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gioiosa entra nelle case

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SOMMARIO Punti, linee, superfici Il bello degli shaker Un cucchiaio da salsa Ideare un oggetto, maneggiare un’idea Non solo disegno Concita, la sedia di legno cucita Una forma di design Pier Luigi Nervi Cibo in forma Lapo4lati Il di-segno della memoria Valentine La grafia dello spazio al cinema

D ESIGN

Associazione di Promozione Sociale iscritta al Registro dell’Associazione della Provincia di Mantova negli ambiti: civile-sociale, culturale e attività sociale. Decreto n. 17/2007

Foto Giovanni Fortunati

• Mantova e Ca’ Gioiosa • Via Trieste, 44 Curato da Associazione Cultural


Unire funzionalità ed estetica – obiettivo dell'architettura ma anche del design. E non si creda che quest'ultimo indichi soltanto una branca dell'arredo moderno. Anche se privo dell'etichetta attuale, il design rappresenta una costante antropica (declinata nel tempo e nello spazio) della produzione di oggetti, strumenti, macchine: fra arte e tecnica, artigianato e industria, se ne può rintracciare l'esistenza nei contesti più diversi. D'altronde, così scriveva il grande architetto e teorico Walter Gropius nel

Punti, linee, superfici Manifesto programmatico del Bauhaus: “Tutti noi architetti, scultori, pittori dobbiamo rivolgerci al mestiere. L'arte non è una professione, non v'è differenza essenziale tra l'artista e l'artigiano. In rari momenti l'ispirazione e la grazia dal cielo, che sfuggono al controllo della volontà, possono far sì che il lavoro possa sboc-

ciare nell'arte, ma la perfezione nel mestiere è essenziale per ogni artista. Essa è una fonte di immaginazione creativa”. È ciò che questo numero di “Ca'rte” vuole dimostrare, senza pretese di esaustività ma puntando come al solito sulla varietà degli interventi, degli àmbiti, delle visuali. Al lettore eventualmente il compito di continuare il discorso attivando

le proprie conoscenze o la propria memoria. Non c'è infatti nulla di scritto che non si possa ampliare o approfondire, né nulla di pensato, disegnato, costruito che non si possa replicare oppure superare.

Claudio Fraccari

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comunità fondata com in Inghilterra intorno alla un metà del 1700, furono così ità chiamati perché durante le loro assemblee liturgiche cantavano, danzavano, si “scuotevano” e si abbandonavano ad una specie di estasi mistica. Dopo anni di persecuzioni dieci Shaker, guidati da Ann Lee, emigrarono da Manchester, Inghilterra, in America. Nel Nuovo Continente, nonostante le carcerazioni e i maltrattamenti per sospetta attività di spionaggio, riuscirono ad espandersi. Raggiunsero notorietà verso la metà del 1800 con 6000 membri sparsi in una ventina di villaggi o società economicamente indipendenti. Si autofinanziavano attraverso la produzione agricola, la coltivazione di frutta, ortaggi ed erbe medicinali, e nei loro laboratori producevano mobili, utensili stoffe e oggetti di uso quotidiano. La loro vita era regolata da chiari principi per ottenere coralità e perfezione in ogni campo; ordine, purezza e semplicità per giungere ad un sommo grado di armonia. Rifiutavano ogni ornamento, ogni decorazione, ogni forma pretenziosa. “La bellezza consiste nell’armonia e l’ordine è generatore di bellezza. La bellezza si basa sull’utilità e ogni bellezza non basata sull’utilità diventa dannosa e quindi deve essere sostituita”. Proprio per le loro regole abolirono ogni forma di tirannia, di oppressione, di ingiustizia. Un’uguaglianza quindi non come concetto astratto ma proprietà comune dei beni, parità uomo e donna, accoglienza a minoranze etniche. Dato che non potevano avere figli, la sopravvivenza era legata al numero dei nuovi convertiti. Oggi è rimasto un unico piccolo villaggio con un uomo e due sorelle ultrasettantenni, destinati quindi a scomparire. Alcuni dei loro villaggi sono stati recentemente restaurati e arredati con mobili originali, a testimoniare la semplicità nella quale vivevano e lavoravano. Il loro design anticipa elementi del “funzionalismo”. Prima di riprodurre uno strumento ne esaminavano l’utilità ai fini della comunità. I loro criteri si basavano sulla durata e non sul consumo, una continua verifica della qualità per un successivo processo di produzione. Guidati dal principio che la bellezza risiede nell’utilità, fautori dell’assoluta identità tra forma e funzione, gli Shaker bandivano dai loro oggetti ogni elemento non essenziale, anticipando i principi del Bauhaus. A loro si devono centinaia di invenzioni, dalla sega circolare alle sedie con le rotelle, alla scopa piatta, alla molletta per il bucato: invenzioni che condividevano con il mondo esterno senza pretendere il brevetto. L’ordine e la pulizia erano per loro indispensabili. Comune era una fascia in legno dotata di pioli, sistemata lungo le pareti, per appendere abiti, cappelli, attrezzi e… sedie. Producevano credenze, madie a doppia faccia, cassettoni, armadi a muro, tavoli pieghevoli, scrittoi, letti su ruote di legno, culle per vecchi per aiutarli nel momento del trapasso. Per la vendita usavano cataloghi con una vasta gamma di possibilità: tutti oggetti caratterizzati dalla modularità, dalla componibilità e dalla serialità, gli elementi distintivi della loro produzione. Raffaello Repossi

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a s l a s a d io a i h c c u c di Klimt a n n e Un i V a l nel redi Stile e ar

