, il sacrificio. Qual è il next step per lei e il suo brand? Crescita, espansione. Oltre la moda, quali sono le sue passioni personali? Design, arte, fotografia, film, libri. E soprattutto viaggi e natura. C’è qualcosa senza cui non può uscire di casa? Le chiavi e il telefono.

in alto, un ritratto di amina muaddi (foto isabella lombardini)

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Family business Q&A with Camilla and Giulia Venturini

Unite da un aspetto così simile che si fa fatica a distinguerle, dalla stessa data di nascita e dalle passioni per moda, fotografia e design. Da quando le gemelle Camilla e Giulia Venturini hanno fondato il loro marchio di borse, Medea, un anno fa, sono unite anche nel lavoro. Una label genderless che, per il nome, trae ispirazione da un film di Pier Paolo Pasolini del 1969, ma che nell’estetica è contemporanea e genderfluid. La loro capacità creativa è stata richiesta di recente anche dalla maison Trussardi, che le ha coinvolte nel progetto archive + Now. Che così come la loro attitudine, unisce passato e presente. Avete collaborato a Trussardi archive + Now. Com’è stato? Camilla: Il nostro contributo al progetto è stato a 360°, ci siamo occupate della scelta dei capi in archivio, styling, art direction e modeling. La parte piú interessante è stata la giornata in archivio. Ci siamo focalizzate sulla pelle e le mini bag, cercando di mixare anni 80 e 90 e introdurre alcuni capi e vestibilità dell’uomo nel guardaroba femminile. Giulia: Ci è stato chiesto di apportare un contributo completo al progetto, partendo dalla scelta dei capi d’archivio, per passare all’art direction dello shooting e al modeling. Ci siamo focalizzate linee minimali e i colori forti, che ci hanno permesso di dare un’immagine molto contemporary al progetto e al brand. E il vostro brand, invece, in che modo è nato? C: Il nostro marchio è nato un anno fa, tra Milano e New York. Le nostre vite e carriere erano separate e abbiamo deciso di unire le forze come sorelle e team creativo (non solo nella moda ma anche nella fotografia e nell’arte) e da questo è nato Medea, il nostro brand di borse in pelle made in Italy. G: Il marchio è nato da una borsa, circa un anno fa. Alcune scelte lavorative ci hanno portato in paesi diversi negli ultimi anni ma Medea ci ha riunite. Un nome importante. Come mai lo avete scelto? C: È un tributo a un film che amiamo molto di Pier Paolo Pasolini. G: La Medea interpretata da Maria Callas di Pasolini, lui è un regista

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che ci ha molto ispirate. Quali parole identificano la donna rappresentata da Medea? C: Medea non è un brand solo per donne, ma unisex. G: Medea non si identifica in un gender. Le parole che oggi la rappresentano sono contemporary, elegante, Made in Italy, provocante. Com’è nata l’idea di creare un family business? C: Abbiamo sempre sognato di iniziare un progetto insieme ma purtroppo la distanza, io ho abitato a New York per dieci anni mentre Giulia era in Europa, ce l’ha sempre impedito. Un’idea forte e uno strong feedback sui social sono stati la spinta che ci è servita per cominciare. G: Dall’unione delle nostre esperienze nel mondo del fashion, ma anche di arte, fotografia e design. Il ricordo più bello che ha con sua sorella? C: Durante un’intervista che abbiamo fatto recentemente sul set di una campagna di Louis Vuitton, alla domanda «qual è il tuo primo ricordo?», ci siamo ritrovate a raccontare esattamente la stessa storia, ovvero, che all’eta di due anni, nostro nonno si divertiva a trascinarci per casa sdraiate sullo zerbino. G: Nostro nonno che ci trascinava per casa a bordo di un immaginario tappeto volante. La sorpresa è che entrambe ricordiamo ancora quell’episodio, avevamo solo due anni! Nel lavoro, in che ruolo siete più portate? C: Come sorelle cerchiamo di affrontare entrambe tutti gli aspetti del business, anche se ormai è chiaro che io me la cavi meglio con photoshop e Giulia con il set design in showroom. G: Con il tempo abbiamo capito che ci piace affrontare assieme tutti gli aspetti del brand. I vostri sogni nel cassetto per il futuro? C: Che il brand continui a crescere in maniera organica e che possiamo creare sempre prodotti forti e campagne irriverenti. G: Che il nostro progetto rimanga unico e speciale. Sara Rezk

Sopra, camilla (in alto) e giulia venturini (foto Hanna Moon)

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giannico

Nicolò Beretta. interview by ludovica tofanelli Dreams come true. È il messaggio che trasmette Nicolò Beretta quando racconta la sua esperienza. Classe 1995, il giovane stilista milanese ha fondato il suo brand Giannico a soli 17 anni, conquistando in poco tempo l’attenzione del fashion system. Le sue calzature sono oggi distribuite attraverso rivenditori come Barney’s, 10 Corso Como, Rinascente e vengono indossate da celebrities come Lady Gaga. «La donna a cui mi rivolgo è un’edonista. Che cerca un pezzo flashy, cool, importante e divertente allo stesso tempo. Da portare giorno e sera», ha raccontato in quest’intervista il designer, che nel frattempo ha anche preso in mano la direzione creativa di L’Autre chose. E che il suo sogno, in fondo, lo sta realizzando giorno dopo giorno. Quando ha capito di voler intraprendere questa carriera? Ho sempre voluto fare questo mestiere. Fin da piccolo sono stato affascinato dalla moda, dall’arte. Da ciò che è bello in generale. Qual è stato il suo percorso? A 12 anni mi sono trasferito in Australia con la mia famiglia e ho iniziato a dedicarmi alle calzature creando un piccolo portfolio. A 15 anni ho avuto l’opportunità di mostrarlo a Franca Sozzani ricevendo il suo blessing. A 17 anni ho fondato Giannico. Ha iniziato molto presto… Il fatto di essere così giovane è un pro o un contro? Non è sicuramente semplice. Sono sempre indeciso se ritenerlo un vantaggio o meno. Quando sei così giovane devi avere la prontezza di riuscire a lavorare con persone molto più grandi di te, quindi cresci in fretta. Devi trovare il modo per farti rispettare ed essere credibile. È sicuramente difficile, ma cominciare giovane per me è stato fondamentale. Nel frattempo ha anche preso in mano la direzione creativa di L’Autre chose… Sì, sono entrato a settembre per occuparmi della direzione creativa di tutto, incluso l’abbi-

gliamento. Mi trovo davvero molto bene, ma la mia vera attitudine restano gli accessori. Come mai nel tempo ha scelto di specializzarsi negli accessori e in particolare nelle calzature? Fare accessori è un’attitudine quasi innata. Significa lavorare a un oggetto che poi sia bello. È lo stesso approccio di chi realizza un gioiello o disegna mobili. Bisogna lavorare sui dettagli ed esprimere un concetto attraverso un oggetto piccolo, ma che ha un estremo valore. Qual è la direzione intrapresa con Giannico? Molto bling bling. Ora stiamo lavorando in particolare sul mondo dei cristalli e delle applicazioni, creando prodotti davvero speciali. A quale donna si rivolge? A un’edonista. Che cerca un pezzo flashy, cool, importante e divertente allo stesso tempo. Da portare giorno e sera. Penso a donne come Giovanna Battaglia o Lady Gaga. Entrambe hanno indossato le mie calzature. Quali sono le sue passioni? Sono molto fortunato perché la mia prima passione è il mio lavoro. Mi affascinano però molto anche la cinematografia, l’arte e l’interior design. E poi soprattutto viaggiare. Sono un grande fan del Giappone, dell’India e, ovviamente, dell’Italia. Quali sono i next steps di Giannico? L’obiettivo è ritagliarci la nostra nicchia di mercato e focalizzarci su una tipologia di prodotto ben specifica e riconoscibile. Il brand sta crescendo bene e anche il team. Abbiamo appena aperto un meraviglioso showroom in via Bigli. Il sogno da realizzare? Direi che lo sto già realizzando giorno dopo giorno.

in alto, un ritratto di nicolò beretta, founder di giannico

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billion ways shoes by margherita malaguti

Non esiste un milione di buone ragioni per sapere dove nasce il footwear Louis Vuitton, ma un miliardo. Dietro questa cifra che corre all’infinito si nascondono oggi le possibili combinazioni delle sneakers Run away approdate su Now yours, il nuovo servizio di customizzazione a 360 gradi della storica maison francese, parte del gruppo Lvmh. Runners che ricordano quanto artigianalità e creatività possano sfidare e valicare i confini del su misura. Da un lato, le ginniche si presentano come un must have del guardaroba street ma di lusso, lanciate per la prima volta all’interno della collezione uomo a-i 2014/15. Dall’altro, grazie all’evoluzione della shopping experience, del modello rimane ora intatta e invariabile solo la silhouette. Il resto lo decide il cliente, che con Now yours diventa shoe designer. Si inizia selezionando il pellame tra le proposte in vitello pieno fiore, coccodrillo o un mix tra i due. Poi arriva il turno di definire le 13 diverse parti che formano la scarpa, per esempio suola, tallone, linguetta e lacci. Si passa alla scelta del colore con una palette che esplora nove tinte, dal blu navy al rosso senza trascurare gli evergreen del nero e bianco ottico. Se le opzioni non sono ancora abbastanza, è possibile decidere anche su quale tela dipingere. Monogram, Monogram eclipse e Monogram white sono i temi in cui si declina il pattern iconico, seguito da quello check del Damier graphite. L’ultima tappa è un cenno di vanità e arriva grazie alle iniziali dipinte o stampate a caldo, posizionabili sul retro o lato della calzatura. Così, tra lettere e caratteri speciali, brevi soprannomi e piccoli claim, il totale impenna

arrivando a nove zeri. Un numero altissimo anche per un brand che ha da sempre assecondato richieste individuali per fare delle trasferte veri e propri viaggi su misura e che dal 2009 ha impresso, nel suo Dna e sulla sua pelletteria, lettering e strisce colorful su larga scala con il servizio informatico Mon monogram. Ma anche una cifra che ha bisogno di organizzazione perfetta e impareggiabile consumer care. Tutte caratteristiche della Manufacture de Souliers, nucleo produttivo e fiore all’occhiello del malletier francese a Fiesso d’Artico, visitato in esclusiva da MFF-Magazine For Fashion. Una fabbrica-gioiello come un grande parallelepipedo che sorge nel cuore della Riviera del Brenta, tra i distretti del settore calzaturiero di alta gamma più importanti del mondo. E un ambiente sospeso di 14 mila metri quadrati dove macchina e uomo trovano armonia tra arte e spazi verdi. È qui che arrivano i disegni dagli incubatori creativi di Nicolas Ghesquière e Virgil Abloh, rispettivamente al timone di donna e menswear Louis Vuitton. Ed è qui che si trasformano in prototipi in legno e poi in scarpe rigorosamente made in Italy, ordinatamente suddivise per atelier. Se Alma è il laboratorio dedicato alla donna, Taiga è quello pensato per l’uomo e Nomad il centro dei mocassini. Speedy, infine, è il luogo dove prendono vita sneakers e Run away. Tra macchinari che stampigliano, tagliano, riscaldano, raffreddano e un assemblaggio che rimane handmade. Tra una manifattura che cura il dettaglio e una produzione che cerca ritmi sostenuti, con attese da sette settimane e un servizio a breve anche online. Please, wait. Don’t run away.

sopra, l'ingresso della manufacture de souliers di louis vuitton a fiesso d'artico

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in questa pagina, alcuni momenti di lavorazione e assemblaggio del footwear louis vuitton (foto stefano roncato)

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paula cademartori interview by sara rezk

Quando è partita dal Brasile per venire in Italia, nel 2005, Paula Cademartori non aveva idea che dopo quasi dieci anni il suo nome sarebbe diventato quello di un’affermata maison di accessori. Eppure è partita. Anche se i genitori la volevano medico o avvocato. «Ho iniziato a sette anni a disegnare scarpe a casa di mia nonna, a Porto Alegre. Nella vita se si ha un sogno bisogna seguire l’istinto, è quello che ci porta avanti». Così ha fatto Paula, che ha dato le dimissioni da Versace, dopo due anni e mezzo come designer di borse, per cercare un’altra strada. E oggi è alla creatività di un marchio distribuito in tutto il mondo, che porta il suo nome, e che dal 2016 fa capo al gruppo Otb-Only the brave di Renzo Rosso. Quando ha capito che voleva diventare una designer di accessori? Prestissimo. A sette anni, quando ero a casa di mia nonna a Porto Alegre, disegnavo scarpe. Quando è arrivato il momento di andare all’università ho scelto di frequentare il corso di laurea in industrial design. Quello serale, perché di giorno lavoravo. Nonostante tutto mi sono laureata prima del previsto, perché il mio sogno era quello di venire in Italia. E infatti nel 2005 è andata via dal Brasile… Sì, sono arrivata a Milano per conseguire un master in design di accessori all’Istituto Marangoni. E stata un’esperienza unica, ero affascinata da questo crocevia di culture e dal fatto di essere in contatto con il mondo che amavo. Avevo solo 21 anni, non avevo nulla in mano, l’unico modo per emergere era ottenere i migliori risultati. E ci è riuscita? Al corso sono stata tra le migliori. Nell’anno del conseguimento del diploma sono arrivata quarta su 300 studenti. Così ho avuto la possibilità di produrre la mia prima borsa per il progetto che Marangoni realizzava con Orciani. E in più l’azienda mi ha anche chiesto di lavorare nell’ufficio stile e mi sono trasferita un anno nelle Marche.

