Carte01 17

Page 1

Foto Mara Pasetti

gioiosa

marzo

ANTOVAarte

Via Calvi, 51 • Mantova Gioiosa • Sede operativa Ca’ e ral ltu Cu one azi Curato da Associ

01 17

Associazion

va negli ambiti: civile-sociale,

zione della Provincia di Manto

al Registro dell’Associa e di Promozione Sociale iscritta

to n. 17/2007

culturale e attività sociale. Decre


Foto Giovanni Fortunati

Il Museo Egizio di Giuseppe Acerbi

Il Museo Egizio a Palazzo Te è nato grazie alla munifica donazione di Giuseppe Acerbi, che fu per dieci anni console generale d’Austria in Egitto. I pezzi che vi sono esposti sono circa 400 anche se molti altri reperti, più spettacolari, sono purtroppo dislocati in altre raccolte. Quasi tutti provengono dalla spedizione che egli intraprese nell’Alto Egitto e nella Nubia sul finire del 1828 per unirsi a quella di Champollion, il giovane decifratore dei geroglifici, e Ippolito Rosellini, di cui l’Acerbi divenne grande 2

amico e collaboratore. Del suo avventuroso viaggio egli lasciò ampia documentazione nel suo Taccuino. Toccò le città di Tebe, Luxor, Karnak, Gurna, dove si dedicò agli scavi e fece acquisti di antichità – come ad esempio due statue leontocefale di granito nero di Siene che egli fece posizionare, una per parte, davanti alla porta della residenza consolare austriaca da lui occupata ad Alessandria. Non si trattava comunque di reperti rari poiché se ne trovavano molti anche se quasi tutti danneggiati dai persiani, dai turchi e dagli arabi musulmani per

la loro avversione iconoclasta. Mancavano di piedi o mani o braccia che, se per caso sussistevano, erano comunque mutilate. Il loro pregio dunque stava nell’essere il meno offese possibile e avere anche un’iscrizione geroglifica o qualche cartiglio. Quelle dell’Acerbi, trovate nel tempio di Tebe dedicato alla dea Muth, mancano di iscrizione. L’Acerbi, non contento, chiese agli amici di procurarne altre per lui stesso. La richiesta non fu facile da esaudire, ma alla fine Rosellini, dopo aver portato alla luce altre trenta leontocefale, più o meno mutilate, diede all’Acerbi la facoltà di appropriarsene e due, in granito rosato, alla


Foto Giovanni Fortunati

fine del 1832 furono inviate a Castel Goffredo, poste ad ornamento di Palazzo Acerbi e ancor oggi fanno parte della Collezione omonima. A questa si unì anche un altro pregevole reperto trovato ad Abu Simbel: uno zoccolo in calcare bianco di una statua maschile su cui è inciso il titolo “Signore delle Corone” – probabilmente un re – con un cartiglio, purtroppo illeggibile (forse di Ramsete II). Dalle sue svariate scoperte archeologiche, tra cui mummie, papiri, statue che si trovano in varie collezioni, egli portò nella sua dimora di Castel Goffredo, oltre alle due leontocefale e allo zoccolo sopra menzionati, anche una statua di dea

in granito nero, un blocco in granito rosa di Assuan con scolpito un busto di sovrano (forse Ramsete II o III), una stele rettangolare in calcare con scolpito un busto di sovrano, una stele arcuata della 18ª dinastia, una lastra rettangolare in calcare parte di rilievo parietale di tomba della fine della 18ª e principio della 19ª, una stele arcuata della 19ª dinastia con raffigurati in alto due uomini che pregano il dio Osiris, e in basso quattro uomini e tre donne oranti la bovina Hator. La Collezione Acerbi, riordinata nel Palazzo di Castel Goffredo, conta dunque pochi pezzi pregevoli anche se molti reperti, da lui trovati o acquistati durante la sua lunga

permanenza in Egitto, giunsero grazie alla sua sensibilità e generosità in vari musei, come quello di Malaspina del Palazzo Ducale di Pavia (un papiro), il Castello Sforzesco di Milano (due papiri), Palazzo Te a Mantova (molti canopi), il Museo egizio di Firenze (un rilievo), il Louvre di Parigi (dove sono però introvabili). Peccato per questa dispersione, perché un ideale Museo Egizio Acerbiano, se raggruppato presso Palazzo Te, sarebbe stato veramente di grande prestigio. [Cfr. P. Gualtierotti, Un ideale Museo Egizio di Giuseppe Acerbi, in «Civiltà Mantovana», n° 3 (1984), pp. 99-116]

3


4

Foto Giovanni Fortunati

La Chiesa di Ognissanti

Dai restauri della “Cappella dei morti” nella chiesa di Ognissanti a Mantova, conclusi nel 1984, è emersa la sua origine romanica. La prima menzione, nel 1159, non fa cenno ad una chiesa, ma ad un “hospitale”. Tuttavia la facoltà concessa dal papa ai monaci del Polirone di istituirvi un priorato certifica che la chiesa dovesse già esistere o stesse per essere costruita. La cappella dei morti, ubicata ad ovest dell’attuale edificio settecentesco, è in realtà l’ultima parte sopravvissuta dell’antica chiesa romanica: esattamente la zona centrale e destra del transetto. Con la nuova costruzione, databile tra il 1752 e 1755, la vecchia subì tagli progressivi tanto che la navata fu demolita a favore di un corridoio che porta alle sale parrocchiali. Nella cappella e anche al suo esterno si possono notare molti elementi che denotano una chiesa romanica a navata unica con transetto sporgente triabsidato. Anche il campanile, che i documenti datano al 1322, è antecedente al sec. XII: solo l’ultimo piano con bifore e archetti è posteriore. Questa tipologia architettonica ebbe grande diffusione nei secoli X e XI in Francia e Italia soprattutto nelle chiese monastiche. Tale impianto a croce semplice fu applicato nei priorati cluniacensi francesi, dunque non è improbabile che fosse così anche in Italia. Tuttavia questa tipologia non è presente nei priorati cluniacensi lombardi e i pochissimi esistenti sono datati al sec. X o ai primissimi del XI. Presso la chiesa maggiore di Cluny era ubicata la chiesa dell’infermeria, dedicata a S. Maria, che influenzò gli analoghi edifici di importanti abbazie, tra cui anche quello del Polirone che si trova a fianco della chiesa maggiore, che aveva appunto lo stesso schema di Ognissanti. Quello fu ultimato nel 1151 e visto che Ognissanti fu concessa dal Papa al Polirone nel 1159, la contiguità cronologica potrebbe far pensare che la chiesa mantovana venisse edificata dai monaci polironiani subito dopo il 1159, avendo sicuramente a modello quella di S. Benedetto. Non solo: si sa che la sede amministrativa mantovana del Polirone era la chiesa di S. Martino già dal 1127; ma poiché dal 1150 S. Martino sparisce dai documenti, è lecito supporre che Ognissanti ne abbia preso il posto. [Cfr. P. Piva, Un inedito di architettura romanica: la Chiesa di Ognissanti a Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 22 (1988), pp. 43-67]