“ Me n t r e ci avviamo alla catastrofe, a Vienna una tempesta ha attraversato anche il mondo che mangia: un cucchiaio da salsa di Hoffmann potrebbe servire come tema per una conferenza sulla logica”. Mentre raccoglievo il materiale per scrivere “Klimt, le donne, le arti, gli amori” (Tre Lune edizioni), mi ero imbattuta in questa battuta di Karl Kraus, il più implacabile e beffardo censore dei vecchi e nuovi costumi dell’ormai morente impero austroungarico. Del resto, neppure a me è stato consentito ignorare il fenomenale movimento che aveva sconvolto Vienna agli inizi del ‘900: la Wiener Werkstaette, dove un gruppo di artisti disegnava sedie, lampade, letti, gioielli, posate, vestiti, che altrettanto geniali artigiani realizzavano in multipli: così che gli oggetti non rimanessero dei “pezzi unici” destinati ai più ricchi, ma si diffondessero anche fra il popolo. “Ogni ornamento è un delitto”, aveva proclamato Adolf Loos illustrando a un pubblico pagante la sua camera da letto tappezzata di batista bianca e il materasso poggiato su un tappeto d’angora bianca. Impagliata in case sovraccariche di mobili gonfi, tendaggi e tappeti pesanti, enormi lampadari, uccelliere e fioriere, l’alta borghesia, e specialmente le donne, si era immediatamente liberata di ogni prezioso ciarpame. Nelle sue palazzine geometriche e illuminate da grandi vetrate, Hoffmann aveva imposto pavimenti di piastrelle quadrate bianche e nere, mobili lisci e laccati di nero, cucine metalliche. Klimt aveva fatto fare al fratello Georg cornici di rame piatte come nastri. Mentre per Emilie Floege, la donna della sua vita, aveva disegnato “gli antivestiti”: tagliati a campana, realizzati con rari tessuti etnici o con il cotone bigio dei giardinieri, arricchiti da pettorine intarsiate con semi di fiori, pezzetti di legno, schegge di avorio o di smalto. Non si chiamavano ancora “designer”. Ma è bene sapere che sono stati loro a inventarlo. Edgarda Ferri

Josef Hoffmann, Scaffali componibili, 1905 (da “Klimt. Nel segno di Hoffmann e della secessione”, a cura di 24 ORE Cultura, 2012)

“Una casa è una macchina per abitare”. (Le Corbusier)


Ideare un oggetto, maneggiare un’idea Conversazione con Tobia Repossi

Milano, un giorno d’estate. L’incontro con Tobia Repossi è fissato nel “quadrilatero della moda”. Il giovanotto, due metri d’altezza e di fascino, mi viene incontro pedalando su una specie di bici. È sufficiente a predispormi al sorriso: sarà un’intervista diversa dal solito, penso. Mantovano d’origine, figlio d’arte, ormai vivi a Milano da anni. Parlami del tuo lavoro di insegnante. Ci sono all’Università, allo IED dove insegno Design, ragazzi di tutte le etnie, venuti in Italia con Erasmus o Leonardo, ma soprattutto cinesi che hanno una manualità straordinaria. Nel disegno di oggetti loro riescono a portare quella cultura iconica che hanno nel linguaggio, quel gesto ripetuto mille volte del bambù piuttosto che della barchetta. Non hanno avuto Piero della Francesca, non Manierismo, né Barocco, ma una cultura del gesto ripetuto tante volte, che è poi la sintesi iconica della cosa che vogliono rappresentare , che è anche la loro scrittura. Hanno sei tipi di “o” cui vengono attribuiti significati diversi, però espressi appunto con lo stesso segno. Asciugano continuamente, sono sintetici piuttosto che barocchi. Questo è un ottimo approccio secondo me. Come ti identifichi in questo modo di fare degli orientali? Io faccio un design di tipo industriale, ma in un’ottica un po’ orientaleggiante. Mi piace cambiare le tipologie, tentare di farmi tante domande prima di produrre un oggetto, e di darmi risposte magari differenti da ciò che produce il mercato odierno. Penso a ciò che ho fatto, dal Parco della Scienza ad alcuni porta-biciclette che vedi in giro qui a Milano: tentano sempre di cambiare un po’ la forma della città o dell’oggetto stesso. E forse questo è vicino alla sfera degli orientali, che è di sintesi, di resa minimale. In quest’ottica la Cina è il posto in cui dovrei essere. In questo momento i numeri danno ragione a loro. Il Manierismo costa. In tempi di crisi l’asciugatura funziona sempre. Se ci pensi, noi siamo sempre stati una cultura di pensieri deboli e di azioni molto forti, loro sono una cultura di pensieri forti e di azioni deboli: questa è la sintesi del segno. “I tao pi pu tau”: data l’idea il resto non conta. È la frase che calza a pennello rispetto a quel tipo di cultura. Asciugo, do un’idea gestuale, ho rappresentato il bambù: un’immagine che tutti riconoscono. Quanto ha influito nelle tue scelte l’ambiente in cui sei cresciuto? Moltissimo, ancor oggi. Nel mio ambiente si usavano molto le mani, ho sempre osservato e provato ad evolvere il gesto, a renderlo più industriale. Il gesto di mio padre è più caldo, da artista, da pezzo unico, io ho cercato di realizzare il multiplo industriale. Pur sempre gestualità rimane. A tutt’oggi ancora mio padre rappresenta la parte di ricerca del mio studio: noi rubiamo dai suoi cassetti cose che lui dimentica, o finge di dimenticare in vista perché qualcuno ci metta le mani. Penso a una delle ultime operazioni che abbiamo realizzato. Recentemente è saltato fuori un vecchio progetto di mobili in cartone: negli ultimi due anni ne ho fatto un’azienda che ora è il referente italiano per quel tipo di produzione. Ovviamente mantenendo i costi molto contenuti, abbiamo trasformato un sistema di design di pezzo unico in un sistema industriale da mille pezzi alla volta. Quella manualità, quell’ambiente, quell’esempio è stato ed è tuttora importantissimo. Prendere piccole cose e farle diventare seriali, far sì che il mercato possa avere sempre nuovi appetiti verso una cosa diversa. Sperimentiamo continuamente. Abbiamo realizzato in questi anni un porta-biciclette a forma di molla: oggi siamo alla quarta versione, in modo che chi copia resti sempre un passo indietro.