Poi cosa è successo? Desideravo tornare a Milano. Un giorno finalmente è arrivata una chiamata da Versace e da loro sono rimasta due anni e mezzo, durante i quali ho capito davvero cosa significassero il sacrificio, la responsabilità e le difficoltà. Nel frattempo, Marangoni assieme a Vogue talent stava richiamando alcuni tra i migliori studenti per un progetto di scouting e avevano scelto me per gli accessori. Il mio capo non mi aveva dato il permesso, così mi sono licenziata. Bisogna avere il coraggio di rischiare per raggiungere questi obiettivi... Mi sono trasferita in Veneto e in una settimana ho creato una collezione di 20 modelli di scarpe da presentare. Grazie a questo progetto le mie creazioni sono state pubblicate per la prima volta in un editoriale. Licenziarsi da Versace per una pubblicazione sembra una follia, ma nella vita bisogna seguire l’istinto, la pancia, altrimenti non si va avanti. A quel punto anche i miei genitori hanno iniziato a sostenermi e mio padre mi ha aiutato a dare vita al mio brand, a registrare il marchio e ho iniziato a produrre borse senza licenziatari, nel 2010. Sono passati quasi dieci anni da allora. Quando ha capito che ce l’aveva fatta? Mai. Ancora oggi non credo di avercela fatta. Faccio quello che mi piace. Ma ancora non sento di essere arrivata. Karl Lagerfeld è arrivato, lui sì che ce l’ha veramente fatta. Che cosa ha rappresentato per lei Karl Lagerfeld? Ha cambiato il mondo della moda con la sua visione. Karl Lagerfeld, Coco Chanel e Saint Laurent sono state le mie icone guida. Sono stati rivoluzionari, oggi non vedo eredi. Qual è il sogno nel cassetto di Paula? Far crescere ancora il mio brand e aprire il primo monomarca. L’anno prossimo celebrerà il primo decennio del suo marchio... Sì, e lo festeggeremo, anche se non so ancora come… Stay tuned.

in alto, un ritratto di paula cademartori

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point of view

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Un’intervista doppia ad alta velocità. Domande e risposte rapide con una coppia di marchi, big player dell’headwear. Per scoprire quali sono i punti chiave del loro lavoro. By Angelo Ruggeri

Nick Fouquet Founder Nick Fouquet

Matteo Gioli, Veronica e Ilaria Cornacchini Founders SuperDuper hats

Tre parole per definire il suo lavoro Passione, anima e cuore.

Autentico, libero e naive.

Come è cambiato il mondo dell’headwear rispetto a quando avete iniziato a lavorare? È più moderno. Le classiche sagome del passato sono ancora in uso, ma penso che il cappello abbia avuto una rinascita e sono felice che io e il mio team siamo stati pionieri del cambiamento. Le persone sono più creative quando indossano un cappello.

Nel 2010, quando abbiamo presentato la nostra prima collezione esistevano solo i marchi storici di headwear e un po’ polverosi. È stato proprio questo che ci ha spinti a iniziare: era un terreno vergine su cui c’era tantissimo da sperimentare.

I social media hanno cambiato il vostro modo di lavorare? Assolutamente. È uno dei più importanti strumenti di marketing oggi. Onestamente posso dire con certezza che non saremmo dove siamo oggi senza l’aiuto dei social media. Sono stati in grado di espandere il nostro «raggio d’azione».

Sì, ma non direttamente, ovvero non abbiamo mai fatto scelte importanti perché in un certo momento i social media chiedevano qualcosa in particolare. Siamo sempre riusciti a sfruttare i social e non essere sfruttati da loro.

Cosa cercano i clienti del vostro marchio in un cappello? Cercano l’unicità: questo è ciò che offriamo. Crediamo che ognuno abbia le proprie caratteristiche personali, così come dovrebbe averle il loro cappello.

Un prodotto vero. Siamo un brand a 360°, offriamo il baseball cap e il feltro 250 grammi a tesa piattissima fino al beanie e a quello di paglia, mantenendo l’autenticità del brand.

In che modo fate ricerca? Prendo ispirazione da tutto e tutti, è come un fulmine nel mio cervello. L’ispirazione è una cosa quasi divina: può provenire dalla musica, da un film, dalla natura.

La ricerca è spontanea. Parte da una canzone o da una foto. Manipoliamo il materiale ottenendo qualcosa che talvolta sarebbe difficile disegnare.

Cosa cambiereste del sistema moda di oggi? Credo che alcune cose siano un po’ arcaiche e che i grandi marchi siano un po’ troppo «corteggiati». Ci sono tanti giovani designer di talento, ma è difficile sentire le loro voci.

Forse l’ipocrisia. I grandi brand cercano di apparire più ecosostenibili quando in realtà riempiono il mondo di prodotti che non rispecchiano il potere d’acquisto della gente.

Cosa amate di più del vostro lavoro? Amo la parte creativa, la costruzione del marchio e le idee alla base di tutto.

L’imprevedibilità, ovvero partire dall’idea e conquistare chissà quale altra cosa.

Cosa, invece, non vi piace? Gestire le persone.

Le «bad vibes», le dinamiche poco trasparenti e gli opportunisti.

Uno dei momenti più belli della vostra carriera? Perché? Quando sono entrato a far parte dei member del Cfda-Council of fashion designers of America. Mi sono sentito così legittimato e parte attiva di questo sistema.

Quando Ben Harper ci ha detto: «Se avessi mai sognato un cappello, avrei sognato questo», rivolgendosi a uno dei nostri modelli.

Un sogno da realizzare? Inaugurare uno store monomarca a Parigi.

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Rendere i nostri figli fieri di noi.

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business view

RiVOLUzione in vista

Dopo la nascita di Kering eyewear, la fusione tra Essilor e Luxottica e il recente arrivo di Thelios (Lvmh), il centro del potere nel mondo dell’occhialeria si è spostato a Parigi. Ma la produzione è ancora made in Italy. BY fabio gibellino Dopo la moda, tocca agli accessori. I colossi del lusso francesi hanno varcato di nuovo le Alpi e, nel giro di un quadriennio scarso, si sono presi anche il controllo, o quasi, del mondo dell’occhialeria. L’ultima data simbolica è quella del 5 marzo scorso quando sul listino di Borsa italiana il titolo Luxottica ha cessato di essere contrattato. Naturale epilogo della fusione tra la società italiana con il produttore francese di lenti Essilor. Accordo che ha dato vita a un gigante che nel 2018 ha registrato un fatturato da 16,1 miliardi di euro e utili per 1,87 miliardi. Certo, il maggior azionista della nuova realtà con il 32,77% delle quote continua a essere Leonardo Del Vecchio, che ne è anche il presidente esecutivo, e i rumors di settore dicono che l’addio a Piazza Affari potrebbe essere in realtà solo un arrivederci. Però la sostanza non cambia di molto, perché la sede della newco è quella di Essilor a Charenton-le-Pont e il nuovo titolo, EssilorLuxottica, è negoziato alla Borsa di Parigi. Purtroppo, o per fortuna, quello di Luxottica non è un episodio isolato. Tornando indietro di qualche mese, a essere protagonista della nuova ondata transalpina è stata Lvmh, che attraverso una ricapitalizzazione da 21,9 milioni di euro ha dato vita a una joint-venture con Marcolin, realtà da circa 500 milioni di euro. Ma a differenza di EssilorLuxottica, la nuova società, battezzata Thelios, pur controllata al 51% dal colosso di Bernard Arnault, ha sede in Italia, a Longarone, e anche l’amministratore delegato è italiano: Giovanni Zoppas. Il suo obiettivo principale, naturalmente, è quello di produrre direttamente le linee di occhiali delle proprie etichette, partendo da Celine e Loewe, per poi far rientrare tutte le altre in licenza, magari convincendo anche Louis Vuitton a farlo, considerando che per ora si occupa direttamente delle sue linee attraverso fornitori. Progettualità che in realtà segue le orme di quanto fatto da François-Henri Pinault nel 2014 con la creazione di Kering eyewear, società oggi amministrata da Roberto Vedovotto (ex ceo di Safilo) che produce gli occhiali di tutti i marchi di proprietà del gruppo (Gucci, Saint Laurent e Bottega veneta) oltre che, tra gli altri, anche Cartier e Puma. Chi continua a battere bandiera italiana sarà invece De Rigo, gruppo da circa 430 milioni di fatturato che può contare su brand di proprietà come Police e Sting. In licenza produce, tra gli altri, Jean-Paul Gaultier, Lanvin, Furla, Nina Ricci e John Varvados e, dopo

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aver perso Loewe (Lvmh), sembra essere al sicuro. A rischiare molto di più invece è Safilo, che nonostante sia una realtà da oltre un miliardo di euro di fatturato, e dopo aver già dovuto affrontare la perdita di Gucci, nei prossimi anni sarà costretta a rinunciare anche a Dior (fine 2020), Givenchy (2021), Fendi (2022) e Marc Jacobs (2024). Ma se la mappa del potere cambia, quella della produzione resta inalterata, con l’Italia, e in particolare il Veneto, ben salda al centro del mondo ottico. Perché, e a Parigi lo sanno benissimo, savoir-faire si scrive in francese ma si realizza in italiano. E allora ecco che l’occupazione artigiana non ne risentirà, tutt’altro, anche perché il settore continuerà a crescere, anche se non a correre. A conferma di ciò è l’esito della 49ª edizione di Mido, la più grande fiera al mondo dedicata all’occhialeria, che ha chiuso i battenti in leggera crescita con circa 59.500 presenze provenienti da 159 Paesi nei tre giorni di manifestazione. Non solo, perché lo studio elaborato da Anfao-Associazione nazionale fabbricanti articoli ottici racconta di un 2018 in cui il valore della produzione ha sfiorato 3,9 miliardi di euro, in crescita dell’1,6% rispetto al 2017. Per un comparto che, se guardato negli ultimi dieci anni, ha visto compiere un balzo del 77%. Performance che si traduce in un aumento delle aziende produttrici, 867 nel 2018, quattro in più rispetto ai 12 mesi precedenti e, soprattutto, un aumento della forza lavoro del 2,3% per un totale di 17.673 addetti. Che è una cosa non da poco considerata la situazione macroeconomica in cui versa il Paese. Situazione che l’occhialeria italiana contribuisce a migliorare grazie al suo saldo commerciale sempre e costantemente attivo. Nel 2018 è stato di quasi 2,5 miliardi di euro, più o meno sugli stessi livelli del 2017. Mentre per quanto riguarda il 2019 tutto è ancora nel segno dell’imprevedibilità. Ma, al netto di crisi sino-americana, Brexit e mercato interno, le aspettative continuano a essere positive, soprattutto grazie al recupero delle esportazioni verso gli Stati Uniti, che è di gran lunga il mercato di riferimento.

in queste pagine, alcuni momenti di mido milan eyewear show 2019 (foto Tullio M. Puglia / Getty Images for MIDO)

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business view

la pelletteria corre verso sud

i brand del lusso creano sedi e stabilimenti in Toscana ma poi distribuiscono una parte degli ordini tra Napoli e la dorsale adriatica, principalmente nel distretto di Teramo. Le aziende crescono e si pone un problema di formazione qualificata. by andrea guolo La centralità di Firenze e della Toscana è fuori discussione, ma non c’è solo la forza catalizzatrice della leather valley toscana, ormai giunta alle pendici dell’Amiata con il potenziamento del distretto senese, in aggiunta a quello fiorentino e al polo produttivo della Valdarno aretina, nel panorama della pelletteria italiana. Una specializzazione, quella pellettiera, che continua a sostenere la crescita della fashion industry tricolore: secondo i dati elaborati dal centro studi di Confindustria moda, l’export dei primi dieci mesi 2018 è aumentato del 10,3% a valore, per un giro d’affari superiore a 6,7 miliardi di euro, contro una media complessiva del +2,6% dell’intero comparto tessile-abbigliamento-accessori. Oltre la metà del valore, secondo le stime di Assopellettieri, dipende dal sistema manifatturiero della Toscana. Ma se Scandicci e il suo territorio confermano il ruolo di capitale mondiale della borsetta di lusso, con l’ultimo investimento da 40 milioni di euro annunciato da Fendi a fine febbraio per lo stabilimento di Bagno a Ripoli con cui la griffe romana raddoppierà la forza lavoro portando a 500 il numero di dipendenti locali, è altrettanto vero che ogni città regnante ha bisogno di un supporto di altri territori per prosperare. Nella fattispecie, un contributo significativo sta arrivando dai due principali cluster pellettieri del Centrosud ovvero Napoli e l’area adriatica compresa tra Marche e Abruzzo. I due distretti in questione presentano caratteristiche diverse ma sono accomunati dalla capacità di gestire tutto il ciclo produttivo e l’intera gamma di modelli. Le differenze tra Napoli e l’area adriatica sono innanzitutto logistiche e la posizione geografica, ha spiegato il direttore di Assopellettieri Danny D’Alessandro, avvantaggia sicuramente il polo campano. «Napoli ricalca, seppur in scala ridotta, le caratteristiche di Firenze, potendo disporre di un fondamentale snodo commerciale e logistico come il suo porto, mentre a Scandicci gli headquarters delle griffe sono situati lungo l’autostradaa, e avendo a breve distanza il supporto di un distretto conciario come quello di Solofra e di altre realtà locali che forniscono le materie prime ai pellettieri. Inoltre, ci sono almeno quattro realtà produttive con oltre 500 addetti legate alle grandi firme del lusso ma all’interno delle quali continua la produzione a marchio proprio. Una parte considerevole dei marchi esposti al Mipel, circa una ventina, è basata a Napoli e provincia, per cui non esiste solo capacità produttiva ma anche gestione dal concept