Foto Mara Pasetti

Il Monastero di Sant’Andrea

Il monastero di Sant’Andrea di Mantova fu fondato dal vescovo della città Itolfo nell’anno 1037. Elementi fondativi furono l’esigenza di far funzionare l’ospedale annesso e, ancor più, di preservare e mostrare al culto la reliquia del Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo rinvenuta nel luogo stesso dove poi sorse l’abbazia. Ricordiamo che nell’“hospitalis”, gestito dai monaci, il residente ma anche il viaggiatore potevano trovare assistenza e cure mediche nonché vettovagliamento gratuiti. Il ritrovamento della reliquia del sangue di Cristo, portato dalla Palestina sembra dal centurione Longino, fece sì che fosse costruita accanto all’ospedale la chiesetta per ospitarla. Un lungo silenzio copre le successive vicende ad essa legate fino al secondo ritrovamento, nella prima metà del XI sec., per merito del servo dei marchesi Bonifacio e Beatrice Canossa, Adelberto, sant’uomo al quale apparve in sogno Sant’Andrea martire per chiedergli di cercare la reliquia presso le mura della chiesetta. Dopo che le ebbe trovate, il vescovo Itolfo chiamò a Mantova dodici monaci benedettini cui affidò l’antica chiesa, l’ospedale annesso e un sito adatto a fabbricarvi un monastero dotandolo inoltre di vari beni del vescovado e le chiese di Formigosa e Soave. In quegli anni in cui il dominio dei Canossa si potenziava, il vescovo si trovò nella necessità di appoggiarsi alle forze cittadine per difendere la propria autonomia. Così la fondazione di un monastero a pochi km di distanza dal canossiano Polirone sembra un tentativo del vescovo di potenziare spiritualmente la città e di crearsi un appoggio a difesa della propria autonomia. E così nel corso degli anni il complesso divenne oggetto di molte donazioni – anche da parte degli stessi Canossa. Il monastero di Sant’Andrea non riuscì tuttavia mai ad essere politicamente autonomo e finì per dover sottostare, nelle vicende del tempo che videro Mantova legarsi al partito dell’imperatore, alla decisione di togliere l’amministrazione dell’ospedale ai monaci, accusati di cattiva gestione, per trasferirla ad Alberico, abate del Polirone. Negli anni successivi Sant’Andrea ricevette altre donazioni dai cittadini, dall’imperatore e dal papa, confermate in un documento dell’anno 1152 con cui il pontefice Eugenio III prende l’abbazia sotto la sua protezione, garantendole finalmente la libertà da ogni tipo di condizionamento. [Cfr. G. Bellini, Il Monastero di S.Andrea di Mantova dal 1037 al 1152, in «Civiltà Mantovana», n° 34 (1972) pp. 291-294]

5


Foto Mara Pasetti Foto di Giovanni Fortunati, Sala del Pisanello, Complesso Museale di Palazzo Ducale - Mantova. Su concessione del Ministero dei Beni e delle AttivitĂ Culturali

A proposito di Pisanello

6


Antonio Pisano nasce presumibilmente a Pisa prima del 1390, ma già giovanissimo si trasferisce a Verona con la famiglia. Muove i primi passi nell’arte sotto Stefano da Zevio e poi, a Venezia, incontra l’arte di Gentile da Fabriano. È documentato per la prima volta a Mantova nel 1422, poi anche nel 1424-25. È del 1420 la grida di Gianfrancesco Gonzaga che concede sgravi e approvvigionamenti agli artisti che si trasferiscono a Mantova. Gli affreschi che Pisanello eseguì in Palazzo Ducale (fu l’unico artista ad aver riconosciuta una sala col proprio nome) furono certamente visti da Leon Battista Alberti, il quale se ne ispirò per una decorazione. Tra il XVI e il XIX secolo poi vi furono parecchie manomissioni che ricoprirono gli affreschi pisanelliani con successivi strati di intonaci e affreschi: così se ne perse la memoria. [Cfr. G. Amadei, Il Pisanello a Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 17 (1967), pp. 287-318]

Il fregio che delimita una parte degli affreschi rappresenta un collare formato da una striscia adorna di una serie di lettere S che, usato come livrea propria dei Lancaster e della casa reale d’Inghilterra dal tempo di Enrico IV, veniva concesso in segno di onore e come riconoscimento di fedeltà. Il fregio presenta una serie di motivi emblematici propri dei Gonzaga collegati tra loro per mezzo dei collari. Vi sono due lettere di Enrico VI d’Inghilterra dell’ottobre 1436 con le quali egli concede al marchese di Mantova la facoltà di conferire a 50 dei suoi sudditi la divisa reale. Tali gioielli furono portati a Mantova dall’arcivescovo di Colonia, Dietrich von Mors che era stato ospitato qui con ogni onore. [Cfr. I. Toesca, Lancaster e Gonzaga: il fregio della “sala del Pisanello” nel Palazzo Ducale di Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 42 (1973), pp. 287318]

La sagoma del collare delle Esse è chiaramente riconoscibile anche sulle gualdrappe di alcuni cavalli, così come su alcuni cavalieri con i colori araldici dei Gonzaga: il bianco, il rosso e il verde. Gianfrancesco Gonzaga era stato insignito dell’onorificenza inglese fin dal 1416.

Vi è in questo ciclo una fitta presenza ritrattistica riconoscibile dalla precisa definizione delle fisionomie dei personaggi a volto scoperto. D’altra parte Pisanello aveva raggiunto una grande notorietà proprio come ritrattista, mentre l’importanza del ritratto celebrativo andava affermandosi nelle corti dell’Italia settentrionale. Non stupisce che la sala di rappresentanza della corte fosse perciò anche una galleria di ritratti dell’entourage gonzaghesco: cortigiani, alleati politici, parenti. Una figura emergente è il cavaliere che galoppa con il cappello a larghe tese ed è stato identificato col marchese Gianfrancesco. Altresì riconoscibili da confronti con altri ritratti sono Borso e Leonello d’Este. La scelta compositiva del profilo rimanda all’abilità dell’artista come medaglista. In questo ciclo si fondono due culture che convivevano all’epoca: quella cortese-cavalleresca e quella umanistica cui prestano i volti i protagonisti delle corti di Mantova e Ferrara. [Cfr. V. Antonucci, Humanissimi principes e preux chevaliers. Ritratti gonzagheschi ed estensi negli affreschi di Pisanello in Palazzo Ducale a Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 11 (1994), pp. 47-69]

Nel 1436 Enrico VI d’Inghilterra concesse a Gianfrancesco Gonzaga di distribuire l’Impresa delle Esse a 50 suoi cavalieri e nel 1442 Pisanello venne bandito da Mantova (da parte della Serenissima Repubblica di Venezia di cui era cittadino avendo residenza a Verona, essendosi reso reo di tradimento quando al seguito di Gianfrancesco Gonzaga nel 1439 aveva partecipato all’assedio, conquista e saccheggio di Verona). Tra queste due date si deve collocare la realizzazione del Ciclo. Gli affreschi non sarebbero incompiuti: lo dimostra l’estrema finitezza della “sinopia” della parete lunga messa a confronto con i rapidi disegni preparatori scoperti sotto gli affreschi del Torneo. Sicuramente l’artista soggiornò a Mantova, dove si era già recato più volte dal 1422, e dal 1438 al 1442. Le immagini mantovane, quando il Consiglio dei Dieci gli impose di presentarsi a Venezia, vennero lasciate ad un livello di compiutezza tale da poter essere comprese dagli osservatori. Pisanello non poté più tornare a Mantova per completarli.