Parlami del tuo lavoro nel team di ZonaUno: risponde a una tua esigenza interiore? Mi piace costruire delle belle famiglie di lavoro. Qualche anno fa mi sono accorto che per fare design bisognava dare anche un certo tipo di servizio attorno al prodotto. Per cui il prodotto è di successo o meno non necessariamente per il prodotto in sé, ma perché la comunicazione, il web, il sistema di vendita, di servizio, il packaging etc. funziona o no. Ciò non accadeva negli anni ’70. Inevitabilmente ti devi circondare di persone con specializzazioni diverse. Alla fine noi siamo una struttura molto orizzontale, tanti professionisti che sanno fare cose diverse, ma che si interscambiano. Per aumentare la forbice di servizi, per dare l’ufficio stampa e la ricerca di mercato abbiamo creato un network di una quindicina di realtà creative che si parlano come facciamo noi in studio, senza scambi di denaro, senza gelosie. Se ci sono dei lavori che possiamo dividere li dividiamo e forniamo un servizio completo al cliente. È un alberello che sta dando piccoli frutti perché l’azienda che ha di fronte un referente unico si semplifica la vita. In qualche modo questa forma di organizzazione si riflette nell’insegnamento che trasmetti ai tuoi studenti. Io insegno design e i corsi sono divisi in una parte in cui parlo io e una in cui parlano loro. La parte loro è di lavoro sul prodotto in cui io faccio da tecnico e cerco di rimediare agli errori costruttivi. Nella parte in cui parlo io, spiego la metodologia del design. In un’università che dovrebbe essere una fabbrica di idee, mi devi raccontare quali sono le metodologie per costruire idee. Ci sono metodi codificati: fai ricerca, analisi e provi a costruire un ‘concept’ prima di metterti a fare. Che è ciò che facciamo in studio, col cliente. Qualsiasi nostro lavoro inizia con un libro di notizie. È un percorso metodico. È ciò che cerco di insegnare per evitare di navigare a vista, per dare sicurezze. Metodo nella creatività. Ricerca, analisi, ‘concept’. Perché la fantasia senza regole è anarchia. Creare sinestesie è oggi la parola d’ordine. Avere tante informazioni trasversali serve ad arricchire, si deve ritornare alle contaminazioni culturali per distinguersi. Il mercato della didattica sta minando queste scelte perché le grosse specializzazioni hanno il fiato breve. Se sei troppo specializzato rischi di avere i paraocchi. Lo strumento è un pensiero fossilizzato, perché ti aiuta a fare una cosa, ma ti obbliga a seguire un determinato percorso. Per piantare un chiodo userò sempre un martello, mai il tacco di una scarpa. Il design è un pensiero fossilizzato, perché puoi diventarne schiavo. Tobia, cosa vuoi fare da grande? Mi vedrei nei posti in cui si sta veramente producendo come Cina, Brasile… Però il mestiere che faccio attualmente è il più bello del mondo. Svegliarsi ogni mattina con un problema diverso da risolvere è un bel motore di vivacità intellettuale. Il mercato di oggi sta sempre più violentando questa parte, perché crea problemi che poco hanno a che fare con la creatività e il design. Il mercato attuale non è più un ambiente sano, è faticoso. Per questo appena posso faccio viaggi molto avventurosi, dove mi metto in gioco, cerco emozioni. Che mi danno soprattutto il mare e i pesci grossi che esistono da milioni di anni prima di noi e sono… disegnati da Dio!

Ci alziamo dal tavolino del caffè dove abbiamo chiacchierato davanti a un’ottima coppa di gelato e frutta: sullo sfondo i rumori di una città che non si ferma mai. Tobia le somiglia, sprigiona energia, le sue mani si muovono spesso disegnando nell’aria segni di cui forse non è consapevole. Mara Pasetti

Foto Mara Pasetti

Foto Nicolo ̀ Michetti

Hai respirato un certo ossigeno, una certa atmosfera. E fatto delle scelte. Nel bene e nel male. Nel momento in cui entri nella parte strutturale, tecnologica di produzione dell’oggetto ti castri anche su eventuali pulsioni di tipo estetico, di relazione coi materiali e col colore, di tatto – li lasci in secondo piano in favore del fatto che vive nei dettagli. C’è un aspetto in questo negativo. Mio padre lavora in solitudine, io ho scelto il ‘team’. Ciò spiega Milano, anche se mi sarebbe piaciuto lavorare a New York. Trovo il ‘made in Italy’ esasperato, un arrocco: c’è il rischio di chiusura. Anche perché gli abiti spesso ora vengono confezionati dai cinesi che vivono in Italia. Il pensiero ce lo mettiamo da qua: non ti deve interessare dove ho fatto il resto. È chiaro che se passi la vita a fare causa a chi ti copia non evolvi mai.

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Foto Mara Pasetti

Come designer hai ricevuto dei premi… Sì, nel 2004 ho ricevuto il Compasso d’Oro, una sorta di premio Nobel italiano per il design, per la realizzazione di giochi per esterni per bambini e non. Hanno a che fare tutti con principi scientifici, come le grandi parabole dove si sente il suono da una parte e dall’altra; l’Organo di Pan per sentire le diverse frequenze del vento, giochi sull’acqua, sulla gravità, sul suono – c’è sempre una parte ludica che fa avvicinare la persona all’oggetto. Con mio padre realizzavamo questi prototipi per interni: io li ho spostati all’aperto e li ho moltiplicati.