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alla commercializzazione». Marche e Abruzzo, invece, appaiono logisticamente svantaggiate ma fanno leva su un know how consolidato di lavorazione della pelle, come dimostra la leadership nazionale marchigiana in ambito calzaturiero. «Parliamo di un distretto importantissimo», ha sottolineato D’Alessandro, «anche se è stato colpito non solo dalla crisi, ma anche da noti eventi geologici. Tra le province di Macerata, Fermo, Ascoli Piceno e Teramo sono presenti realtà di eccellenza che operano in parte a marchio proprio e in parte come terziste delle griffe». Se nella pelletteria toscana comanda Firenze, nell’asse medio adriatico è Teramo a recitare la parte di protagonista, con la città di Alba Adriatica divenuta una sorta di piccola Scandicci. A livello numerico, sono un migliaio le ditte legate alla moda iscritte alla locale Camera di commercio e la parte preponderante riguarda la lavorazione della pelle. «Le aziende primarie sono circa cento, con un giro d’affari stimato di 180 milioni di euro», ha affermato Francesco Palandrani, presidente del Consorzio Atea, che raggruppa 50 società per complessivi 100 milioni di ricavi, unite per promuovere a livello internazionale la produzione abruzzese. «Nel 2018, l’export di pelletteria della provincia di Teramo è aumentato del 57%», ha evidenziato Palandrani. Certamente le aziende di Alba Adriatica, Tortoreto Lido, Colonnella e degli altri comuni teramani a vocazione pellettiera hanno sofferto, dal 2014 in poi, il calo dell’export verso la Russia e hanno dovuto sacrificare di conseguenza le produzioni a marchio proprio per abbracciare il contoterzismo. Oggi, racconta Paladrani, i 20 marchi che più contano in Europa danno lavoro alla pelletteria abruzzese e nel distretto inizia a esserci carenza di manodopera qualificata. «Tra pochi anni la mancanza di ricambio generazionale potrebbe creare seri problemi produttivi. Per questo stiamo accelerando i tempi per l’apertura di un polo formativo a supporto delle aziende», ha precisato il presidente del consorzio, titolare di Gemini, azienda specializzata nella vendita di pelli finite per pelletteria e calzatura. La sede della scuola è stata già individuata ad Alba Adriatica e il progetto sarà sviluppato da un soggetto privato accreditato, con il coinvolgimento dei maestri pellettieri abruzzesi. «A settembre dovrebbe essere già in piena attività», ha auspicato Palandrani. Problemi simili iniziano a colpire anche la zona di Napoli. Mariani Di Lillo, imprenditore a capo di My choice (inserita nel progetto Elite di Borsa Italiana), ha investito ingenti risorse inaugurando a inizio anno un nuovo stabilimento realizzato con il sistema domotico e in chiave Industria 4.0, assumendo 50 nuovi addetti per un totale di 100 dipendenti che entro dicembre saliranno a quota 150, dati i programmi in crescita legati per metà al marchio proprio e per metà alle collaborazioni con i luxury brand. E non è stato facile trovare manodopera da formare. Per questo, seguendo l’esempio di Kiton nella sartoria maschile, My choice sta progettando un’accademia di formazione interna chiedendo finanziamenti a Fondimpresa. «Realizzare un centro formativo territoriale avrebbe richiesto più tempo, con notevoli difficoltà di coinvolgimento delle altre imprese perché in questo territorio non c’è una visione d’assieme. Noi avevamo bisogno di operare nell’immediato e ci siamo mossi da soli», ha spiegato l’imprenditore, che è anche consigliere della sezione moda in Unione industriali a Napoli. E Di Lillo spiega così la forza della pelletteria in Campania: «Si fonda sulla flessibilità del personale, sulla capacità dei nostri artigiani, sulla cura maniacale per il dettaglio. Siamo in grado di customizzare il prodotto a seconda delle esigenze del cliente ed è per questo che molti brand del lusso, pur essendo impegnati a rafforzare la produzione interna con fabbriche di proprietà, aumentano il numero di commesse affidate ad aziende campane». L’unico tabù ancora non sfatato, per Napoli e per Teramo, riguarda l’investimento diretto dei brand, che fanno produrre in loco ma non hanno mai aperto dei propri centri, a differenza di quanto accade in Toscana. Da qualche tempo circolano rumors legati a un marchio leader di Firenze, che parrebbe intenzionato a scommettere sulla Campania, ma per ora le voci non hanno avuto un seguito.

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in queste pagine, da sinistra in senso orario, alcuni momenti delle lavorazioni dei brand leaf bags e my choice e due immagini del terzista pasomar

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report

buyers picks

LA PAROLA AI compratori worldwide PER STILARE LA CLASSIFICA DEI pezzi più hot, tra SFILATE E showroom. BY ELISABETTA CAMPANA e margherita malaguti

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PRADA BAGS

Thanks to: LINDA FARGO @ BERGDORF GOODMAN ROSY BIFFI e CARLA CEREDA @ BIFFI BOUTIQUES EKATERINA MOISEEVA @ BOSCO DI CILIEGI LEE GOLDUP @ BROWNS IDA PETERSSON @ BROWNS TIBERIO PELLEGRINELLI @ BUYER CONSULTANT VERONICA MATTI @ CLUB 21 MAURIZIO COLTORTI @ COLTORTI MARCO CATENI @ DIVO ALBERTO FERRANTE @ ERALDO CATERINA VENTURINI @ ERALDO FERAS AL YASIN @ EVER FASHION LUXURY GROUP LUKE RAYMOND @ FARFETCH DENIS V. EVSTAFIEV @ FASHIONISTAS CONCEPT MASSIMILIANO DE MARIANIS @ FOLLI FOLLIE ANDREA GALBIATI @ FOLLI FOLLIE DANIELA KRALER @ FRANZ KRALER GABRIELE PANCHERI @ G&B, NEGOZIO FEDERICO GIGLIO @ GIGLIO KIYOHIKO TAKADA @ ISETAN MITSUKOSHI SABINA ZABBERONI @ JULIAN FASHION AMOS E ANGELA ADANI @ LA BOUTIQUE DI ADANI GIANNI AMATI @ LEAM PAOLO MANTOVANI @ MANTOVANI JOSH PESKOWITZ @ MODA OPERANDI CARMEL IMELDA WALSH @ MODES (STEFANIAMODE.COM)

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celine over-the-knee leather boots

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PRADA COMBACT BOOTS

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GUCCI WARM-TONED BAG

VERSACE VIRTUS BAG

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dior saddle belt

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m e n f a ll - w i n t e r 2 0 1 9 / 2 0

best bags

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fendi nylon baguette

FIONA FIRTH @ MR PORTER TIFFANY HSU @ MYTHERESA KEN DOWNING @ NEIMAN MARCUS BRUCE PASK @ NEIMAN MARCUS e BERGDORF GOODMAN JEFFREY KALINSKY @ NORDSTROM BEPPE NUGNES @ NUGNES 1920 LIA PAGONI @ PAGONI GROUP PANCRAZIO PARISI @ PARISI SALVATORE PARISI @ PARISI NATHALIE LUCAS VERDIER @ PRINTEMPS KAREN VERNET @ PRINTEMPS MATILDE D’OVIDIO RATTI @ RATTI MIRCO OCCHIALINI @ RATTI FEDERICA MONTELLI @ RINASCENTE ALEXANDRA DOMINGUEZ PORTA @ SANTA EULALIA LUIS SANS @ SANTA EULALIA CLAUDIO BETTI @ SPINNAKER BEPPE ANGIOLINI @ SUGAR FABRIZIO BUZZONI @ TIZIANA FAUSTI Diego Cossa @ Tiziana Fausti RICCARDO TORTATO @ TSUM HIROFUMI KURINO @ UNITED ARROWS LUC DHEEDENE @ VERSO VINICIO RAVAGNANI @ VINICIO ROBERTO GRASSI @ WISE

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best shoes

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prada chunky shoes

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valentino co-lab birkenstock

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fendi bucket hat

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dior saddle belt bag

foto Pietro D’Aprano

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maxi bag Marni

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Prada stacked-up belts

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business view

gli accessori fanno volare i budget

BORSE E SCARPE RILANCIANO IN CREATIVITÀ ED ESCLUSIVITÀ, GRAZIE ALLA SVOLTA BACK TO CHIC DELLE PASSERELLE UOMO E DONNA F-W 2019/20. I BUYER APPREZZANO E CONFIDANO SU UN netto AUMENTO DELLE VENDITE. BY elisabetta campana Stivali super trendy. Scarpe dalla forte personalità. Borse, tracolle e marsupi che si reinventano. Cinture di nuovo alla ribalta. Oltre a micro bag, mini zaini e piccola pelletteria porta smart phone o carte di credito. Un’indiscussa propositività contraddistingue gli accessori per l’autunno-inverno 2019/20 assieme a materiali preziosi o, comunque, innovativi, dettagli ricercati e lavorazioni eccellenti. La nuova linfa creativa, che spesso strizza l’occhio al Dna del brand, si traduce in allettanti ed esclusive proposte, in grado di poter conquistare la clientela femminile e maschile. I buyer italiani e stranieri intervistati da MFF-Magazine For Fashion sulle fashion week uomo e donna di Milano, Parigi, Londra e New York, plaudono alle collezioni accessori come non succedeva da stagioni, dichiarando di aumentare i budget. Tra i brand più segnalati spiccano Prada, Gucci, Fendi, Versace, Bottega veneta, Celine, Saint Laurent, Valentino, Dior, oltre ai marchi di calzature come Gianvito Rossi, Roger Vivier e René Caovilla. Secondo i compratori, borse e calzature, ma anche cinture, cappelli, occhiali, guanti, calze e gioielli, hanno beneficiato della svolta new tailoring e back to chic che ha dominato, con successo, le passerelle. Il bel vestire, tornato definitivamente di moda, s’impone dunque anche a livello di accessori, dopo lo strapotere dello streetwear e delle sneaker, adesso più in ombra, che avevano determinato un’omologazione del dress code. Il risultato è un’offerta variegata giocata sulle differenti occasioni d’uso, con molteplici varianti da giorno e da sera. In special modo è la donna ad avvantaggiarsene. «Sono state presentate tante splendide borse: le nostre clienti avranno l’imbarazzo della scelta. Sicuramente lo stivale sarà un must della prossima stagione fredda, grazie anche alle molte gonne sotto il ginocchio e i gaucho pant visti, in special modo, a Parigi», ha detto Jeffrey Kalinski, fondatore di Jeffrey e designer fashion director dei department store americani Nordstrom. Soddisfatta anche Federica Montelli, head of fashion dei department store Rinascente in Italia: «Sono tornate in primo piano le borse a mano, più strutturate, con bei dettagli e materiali pregiati, oltre alle tracolle che restano importanti. Tante borse di valore, senza tempo». Per quanto riguarda le calzature, è lo stivale a farla da padrone: «Dalla versione alta più elegante, magari over the knee come quella di Celine da indossare sopra i jeans, al combat boot, per esempio di Prada, fino allo stivaletto stile trekking, che di fatto sostituisce le