[Cfr. I. Toesca, Altre osservazioni in margine alle pitture del Pisanello nel Palazzo Ducale di Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 65-66 (1977), pp. 349-376]

[Cfr. L. Ventura, Notarelle pisanelliane. Precisazioni sulla data del ciclo cavalleresco di Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 2 (1992), pp. 19-54]

La grande dimensione della sala suggerisce che fosse la sala in cui i Gonzaga ricevevano i loro ospiti. Il ciclo può essere identificato, sulla base di cinque iscrizioni leggibili nelle sinopie, come un episodio preso da Lancelot, romanzo francese del XIII secolo del Ciclo arturiano, presente nella biblioteca gonzaghesca. La sinopia, dettagliatissima, presenta una versione del torneo diversa da quella dell’affresco. Molti dei cavalieri del torneo e gli stessi Gonzaga venivano riconosciuti per i colori araldici e i loro emblemi. Nella Sala sono rappresentati diversi modi di giostrare nel XV secolo che Pisanello dimostra di conoscere molto bene.

In occasione della venuta a Mantova dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo nel settembre 1433 per conferire a Gianfrancesco Gonzaga il titolo di marchese, probabilmente Pisanello eseguì la rifinitissima sinopia rossa della sala d’ingresso del palazzo gonzaghesco: in un tempo limitato realizzò un risultato di grande impatto e pienamente leggibile. Dopo qualche anno e il cantiere della cappella Pellegrini a Verona, l’artista tornò a Mantova per ultimare il Ciclo. Dovendo abbandonare il cantiere nel 1442 per recarsi a Venezia non riuscì a completare l’affresco poiché non stese le finiture a secco e non applicò le lamine metalliche.

[Cfr. J. Woods-Marsden, La sinopia come disegno preparatorio: evoluzione della scena del torneo di Pisanello, in «Civiltà Mantovana», n° 28-29 (1990), pp. 1-34]

[Cfr. L. Ventura, Pisanello a Mantova. Ovvero come datare il ciclo cavalleresco di Palazzo Ducale, in «Civiltà Mantovana», n° 123 (2007), pp. 70-83]

7


Francesco II Gonzaga (1466-1519) fu certamente l’uomo d’arme più considerevole della dinastia gonzaghesca. Egli infatti meritò la stima delle maggiori potenze italiane del tempo: Roma, Napoli, Firenze, Milano, Venezia, nonché l’ammirazione della Francia di Carlo VIII e Luigi XII. Dalle spedizioni da lui così felicemente espletate citiamo tra tutte la celebre battaglia di Fornovo (6 luglio 1495), nella quale per la prima volta un esercito italiano combatteva contro lo straniero invasore, cacciandolo dalla penisola. Non fu però una vittoria priva di amarezze a causa di invidie e denigrazione. Fu riconosciuto infatti il suo valore, ma il marchese fu anche accusato di non aver saputo sfruttare la superiorità militare alleata, favorendo la ritirata delle truppe francesi. Francesco II difese le sue ragioni per vie diplomatiche, ma non trascurò il piano simbolico e dell’immagine, inalberando cavallerescamente, di fronte a tutti, la famosa impresa del “crogiuolo”. L’impresa è costituita dalla raffigurazione di un crogiuolo, che simboleggia l’onore del duca purificato, come l’oro nel crogiuolo, e dal motto: “Domine probasti et cognivisti”. Questa impresa, essendo impostata su un motivo d’onore, avrebbe dato lustro al casato gonzaghesco più di tante altre. E i Gonzaga infatti utilizzarono abbondantemente questo simbolo, spesso abbinato alla figura del reliquiario del Preziosissimo Sangue, nella numismatica ducale, nei soffitti della reggia e persino nell’abbigliamento di corte. Una sala del Palazzo Ducale è denominata appunto del Crogiuolo: il suo soffitto presenta intagli dorati e decorati ispirati a questo simbolo. Risale all’epoca del duca Vincenzo I l’uso della figura del crogiuolo nell’abbigliamento dei cavalieri del Redentore, ordine equestre di fede cristiana istituito per onorare ufficialmente la reliquia del Preziosissimo Sangue di Cristo, custodita nella basilica di Sant’Andrea in Mantova. L’ordine ebbe un’importante attività per un secolo esatto. I cavalieri dell’ordine del Redentore in particolari ricorrenze indossavano un manto di raso cremisi decorato con l’impresa del crogiuolo. A Verona è custodita una pianeta che si vuole ricavata da uno dei manti appartenuti alla nobile famiglia degli Orsini. Stretta somiglianza di motivi si riscontra in un paramento di color cremisi, riccamente ornato, in dotazione alla basilica palatina di Santa Barbara. [Cfr. P. Pelati, L’impresa del crogiuolo in tessuti gonzagheschi, in «Civiltà Mantovana», n° 41 (serie 1966-78), pp. 312-322]

Il paesaggio della “Camera degli Sposi” 8

Nell’affresco della “Camera degli Sposi”, sullo sfondo dell’episodio dell’incontro fra Ludovico Gonzaga e il figlio Francesco (datato agli inizi del 1462) è raffigurata, com’è noto, una Roma idealizzata e un paesaggio romano che attende di essere identificato. Tra i caratteri di questo paesaggio si riconoscono un ponte a una sola arcata, alti strapiombi crivellati di cave da cui emergono minuscole figurine, un maestoso edificio rotondo posto sopra un basamento quadrato, un bianco castello turrito in lontananza; poi, sull’arco naturale sotto cui transita la carovana dei re Magi, si scorge un altro castello diroccato. Il luogo montuoso ricco di cave potrebbe essere Tivoli; col conforto di alcuni documenti dell’Archivio Gonzaga e di altre fonti antiche di cui Mantegna poteva essere a conoscenza si può meglio precisare tale intuizione. Soccorre in particolare il geografo greco Strabone che, in un passo della sua Geographia,


Foto Giovanni Fortunati

o l o u i g cro l e d a s e r p m i ’ l n o ic h c s e h g a z n o g i t u Tess

descrive la zona tiburtina e prenestina: in particolare, accenna alle cascate dell’Aniene vicino a Tivoli e al tempio di Ercole, oltre che alla presenza di operai tagliapietre nelle cave circostanti. Inoltre, Strabone cita il tempio della Fortuna di Preneste, che si potrebbe identificare, al netto di deformazioni fantastiche, con la mole cilindrica su base quadrata dipinta dal Mantegna. La rocca bianca con una torre in costruzione potrebbe a sua volta alludere alla fortezza di Tivoli, voluta da Pio II per frenare l’audacia dei vicini e costruita tra il 1461 e il 1462. Infine, il castello diroccato

potrebbe alludere alla presa di Palombara Sabina da parte degli eserciti pontifici, avvenuta nel luglio del 1461, allorché il papa decise di punire la temerità di Giacomo Savelli, a quei tempi fiero avversario della Chiesa. [Cfr. R. Signorini, Il paesaggio dell’Incontro nell’affresco della “Camera degli Sposi” e le sue fonti, in «Civiltà Mantovana», n° 11 (1977), pp. 1-31]