Non solo disegno

Concita, la sedia di legno cucita

Dici Renzo Piano e subito ti vengono in mente l’Auditorium di Roma, la sede del New York Times, il Beaubourg di Parigi, l’aeroporto di Osaka e decine di altre realizzazioni del più illustre dei genovesi moderni. Ma il vocabolo “design” racchiude in una parola identità professionali molto diverse. Renzo Piano, per intenderci, non “disegna” e basta: progetta. Il che significa che il tratto è una bozza sul quale poi viene costruito un piano (anche finanziario) di fattibilità, in cui estetica e tecnica delle costruzioni sono intimamente legate. Potremmo chiamare 'designer' anche un signore come Giorgio Armani: ma dai suoi schizzi per “inventare” un abito ci sono vari passaggi successivi (scelta dei tessuti, per esempio, oppure tecnica del taglio) prima di arrivare al prodotto finito. Niente di nuovo, in realtà. Basti pensare alla “Pietà Rondanini” di Michelangelo, in cui l’artista non si limita alla “invenzione creativa, artistica” ma fa, con martello e scalpello. Un altro esempio: il grande successo della casa automobilistica coreana Hyundai-Kia (ormai al terzo posto mondiale dei costruttori) nasce dalla scelta strategica di coniugare qualità tecnica ad 'appeal' dei modelli. E non a caso i coreani da anni hanno deciso di spostare i “centri stile” in Europa. Il risultato, è ovvio, dipende dalla qualità dei tecnici – più o meno creativi – assunti da Hyundai-Kia (e ci sono coreani, europei, americani). Il vocabolo “design” ormai non consente più alcuna confusione con i maestri del “tratto”, da Michelangelo a Picasso. L’artista del design moderno è funzionale a progetti industriali, o comunque alla realizzazione di prodotti. Il che vale anche per artisti autentici che “inventano” copertine di libri. Oppure per alcuni della miriade di fotografi che usano il fermo immagine per raccontare il mondo o anche solo una sua piccolissima parte. Perché ormai l’identificazione tra artista 'old style' e 'designer' è fuori tempo. Anche se soltanto il guizzo dell’artista può portare – al termine di un processo lungo e non solo individuale – alla realizzazione di opere splendide, da una Ferrari a uno smoking. Oppure alla cover di una rivista di carta. Daniele Protti

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Foto Claudio Compagni

Dal tratto al progetto

Storia di una sedia, di una sfida, di un fine settimana, di una nuova tecnica e di due designer con la voglia di sognare. Questa è una bella storia di sogni, passione, orgoglio e fantasia di due designer mantovani. Massimo ha una testa rasata piena zeppa d’idee e una mano che traccia linee meravigliose su fogli di carta. Davide ha una testa di capelli a cespuglio piena zeppa d’idee e due mani d’oro fatte per realizzarle. Mentre l’Italia piange per la crisi e la terra trema sotto i piedi, Davide Barbieri e Massimo Zaniboni hanno ugualmente voglia di sognare, progettando e costruendo cose che ancora non esistono. Concita nasce così, in un fine settimana di falegnameria e officina o forse in mesi nelle loro teste. Un giorno Davide incontra Massimo e con aria allampanata gli fa: “Sono riuscito a cucire il legno!”. Massimo è un designer avvezzo alle tecnologie innovative ma questa applicazione non l’aveva mai sentita. Appoggia le mani sulla sella di cuoio scucita della vecchia moto che sta rivitalizzando, indaga negli occhi di Davide e capisce che fa sul serio. Scatta la sfida: “Facciamoci una sedia!”. Detto, fatto. I due, liberi da qualsiasi commessa di lavoro, tempistica e logica di mercato lavorano insieme per un fine settimana tagliando, piegando e saldando tubi, recuperati da sedie da ristorante anni Sessanta, modellando compensato come faceva Eames mezzo secolo fa e disegnando trame, ricami che cuciono prima sulla stoffa, per prova, e poi sul legno con una tecnica innovativa. A giugno le ore di luce sono tante ma corrono veloci per Davide e Massimo che devono accendere le luci artificiali della falegnameria per lavorare fino a tarda notte e le zanzare manco le sentono. Solo la radio accompagna la loro operosità. Le pizze del weekend saltano, figli e mogli li aspettano a casa per niente preoccupate, anzi abituate: “Eeeeh, son fatti così!”. All’alba di lunedì fa già caldo ed è tempo di stendere il poliestere trasparente sulle cuciture per proteggerle e lasciare asciugare la loro creatura. Il risultato ha tutta la freschezza e l’ingenuità dell’opera estemporanea, l’ironia e spontaneità di una 'jam session', la personalità di una customizzazione post-industriale. Un sorriso di compiacimento si disegna sui volti dei due creativi che hanno l’aria arguta e beffarda di chi ha fatto uno scherzo ben riuscito mentre provano a turno la sedia che tre giorni prima non esisteva. Forse già inconsciamente sanno che il loro progetto vincerà il 2° premio del concorso “I love me: Design” 2012... Davide Barbieri, Massimo Zaniboni


La forma è un sistema completo di logica matematica che si chiama geometria. L’architettura recente ha fluttuato fra l’uso delle forme proposte dalle avanguardie pittoriche, le forme puramente geometriche e le forme, più o meno astratte, recuperate dal linguaggio classico. Questi tre poli fra cui si è mossa la maggior parte dell’architettura attuale hanno sostituito il repertorio delle forme antiche dell’architettura; per esempio, dai templi in legno del medioevo ellenico si è passati molto lentamente all'impiego di materiale più durevole, in una sorta di “pietrificazione”, con notevoli conseguenze tipologiche e formali. Si chiedeva Alejandro de la Sota: “Perché l’architettura ha sempre forma di architettura?”. La forma classica esercitava in più una vocazione totalizzante e cercava di recuperare una dimensione universale convertendosi al linguaggio comune a tutti gli stili ed epoche. Oggi si può dire sia sparita non tanto una struttura linguistica assoluta e comprensibile, quanto la coscienza della possibilità della sua esistenza. Un'opera di architettura necessita di un'idea di architettura; deve contenere un pensiero. Per questo motivo, inizialmente non ha una rappresentazione formale concreta. L'idea dovrà vincolare tutti gli elementi e le parti che il progetto deve soddisfare. Nel progetto che si presenta, la posizione dell’entrata della casa rispetto al portico che si affaccia sul giardino, situati ognuno ai vertici opposti di un quadrato (9,00 m x 9,00 m) che definisce la zona giorno della casa, dà origine a una vista in diagonale che sarà a sua volta la vista principale della casa. Ed è da questo asse diagonale che attraversa il volume vuoto della zona giorno, che nasce il dialogo fra spazio interno e spazio esterno, generando una figura elementare, il quadrato, che struttura la sua topologia attraverso piccoli movimenti, piccole vibrazioni, piccoli segmenti, creando una grande ombra nella quale appaiono una serie di traiettorie luministiche che formano il suo tessuto di possibilità. Stiamo parlando della FORMA VUOTA, definita per il suo profilo, per il perimetro del quadrato, dove il significato non è nella figura dello spazio modello, bensì nelle sue pause, nelle sue interruzioni. La forma vuota è ciò che rimane fra i suoni e il silenzio, e non è né figura né sfondo. Nicola Tremacoldi

da “Perelada 2008-2011”