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sneaker. In generale la forma squadrata nelle calzature è la più direzionale, anche se restano le punte. Tante inoltre le suole spesse», ha proseguito Montelli, aggiungendo: «Tra le scarpe si fanno spazio le décolletté: sicuramente d’effetto quelle colorate, tipo le fluo di Saint Laurent. E poi tornano le calze, colorate, coprenti magari ton sur ton, o con la stessa stampa dell’abito, vedi Dries Van Noten, oppure a pois per esempio di Saint Laurent, o, ancora, impreziosite da Swarovski». Sulla stessa lunghezza d’onda Daniela Kraler, titolare dei luxury multibrand store Franz Kraler a Dobbiaco e Cortina D’Ampezzo: «Una stagione decisamente ricca. Sul fronte bag, dalla tote alla tracolla, fino alla clutch, ciò che mi ha colpito è la preziosità e morbidezza delle pelli, con tanto struzzo, pitone e stampa cocco, e la ricercatezza dei dettagli e lavorazioni: veri e propri capolavori che di certo giustificheranno meglio gli elevati prezzi di vendita». Elemento distintivo per le borse di molti brand l’iniziale del nome in metallo come la C di Chloé e Celine, la B di Balenciaga, la V di Versace. «Lettere, ma anche morsetti, ganci, piccole fibbie ripresi pure negli stivali, altro must have di stagione. Stivali tutti con il tacco alto, in media da 7,5 a 10 centimetri, generalmente però grosso e confortevole», ha aggiunto Kraler, precisando: «Ho trovato un nuovo slancio nelle cinture, soprattutto alte, le Obi, ma anche nei gioielli raffinati, non vistosi, negli occhiali dalla foggia grande e nei cappelli. Con il bel vestire fanno rima i guanti: diversi brand li hanno proposti, con o senza logo. Infine, tante baby bag per smartphone, carte di credito, anche lipstick». A livello merceologico, le micro bag rientrano nella categoria degli small leather good, non delle borse: «In Russia, come un po’ ovunque, le donne non rinunciano alle bag di dimensioni normali e considerano le micro un grazioso complemento, magari da attaccare alla borsa più grande», ha spiegato Riccardo Tortato, fashion director e-commerce e menswear di Tsum (Mercury group) a Mosca, precisando: «Per quanto riguarda invece gli uomini, il borsello e la sua evoluzione nella tracolla continuano ad avere un mercato florido nell’ex Urss, mentre marsupio, tracolla, zaino e gli articoli più fashion hanno preso il posto del borsello nella fascia di età più giovane». In Oriente, dove i giovani sono particolarmente trendy e digital oriented, saranno particolarmente gradite tutte le proposte small presentate per il prossimo autunno-inverno: «Zaini, marsupi e borse riducono in modo significativo la loro dimensione, perché ormai basta avere un cellulare anche per pagare», ha commentato Kiyohiko Takada, fashion director di Isetan Mitsukoshi in Giappone, aggiungendo: «Le scarpe maschili sull’onda del new tailoring, scommettono sulla tomaia classica, in versione stringata o mocassino, ma non rinunciano alla suola più grossa, alta, a volte, carrarmato». Fermo restando la crescente importanza della personalizzazione, dell’esclusività e del servizio ad hoc: «In quest’ottica abbiamo appena riaperto, dopo un completo restyling, la zona accessori del nostro flagship store Isetan men a Tokyo: abbiamo inserito scarpe customizzate di marchi artigianali come Saint Crispin’s e Gaziano Girling, ma anche borse e piccoli accessori speciali di brand tipo Prada, Gucci, Dior e, per le valige, Rimowa. Oltre al servizio di skin care e grooming». L’accessorio, dunque, protagonista per il prossimo inverno, diventa sempre più un elemento distintivo nel guardaroba femminile, ma anche maschile.

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in queste pagine, dall'alto in senso orario, le vetrine di rinascente duomo; la rinnovata area accessori di isetan men a tokyo; lo store franz kraler di cortina d'ampezzo

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time capsule

accessor-hype

hit list shoes

hit list bags

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versace

foto Matthieu Dortomb

giorgio armani

louis vuitton

PEZZI CULT fall-winter 2019/20. UNA SELEZIONE DI BORSE, SCARPE E TIPS DESTINATI A DIVENTARE I MUST-HAVE DELLA STAGIONE. BY ANGELO RUGGERI

dior

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dsquared2

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isabel marant

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FALL-WINTER 2019/20. accessori selezionati per ogni stile e occasione d’uso. Ecco i cult della prossima stagione. by MARGHERITA MALAGUTI boss lady Ballantyne

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must-have

men’s seasonal tips periodo blu christian louboutin

stranger things hoka one one sky

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FALL-WINTER 2019/20. accessori selezionati per ogni stile e occasione d’uso. Ecco i cult della prossima stagione. by MARGHERITA MALAGUTI top gun tag heuer

acid mountain spektre eyewear

business match bianchi e nardi

bally

piquadro

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gallo

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Fjällräven Rossignol X Philippe Model Paris sebago

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the bridge

campomaggi

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pierre hardy N

ella cattedrale di Saint Sulpice circolano energie oblique. è la chiesa esoterica di Parigi (quella citata ne Il codice da Vinci), con il suo obelisco «astronomico», attraversato a mezzogiorno da un raggio di sole. Ed è qui, sul fianco della facciata sud, che Pierre Hardy, designer delle calzature e dei gioielli di Hermès, ha scelto di aprire lo showroom e gli uffici del suo brand. Un angolo di Parigi raffinato e pieno di mistero, nel quale il creativo ha preso casa, lontano dalle grandi arterie del lusso e dai tradizionali circuiti del fashion. Diverso, anche in questo. «Da qui sento i cori della chiesa, senza contare le campane i cui rintocchi ritmano le giornate», ha esordito Hardy con un largo sorriso, seduto dietro una scrivania ecletticamente disordinata, in cui libri, riviste, pennarelli e uno stivaletto si dividono gli spazi, creando un’armonia lontana dalle limpide geometrie del designer. Lei cita spesso pittori e correnti artistiche. Per lei l’arte è un punto di partenza? Non so se l’arte guidi la mia ispirazione. È in ogni caso qualcosa che amo. Figurativa o astratta, è l’espressione più alta di un ideale di bellezza slegato dalla realtà e mi interpella più della moda stessa, forse perché non disegno abiti ma accessori, quindi oggetti. Lei insegue un ideale di bellezza? Bellezza è una parola di cui oggi tutti hanno paura. Alle sfilate si vedono molte cose brutte, la ricerca della bellezza può passare per forme distorte, non accademiche, poco piacevoli. Si pensi per esempio a Comme des garçons… eppure troviamo qui una forma di armonia che ci fa scoprire altre espressioni del bello. È quello che esploro: nuovi modi di creare bellezza. La ricerca della forma ideale è inesauribile, spinge a fare una collezione dopo l’altra; quando avrò trovato la forma definitiva della scarpa indispensabile mi fermerò. Ma questo non succederà mai. Lei non pratica lo storytelling. Le sue collezioni sono piuttosto un equilibrio di forme e di colori? Parto dalle forme, è vero, mi piace inventarne di nuove, non sono un narrativo, non racconto mai storie, ne sono incapace, ammiro chi riesce a scrivere film o romanzi perché non io saprei da dove cominciare. Io parto da una forma, un colore, un tacco e a poco a poco mi allargo. La creazione prende forma, ma non illustro mai una sceneggiatura con i miei modelli.

Quindi preferisce la pittura astratta a quella figurativa? Effettivamente, nell’immagina stessa non c’è una storia. Ma non tutti gli artisti che amo possono essere «utilizzabili». Penso a Louise Bourgeois o al minimalista Carl Andre, intraducibili nel mio lavoro. Il designer di moda, in particolare di scarpe, è confrontato al rapporto tra estetica e funzione. Lei come si colloca? Ci sono creativi che disegnano abiti immettibili o che inseriscono in una collezione elementi che vanno solo visti o fotografati. Nella moda tutto è possibile, è un supporto d’espressione. Il mio lavoro di stilista consiste nel far dimenticare il design. Si deve poter camminare nelle scarpe, certo, ma chi le porta non deve pensare a questo. La moda può essere arte? La moda è un’arte applicata, una mediazione. Non esiste in sé, non esiste senza produzione, comunicazione, distribuzione ecc. Nell’arte trovo una forma più pura. La moda passa per il linguaggio della seduzione, che dev’essere più accessibile. Nella seduzione la scarpa è un accessorio con un posto particolare? C’è qualcosa di speciale nella scarpa. È forse l’unico accessorio di moda che siamo obbligati a portare. Non possiamo uscire a piedi nudi, per ragioni climatiche e culturali. Questo ci fa riflettere su come trasformare quest’obbligo in piacere, come è successo con il cibo, attraverso la gastronomia… Questo spiega lo slancio creativo in questo settore. Le forme degli oggetti della moda sono così sofisticate che sfuggono alle costrizioni: le scarpe non sono più solo per camminare, le speaker da basket non sono solo per lo sport, eccetera eccetera. Come è arrivato alla moda? Per caso. Ho studiato disegno, pensavo di diventare professore. Ho poi cominciato a fare illustrazioni per magazine di moda. Le scarpe sono arrivate per un concorso di circostanze, non era un progetto. Mi ha divertito, è diventato il mio mestiere. Cosa le ha dato la voglia di dar vita al proprio marchio? Avevo lavorato per Dior, Balenciaga e per Hermès (dove crea tutt’ora scarpe e gioielli, ndr), era un momento molto creativo, ma c’erano modelli che non potevo disegnare per loro perché troppo personali e radicali, e quindi mi sono creato uno spazio in cui dar libero corso alle mie intuizioni. Era il 1999, ho cominciato con 15 modelli. Quando si lavora per un brand ci sono diversi obblighi: il rispetto della sua

testo silvia manzoni - foto valerio mezzanotti @ callvalerio

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nella foto, pierre hardy nel suo studio a parigi

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personalità e storia è tra questi e le mie idee non potevano essere inquadrate in tali contesti. Chi sono i clienti di Pierre Hardy? Ho tre negozi (Parigi, New York, Tokyo) e so che il ventaglio è largo in termini di età. Le definirei persone curiose, che cercano una rarità, non sono attirate dal logo, indipendenti, con un gusto personale e voglia di libertà. Le mie donne cercano una femminilità meno formattata, espressa attraverso codici poco classici. Lei ha una musa? Non ne ho. Un ideale di bellezza femminile è per me l’attrice e amica Amira Casar, sospesa tra Oriente e Mediterraneo. Una bellezza classica, che però, a mia sorpresa, sceglie modelli avanguardisti. Perché è sorpreso? Mi stupisco sempre quando vedo le persone portare le mie scarpe. E succede spessissimo che i modelli che hanno ai piedi non corrispondano a quelli che, a prima vista, avrei immaginato per loro. Non so dire perché. Lei è stato tra i primi a fare delle sneaker scarpe per tutti i giorni, dando loro lettre de noblesse…

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Io funziono molto sull’intuizione. La sneaker è stato un desiderio repentino. Era un periodo in cui disegnavo scarpe minimal, sofisticate, e forse è stato un ricordo di gioventù che mi ha attraversato, un gusto d’adolescenza. Mi sono venuti in mente gli anni 80, quando gli Usa erano alla moda, si andava in giro con i pattini a rotelle… Era anche un momento in cui inauguravo l’uomo e ho lanciato le basket non per strategia, ma perché avevo la sensazione di doverlo fare. Le intuizioni sono importanti… Jean Cocteau diceva che lo stile è un modo semplice di dire cose complicate. Credo che oggi i creativi che hanno più successo siano quelli che realizzano quello che amano, in maniera onesta e profonda. Penso che Alessandro Michele da Gucci adori fare quello che fa, ha un vero gusto, ama andare fino in fondo. Ma se gli si chiede perché non saprà rispondere. Non c’è razionalità nel modo di dirigere la creatività. E lo stampato con il Cubo 3D? In realtà, detesto i print e non ne porto mai. Però mi sono detto che nella vita delle collezioni c’è bisogno di animare le superfici e questo motivo mi è apparso moderno perché grafico ma arcaico. Ha un versante universale, è apparso la prima volta su una décolleté dalle linee

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molto sexy a contrasto con la geometria del cubo. Lei ha studiato danza molto tempo. Questa disciplina influenza le sue creazioni? Non direttamente. Forse la danza contemporanea mi spinge verso un’estetica non classica, sfalsata, guida il mio occhio nel modo plastico di vedere la simmetria, di riprendere un certo vocabolario corporeo che questa disciplina ha introdotto. La danza mi ha sensibilizzato al rapporto col corpo, osservo come mi siedo, come cammino, come mi vede la gente, cosa posso correggere. Lei cita spesso l’architettura. Quali sono le sue città del cuore? Adoro Parigi. Esteticamente, anche New York e Los Angeles. Ma la mia città ideale forse è Roma. Se fossi ricco e potessi fare quello che voglio vivrei a Roma. O forse in Sicilia. In un palazzo a Noto. E di Parigi cosa le piace? Parigi ha un patchwork di stili e angoli incredibili, che vanno scoperti magari solo alzando la testa. Adoro Place de la Concorde, le facciate di Gabriel che la delimitano sono bellissime; e i due musei che si fronteggiano sulle Tuileries la rendono maestosa. Cos’è il lusso per lei?