9


[Cfr. L. Volpi Ghirardini, Ipotesi di una lettura globale della facciata della basilica di Sant’Andrea in Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 7 (1993), pp. 11-26]

10

La facciata di Sant’Andrea Foto Giovanni Fortunati

Nonostante il suo aspetto incompiuto, la facciata di Sant’Andrea non è stata esaminata nella sua globalità. Diversi fattori hanno contribuito a questo: la cultura architettonica di derivazione neoclassica, incapace di ripercorrere il complesso progetto albertiano; la ridotta visuale del prospetto principale; l’analisi insufficiente dei criteri adottati dall’Alberti nell’inserire la basilica in una configurazione urbana già caratterizzata; l’atipica presenza dell’ombrellone, giudicato dapprima un’aggiunta e poi goffo e inquietante. La basilica è invece il risultato di differenti processi che si fondono in modo organico, di cui la facciata è l’espressione esterna. In relazione al secondo fattore, va ricordato che dopo il bombardamento del luglio 1944 tutte le case appoggiate al lato destro della facciata furono rimosse riportando alla luce sia il lato sud del pronao, sia l’ala destra del prospetto principale, comprendente una delle due torri scalari. Per quanto poi riguarda l’ambiguità dell’ombrellone, un disegno di Herman Vischer il Giovane del 1515 lo mostra già al suo posto sopra il timpano facendo dunque cadere i dubbi sulla sua autenticità. L’intera facciata è formata da più elementi: pronao, ombrellone, due torri scalari e la parete frontale della navata, cinque piani verticali paralleli di differente profondità. Pur differenziandosi per la ricchezza dell’ornato e per il piano prospettico su cui sono posti, essi comunque concorrono insieme a formare l’architettura della facciata secondo un disegno unitario che non è solo formale bensì sostanziale. Grazie ad alcuni scavi del 1991 si è giunti ad una scoperta importante che ha potuto finalmente far comprendere la funzione dell’ombrellone: non quella di riparare dal sole la grande finestra rotonda della navata, rifatta da Paolo Pozzo verso la fine del ‘700, ma proteggere dalla pioggia lo spazio sottostante. Infatti sono venuti alla luce alcuni locali compresi fra l’estradosso della volta centrale dell’atrio e il piano di calpestio direttamente coperto dall’ombrellone (un “piano di cripta”, cioè nascosto). Si è anche pensato che questi locali (una rampa di scale, un corridoio e tre vani) avessero come scopo quello di custodire la reliquia del Preziosissimo Sangue di Cristo spiegando, di conseguenza, la presenza dell’ombrellone. Da altri restauri compiuti tra il 1985 e il 1988 si era poi potuto appurare che le doppie scale contenute nelle torri scalari dovevano essere più alte e che non furono terminate per l’interruzione dei lavori o per crolli successivi. Quindi, se erano più alte, si può ipotizzare che l’Alberti scelse una soluzione razionale e collaudata desunta dallo schema della porta romana con le torri che racchiudono e delimitano la porta centrale. La loro altezza doveva essere sufficiente per condurre sino alla copertura della navata. Inoltre, l’Alberti ottenne contemporaneamente due effetti all’apparenza antitetici: non affidò al solo pronao il mandato di rappresentare la chiesa negli spazi pubblici, né intese costruire una facciata che imponesse sul sagrato la larghezza totale del corpo di fabbrica, assai ridondante; propose invece una facciata i cui vari elementi spaziali potessero assumere diverse valenze nei confronti della realtà urbana con cui entrano in rapporto, realizzando ancora una volta la convivenza fra il nuovo e l’“opera degli antichi”.


Foto Giovanni Fortunati

Una piccola Camera Picta

Durante i lavori di ripristino e di demolizione capita spesso che dimore mantovane rivelino decorazioni pittoriche ignorate per secoli. È quanto avvenuto per la casa rinascimentale di via Fratelli Bandiera nn. 10-12 in cui, per iniziativa dei proprietari, sono state scoperte pitture di notevole interesse, all’interno di tre ambienti. In una vasta sala si possono ammirare festoni vegetali intrecciati a nastri vaganti che appaiono sostenuti da medaglie con figurazioni araldiche ed emblematiche. Questo partito ornamentale di chiara derivazione mantegnesca trova riscontro in altri ambienti mantovani del tardo Quattrocento. Ad esempio, nel complesso degli edifici di Palazzo Ducale, il cortile del Castello appare decorato nel porticato detto di Bartolino con medaglioni sospesi a nastri e imprese gonzaghesche, mentre la sala del Sole è ornata da festoni vegetali e tondi con insegna. L’origine di questo fortunato partito decorativo è da indicarsi nella Camera degli Sposi di Andrea Mantegna (vedasi lunette ornate da festoni e “oscilla” con imprese gonzaghesche). Tornando alla casa di via Fratelli Bandiera, il secondo ambiente presenta una decorazione semplice e al tempo stesso raffinata che rimanda ad una scena della Camera Picta. Il classicismo raffinato di questa decorazione riporta al clima prezioso di vari ambienti isabelliani, in cui frequenti sono i fregi dipinti a candelabre e a volute vegetali. Nella terza stanza appare un ciclo figurativo complesso che si estende alla parte superiore e comprende un fregio piuttosto sbiadito; raffigurazioni sono presenti nelle lunette e nelle vele delle due crociere. Solo una quinta lunetta conserva tracce di una scena ormai perduta. Tutto ciò suggerisce l’idea di essere in una piccola Camera degli Sposi, di tono più modesto e provinciale. Potremmo dire di essere di fronte alla traduzione artigianale di un modello illustre di cui si è perduta la caratteristica più preziosa. Le scene delle quattro lunette sono molto interessanti al punto da sembrare appartenenti ad un artista di mano più esperta. Molti sono ancora i riferimenti alla Camera degli Sposi anche se la nostra rappresentazione appare più rustica al confronto con l’esempio mantegnesco. Di tutte le lunette l’ultima offre gli elementi decorativi più interessanti: in essa si può riconoscere Venezia e alcuni suoi particolari. La decorazione pittorica di questa casa rinascimentale potrebbe essere il nostalgico omaggio di un artista veneto alla terra d’origine. Probabilmente un veneto che maturò fra suggestioni mantegnesche e ferraresi, e che dopo vari lustri riprende dalla Camera degli Sposi alcune impostazioni tipiche, espresse in un linguaggio umanistico intriso di vivaci notazioni di costume. [Cfr. C. Perina, Ambienti mantovani inediti del Rinascimento, in «Civiltà Mantovana», n° 5 (serie 1966-78), pp. 53-59]