Una forma di design

Pier Luigi Nervi Pier Luigi Nervi rappresenta uno dei maggiori artefici di architetture strutturali nel panorama internazionale del Novecento. A lui si devono alcune delle più belle opere di architettura contemporanea, frutto di un’eccezionale coniugazione fra arte e scienza del costruire. Di lui è stato detto che aveva l’audacia dell’ingegnere, la fantasia dell’architetto, la concretezza dell’imprenditore. La sua opera, in molti anni di carriera, ha ruotato intorno ad almeno sei attività fondamentali: progettare, disegnare, calcolare, modellare, scrivere, insegnare. Ognuna di queste tracce ha avuto vita autonoma, pur incrociandosi nel contempo con le altre, in modo talvolta indissolubile, permettendo di ricostruire gli sviluppi di una storia che fin dagli inizi si caratterizza decisamente come lontana dai comuni canoni dell’ingegnere civile che fa architettura. Attraverso l'esposizione dei progetti che hanno portato alla realizzazione di opere quantitativamente e qualitativamente eccezionali, testimoniate in tutti i cinque continenti e costruite per i committenti più diversi (dall’Unesco a Papa Paolo VI), è possibile ripercorrere una storia che sarebbe altrimenti difficile da raccontare, dove le tecniche rivoluzionarie di costruzione si incrociano con la storia politica italiana e internazionale. Questi elementi vengono restituiti in un progetto di mostre itinerante. Alla prima mostra inaugurata a Bruxelles nel giugno 2010 sono già seguite le tappe di Venezia (settembre-novembre 2010), di Roma (al Maxxi, dicembre 2010-marzo 2011) e Torino (aprile-luglio 2011). L’approfondimento della tappa di Roma era incentrato sulle opere progettate da Nervi per le Olimpiadi del 1960. La tappa mantovana si arricchisce, rispetto alle precedenti edizioni, di un approfondimento sulla Cartiera Burgo, progettata da Nervi nel 1961 con Gino Covre, la cosiddetta fabbrica sospesa nota per essere una delle sue opere più complesse e ardite dal punto di vista tecnico e architettonico. Un'icona nella risoluzione di un problema funzionale complesso ovvero quello di avere un unico ambiente lungo 250 metri, caratterizzato da una facciata libera di 160 metri, in cui concentrare varie fasi lavorative. Il risultato sarà quello di un'architettura singolare in grado di risolvere pienamente le esigenze di funzionalità della committenza con un esito di grande forza che si staglia nettamente nel panorama padano circostante. Se l’immagine finale è il frutto di una sperimentazione formale rimasta un caso isolato nella produzione architettonica dell'ingegnere, il procedimento per la sua realizzazione invece ne riassume il percorso di costruttore. Cristiana Chiorino

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Mantova, cartiera Burgo, foto Archivio Burgo, Mantova

L'audacia dell'ingegnere, la fantasia dell'architetto, la concretezza dell'imprenditore


Qualche anno fa durante un viaggio in Spagna, in un piccolo mercato di strada, acquistai delle rustiche ciotole in terracotta. Erano bianche con un grazioso bordo blu. Mi colpirono per la loro bellezza e raffinatezza ma solo usandole compresi quanto fossero in realtà anche funzionali. Il bordo è infatti i m p e rc e t t i b i l mente ripiegato verso l’interno in modo tale che il cucchiaio nel raccogliere il boccone di zuppa o di minestra scivola morbidamente lungo la parete prendendo un impercettibile abbrivio e lasciando ricadere l’eccesso di liquido all’interno della ciotola. Geniale. Delle quattro ciotole comprate una sola ne è rimasta che conservo gelosamente. É a questa scodella che ho pensato come un perfetto esempio di design, di un oggetto che sposa la sua estetica a una funzione. Gli chef più creativi si applicano oggi a progettare non solo ricette ma anche utensili (piatti bicchieri posate pentole…) che li aiutino a esprimere il loro personale concetto di cucina. Maestro indiscusso è stato in Italia Gualtiero Marchesi che ha esposto le sue creazioni anche alla Triennale di Milano. Uno dei suoi allievi, lo chef milanese Davide Oldani, ha studiato il prototipo di una fondina in porcellana bianca per brodo con una pendenza interna che favorisce la raccolta del liquido. Questo evita la necessità di dover sollevare il piatto con una mano per raccogliere le ultime gocce di minestra. Il lavoro dei cuochi più creativi spazia dal concepire nuove ricette fino alla loro contestualizzazione e fruizione e questa ricerca viene svolta sempre più spesso in collaborazione con artisti, architetti designers, industriali… Lo chef italiano che più ha riflettuto e riflette sul concetto di 'food design' è Davide Scabin che da anni collabora con il Politecnico di Torino. Il suo ristorante, il Combal.Zero, si trova a Rivoli, in provincia di Torino, e sulla collina del celebre Castello accanto all’omonimo museo di Arte Contemporanea. Il “vulcano” Scabin ha prodotto celebri lavori cercando connessioni tra l’alta cucina e il processo industriale. Una sua famosissima creazione è il 'cyber-egg', ideato nel 1998 e nato, come ha più volte raccontato lo stesso cuoco, in una serata di noia: che cosa fare con un uovo? Rifargli il guscio. Gli ingredienti sono: caviale, scalogno, tuorlo d’uovo, vodka e pepe nero. Il tutto viene chiuso in una doppia pellicola, la prima contiene tuorlo e ingredienti, la seconda funge da camera d’aria. Per mangiarlo si adopera un bisturi con il quale si forano le due pellicole. Lo si gusta succhiandolo e i sapori si mischiano direttamente in bocca. Una invenzione per essere tale nell’ambito del food design deve essere anche riproducibile su scala industriale. Divertente allora anche il “Piola-kit” ideato sempre da Scabin. La piola è la tipica osteria piemontese dove gli anziani del paese si trovano a bere un cicchetto e a giocare a carte. La scatola kit contiene sei vasetti con i tipici piatti piemontesi (toma, bagna cauda, agnolotti, cotechino, lingua brasata, panna cotta), una fiala di Barbera, posate e il mazzo Raffaella Prandi di carte. L’atmosfera e il gusto dell’osteria da portare a casa propria.