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La rarità. O, ancora meglio, l’opera unica, che esiste una sola volta. Qualcosa che non serve a niente, che non dovrebbe essere là, ma indispensabile perché non ha equivalenti. Può essere una piccola cosa, unica e preziosa, anche solo per se stessi. Ho molto riflettuto sul lusso disegnando l’alta gioielleria di Hermès. Anche i gioielli sono arrivati per caso? Non immaginavo assolutamente di fare gioielli. Mi è stato proposto, più di 15 anni fa, da Jean-Louis Dumas. La sua forza, ancora una volta, è stata l’intuizione. Hermès si è costruita così, attraverso la potenza di un casting costruito su successive rivelazioni. Eclettico, ma dietro il quale si intuisce un quadro ben preciso. Anche qui, la forma prevale sulla narrazione, vero? C’è sempre un filo conduttore nelle collezioni, le forme raccontano storie legate all’heritage di Hermès. Prendiamo l’esempio della spilla da balia. Due anni fa, il tema generale era «Il senso dell’oggetto» e ho cominciato a pensare a qualcosa che tutti conoscono, come la spilla da balia, un accessorio di arte povera, in sé già quasi un gioiello; come la scarpina di Cenerentola, che viene trasfigurata, oltrepassata dal suo significato. Ho voluto dare un valore supplementare a oggetti

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che non guardiamo più. E poi è stato divertente associare un simbolo punk alla casa del lusso supremo. Nella sue collezioni c’è un’interconnessione tra maschile e femminile? Oggi è difficile rispondere sulla gender fluidity. Da tempo esiste il maschile nel femminile, nell’altro senso è più complicato. Quando lavoro per una donna sono al suo servizio e sorge la connotazione della seduzione; per l’uomo sono implicato in modo personale e creo accessori che mi piacerebbe indossare. E siccome non ho voglia di plateau metallizzate o scarpe con i tacchi, non le faccio. Con la sneaker non rifletto sul genere: è la scarpa nella quale l’uomo accetta più fantasia, con colori, pelliccia, strass, tutto va bene. In generale, non ho una predilezione per l’interscambio dei generi. Che trovo bellissimo

e sensuale, ma adatto a un nucleo molto ridotto di persone e che deve fermarsi con l’età: va bene quando si è più giovani. Io mi rivolgo a un uomo che seduce, ma non in quel registro. E comunque c’è sempre un modello nella collezione maschile che è in qualche modo sospeso tra i due generi. Come lavora e come crea? Non ho regole né cerimoniali. Vorrei avere abitudini fisse, spesso questi rituali sono una forma di protezione. Invece lavoro in qualsiasi posto e momento, perché disegnare è un elemento indispensabile della mia vita e lo faccio ovunque, su pezzi di carta, buste, giornali… Ma dopo si ritrova? Dopo? Cerco dappertutto! Full translation at page 89

nelle foto, alcune proposte fall-winter 2019/20 firmate pierre hardy. Digital Assistant: Sabina Bruccolieri; Production: Toggle (Off)

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valleverde.it

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stephen jones I

l cappellaio più celebrato e spiritoso del Regno Unito non ha bisogno di presentazioni. Nato in un paesino del Cheshire nel 1957, Stephen Jones ha studiato moda alla Central Saint Martins, e da oltre 40 anni lavora alle sue creazioni, amatissime da celebrity come Lady Gaga, Kate Moss, Mick Jagger e Rihanna, e da royalty come Meghan Markle e, in passato, Lady D. La prima attività commerciale di Jones è stata disegnare una linea di cappelli per Fiorucci nel 1979. Nel 1980 il proprietario della boutique londinese Blitz, Steve Strange, ha sostenuto finanziariamente il primo salone di modisteria di Jones, che ha aperto nel seminterrato del negozio PX, a Covent Garden. Alla vigilia di Capodanno 1980, il designer si fece rasare la testa dagli amici, e scoprì che senza capelli la sua testa era perfetta come manichino femminile, e che poteva diventare il modello di se stesso. Ora sviluppa tutte le sue idee e disegni sul suo cranio, compresi i modelli in rassegna alla mostra personale al Royal Pavillion di Brighton, in corso fino al 9 giugno. Tutti pazzi per lui, insomma, compresa la regina Elisabetta, che nel 2010 lo ha nominato Cavaliere dell’Ordine dell’Impero Britannico. Innamorato di Londra, è lì che ha cominciato a sbarcare il lunario, ed è lì che si trova la sua intima boutique, al 36 di Great Queen street, a due passi dal Covent garden, dove MFF-Magazine For Fashion lo ha incontrato durante l’ultima fashion week. I designer di cappelli nel mondo si contano sulle dita di una sola mano. Qual è la realtà odierna di questo accessorio, che una volta era cruciale? I cappelli sono creati da pochissimi specialisti, è vero. Ma in realtà ci sono molti piccoli artigiani nel mondo che realizzano cappelli. E Internet ha creato una comunità globale anche in fatto di hats. Questo è anche il motivo per cui la mia collezione è incentrata sulla comunicazione. Perché può essere una fonte di ispirazione per persone che vivono in Australia o in America o in Asia... Se non ci aiutiamo a vicenda, il tutto crollerà. Per esempio, ci sono persone in Cina che conosco e mi chiedono: «Dove posso procurarmi questo o quel tessuto?», e io dico «dall’Italia»…

Erano gli anni 80 quando ha aperto la sua prima boutique. Cos’è cambiato, da allora? Tutto. Adesso produco molto di più, devo continuare a reinventarmi in un ambiente molto competitivo, con una moda che va veloce. Però è divertente. Londra aveva un’atmosfera diversa a quei tempi. È rimasto ancora un hub creativo? Le cose nella moda provengono da luoghi diversi in tutto il mondo. Per lo sport si va in America, per i tessuti si va in Italia. Se vuoi la creatività vieni a Londra. Questo era vero quando ho iniziato nel 1980 e lo è ancora oggi. Ha collaborato con molti stilisti. Tra tutte le maison, ce n’è una in cui ha lasciato il cuore? Dior, senza dubbio: ho visto passare di lì i migliori creativi del mondo. Ho lavorato con John Galliano, Raf Simons e Maria Grazia Chiuri. È stata e continua a essere una bellissima avventura. Sta lavorando con alcuni artisti, cantanti o attori? Assolutamente sì. Ho iniziato quando ho disegnato i miei primi cappelli. Erano amici miei che poi sono diventati cantanti, persone come Boy George, gli Spandau Ballet, ho fatto cose per Mick Jagger e David Bowie molti anni fa. E lo faccio ancora, ho fatto cose per Rihanna in questo momento... Anche per Pink. Gli artisti amano i cappelli perché possono cambiare il loro aspetto. C’è qualcosa che non ha ancora fatto? Come un’opera... No, non ho mai fatto un’opera, ma sto lavorando a un balletto in questo momento, che sarà a Roma. Ma non posso dire di più. Come nasce la sua passione per i cappelli? Credo sia una passione molto British… Sa da dove viene la parola milliner (modista, in inglese)? Viene da Milano perché i primi cappellai inglesi erano italiani e portarono la paglia da Livorno, che era la paglia migliore e più costosa, e vennero qui e si stabilirono a circa 20 km a nord di Londra, e perché erano di Milano divennero dei Millan-ers..... Ecco come è nata la produzione di cappelli in Inghilterra. Qual è il primo cappello che ha creato?

testo tommaso palazzi - foto gio staiano

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nella foto, un ritratto di Stephen Jones

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in queste pagine, due scatti dalla mostra ÂŤstephen jones hatsÂť, in scena a brighton fino al 9 giugno. sopra, un manichino con una creazione del designer e un abito firmato giles deacon; a destra, il busto del milliner con un copricapo cinese (foto Tessa Hallmann / Brighton & Hove Museums)

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Il primo… L’ho fatto con una vecchia camicetta di mia sorella, incollata su una scatola di Corn Flakes. Ed è stato poi decorato con alcuni iris di plastica, spruzzato di argento e blu con vernice natalizia. Era il 1976. Ce l’ha ancora? No, ma ho ancora i fiori perché sono di plastica. Voglio dire, molto tempo dopo che io sarò polvere, quei fiori avranno lo stesso aspetto! Che cosa la ispira? Tutto mi ispira. I cappelli hanno molto a che fare con l’aria e guardano verso l’alto, quindi tendo a non scavare, piuttosto io volo... Dove nascono le sue creazioni? Di solito è a casa la domenica mattina sul mio divano. È lì che faccio schizzi. Come distribuisce i suoi cappelli a livello internazionale? Specialty store come Dover street market, che ci distribuisce in tutti i suoi punti vendita da Londra a Los Angeles, Seoul e Taipei. Avete un e-commerce? No, non abbiamo un nostro e-commerce, ma per esempio Dior vende online i cappelli che faccio per loro, come Comme des Garcons... Certo i miei clienti amano venire qui, vivere un’esperienza, avere un cappello fatto su misura, vedermi di persona. Cosa le piace e cosa non le piace del digital? Instagram mi piace perché comunica visivamente cose nuove e non. E i cappelli hanno a che fare con la novità. Non riguardano il mondo serioso ma sono parte di un ambito funny, qualcosa legato al divertimento che è una parte importante della moda. Prende le misure di tutti i suoi clienti? Certo, naturalmente. Quanto tempo ci vuole per fare un cappello? Uno semplice richiede circa 3 o 4 ore, ma la maggior parte dei cappelli fatti a mano richiede 2 o 3 giorni o anche una settimana o due. Quante persone lavorano con lei? Circa 20, da almeno 20 o 25 anni. E sono tutti pazzi! Quando progetta un cappello, parte dallo schizzo o assembla i materiali sul manichino? Uso gli approcci più diversi. Non c’è un modo fisso.

Qual è stato l’incidente più felice mentre disegnava un cappello? Non è infrequente qualche scivolamento accidentale della matita. Le cose buone possono derivare dal mettere le cose nella direzione sbagliata o dal commettere un errore. Se si cerca di lavorare troppo su qualcosa, si tende a ucciderla. La tua prima idea è spesso la migliore. Cosa rende un cappello di successo? Penso che sia molto semplice: deve rendere felice qualcuno. Tutto qui. Dovrebbe ispirare le persone? No, è un cappello, e basta. Dovrebbe essere un commento politico? No, è solo un cappello! La lezione più preziosa imparata dal suo lavoro? Esprimere il proprio punto di vista senza smettere di ascoltare. È l’unico modo per scoprire i sogni e provare a realizzarli. La cosa di cui va più orgoglioso? Il titolo ricevuto dalla Regina nove anni fa. E l’aver disegnato cappelli per Lady Diana e Meghan Markle. Cosa pensa della Brexit? È una follia. Appartengo a una generazione cresciuta all’interno dell’Unione Europea, orgogliosa di essere sia europea che britannica. Il punto di forza di una città come Londra è l’integrazione. Spero che la parola «Brexit» si dissolva in una bolla, in un ricordo a cui guarderemo tra qualche anno tirando un sospiro di sollievo. Cosa spera per il futuro? Che accanto alla meccanizzazione e alle alte tecnologie resti sempre il fatto a mano. E che la moda continui a essere un’esperienza culturale. Cosa e chi la ispira? I viaggi, la vita, i film. Ma soprattutto le persone. Una tra tutte? Anna Piaggi, una donna eccezionale. E Meghan Markle, un fenomeno sotto tutti i punti di vista. Qual è il più grande complimento mai ricevuto? Vivienne Westwood una volta ha detto: «Quando una donna entra in una stanza con un cappello di Stephen Jones, tutti commentano quanto sia bella in contrasto con l’aspetto originale del cappello». Full translation at page 89

in alto, alcuni cappelli al Stephen Jones Millinery salon di londra

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The Best

fendi Debutti e addii. Per l’a-i 2019/20, Fendi presenta per la prima volta la leggendaria Baguette in versione maschile e incorona guest designer menswear Karl Lagerfeld, da 54 anni al timone delle collezioni donna della maison, poco prima della sua scomparsa lo scorso 19 febbraio. La borsa nata negli anni 90 sfila per lui in nylon e cross body, assieme a boots con tacco cubano adornati di logo graziato. Per lei, invece, alti stivali a calzino dalle tinte accese sposano bags furry, multitasking e multi-set. In look impreziositi da grandi occhiali, fumé e multicolor.

The Best

aquazzura Da est a ovest, da New York a Los Angeles. Per Aquazzura di Edgardo Osorio, la fall-winter 2019/20 è il viaggio di globe trotters cosmopolite e bohemian. A comporre la collezione sono stivali per nomadi metropolitane, ossimori su tacchi in cui convergono attitude rilassata e glam urbano. Boots e booties il cui immaginario si tuffa nei ’70s e l’estetica si nutre dei pattern sui kaftani dell’icona del decennio Talitha Getty. Accanto, frange western dal sapore wild. Con ricami e patchwork che rendono omaggio ai costumi balcanici in un mix di pelle, morbido suede e prezioso serpente.

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The Best

bottega veneta Avant-garde. Incontro-scontro tra edonismo e intelletto. Gli accessori dell’a-i 2019/20 di Bottega veneta sono esercizi di raffinatezza che segnano il debutto in passerella del nuovo direttore creativo Daniel Lee. «Cosa voglio per il brand? Farlo diventare il migliore del mondo», ha detto lo stilista ex Celine mixando la sapienza artigianale del marchio al suo incedere concettuale. Con lavorazioni leather che partono dalla geometria dell’intrecciato, simbolo della maison, per esplorare una dimensione sintetizzata. E quadrati matelassé. Che fanno rima con décolleté.

The Best

roger vivier Cosa immaginano le donne quando sognano. Domanda innocentemente voyeurista e ispirazione che ha accompagnato Gherardo Felloni, anima creativa di Roger Viver, nel pensare le sfaccettature della collezione f-w 2019/20. Sette, come le stanze che hanno ospitato la presentazione, tra una foresta stregata e un cinema che proietta Belle de Jour. Nuovi stili si ispirano agli archivi come il tacco Polichinelle, ideato nel ’60 e ripreso dal XVIII secolo. A completare borse e scarpe, satin e velluti su cui svetta inconfondibile la fibbia-bijoux, firma di monsieur Vivier.

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The Best

valentino

foto Greg Kessler

foto Greg Kessler

Approcci liquidi. Contaminazioni libere. Per la stagione a-i 2019/20 di Valentino, il direttore creativo Pierpaolo Piccioli imbastisce dialoghi a più voci per creazioni a più mani. Il menswear apre il suo atelier alla strada e ai sandali democratici in co-lab con Birkenstock. Accanto, il linguaggio couture si sporca grazie a grafiche impattanti su bag e sneaker, frutto di brandcrossing con il designer Jun Takahashi di Undercover. La donna si fa arte e il duo Piccioli-Takahashi conferma la liaison. Tra stampe di amore, amanti e fiori. E cappelli bonnet.