11


La Casa del Mantegna, posta in contrada S. Sebastiano (oggi via Acerbi), venne fondata nel 1476, come da epigrafe scolpita sul pilastrino angolare della facciata, sopra un terreno donato all’artista da Ludovico II Gonzaga. I lavori avanzarono lentamente, ma nel 1496 l’edificio era utilizzato visto che proprio da lì uscì in processione il dipinto della Madonna della Vittoria per essere portato a destinazione nella chiesa omonima. Poi nel 1502 il marchese Francesco la acquistò e rimase di proprietà dei Gonzaga fino al 1607 quando fu venduta a Pirro Maria, di un ramo cadetto, il quale a sua volta la cedette alla famiglia Cassoni. Nel 1695 passò ai marchesi Paleotti-Lanzoni che apportarono molte modifiche al fabbricato che, in un momento imprecisato, venne inglobato in uno più grande. Acquistato nel 1829 da un ebreo, Felice Carpi, nel 1851 fu lasciato in eredità al Comune di Mantova che in seguito lo cedette all’Amministrazione Provinciale che lo fece diventare sede dell’Istituto Tecnico “Alberto Pitentino”. Nel 1939 l’immobile era costituito dall’ex palazzo Lanzoni, a cui era stata aggiunta un’ala e un vasto terreno. Solo nel 1940-41 l’antica dimora venne isolata, dopo gli scorpori, dal fabbricato scolastico e riportata alle forme originali. Permangono molti dubbi riguardo all’originaria disposizione interna della casa che doveva rispondere alle esigenze del Mantegna e a quelle della sua famiglia, anche se non si è sicuri del fatto che il pittore vi alloggiasse o la utilizzasse solo come bottega. Tuttavia in una parte della casa sono evidenti segni che denunciano la preesistenza di una strutturazione dei vani di un’abitazione confortevole ben diversa da quella che oggi si vede. I maggiori dubbi riguardano però il locale ove sorge il pozzo (sono due, ma uno è coperto dal pavimento). Immaginare come fosse

La Casa del Mantegna

12


disposta l’abitazione del Mantegna è assai problematico: si può pensare che, secondo gli usi del tempo, il piano terreno dell’appartamento fosse destinato ai servizi mentre all’ammezzato la vastità degli ambienti fa pensare ad un luogo di incontri e di lavoro, cioè la “bottega”. I locali al primo piano, più confortevoli e meno umidi, costituivano lo studio dove il pittore lavorava esponendo le sue opere e le sue collezioni, senza escludere che alcuni dei locali sopra l’ammezzato fossero adibiti ad abitazione. Per quanto riguarda il cortile si può dubitare che fosse concepito come tale. Earl E. Rosenthal sosteneva nei suoi studi che fosse concepito come vano coperto da una cupola facendo dunque dei precisi riferimenti ad opere rinascimentali e ai disegni di Francesco di Giorgio Martini (rilievo di una villa romana di Tivoli). Sicuramente queste architetture romane non erano sconosciute al progettista della nostra casa; tuttavia, nelle costruzioni e nei disegni citati il vano centrale a pianta circolare oppure quadrata non è un cortile bensì un atrio. Ciò porta a pensare che l’attuale non corrisponde a quello progettato, ma che sia frutto di un risultato casuale dovuto ad un mancato completamento dell’opera, ad una demolizione o ad un crollo delle strutture coprenti il vano. Infatti dallo studio di vari particolari si sono ipotizzate due soluzioni per la copertura del cortile: una cupola emisferica poggiante sull’attuale cilindro, illuminata da una lanterna alla cui base si incontravano le quattro falde del tetto; una volta ad ombrello lunettata, impostata su un sopralzo del tamburo, in modo da essere contenuta in una torretta le cui pareti poggiavano su una struttura a pianta quadrata.

La scoperta dell’America

Foto Giovanni Fortunati

[Cfr. R. Campagnari, La Casa del Mantegna, in «Civiltà Mantovana», n° 49-50 (serie 1966-78), pp. 44-59]

13


Il convento mantovano di Santa Maria del Gradaro conobbe importanti lavori di ristrutturazione negli anni Cinquanta del Quattrocento, sotto il patrocinio di Ludovico II Gonzaga. Questi lavori potrebbero essersi conclusi nel 1486, secondo una data dipinta accanto all’absidiola in fondo alla navatella destra. Il passaggio alla facies rinascimentale avvenne però solo nel 1514; già nel 1516 si ebbe tuttavia un grave cedimento strutturale, così che la fase di decorazione a fresco delle lunette nelle cappelline non poté realizzarsi prima del 1520 o del 1525. I caratteri architettonico-decorativi di abside e cupola rimandano però alla koiné artistica della prima metà del Cinquecento; l’analisi stilistica rileva caratteri arcaizzanti, ossia pre-giulieschi. Quanto alle figurazioni, gli affreschi dei due pennacchi che rappresentano gli evangelisti (san Marco a sinistra e san Matteo a destra) appaiono stilisticamente in continuità con gli elementi ornamentali, dunque collocabili nell’interregno fra la morte di Andrea Mantegna (1506) e l’arrivo a Mantova di Giulio Romano (1524). Passando alle lunette delle navatelle, si ritiene che almeno alcune delle Storie di Cristo ivi raffigurate siano riferibili alla stessa koiné artistica degli Evangelisti della cupola, pur essendo quest’ultimi di mano diversa, più sapiente nel disegno. Allo stesso lustro 1520-1525 sembra appartenere anche il Dio Padre benedicente sulla parete orientale della cappella sinistra, scultoreo nel volto e chiaroscurato nel panneggio. [Cfr. E. Sartorelli, Su alcuni affreschi rinascimentali inediti in Santa Maria del Gradaro a Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 141 (2016), pp. 23-35]

14

Foto Giovanni Fortunati

Affreschi rinascimentali in Santa Maria del Gradaro


15


I camerini di Isabella d’Este Sia nell’originaria collocazione nella torre del castello di San Giorgio che nel successivo trasferimento in Corte Vecchia, i camerini di Isabella d’Este rappresentano quei luoghi di studio e meditazione, ma anche di raccolta di libri o di oggetti preziosi, che sono tipici dell’umanesimo. Tali ambienti, denominati studi, studioli ovvero camerini, non hanno un preciso modello nell’antichità. Dallo scrittoio dei monaci si passa presso la cultura laica quattrocentesca ad un luogo architettonico oltre che mentale. Le funzioni dello studiolo influiscono sulle caratteristiche architettoniche e decorative; inoltre, l’ambiente diviene specchio della cultura personale del proprietario.