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Foto Giuseppe Tripodo

Cibo in forma


Il di-segno della memoria In un mondo senza suoni la curiosità si nutre di forme, linee, colori. Da bambino amavo i libri illustrati. La parola scritta diventava reale nei disegni: castelli, cattedrali e altri luoghi mi affascinavano allora come adesso, ed osservarli è presto diventato un tutt’uno con il provare a riprodurli. Durante la scuola media ero il “disegnatore” di classe, ma la mia voglia di conoscere e sperimentare non si è fermata all’arte e alla sua storia. Con le opere di famosi illustratori italiani come Loreno Confortini e Francesco Corni mi sono avvicinato alla cartografia, e per passione personale alla storia,

all’architettura e all’urbanistica. Gli anni all’Istituto d’arte e il perfezionamento all’Accademia di Belle Arti mi hanno permesso di apprendere diverse tecniche artistiche ad alto livello e di trasferire i miei interessi in disegni sempre più articolati. Le ricostruzioni architettoniche, storiche e artistiche nascono dalla fusione delle mie passioni. Dare forma e sostanza al passato, ripercorrere le varie epoche attraverso i personaggi, le vicende, i metodi costruttivi. La china, l’acquerello e il rapido sono le tecniche che utilizzo più spesso per realizzare vedute a volo d’uccello, spaccati, evoluzioni ed illustrazioni di vario tipo. Alla base dei miei lavori c’è la volontà di restituire un passato cancellato dal tempo o dimenticato, di dare concretezza ai mutamenti attraverso il disegno, strumento immediato e comprensibile a tutti. Per rimanere

fedele alla storia, ogni illustrazione parte da una scrupolosa ricerca archivistica, iconografica e bibliografica, e procede con sopralluoghi e attente osservazioni. Negli anni ho ricreato chiese, palazzi, città, castelli, battaglie, fortezze, paesaggi, soldati ecc., ho collaborato per progetti, libri, documentari, mostre, pannelli espositivi…, e lo scopo del mio lavoro, oltre ad esprimere le mie passioni, resta sempre quello di rendere più accessibile la conoscenza di luoghi ed episodi storici, di darne una memoria di facile lettura, di restituirne l’identità perduta. Guglielmo Calciolari Nel 2008 Guglielmo Calciolari ha ideato il progetto Mantova Fortezza (www.mantovafortezza.it) realizzato con il sostegno della Società per il Palazzo Ducale. L’obbiettivo del sito è di restituire testimonianza dell’importanza di Mantova nel XIX secolo, quando era riconosciuta come una delle maggiori piazzeforti d’Europa. La maggior parte delle tracce di questo prestigioso passato sono state cancellate dalle vicissitudini storiche successive; la sfida di questo progetto è rendere disponibili per studiosi, studenti e appassionati, non solo le informazioni storiche, militari ed archivistiche, ma anche le numerose illustrazioni dettagliate dei luoghi scomparsi. Un’impresa che mira a rendere ancor più completo il panorama storico mantovano e restituire l’identità di un periodo poco conosciuto ma importantissimo.

Rocchetta del Borgo di San Giorgio nel 1410 (Sparafucile). Disegno di Guglielmo Calciolari

Valentine

L'icona pop della Olivetti

Tutti i grandi autori che scrissero le pagine più importanti della letteratura internazionale furono accomunati da un unico elemento: la macchina da scrivere. Chi preferiva le Olivetti, chi batteva incessantemente sui tasti delle Remington, tutti venivano affascinati dalla meraviglia di vedere prender vita il proprio testo davanti agli occhi, senza affaticare, dopo tante ore di lavoro, il proprio polso con l’uso di una penna stilografica. L’avvento della macchina da scrivere cambiò radicalmente tanto il mondo dell’editoria quanto quello del design, avvalendosi di importanti firme per realizzare delle scocche sempre nuove e al passo con le mode di quegli anni. Oggi tutto quel fascino, costituito da suoni, odori e sensazioni tattili, sta andando lentamente scemando. A causa della tecnologia dei nuovi Iphone, Ipad e smartphone touch vari, stiamo perdendo quel gusto raffinato per il design e per la bella scrittura che deriva dalla lentezza e dalla riflessività proprie del lavoro a macchina. Grazie a questa lunga premessa, è possibile aprire uno spaccato in pieno stile “amarcord” per andare a vedere quei periodi della storia della letteratura italiana che, non tanto distanti da noi, si facevano influenzare dalle sensazioni della macchina tanto quanto da quelle del design che la costituiva. Uno dei più grandi designer che prestò la propria firma alla Olivetti fu Ettore Sottsass jr che, nel 1968, periodo denso di sentimenti di ribellione e di venti di novità, progettò un prototipo di macchina da scrivere che fu destinato a rimanere nella memoria degli italiani nel tempo. Scocca rossa come il vestito di Jessica Rabbit, aerodinamica come una Ferrari Testarossa e comoda da trasportare come una borsetta; stiamo parlando ovviamente della Olivetti Valentine. Il nome stesso, Valentine, ricorda le libidinose nudità del personaggio ideato da Milo Manara. Il dettaglio che la rese grande fu la sua capacità innata, merito di babbo Sottsass, di essere molto più facile da trasportare rispetto ai modelli della serie “Lexikon”, “Studio” o “Lettera” della stessa Olivetti. Aspetto non secondario è il fatto che Valentine si era imposta come icona Pop dell’editoria. Proprio per questo la macchina da scrivere ideata dall’architetto Sottsass, insieme alla Vespa e alla Fiat 500, costituiva uno dei tanti elementi innovativi degli anni del boom economico. Valentine fu quindi, a modo suo, l’Iphone di quei tempi. Mendes Biondo