The Best

delvaux Ultra-belgitude. La collezione f-w 2019/20 di Delvaux è un omaggio alle origini belghe della casa di pelletteria. Le stesse del pittore René Magritte, la cui Fondazione ha collaborato a bag surrealiste, a volte giocose o invece sobrie e discrete. A dipingere le nuove opere trasportabili a mano o a tracolla è una tavolozza di neri che arriva sulle nuvole e tocca picchi di azzurro cielo. Dove il mistero caro all’artista diventa il pretesto per giochi a nascondino, tra fodere che aprono sulla pioggia di bombette del quadro Golconda e dettagli come buchi di serrature da cui guardare attraverso.

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The Best

dolce&gabbana Eleganza, dal vocabolario dell’alta moda. E fatto a mano, lessico della sartoria. Sono questi i termini che parlano degli accessori a-i 2019/20 di Dolce&Gabbana. Regole del nuovo corso degli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, che giocano con il decorativismo senza trasformare il tanto in troppo. Per la donna sono borse incrostate di perle e fila di strass, gli stessi che corrono a cascata su occhiali da gatto. Accanto, bijoux scintillanti ovunque, anche in versione uomo. E scenografici fiocchi metallici sulle teste, da abbinare a preziose calze broccato.

The Best

sergio rossi Grafismi sfrontati ai piedi di donne audaci. E rouches vanitose per esaltare il loro lato femminile. La nuova collezione di Sergio Rossi inaugura la linea Sergio (a lato) reinterpretando un logo anni 70 della maison, tra punte sfilate e tacchi bold. Mentre righe a contrasto celebrano le notti ’80s sui dancefloor con balli a tutte le altezze. Nascono le prime sneaker Extreme che debuttano assieme a suole chunky ed effetti vinilici, affiancate da pelli laminate e maglie di cristallo. Per l’occasione, lo showroom di Brera si trasforma grazie all’artista Gary Card.

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The Best

prada Bad romance. Il sogno tormentato sulle passerelle f-w 2019/20 è firmato Prada. Con paura e pericolo da una parte. E dall’altra il lato più positivo della moda. Una dicotomia che trova voce negli accessori. Su tutti, vince la bag in pellame new calf e total black, capiente quanto basta da portare a mano oppure sull’avambraccio come la borghesia bene. Austera e minimale, ma capace di rivelare, oscillando, una femminilità naïf. Come Miuccia Prada, al timone del brand, che sposa l’horror per rimanere fedele a se stessa, tipicamente (e tremendamente) Milano.

The Best

sophia webster Vanitas vanitatum et omnia vanitas. La collezione a-i 2019/20 di Sophia Webster è un elogio al capriccio. Eccentriche, le shoes sono un’estasi visiva che mixa materiali e dà vertigini, complice l’altezza dei tacchi. Che sono ora dritti come un fuso, ora a rocchetto con un incavo drammatico. Rossi bon-bon accendono sandali rosa metallico, mentre applicazioni gioiello sono preziose ghette sulle décolleté nere. Spazio a balze e perle, protagoniste di scarpe da sogno azzurro rococò. E a farfalle screziate, che si posano sul tallone come firma del brand.

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The Best

gucci Feroci colpi di luce celestiale. Paradiso sadomaso di angeli che sfilano sotto maschere dai lunghi aculei con gambe riparate dalle ginocchiere. Dietro cui nascondersi, con cui proteggersi. La collezione f-w 2019/20 di Gucci è un tripudio di accessori che espandono il corpo controllando la distanza tra chi guarda e chi è guardato. Per il direttore creativo Alessandro Michele l'immaginario si costruisce su collari francesi del ’700 e ’800. Accanto, scarpe spaiate, bag bourgeois e pesanti orecchie d’oro, omaggio agli ornamenti funebri e al sentire ultraterreno.

The Best

valextra Gli anni 60 e la nuova Milano. Per l’a-i 2019/20 Valextra firma il back to future con la reintroduzione della SerieS. Disegnata per la prima volta per i business traveller del 1961, la doctor bag custodisce un’eleganza maschile e tasche al suo interno. Con forme morbide abbraccia il design di un decennio di linee arrotondate, dei Maggioloni Volkswagen e della Fiat 500. Ma torna in nuove proporzioni, tre grandezze e una palette di tinte rétro. Pelli esotiche si aggiungono al vitello lucido e martellato. E le tiralampo si ispirano a geometrie pure, quelle dell’architetto veneziano Carlo Scarpa.

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76 | MFF-Magazine For Fashion

The Best

dior

foto Morgan O’Donovan

foto Morgan O’Donovan

foto Ines Manai

Femminili e femministe. Per l’a-i 2019/20, le donne di Dior sfilano sotto cappelli da pescatore, libertini e bon-ton grazie alle delicate velette. Che celano lo sguardo insieme a sagomati occhiali a specchio. Il direttore creativo womenswear Maria Grazia Chiuri sceglie poi quadretti vichy extra-large, omaggio alle teddy girl degli anni 50. E li alterna ai reinterpretati codici della maison. Come la Saddle bag, ora in versione verde british. Per l’uomo lo stilista Kim Jones punta invece su un appeal combact, tra selle marsupio active e rigidi zaini composti da più parti.

The Best

officina del poggio Double win. Da una parte Officina del Poggio, casa di pelletteria made in Italy fondata nel 2014 dalla coppia Allison Hoeltzel e Marco Savini e da allora promotrice di un design utile di calibrati elementi, ciascuno con uno scopo. Dall’altra l’ambassador della moda sostenibile Arizona Muse, già modella di fama mondiale. Insieme, OdP e Muse hanno creato una capsule f-w 2019/20 che veste le bag del marchio con nuovi materiali eco-friendly. Accanto alle fibbie, velluti biologici tinti con coloranti organici. E pelli sintetiche di poliestere, riciclato e certificato.

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MFF-Magazine For Fashion | 79

Moschino

Balenciaga

Saint Laurent

Gcds

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foto sara cimino

foto Marco Ovando

Kenzo

trends

foto Ragazzi nei paraggi

fluo

Prada Nina Ricci

Philipp Plein

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Ashish

Versace

Christopher Kane

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Fendi

Peter Pilotto

Drome

Chiara Boni la petite robe

Anteprima

Versace

Miu miu

Dolce&Gabbana

Michael Kors

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Antonio Marras

Etro

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MFF-Magazine For Fashion | 81

Oscar de la Renta

Anna Sui

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Dries Van Noten

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Henrik Vibskov

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MFF-Magazine For Fashion | 83

Emporio Armani

Tod’s

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foto Piotr Niepsuj

Max Mara

Jacquemus

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Ermenegildo Zegna XXX Palm angels

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Chanel Fendi

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Prada

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Off-white

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84 | MFF-Magazine For Fashion

Maison Margiela

Chanel

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Courrèges

Richard Quinn

Giambattista Valli

Michael Kors

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Koché

Cédric Charlier

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MFF-Magazine For Fashion | 85

Marques Almeida

Philosophy di Lorenzo Serafini

Balmain Ermanno Scervino

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House of Holland

Comme des garรงons

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Valentino

Blumarine

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86 | MFF-Magazine For Fashion

Burberry

trends

bourgeois

Givenchy

Hermès

Victoria Beckham

Stella McCartney

Louis Vuitton

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Salvatore Ferragamo

Boss

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Tory Burch

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MFF-Magazine For Fashion | 87

Alberta Ferretti

Marco De Vincenzo

ChloĂŠ

Erdem

Celine

JW Anderson Rochas

Jil Sander

Roberto Cavalli

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Acne studios

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Bottega veneta

Giorgio Armani

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88 | MFF-Magazine For Fashion

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international pierre hardy Story by Silvia Manzoni Photos by Valerio Mezzanotti In Saint Sulpice’s cathedral, oblique energies circle. It’s the esoteric church of Paris (the one mentioned in the Da Vinci Code), with its «astronomical» obelisk, crossed at noon by a ray of sunshine. And right here, on the side of the south façade, Pierre Hardy, Hermès’ footwear and jewellery designer, chose to open his brand’s showroom and offices. A refined and mysterious corner of Paris, where the creative has chosen to get a house, far from the great arteries of luxury and the traditional circuits of fashion. Different, even in this aspect. «From here I hear the choirs of the church, not to mention the bells whose rings bring rhythm to every day», said Hardy with a large smile, sitting behind an eclectically disordered desk, in which books, magazines, markers and a boot divide the spaces, creating a harmony far from the clear geometry of the designer. You frequently talk about painters and artistic currents. Would you say art is a starting point for you? I don’t know if art is what guides my inspirations. But it’s undoubtedly something that I love. Figurative or abstract, I feel as if it the highest ideal expression of beauty which is disconnected by reality. It talks to me more than fashion itself, maybe because I don’t design clothes, I design accessories, so objects… Do you follow an ideal of beauty? I think beauty is something that everyone is afraid of today. At fashion shows, you see a lot of ugly things, looking for beauty can go through distorted figures, non academic ones, ones that are not that pleasant. For example, Comme des Garçons… yet here we find a form of harmony that makes us discover other expressions of beauty. This is what I explore: new ways of creating beauty. The search for the ideal shape is inexhaustible, it pushes us to make one collection after another; when I have found the definitive shape of the indispensable shoe, that’s when I will stop. But this will never happen. You don’t do a lot of story-telling. Are your collections more of a balance of colours and shapes? I do start from shapes, this is true. I enjoy inventing new ones, but I am not a narrative, I don’t tell stories, I don’t know how to. I admire those that write films and romances because I would never know where to start. I start with a form or a shape, a colour, a heel and I slowly start expanding, the creation takes a form, but I never illustrate a scene with my creations. So you prefer abstract painting instead of figurative? Actually, there’s no story in the picture itself. But not all the artists I love can be «usable». I think of Louise Bougeois or the minimalist Carl André who are untranslatable in my work. A fashion designer, for footwear in particular, is confronted with the link between aesthetic and functionality. Where do you think you stand? There are designers that produce clothes that are not wearable or that insert elements in collections that can only be seen or photographed. In fashion, anything is possible, it’s a way of expression. My job of being a designer consists in making one forget about design. One must be able to walk with the shoes, of course, but whoever wears them must not think about this. Can fashion be art? Fashion is an applied art, a mediation. It doesn’t exist per sé, it doesn’t exist without production, communication, distribution etc… In art I find purer forms. Fashion passes through the seduction language, it has to be more accessible. In terms of seduction, is the shoe an accessory that has a particular spot in the list? There’s something special in a shoe. It’s maybe the only accessory in fashion that we are obligated to wear. We can’t go out with bare feet, for climate and cultural reasons. This makes us reflect on how we can transform this obligation into something that’s pleasurable, just like what happened with food, through gastronomy… This explains the creative momentum in this area. The forms of fashion objects are so sophisticated that they escape constraint: shoes are no longer just for walking, basketball sneakers are not only for sport, etc… How did you reach fashion? By pure coincidence. I studied design, I thought I was going to become a teacher. Then I started doing illustrations for fashion magazines. Shoes just came from circumstances, it wasn’t a project. I had fun doing it, so it became my career. What made you want to give life to your own brand? I had worked for Dior, Balenciaga and for Hermès (where he still designs shoes and jewelry), it was a very creative moment, but there were models that I couldn’t design for because they were too personal and too radical, therefore I created a space where I could freely portray my intuitions. It was 1999, I started with 15 models. When you work for a brand there are several obligations: respect for its personality and history is among them and my ideas could not be framed in such contexts. Who are Pierre Hardy’s clients? I have three stores (Paris, New York, Tokyo) and I know that there is still space for more. I would define them curious people, looking for something that’s rare, not attracted by the logo, independent, with a personal taste and desire for freedom. My women are looking for a less formatted femininity, expressed through less classic codes. Do you have a muse? I don’t have any. An ideal of feminine beauty for me is actress and friend Amira Casar, a beauty that is between East and Mediterranean. A classic beauty, but to my surprise, she chooses avant-garde models. How come you are surprised? I am always surprised when I see people wearing my shoes. It happens often that shoes that they wear don’t correspond