16

Decisiva in Isabella d’Este fu l’esigenza di ampliare lo spazio dello studiolo mediante la grotta, per meglio rispondere all’«insaciabile desiderio di cose antique» che la animava. Quindi in un primo momento il reperimento, la committenza e la disposizione degli oggetti entro lo studiolo e la grotta dovettero essere in funzione di un preciso programma iconografico. In seguito si fece strada in Isabella un orientamento diverso: l’amore per le cose antiche la portò ad accostare all’antico il moderno, così che accanto al Cupido di Prassitele


Gli arazzi raffaelleschi di Palazzo Ducale Foto Giovanni Fortunati

I nove arazzi raffaelleschi ora in Palazzo Ducale furono acquisiti appena prima del 1560 dal cardinale Ercole Gonzaga, che intendeva realizzare lo spirito del Concilio di Trento. Per testamento Ercole li lasciò al nipote duca Guglielmo, destinandoli così alla basilica palatina di Santa Barbara. Tale ciclo non ha per tema, nonostante l’apparenza, gli Atti degli Apostoli, bensì le figure preminenti di Pietro e Paolo; gli altri apostoli, quando pure vi compaiano, fungono da semplici comprimari. Non è sorprendente: i due “principi degli apostoli” diedero la suprema testimonianza del martirio a Roma, e la liturgia romana li venera non a caso insieme nell’unica festa del 29 giugno. Se Pietro è notoriamente il primo papa, Paolo è il prototipo dell’impegno missionario del cristianesimo; appare perciò chiaro che il fine ultimo è l’esaltazione della supremazia della Chiesa attraverso le due figure più eminenti e seminali. Se di questi arazzi si può individuare con certezza il soggetto comune, ancor più evidente è il riconoscimento delle singole scene. Merita alcune considerazioni il modo con cui l’artista ha trasposto in immagini le fonti scritturistiche. Va innanzitutto osservato che alcuni soggetti non corrispondono esattamente ai passi dei Vangeli o degli Atti degli Apostoli che intendono illustrare; essi riassumono piuttosto una sintesi di diversi luoghi scritturali, non arretrando di fronte alla necessità di posporre o anteporre dettagli o eventi. Per esempio, la scena del primato di Pietro, avvenuta secondo Giovanni (21, 15-17) dopo la Risurrezione di Gesù, è composta in modo da evocare un episodio precedente ma complementare: l’apostolo regge le simboliche chiavi, segno della missione ricevuta tempo addietro (Matteo 16, 18-19). La scena richiama altri passi: il drappo in cui è avvolto Gesù risorto allude forse alla sindone (Marco 15, 46). Opinabile è pure la corrispondenza con le Scritture nell’episodio della conversione di Paolo; Raffaello accoglie l’iconografia che immagina il futuro apostolo cadere da cavallo dopo essere stato investito dalla luce divina: eppure, in nessuno dei tre racconti del fatto (Atti 9, 1-9; 22, 5-11; 26, 9-18) si parla di cavalcature. Come dire che, per ragioni diverse, l’artista e i suoi suggeritori intendono proporre una lettura globale delle Scritture. Non solo: all’ambiente ebraico o ellenistico Raffaello giustappone elementi di cultura classica imbevuta di latinità, con esiti certo sincretici. Tutto l’impegno dell’Urbinate sembra dunque volto a creare spazi affascinanti o idilliaci, così da far risaltare il significato fondamentale dei soggetti anche sacrificando l’aderenza alla lettera delle fonti. [Cfr. R. Brunelli, Un contributo sugli arazzi raffaelleschi di Palazzo Ducale, in «Civiltà Mantovana», n° 124 (2007), pp. 138-147]

poteva venir collocato un marmo di Michelangelo oppure i dipinti di Mantegna, Correggio o Perugino. Da tale accostamento emergeva da un lato la volontà di auto-celebrazione della marchesa attraverso gli exempla virtutis costituiti dalle opere commissionate, dall’altro una finalità più squisitamente collezionistica. Isabella aveva insomma compreso che le opere d’arte contemporanea superavano il tradizionale ruolo strumentale-decorativo per rivestire un proprio valore autonomo. Così, essa anticipò una tendenza che si sarebbe svilup-

pata e consolidata nel Cinquecento e oltre: nella scelta delle opere da acquisire diventa prevalente il parametro estetico, e la figura del committente si sovrappone a quella del collezionista. Di conseguenza, si ha pure il passaggio dallo studiolo come luogo mentale ad una proiezione concreta del gusto individuale del proprietario. [Cfr. C. Cieri Via, I camerini di Isabella d’Este: uno spazio culturale esemplare, in «Civiltà Mantovana», n° 14-15 (1995), pp. 35-45]

17


Foto di Giovanni Fortunati, Sala dello Zodiaco, Palazzo d’Arco - Mantova. Su concessione della Fondazione d’Arco

Sullo Zodiaco di Palazzo d’Arco 18

Dalla consultazione dell’Iconologia di Cesare Ripa – un testo sui Mesi come erano stati descritti dal filosofo Eustachio (in realtà Eustazio o meglio Eumathius Makrembolites, letterato bizantino del XII secolo) – finalmente si chiarisce il motivo e il senso di molti particolari dei segni astrologici che compaiono nella Sala dello Zodiaco di Palazzo d’Arco in Mantova; finora spiegati in modo approssimativo, essi attendevano una lettura più convincente. Già nel 1918 Paolo Moretta, nel suo studio sulla sala del palazzo mantovano, scriveva che il pittore Giovanni Maria


Falconetto, a cui è attribuita la realizzazione dei dipinti, aveva trascurato il ciclo dei mesi italico per attenersi a quello bizantino, desideroso com’era di imitare l’antico. Ciò non significa che egli conoscesse l’opera di Eustachio, ma sicuramente conosceva i segni zodiacali di Palazzo della Rovere a Roma: dipinti probabilmente da Pinturicchio, il quale di certo aveva letto o visto il testo del filosofo bizantino. Dai soli segni ancora lì visibili, il Cancro e lo Scorpione, si intuisce come questi abbiano fornito il modello per gli stessi segni zodiacali di Palazzo d’Arco. C’è insomma

un’esatta corrispondenza tra il testo del letterato e l’immagine dei mesi del ciclo mantovano; ciò permette di comprendere perfettamente il significato della raffigurazione del Falconetto. Non solo: è possibile anche ricostruire virtualmente gli scomparsi Mesi del ciclo zodiacale romano. [Cfr. R. Signorini, Una nuova chiave di lettura dei Mesi raffigurati nello Zodiaco di Palazzo d’Arco, in «Civiltà Mantovana», n° 19 (1988), pp. 83-98]