La grafia dello spazio al cinema

Il gabinetto del dottor Caligari

vimenti. Altre due pellicole dell'epoca, entrambe dirette da Fritz Lang, rimarcano come lo spazio preordinato costituisca un'imprescindibile componente di senso: ne “Il dottor Mabuse” (1922) è soprattutto l'architettura di interni a restituire le condizioni precarie, ossia le macerie materiali e morali in cui versa la Germania post-bellica; nel celeberrimo “Metropolis” (1927) è invece l'avveniristico ambiente urbano, con le sue iperboliche costruzioni, a dominare sontuosamente lo schermo e a suggerire lo sgomento della tirannide, ancor prima e ancor più della storia che vi si svolge, di per sé abbastanza meccanica se non stucchevole. Insomma, lo stile cui la scenografia si ispira è spesso responsabile dei significati più profondi, quelli che presagiscono le dinamiche narrative. E che perdurano anche dopo la fine della visione. Claudio Fraccari

Metropolis

È naturalmente nella scenografia che al cinema si riconosce l'apporto del design. Si veda come paradigma la scena del sogno ne “Il grande Lebowski” dei fratelli Cohen (1997): le deformazioni del grandangolo non cancellano, anzi esaltano le invenzioni geometrizzanti e 'optical' dello scenografo-designer (Rick Heinrichs). Oppure, l'arredo settecentesco della sequenza finale di “2001 – Odissea nello spazio” (Stanley Kubrick, 1968) è più eloquente dei dialoghi nel determinare la regressione dell'astronauta sopravvissuto, e di tutta l'umanità che rappresenta, a uno stadio remoto, quello dell'insorgenza del pensiero razionalista. Più in generale, va detto che all'arredamento di una casa o di una stanza, ovvero alla ricostruzione di vie o edifici è affidato il decisivo compito di dettare le coordinate cronologiche e geografiche, ovvero di denotare i personaggi quanto ad estrazione sociale. Non si creda però che ciò riguardi solo i film della fase più recente; si può risalire molto più indietro, addirittura agli anni Venti e al cinema espressionista tedesco per trovare un'autorevole conferma dell'importanza del design nella costruzione visuale di un'opera cinematografica. Per esempio, ne “Il gabinetto del dottor Caligari” (Robert Wiene, 1920) ogni segmento si vale di contesti scenografici disegnati appositamente – e disegnati non è un modo di dire, dato che le ombre, oltre che prodotte dall'illuminazione, venivano dipinte direttamente sulle pareti o sui pa-

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Curato da Associazione Culturale

Ca’ Gioiosa • Via Trieste, 44

• Mantova

CALENDARIO EVENTI

CA’ GIOIOSA

agosto

gioiosa entra nelle case 30 novembre 2012 / Anno III Copia omaggio supplemento straordinario a La Cittadella Editrice Ca’ Gioiosa-Mantova Fotolito e stampa: Publi Paolini Responsabile redazionale Claudio Fraccari Coordinamento artistico Raffaello Repossi Coordinamento editoriale Mara Pasetti Redazione Valeria Borini Claudio Compagni Giovanni Fortunati Claudio Fraccari Carla Guerra Nicoletta Marastoni Laura Pasetti Mara Pasetti Gianpaolo Poli Raffaello Repossi Giada Salvarani Giuseppe Tripodo Nicola Zanella Testi di Davide Barbieri Mendes Biondo Guglielmo Calciolari Cristiana Chiorino Edgarda Ferri Claudio Fraccari Mara Pasetti Raffaella Prandi Daniele Protti Raffaello Repossi Nicola Tremacoldi Massimo Zaniboni Fotografie e disegni di Guglielmo Calciolari Claudio Compagni Giovanni Fortunati Nicolò Michetti Mara Pasetti Giuseppe Tripodo

Quello che state leggendo è un numero di Ca’rte particolarmente generoso: di contenuti e di suggestioni, di forma e di sostanza. Certo il tema del design è in sé molto interessante, ma non spiega da solo la ricchezza degli interventi che ci sono pervenuti. Penso che di questi tempi la risposta sia da cercare nella voglia immutata di alcuni di fare cultura concedendo competenze, tempo e passione da contrapporre al vuoto che rischia di inghiottirci, auspicando che ci siano altri disposti a impiegare competenze, tempo e passione per ricevere tali sollecitazioni. Si dice che la cultura non “paga”, non rende. Noi di Ca’ Gioiosa però continuiamo a credere che non sia così perché leggiamo le vostre e-mail di incoraggiamento e sentiamo il calore e la fiducia dei nostri soci. Senza di voi che ci sostenete da anni ci sentiremmo probabilmente meno motivati, certamente più isolati. Perciò grazie e un caro augurio per un sereno Natale a tutti, ai Don Chisciotte che imperterriti lottano ancora contro i mulini a vento. Mara Pasetti

Martedì 11 dicembre ore 21 “Mantova nottenebbia” Ritrovo P.zza Sordello davanti ingresso Palazzo Ducale G. Fortunati e G. Tripodo accompagneranno tutti coloro che si dilettano di fotografia a fare scatti della città avvolta da una leggera nebbiolina. Aperto a tutti

Domenica 16 dicembre ore 20.30 Casa Pasetti, via Calvi 51, Mn Cena del 12° compleanno di Ca’ Gioiosa “Omaggio a Vermeer” Solo su prenotazione

Domenica 6 gennaio ore 16.00 Casa Pasetti, via Calvi 51, Mn Tombola della Befana Con ricca e festosa merenda tra amici secondo la tradizione dell’associazione Su prenotazione

Sabato 12 gennaio 2013 ore 20.30 Casa Pasetti, via Calvi 51, Mn “In-contro” Amici si incontrano convivialmente Solo su prenotazione

Venerdì 25 gennaio ore 17.30 Casa Pasetti, via Calvi 51, Mn Reading dal libro di G. Furlani “La nonna sotto il fico”, Miraviglia Ed. Al clarinetto il M° M. Fornasari Ingresso libero, su prenotazione LA SCUOLA Casa Pasetti, via Calvi 51, Mn Giovedì 6 e 13 dicembre ore 21-22.30 “La musica e le immagini, l’ascolto e la visione - storia della composizione di musica per immagini” Corso a cura di S. Gueresi compositore e P. Grandi visual art designer Solo su prenotazione entro l’1/12 Sabato 19 gennaio ore 9.30-13/14.30-19 “Taci. Ascolta. Hai sentito anche tu?“ Esercizi di percezione a cura di M. Cappi, giornalista e sceneggiatrice Solo su prenotazione entro l’11/01/13

L’associazione Ca’ Gioiosa è a disposizione degli eventuali aventi diritto per le fonti non individuate. Scriveteci i vostri commenti su Facebook chiedendoci l’amicizia: ogni visita ci aiuterà a portare avanti il progetto di Ca’rte Visitate il nostro sito per conoscere l’elenco delle edicole che distribuiscono Ca’rte.