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to what, at first glance, I would have imagined for them. I don’t really know how to explain why. You were the first to create sneaker shoes for every day wear, giving them a letter of nobility… I work a lot with intuition. The sneaker was a sudden wish. It was a time when I designed minimal, sophisticated shoes, and perhaps it was a memory of youth that crossed me, a taste of adolescence. I was reminded of the 80’s, when the U.S. was fashionable, you would go around on roller skates... It was also a time when I was inaugurating the menswear and I launched basketball shoes not out of strategy, but because I had the feeling of having to do it. Intuitions are really important… Jean Cocteau said that style is an easy way of saying complicated things. I think that creatives today that have more success are the ones that create what they love, in an honest and profound way. I think Alessandro Michele at Gucci loves what he does, he has real taste, he loves going all the way. However if you ask him why, he doesn’t know how to respond. There is no rationality in the way one manages creation. What about the 3D cube printout? Actually, I hate prints and never wear them. But I told myself that in the life of the collections there is a need to animate the surfaces and this motif seemed modern to me because it is graphic but archaic at the same time. It has a universal side. It appeared for the first time on a décolleté with very sexy lines in contrast with the geometry of the cube. You studied dance for a long time. Does this discipline influence your creations? Not directly. Maybe contemporary dance pushes me to a non classic aesthetic, it guides my eye in the plastic way of looking at symmetry, to have a certain body vocabulary that this discipline has introduced. Dance has sensitized me to the relationship with the body, I observe how I sit down, how I walk, how people see me, what I can correct. You often mention architecture. What are your favourite cities? I love Paris. Aesthetically, also New York and Los Angeles. But my ideal city is perhaps Rome. If I were rich and could do what I want, I would live in Rome. Or maybe Sicily. In a building in Noto. And what do you like about Paris? Paris has a patchwork of incredible styles and angles, which you can discover only by raising your head. I love Place de la Concorde, Gabriel’s facades that surround it are beautiful, and the two museums that face each other on the Tuileries make it majestic. What is luxury for you? Rarity. Or, even better, the only opera, that only exists one time. Something that isn’t needed for anything, that shouldn’t even be there, but is indispensable because it has no equivalents. It can be a small thing, something unique and precious, even for yourself. I thought about luxury a lot while designing high jewelry for Hermès. Did jewelry come by pure coincidence too? I never imagined to do jewelry. It was proposed to me more than 15 years ago by Jean-Louis Dumas. Its strength, once again, was intuition. Hermès was built this way, through the power of a casting built on subsequent revelations. Eclectic, but behind which you can see a precise picture. Here too, forms prevail over narration, right? There is always a common thread in the collections, the forms and shapes tell stories related to the heritage of Hermès. Let’s take the example of the safety pin. Two years ago, the general theme was «The sense of the object» and I began to think of something that everyone knows, like the safety pin, an accessory of poor art, already almost a jewel in itself, like the shoe of Cinderella, which is transfigured, exceeded by its meaning. I wanted to give an additional value to objects that we no longer look at. And then it was fun to associate a symbol of punk with the House of Supreme Luxury. Is there an interconnection between male and female in your collections? Today it is difficult to respond to gender fluidity. For some time now, masculinity in females exists, but in the other sense it is more complicated. When I work for a woman I am at her service and the connotation of seduction arises; for men I am involved in a personal way and I create accessories that I would like to wear. And since I don’t want metallic plateaus or high heels, I don’t do them. With the sneaker I don’t think about the genre: it’s the shoe in which the man accepts more fantasy, with colors, fur, everything is fine. In general, I don’t have a predilection for the interchange of genres. This I find beautiful and sensual, but suitable for a very small group of people and that must stop with age: it’s fine when you’re younger. I am addressing a man who seduces, but not in that register. And in any case, there is always a model in the men’s collection that is somehow suspended between the two genres. How do you work and create? I don’t have any type of rule. I would like to have fixed habits, often these rituals are a way of protection. Instead I work in whatever place or moment, because designing is a indispensable element in my life and I do it anywhere and everywhere. On pieces of paper, bags, newspapers… Can you find these elements after? After? I look everywhere! stephen jones Story by Tommaso Palazzi Photos by Gio Staiano The most celebrated and fun milliner of the United Kingdom doesn’t need presentations. Born in a small town in Cheshire in 1957, Stephen Jones studied fashion at Central Saint Martins, and for over 40 years he works for his own creations, loved by celebrities like Lady Gaga, Kate Moss, Mick Jagger and Rihanna. Even by royalties like Meghan Markle and, in the past, Lady D. Jones’ first commercial activity was to design a collection of hats for Fiorucci in 1979. In 1980, Steve Strange, the owner of the London boutique Blitz, financially

supported Jones’ first millenary fair that he opened in the basement of the PX store in Covent Garden. On New Year’s Eve 1980, the designer had his head shaved by friends, and discovered that without hair his head was perfect as a female mannequin, and that he could become the model of himself. Now he develops all his ideas and drawings on his head, including the models featured in the solo exhibition at the Royal Pavillion in Brighton, which runs until June 9th. All crazy for him, including Queen Elizabeth, who in 2010 named him Knight of the Order of the British Empire. In love with London, that’s where he began to make ends meet, and that’s where his boutique is located, at 36 Great Queen Street, really close to Covent Garden, where MFF-Magazine For Fashion met him during the latest fashion week. You can count the amount of Milliner’s with one hand. What is the current reality of this accessory, which was once crucial? Hats are created by very few specialists, that’s true. But in reality there are many small artisans in the world who make hats. And the Internet has also created a global community of them. That’s also why my collection is focused on communication. Because it can be a source of inspiration for people living in Australia or America or Asia.... If we don’t help each other, the whole thing will collapse. For example, there are people in China I know and they ask me: «Where can I get this or that fabric?» and I say «from Italy»... You opened your first boutique in the 80’s. What has changed since then? Everything. I produce much more now, I have to continue to reinvent myself in a very competitive atmosphere, with a type of fashion that runs really fast. However, it’s fun. London had a different mood back then. Is it still a creative hub? Things in the fashion world come from different places around the world. For sport you go to America, for materials and textiles you go to Italy. If you want creativity you come to London. This was true when I started in 1980 and it’s still true now. You collaborated with many artists. Between all the fashion houses, did you leave your heart in one in particular? Dior, without a doubt. I saw the best creative directors pass through there. I worked with John Galliano, Raf Simons and Maria Grazia Chiuri. It was and continues to be an amazing experience. Are you working with any artists, singers or actors? Absolutely. I started when I designed my first ever hats. They were my friends that became singers, people like Boy George, the Spandau Ballet, I did stuff for Mick Jagger and David Bowie many years ago. And I still do, I did some stuff for Rihanna recently… Also for Pink. Artists love hats because they can change the way you look. Is there something that you have not done yet? Like an opera… No, I’ve never done an opera. but I am working on a ballet right now, which will be held in Rome. However, I can’t say anything else. How did your passion for hats start? I think it’s a very British passion… Do you know where the word milliner comes from? It comes from Milan because the first English milliners were actually Italian and they brought straw from Livorno, which was the best and most expensive straw, and they would come here and stay 20 km north of London. Because they were from Milan, they became Millaners… This is how the hat production in England started. Which is the first hat that you ever created? The first one… I made it with one of my sister’s old shirts, glued onto a box of Corn Flakes. Then it was decorated with a few plastic iris’s, sprinkled with silver and blue Christmassy paint. It was in 1976. Do you still have it? No, but I still have the flowers because they were plastic ones. I mean, even after I will be long gone, those flowers will still have the same aspect. What inspires you? Everything inspires me. Hats have a lot to do with air and they look to the sky, therefore I tend to not dig, rather I fly… Where do your hats usually get created? Usually on a Sunday morning really early on my couch. That’s where I usually start with the sketches. How do you distribute your hats at an international level? In specialty stores like Dover street market, who distributes the hats in all of its stores from London to Los Angeles, Seoul and Taipei. Do you have an e-commerce? No, we don’t specifically have our own e-commerce, but for example Dior sells the hats that I create for them, just like Comme des Garcons… My clients love coming here, to live an experience, to get a hat made specifically for them, to see me in person. What do you like and what do you not like about digital platforms? I like Instagram because it visually communicates new things but also old things. And the hats have something to do with the new. They don’t depict a serious world, but there are part of a funny habitat, something that is linked to enjoyment which is an integral part of fashion. Do you take all of your client’s measurements? Yes, of course. How long does it generally take to make a hat? A simple one usually takes around 3 or 4 hours, but the majority of tailor made hats take around 2 to 3 days, or even a week or 2. How many people work with you? Around 20, with an age range of around 20 to 25 years. And they are all crazy! When you have a hat in mind, do you start with a sketch or do you assemble the pieces on a mannequin? I use the most different approaches. There isn’t a specific one. What is the happiest mistake you’ve done while desi-

gning a hat? It’s normal to have a few glitches with a pencil. Good things can come from mistakes. If you work on something for too long or too much, you tend to destroy it. The first idea is the best one most of the time. What makes a hat successful? I think it’s really simple: it must make someone happy. That’s all. Does it have to inspire people? No, it’s just a hat. Does it have to be a political comment? No, it’s just a hat! What is the most important lesson you’ve learnt during your career? To express your point of view without ever stopping to listen. It’s the only way to give people what they want: finding out their dreams and trying to make them come true. What is the thing that makes you most proud? Receiving the title from the Queen nine years ago. And having designed hats for Lady Diana and Meghan Markle. What do you think about Brexit? It’s crazy. I come from a generation that grew up in the European Union, proud of being British but also European. London’s strong point is integration. I hope that the word «Brexit» dissolves into a bubble, into a memory that we will look back at with a sigh of relief. What do you hope for the future? That next to mechanism and technology, tailoring and hand made will always stay. And that fashion will continue to be a cultural experience. What and who inspires you? Travelling, life and movies. Most of all, people. One out of all of them? Anna Piaggi, an exceptional woman. And Meghan Markle, a phenomenon in every way. What is the biggest compliment you have ever received? Vivienne Westwood once said: «When a woman enters a room with a Stephen Jones hat, everyone comments about how beautiful she is in contrast to the original aspect of the hat». pierre hardy 撰文: silvia manzoni 摄影 : valerio mezzanotti 圣叙尔皮斯教堂中弥漫着隐晦的能量气息。巴黎的这座密教 教堂(曾在《达芬奇密码》中被提到过)拥有方尖碑形状 的天文日晷,阳光会在正午时分穿过其中。正是在该教堂的 南墙旁边,爱马仕品牌鞋履和珠宝产品线的设计师Pierre Hardy开设了其个人品牌的展示店和办公室。这是巴黎精 致而充满神秘的一个角落,而Pierre选择在此立业,远离 奢华网和传统的时尚圈。他的与众不同之处也在于此。“在 这里我能够听到教堂合唱团的歌声,还有使每天充满节奏 感的钟声”,他坐在办公桌后笑容满面地开始说道,桌上书 本、杂志、画笔和一只短靴分别占据着空间,凌乱却兼收并 蓄,与设计师几何线条简洁清晰的风格远不相同,却自成一 种和谐。 您经常会提到画家和艺术潮流。对您来说,艺术是一个起 点吗? 我不知道是否是艺术引导着我的灵感。但它却是我无论如何 都会热爱的东西。具象或抽象艺术,是对美的理想模式的最 高诠释,与现实无关,它比时尚本身更能吸引我,这也许是 因为我设计的是配饰,是物体,而非服装。 您遵循一种美的理想模式吗? “美”是如今人人都害怕的一个词。在时装秀上可以看到许多 丑的东西,对美的追求可以通过婉转的形式,而非并不令 人愉快的照本宣科的形式。例如Comme des Garçons就 是如此,但我们仍可在该品牌中找到一种和谐,能够让人 探索美的其他表现方式。我所探索的就是以新的方式创造 美。对理想模式的寻找是无穷无尽的,将推动我不断地设 计系列;当我找到了必备鞋的最终模式时,我会停下来。 但这不可能发生。 您不奉行故事讲述。您设计的系列讲究的是形状和颜色的 平衡吗? 我从形状出发,这是真的,我喜欢发明新的形状,我不是一 个叙述者,我从不讲故事,对此无能为力,我很佩服那些会 写电影剧本或小说的人,因为让我来做的话,我将会无所适 从。我从一个形状,一种颜色,一个鞋跟开始,将其一点点 扩大,使设计成形,但我从不用我的设计来展现场景。 所以与具象画相比,您更喜欢抽象画? 实际上,图像本身没有故事。但是我所热爱的艺术家中并非 所有人 都“可用”。例如Louise Bougeois或者极简主义者 Carl André在我的工作中就不可借用。 时装设计师,尤其是鞋履设计师,会权衡其作品的外表和功 用所将占的比重。您如何定位自己? 有一些设计师会设计穿不了的服装,或者在一个系列中加 入只用来观赏或拍摄的元素。时尚中一切都是可能的,是 一种辅助表达的方式。我作为设计师的工作在于让人们忘 记作品的设计形状。当然鞋必须好穿好走,但是穿的人无 需考虑这一点。 时尚可以是艺术吗? 时尚是一种应用艺术,一种中介。它本身并不存在,没有生 产、宣传、分销等等它就不会存在。我认为艺术则更加纯 粹。时尚被认为是一种诱惑辞令,更容易获得。 鞋子是一个在性感诱惑中拥有特殊地位的配件吗? 鞋子拥有一些特别之处。也许是唯一一件我们必须穿戴的时 尚配件。出于气候和文化的原因,我们不能够光脚出门。这 让我们反思如何能将这件必须品变成让人愉悦的物品,就如 食物一样,通过烹饪将其变成美食…这解释了该行业的创新 势头。时尚物品的形状是如此的精致,逃脱了束缚:鞋子不 再只是为了走路,篮球鞋不再只是为了运动等等。 您是如何进入时尚界的? 偶然而至。我学的是绘画,想要成为教师。之后开始为时尚 杂志制作插图。然后因为一系列巧合从而进入鞋履行业,而 非因为一个项目。我觉得很有意思,它就变成了我的职业。 是什么让您想要创造自己的品牌? 我曾为迪奥、巴黎世家和爱马仕(迄今为止还为爱马仕设计 鞋履和珠宝)工作过,那是一个非常具有创意的时期,但 是有一些款式我不能为他们设计,因为太极端和太具有个人 风格了,因此我成立了一个能够自由释放灵感的空间。1999 年,我开始设计了15个款式。为品牌服务时,会存在一些限 制:尊重它的历史和个性就是其中之一,而在这种情况下, 我的一些想法并不适合。 Pierre Hardy的客户是哪些人?