19


La Sala dei Giganti ovvero dei Titani La cosiddetta “Sala dei Giganti” di Palazzo Te, oltre ad essere l’illustrazione di un evento mitologico, appartiene al genere della figurazione fantastica. Dunque, se ne possono ricavare interpretazioni plurime e soggettive, perché contiene qualcosa di misterioso che non si può decifrare con un dizionario dei simboli. Si sa quanto fosse raffinato ed eclettico il suo autore, Giulio Romano, tanto da non stupirsi che egli abbia indirizzato l’immaginazione verso suggestioni disparate e sincretiche. Nel magnifico affresco eseguito tra il 1530 e il 1535 compaiono gli indizi del suo “capriccio”, della bizzarria anti-rinascimentale e già manierista. Riguardo al soggetto, vi si raffigura senz’altro la vittoria di Zeus contro enormi esseri umanoidi che per spodestarlo avevano tentato di scalare l’Olimpo. Ma si tratta di Giganti o di Titani? Spesso vengono confusi, eppure una storia è la Gigantomachia, altra la Titanomachia. Va detto che il mito dei Titani meglio aderirebbe alla lettura dello strato simbolico inerente la sfera diplomatica e politica: si potrebbe identificare Zeus con l’imperatore Carlo V che annienta i principi italiani ribelli. Del resto l’Olimpo, il fulmine, l’aquila sono immagini ben note all’iconografia dei Gonzaga. Nella Titanomachia però i Ciclopi furono alleati di Zeus, mentre al Te figurano anch’essi annientati dal padre degli dei; i Titani furono puniti in modi diversi: uno fu scagliato sotto la Sicilia per essere trasformato in vulcano – come si vede nell’ecatombe del Te. D’altro canto, sia i Titani che i Giganti venivano descritti con code anguiformi: di tale rappresentazione zoomorfica non vi è traccia nell’affresco in questione. Probabilmente, il groviglio mitologico servì a Giulio per esprimere la sua fantasiosa visione del mondo e della pittura; mescolando e reinterpretando fonti diverse, egli volle liberarsi dall’applicazione meccanica di un programma simbolico per indirizzarsi invece verso l’ambiguità metamorfica. [Cfr. R. Margonari, Palazzo Te: Sala dei Giganti... ovvero dei Titani, in «Civiltà Mantovana», n° 128 (2009), pp. 74-89]

20


21 Foto Mara Pasetti

´ Giulia Flavia Baczynski


Le uniche ante d’organo superstiti a Mantova sono quelle dell’Antegnati della chiesa palatina di Santa Barbara. In ogni caso sappiamo che ve ne erano pochi esempi in città. Gli sportelli aperti raffigurano la scena dell’Annunciazione con l’angelo Gabriele a sinistra e la Vergine a destra, mentre chiusi mostrano le figure ritte in piedi su piedistalli cilindrici di Santa Barbara e San Pietro. I dipinti sono attribuiti a Fermo Ghisoni (Caravaggio 1504-Mantova 1575), autore attivo sia a Palazzo Te che al Ducale. Le ante furono dipinte nel 1565 quando la costruzione dell’organo di Graziano Antegnati era praticamente terminata. La Vergine accoglie l’annuncio in un confortevole interno cinquecentesco di dimensioni limitate come di una casa mantovana dell’epoca. Fermo, pur mostrando nella tipologia delle figure la dipendenza da Giulio Romano, sembra voler recuperare la tradizione del nord Italia, più vicina alla pittura della realtà, con dettagli di concretezza fiamminga come l’architettura della stanza, con soffitto a cassettoni, fregio a girali vegetali, finestre con imposte a occhi di vetro, o di arredo, come il quadro appeso sulla tappezzeria raffigurante il Sacrificio di Isacco riparato da una tendina trasparente. La prospettiva delle ante chiuse è stata studiata per una visione dal basso: Fermo Ghisoni è costretto a porre i santi pericolosamente in bilico sulle cornici dei basamenti per evitare che il forte scorcio prospettico nasconda i loro piedi. Al contrario, per la scena dell’Annunciazione, a sportelli aperti, si prevede un punto di vista più alto, ad altezza d’occhio della famiglia Gonzaga, che dalla cappella ducale posta di fronte seguiva la musica dell’organo. [Cfr. R. Berzaghi, Le ante d’organo di Santa Barbara: Fermo Ghisoni e la pittura a Mantova nella seconda metà del Cinquecento, n° 20 (serie 1983-90), pp. 1-20]

22


23 Foto Giovanni Fortunati

Le ante d’organo di Santa Barbara


Nell’abside della Cattedrale di S. Pietro in Mantova si trova un vasto affresco che rappresenta la SS. Trinità e S. Michele adorati dalla Madonna e dal Battista, con gruppi di angeli che reggono gli strumenti della Passione. La copertura del coro è l’affresco di un cielo coperto da una ricca nuvolaglia. Nell’angolo destro un angelo regge le tenaglie, mentre a sinistra un altro angelo regge il velo della Veronica. Il centro della volta è piuttosto spoglio di figure ma ricco di festanti angioletti adorni di drappi di seta; quelli a destra reggono la colonna della lapidazione, la frusta e la corona di spine; quelli a sinistra una grande croce, la scala e altri strumenti della Passione. Cristo e il Padre Eterno siedono su uno strato di nubi, attorno ad un globo, dietro al quale appare l’arcangelo Michele con la spada da giustiziere; più sotto, a sinistra della Trinità, vi è la Madonna e a destra il Battista. La volta diventa, mediante un effetto illusionistico, la sfera celeste, in cui si congiungono, in modo maestoso, i simboli della Passione e la rappresentazione della Trinità. Il catino absidale del Duomo di Mantova è stato ritenuto opera di Domenico Fetti, ma osservando attentamente l’affresco del coro si nota che la composizione, pur essendo fusa e organica, mostra pitture di una certa diversità qualitativa: ciò può far pensare che due diversi artisti abbiano posto mano all’esecuzione. Colpisce una certa differenza di tonalità cromatiche: in alto prevalgono le tinte scure con nubi spesse e pesanti che avvolgono gli angeli, mentre nella parte inferiore sono più chiare e leggere. Se alcuni angioletti, isolati in volo fra scure nubi, ricordano quelli del Correggio e del Parmigianino, quelli del gruppo della SS. Trinità appaiono di un livello artistico decisamente inferiore. Ecco perché l’affresco sembra opera di due pittori distinti e dunque non attribuibile al solo Fetti. In Ducale si possono ammirare una pala che rappresenta Sant’Orsola e Santa Margherita e la tela di San Michele che scaccia il demonio. Entrambe sono del Viani: tali opere mostrano evidenti analogie con il gruppo della Trinità del coro del Duomo. In particolare, risulta decisiva proprio la tela di San Michele che scaccia il demonio per l’attribuzione al Viani di parte dell’affresco della Cattedrale. L’abside della Duomo di Mantova rappresenta un nuovo modo di dipingere: molto probabilmente il Viani e il Fetti, lavorando insieme, si influenzarono a vicenda. Viani tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600 prestò la sua opera anche nella Basilica di S. Andrea: qui infatti nella Cappella Petrozzani vi sono affreschi sicuramente a lui attribuibili. In particolare nell’affresco della Lapidazione il modo di comporre le figure rivela la ricerca di un nuova modalità espressiva nel rinnovamento della tradizione rinascimentale proprio della maturità dell’artista. Pur non esprimendosi alla stregua dei grandi artisti degli anni che seguiranno, va sottolineato il merito del Viani per il ruolo svolto a Mantova, non più come pittore manierista cinquecentesco, bensì come pittore capace di rinnovarsi profondamente e rivelarsi nella sua grandezza. [Cfr. M. Delaini Raspadori, Antonio Maria Viani pittore. Considerazioni sugli affreschi del coro della Cattedrale di Mantova e della cappella Petrozzani in Sant’Andrea, in «Civiltà Mantovana», n° 31-32 (serie 1966-78), pp. 50-79]