Per info e iscrizioni agli eventi: telefonare allo 0376 222583 - 3395836540 Aperte le iscrizioni all’Associazione per il 2013 pag. Facebook: Associazione Culturale Ca’ Gioiosa

cagioiosa@libero.it • www.cagioiosa.too.it

Sportello Sportello di di Promozione Sociale

e con il patrocinio

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Anno VI

Sì, entriamo nel sesto anno di presenza e lavoro dello Sportello di Promozione Sociale. Avviato nel 2007 su iniziativa dell’allora assessore ai Servizi Sociali del Comune, è cresciuto prima con la materna assistenza del CSVM nella persona di Graziella Bonomi, e poi con quella paterna ed essenziale di Francesco Molesini, oggi tutor di un gruppo di volontari espressione e rappresentanza di sindacati e associazioni presenti nel territorio. Lo Sportello ha sede nei locali dell’ex ufficio immigrazione del Comune, in via Tassoni 12, e attraverso otto volontari in rappresentanza di ACLI, AUSER G. RIPPA, CA’ GIOIOSA Associazione culturale, Unione dei Ciechi e degli Ipovedenti, FNP-Cisl, - SPI-Cgil, fornisce un servizio di orientamento nella scelta dei servizi sociali, affianca nel disbrigo di pratiche burocratiche, aggiorna sui bandi e sulle agevolazioni di cui i cittadini possono usufruire. Centinaia sono, ogni anno, le persone che accedono in vari modi allo Sportello, direttamente, o via e-mail, o per telefono. Con un incremento di accessi che è il segno del valore e della importanza che questo servizio ha assunto, ma anche di un crescente disagio, riflesso di una crisi economica che è diventata sociale e culturale. Crescono insomma le difficoltà materiali dovute alla perdita del lavoro o alla erosione dei redditi o delle pensioni, ma preoccupa anche il progressivo isolamento e la perdita di relazioni, di aiuto e sostegno, in cui vive ormai un gran numero di cittadini. Soprattutto anziani e immigrati. I volontari dello Sportello sono il segno di una presenza ancora viva dell’associazionismo nella realtà mantovana. E testimonianza del fattivo supporto del Centro Servizi Volontariato Mantovano e, fin qui, anche della sensibilità sociale manifestata dalle Amministrazioni comunali succedutesi dal 2007 ad oggi. Lo Sportello pubblica periodicamente anche un Bollettino informativo che aggiorna sui bandi in vigore per ottenere contributi, agevolazioni nel pagamento di alcuni servizi o il riconoscimento di diritti. È in corso la redazione del numero 12 di questo Bollettino, che ha trovato uno straordinario apprezzamento e diffusione tra tutti gli addetti ai lavori: associazioni, uffici, sindacati, patronati. Abbiamo la speranza che lo Sportello possa continuare nel prossimo futuro, offrendo la garanzia di un servizio continuo rivolto soprattutto alle fasce più deboli e marginali della società. Un gruppo di volontari

Ca’ Gioiosa ringrazia per la sensibilità che sempre dimostrano a sostegno delle sue iniziative la Provincia di Mantova, il Comune di Mantova, Levoni spa, Banca Intesa San Paolo, Cleca S. Martino, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Pavimantova snc, Cantine Virgili, Gustus, Valle dei Fiori, 1 Stile.

ASSOCIAZIONE PER IL PARCO onlus L’Associazione “Per il Parco”, non-profit costituita nel 1990 ha come scopo la promozione della conoscenza del territorio del Parco del Mincio, la cultura e il turismo ambientali. Gli operatori dell’Associazione, Guide Naturalistiche associate all’AIGAE, accompagnano tutti gli anni circa 5.000 studenti nelle zone di pregio naturalistico della nostra provincia e, dal 2002 ad oggi, hanno offerto occasioni di formazione in campo scientifico e ambientale a circa 15.000 bambini e ragazzi (ad es. con il progetto “Sentieri per crescere”). Da 10 anni l'Associazione svolge attività di educazione ambientale e turismo naturalistico sul Lago Superiore di Mantova e nella Riserva Naturale Valli del Mincio, con “GAIA”, la prima imbarcazione ecologica a navigare sul Lago Superiore e nella Riserva Naturale Valli del Mincio. Il progetto “MASTeR – Mantova Ambiente, Scienza, Tecnologia e Ricerca” ha previsto a Mantova la realizzazione del primo Spazio – Laboratorio interattivo permanente a carattere scientifico, a cui possono accedere studenti, docenti e cittadini, ideato e realizzato con lo scopo di promuovere e sviluppare attività legate alla Formazione Scientifica. Nell’ultima fase delle attività si sono inoltre avviati rapporti di collaborazione con il Centro d’Arte di Palazzo Te, che hanno permesso ad esempio la realizzazione del laboratorio che affianca la mostra su Pierluigi Nervi e la gestione del “Cubo” che ospita i mosaici della domus romana di Piazza Sordello a Mantova. ASSOCIAZIONE PER IL PARCO onlus Via Portici Broletto,22 46100 Mantova Tel e fax 0376/225724 perilparco@yahoo.com P.IVA. 00695230201

Questa pagina ospita sempre lo Sportello di Promozione Sociale, Associazioni e Istituzioni culturali mantovane


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