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我有三家店(巴黎、纽约、东京),我知道我的客户群年龄 段很广。我将他们定义为好奇的人,他们寻求稀有的物品, 不受商标的吸引,独立自主,拥有个人品味和对自由的渴 望。我的女士们寻求一种不格式化的女性气质,通过不怎么 经典的风格来展现自己的女性魅力。 您有一位缪斯吗? 没有。我理想中的美人是我的好友兼演员Amira Casar。 她拥有一种介于东方美人和地中海美人之间的气质,带着一 种经典的美,但是让我惊奇的是,她选择的是前卫的款式。 为什么感到惊奇? 当我看到有人穿着我的鞋时,我总会感到惊奇。并且经常发 生的是,他们穿在脚上的款式初看起来与我想象中的款式不 一样。我说不出来为什么。 您是最早推出日常运动鞋的设计师之一,并为其加入了一 点贵族气息… 我很依靠直觉。设计运动鞋是突然产生的欲望。那段时间我 正在设计具有极简风格的鞋子,很精致,也许是因为一个年 轻时回忆的闪现,带着青春的味道。我的脑海中浮现出了80 年代,当时美国人很时髦,会穿着溜冰鞋出门…那段时间也 是我首次推出男款,而推出篮球鞋不是一种策略,而是因为 感到必须这样做。 直觉非常重要… Jean Cocteau曾说过风格是一个表达复杂事物的简单方 式。我相信如今最成功的设计师是那些热爱其工作的人,会 真诚并深入地创作。我认为古驰的Alessandro Michele 钟爱他的工作,是一位真正有品味的人,喜欢精益求精, 但是如果你问他原因他又回答不出来。在指导创意的方式 上没有理性可讲。 那3D方块的印花呢? 事实上,我讨厌印花,从不穿带有印花的东西。但是我对自 己说系列中需要一些使表面活泼一点的元素,我觉得这个图 案挺现代,因为它是几何图形,同时又很古老,有通用的一 面。我第一次使用是在一只轮廓非常性感的对比色船鞋上, 带着方块的形状。 您学了很长一段时间的舞蹈。这种修养对您的系列产生了 影响吗? 没有直接影响。也许当代舞蹈促进我向一种不经典、灵活的 美学靠拢,引导我以善于变通的眼光来看待对称性,引用这 个修养所包含的特定身体语言。舞蹈让我对身体更加敏感, 我会观察自己的坐姿走姿和人们对我的看法,以及可以在哪 些方面加以纠正。 您经常谈到建筑。哪些是您心仪的城市? 我热爱巴黎。从城市美观来看,还有纽约和洛杉矶。但是 我理想中的城市应该是罗马。如果我富有,能够做自已想 做的事,我会在罗马生活。或者也许去西西里,在诺托的 一座府邸里生活。 您喜欢巴黎的什么? 巴黎是由各种风格和不可思议的角落所拼接成的缤纷世界, 值得探索,也许只需抬起头就可感受到。我喜欢协和广场, 卡布里耶在广场尽头设计建造的墙面美不胜收;而杜伊勒里 公园旁两间面对面的博物馆更是使其显得壮观无比。 您认为什么是奢华? 物以稀为贵。只存在一次,独一无二的作品更佳。无用、不 应存在该处,但却因它的无与伦比而显得至关重要。它可以 是一件小东西,珍贵且独一无二,也可以只是个人观点。为 爱马仕设计高级珠宝让我对奢华的概念反思了很久。 设计珠宝也是因为偶然吗? 我从不曾想过会设计珠宝。15年前是Jean-Louis Dumas 向我提出该建议。他的坚强让我再一次被直觉说服。爱马 仕就是这样建立的,通过一个团队的能力促成了之后的成 功。该品牌不拘一格,却能够兼收并蓄,组成了一个背后 精确清晰的画面。 在此也是形状优于叙述,是吗? 系列中总会有一条贯穿始终的线,形状讲述着与爱马仕传承 有关的故事。以安全别针为例,两年前的主题是“物件的意 义”,然后我开始反思所有人都认识的物件,如安全别针, 一个没有艺术含量的配件,却本身就几乎可称是一件珠宝; 就像灰姑娘的水晶鞋,被神化后就超越了其本身所含的意 义。我想为我们不再注意的物品注入附加值。然后,将顶级 奢侈品牌与朋克的象征相连也很有趣。 您的系列中,男款和女款有关联吗? 如今很难对流性人时尚的问题进行回答。男鞋女穿早已存 在,反之则更为复杂。我为女士工作时,我会全心全意并考 虑到性感诱惑的问题;而为男士工作时则会个性发挥,创造 我喜欢穿戴的作品。我不想制作金属松糕鞋或者高跟鞋,就 不会做。在运动鞋上我没有考虑到性别:这是一款男士能够 接受更多种风格的鞋子,可以有多种颜色,带皮草水钻都可 以。一般来说,我对性别转换风格没有偏爱。我认为它很美 很性感,但是适合一个非常小众的人群,并且随着年龄而停 止:年轻时可以。我面向的是性感的男士,而非那一种。尽 管如此,在我的男式系列中总是会有一款两性模糊的款式。 您如何工作,如何创作? 我没有任何的规矩和常礼。我想要有一些固定的习惯,这些 往往可以成为一种保护形式。但是我在任何地点和时间都会 工作,因为设计是我生命中不可或缺的元素,所以会画在所 有东西上,有纸、信封、报纸… 但是之后能够再次找到吗? 之后?到处找遍! stephen jones 撰文: tommaso palazzi 摄影 : gio staiano 英国最著名最诙谐的帽子设计师不需要介绍。Stephen Jones于1957年在柴郡(Cheshire)的一个小镇上出生, 曾在伦敦中央圣马丁学院(Central Saint Martins) 攻读时装设计,他40多年来一直致力于创作,其作品深受 Lady Gaga,姬·摩丝(Kate Moss),米克·贾格尔 (Mick Jagger)和蕾哈娜(Rihanna)等名人以及梅 根·马克尔(Meghan Markle)和曾经的戴安娜王妃等 皇室成员的喜爱。Jones的第一项业务是在1979年为芙蓉天 使(Fiorucci)设计一个帽子系列。1980年,伦敦Blitz 精品店的老板史蒂夫·斯特兰奇(Steve Strange)资助 他开设了首家Jones制帽店,位于柯芬园的PX商店地下室 里。1980年新年前夕,朋友们剃光他的头发,让他发现了他 的光头可以称得上是理想的女性模型人偶并且可以做自己的 模特。如今他在自己的头上将所有的想法和设计付诸现实, 其作品包括将在布莱顿英皇阁的个人展上展示至6月9日的帽 子。简而言之,所有人都为他疯狂,包括伊丽莎白女王, 后者在2010年任命他为大英帝国最优秀勋章骑士。他热爱伦 敦,从那里才开始手有余钱,那里也是他私密精品店的所 在地,位于皇后街36号,距离柯芬园仅几步之遥,上次时装

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周期间《MFF-magazine for fashion》(米兰财经时 尚)就与他在此见面。 世界上的帽子设计师屈指可数。该配件曾经至关重要,而如 今的现状是怎样的? 如今帽子由很少数的专家设计制作而成,这是真的。但是实 际上世界上有许多制作帽子的小作坊。互联网组成了一个全 球社区,也包括帽子这一方面。这也是我的系列会专注于沟 通的原因。因为可以成为生活在澳大利亚、美国或亚洲的人 们的灵感来源.....如果我们不互相帮助,则一切都会崩溃。例 如,我认识的一些住在中国的人问我:“我在哪里可以找到 这种或那种面料?”我回答:“在意大利”。 您在80年代开设了第一家精品店。从那时起,之后发生了 什么变化? 一切都变了。现在生产地更多,在竞争激烈异常的环境中我 必须不断自我创新,时尚变化很快。但是很有趣。 伦敦当时的氛围比现在不同。它仍然是一个创意中心吗? 时尚物品来自世界各地。想要运动服就去美国,想要面料就 去意大利。想要创意就前往伦敦。这是真的,我在1980年开 始时就是这样,如今仍然如此。 您与许多设计师合作过。在其中所有品牌中,有一个让您 恋恋不舍吗? 迪奥,毫无疑问:世界上最好的设计师都在那里工作过。 我曾与约翰·加利亚诺(John Galliano)、拉夫·西 蒙(Raf Simons)和玛利亚·格拉奇亚·基乌里(Maria Grazia Chiuri)合作过。与迪奥合作一直并将继续是一 个精彩的冒险旅程。 您正在与艺术家、歌手或演员合作吗? 当然。我从设计第一顶帽子时就开始合作了。如乔治男 孩(Boy George)和史班都芭蕾合唱团(Spandau Ballet),他们是我的朋友,后来成为了歌手,多年前我 曾为米克·贾格尔和大卫·鲍威(David Bowie)设计过 帽子。现在我仍然这样做,这段时间我为蕾哈娜设计了帽 子.....还有粉红佳人(Pink)。因为帽子可改变外表,所以 艺术家们非常喜欢。 还有什么是您没有尝试过的吗?比如歌剧… 不,我从来没试过歌剧,但是我现在为一个芭蕾舞剧工作, 它将在罗马上演。但是我不能过多透露。 您对帽子的热情是如何产生的? 我认为这是一种英国人的激情…您知道milliner(制帽 者)一词的来历吗?它来自米兰,因为英国最早的帽子设计 师就是意大利人,他们从利沃诺带来了最优质和最昂贵的秸 秆,来到这里并且定居在伦敦以北约20公里处。因为来自米 兰,所以他们被称为Millan-ers(米兰人)…这就是英国 帽子制造的起源。 您设计的第一顶帽子是怎样的? 第一顶…用我姐妹的一件旧衬衫做成,我把衬衫粘在玉米片 的盒子上,然后用一些塑料鸢尾花做装饰,用银色和蓝色的 圣诞喷剂喷涂。当时是1976年。 您还有那顶帽子吗? 没有了,但是花还在,因为是塑料的。我想说的是就算我化 成灰后很久,那些花也还是会看起来与现在一样! 什么东西赋予您灵感? 所有的一切。帽子是人身上最接近天空的地方并且会抬头往 上看,所以我不想向下挖掘,而是向上飞翔... 您的帽子在哪里诞生? 通常是星期天早上在我的沙发上。这就是我打草稿的地方。 您如何在国际上销售您的帽子? 主要是通过专卖店,如多佛街市场,它旗下所有的商店都销 售我们的帽子,从伦敦到洛杉矶、首尔和台北。 你们有电子商务网站吗? 没有,我们没有自己的电子商务网站,但是迪奥会在网上 销售我为他们制作的帽子,还有Comme des Garcons... 当然我的客户喜欢来这里体验过程,定制一个帽子并且与 我本人见面。 关于数字化您喜欢和不喜欢什么? 我喜欢Instagram因为它用看得到的图像传播新的和旧的 事物。而且帽子与新奇有关。我的帽子与严肃无关而是属于 有趣的范围,而有趣正是时尚的重要组成部分。 您会为所有的客户量尺寸吗? 当然,自然会的。 制作一顶帽子需要多长时间? 一顶简单的帽子大概需要三四个小时,但是大多数手工制作 的帽子需要两三天,甚至一两周。 多少人与您一起工作? 大约20人,已经一起至少20或25年了。而且他们都是疯子! 您设计帽子时,会从草图开始还是会在人体模型上将材料 组合在一起? 我会使用不同的方法,没有固定的规则。 您设计帽子时发生过的最快乐的意外事件是什么? 我握着铅笔设计时经常会手滑。好的作品也可能来自物品的 错误放置方向或者一个失误。如果你试图在某件作品上挖空 心思,很可能会埋没它。第一个想法通常是最好的。 帽子的成功在于什么? 我认为很简单:它必须使某人快乐。就这样。它应该激励人 们吗?不,它只是一顶帽子而已。应该表达政治意见吗? 不,它仅是一顶帽子! 您从工作中学到的最宝贵的经验是什么? 表达自己的观点,并不停地倾听。这是将人们想要的东西 带给他们的唯一方式:了解他们梦想中的物品并努力将其 变成现实。 您最自豪的事情是什么? 九年前女王授予我的头衔。还有能够为戴安娜王妃和梅根• 马克尔设计帽子。 您怎么看待英国退欧? 一个疯狂的决定。我属于在欧盟内长大的一代人,很自豪可 以同时作为欧洲人和英国人。像伦敦这样的城市,它的优势 就是一体化。我希望“英国退欧”一词能够化为泡沫,变成一 个几年后听到就会松一口气的回忆。 您对未来有什么期望? 我希望除了机械化和高科技之外,还保持手工制作的产品, 以及时尚仍然是一种文化体验。 什么东西和什么人会为您带来灵感? 旅行,生活,电影。但是最主要的还是人。 其中有最重要的吗? 安娜·皮亚吉(Anna Piaggi),一位出类拔萃的女 士。还有梅根•马克尔,从各方面来看她都是一个卓尔不 群的人。 您有史以来收到的最好的赞美是什么? 维维安·韦斯特伍德(Vivienne Westwood)曾经说 过:“当一位女士戴着Stephen Jones设计的帽子走进 房间时,所有人都会评论说她在帽子的衬托下看起来多么 美丽”。

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