24

Foto Giovanni Fortunati

Antonio Maria Viani pittore


La cattedrale di Mantova

L’assetto iconografico della Cattedrale di Mantova si presenta tutt’altro che unitario, a causa delle complesse vicende costruttive del tempio, che ne fanno tuttavia il monumento sintesi della storia e dell’arte cittadina. Le opere infatti sono realizzate in un arco di tempo così ampio da rendere impensabile tra di esse una unità tematica, da ricercare solo all’interno dei singoli episodi. Basti ricordare il sarcofago paleocristiano, gli affreschi medievali del battistero, i tondi mantegneschi della sagrestia, gli affreschi dell’Andreasino tra Cinque e Seicento, quelli barocchi del Fetti, le tele del Bazzani, per non dire della decorazione neoclassica della cappella del Sacramento. Ma oltre l’ßapparente eterogeneità delle raffigurazioni, non possono sfuggire richiami e corrispondenze troppo significativi per essere casuali. Ad esempio, l’affresco dell’abside, inteso a celebrare la redenzione, sembra avere un preludio nelle statue della navata centrale, dove profeti e sibille annunciano particolari della Passione di Cristo. Tranne pochi interventi complementari, tutto l’apparato iconografico del tempio fu eseguito negli anni di episcopato di Francesco Gonzaga, che resse la diocesi dal 1593 al 1620. Già vescovo di Cefalù, Ministro Generale dell’Ordine francescano e autore di una Storia dell’ordine, Francesco Gonzaga possedeva una grande cultura e una profonda passione per l’arte. Non è pensabile che una tale personalità sia rimasta estranea alla ornamentazione della sua Cattedrale. Non si vede a chi altri, se non a lui, alla sua profonda cultura teologica e ai suoi interessi artistici, attribuire l’ideazione di un ciclo figurativo unitario che resta come monumento alla memoria dell’ideatore. Ciclo che ruota intorno al tema della salvezza cristiana, una risposta nel segno della tradizione alle controversie suscitate dalla Riforma, e in attuazione dei dettami del Concilio di Trento e dei suoi orientamenti su forme e fini dell’arte. [Cfr. R. Brunelli, Lettura interpretativa dei dipinti del primo Seicento nella Cattedrale di Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 2 (serie 1983-90), pp. 25-38]

25


26

Il Teatro Scientifico

Foto Giovanni Fortunati

La prima Accademia fu fondata a Mantova nel 1562, con il nome “degli Invaghiti” (poi detta degli Invitti e infine dei Timidi), da Cesare Gonzaga, signore di Guastalla, che le diede ospitalità nel proprio palazzo (odierna Accademia Virgiliana). Non si sa se vi fosse all’interno una sala teatrale, ma di sicuro la rappresentazione dell’“Orfeo” di Monteverdi nel 1607 avvenne in un teatro che faceva parte della sede accademica. L’Accademia durò fino alla seconda metà del ‘700 trasformandosi, sotto il regno asburgico, in Accademia Virgiliana delle Scienze, Lettere e Arti. Nel 1767 si decise per la costruzione di un nuovo teatro e l’incarico fu assegnato all’architetto Antonio Galli Bibiena (Parma 1700-Milano 1774), esperto soprattutto in costruzioni teatrali come il Comunale di Bologna e il Quattro Cavalieri di Pavia. La costruzione, a spese dello stesso Bibiena, fu subito interrotta per mancanza di fondi. Fu dunque studiato un sistema di finanziamento affittando i singoli palchi ad emeriti cittadini che dovevano sottostare a particolari condizioni all’atto di stipula del contratto. Con questi introiti e l’aiuto di Maria Teresa d’Austria, l’opera fu terminata e inaugurata il 3 dicembre 1769 con la denominazione di Teatro Scientifico, anche se il suo vero battesimo avvenne con il concerto di W.A.Mozart il 16 gennaio 1770, quando il giovanissimo musicista fece il suo viaggio in Italia. Una descrizione del teatro ci arriva dal padre Leopold che scriveva: «non ho mai visto nulla di più bello di questo genere nella mia vita». Il teatro costruito sull’area di quello dell’Accademia dei Timidi è di ca. 26 m di lunghezza e 16,50 m di larghezza. Lo spazio per gli spettatori è di 3/5 dello spazio totale, mentre il proscenio, il palcoscenico, l’architettura fissa e le gallerie che lo circondano occupano gli altri 2/5. Un rapporto dunque consueto al teatro barocco. La struttura portante è in muratura, i solai tutti in legno come del resto l’orditura principale e secondaria del tetto. Nonostante lo spazio interno sia di modeste dimensioni, il Bibiena ne ha ricavato un ambiente arioso e molto


del Bibiena

mosso mediante strutture aggettanti e rientranti a varie profondità. La sala è a forma di campana svasata verso il palcoscenico fino all’altezza dell’arco trionfale, mentre lo spazio del palcoscenico è rettangolare ad angoli arrotondati. Ciò dà vita a una finzione prospettica di notevole effetto spaziale. Uno dei motivi più interessanti è il movimento che l’architetto ha saputo creare attraverso la costituzione dei vari aggetti delle balaustrate dei palchi nei singoli ordini, giocando su profondità diverse. L’architetto ha saputo sfruttare il gioco e l’intensità delle ombre per creare spazi profondi che in realtà non esistono. Il proscenio è delimitato da una struttura sporgente rispetto ai palchi e al palcoscenico. I soffitti orizzontali si raccordano con le pareti verticali per mezzo di una forma a guscio concavo e sono affrescati su intonaco con disegni geometrici delimitati sul perimetro da una balaustra che richiama quella dei palchi. Il pavimento del palcoscenico, prima degli ultimi restauri, era una piattaforma lignea di circa 80 cm d’altezza. I collegamenti verticali sono tutti costituiti di scale in legno e l’accesso ai palchi avviene attraverso corridoi perimetrali posti sul retro dei palchi. Pur ricollegandosi al teatro palladiano, Bibiena manifesta idee riformiste che si discostano dal suo tempo e dal neo-classicismo nascente: egli infatti rifiuta la netta divisione tra palcoscenico e auditorio. La facciata del teatro fu eseguita nel 1770 quando il governo della Lombardia austriaca decise di rinnovare la sede dell’Accademia mantenendo al suo interno il teatro appena inaugurato. Incaricato del progetto fu Giuseppe Piermarini mentre i lavori, che proseguirono fino al 1775, furono affidati a Paolo Pozzo. [Cfr. I. Cazzaniga Donesmondi – G. Pastore, Antonio Galli Bibbiena e il Teatro dell’Accademia di Mantova, in «Civiltà Mantovana», n° 30 (serie 1966-78), pp. 369-389]

27


La Sala dei Fiumi in Palazzo Ducale Realizzato nel 1775 da Giorgio Anselmi, il ciclo pittorico che in Palazzo Ducale adorna la sala detta dei Fiumi mostra senza dubbio una linea di continuità fra l’iconografia delle pareti e la raffigurazione del soffitto a volta. Entrando in questo ampio ambiente luminoso, destinato prima a refettorio, poi a luogo di rappresentanza, si è subito attratti dall’iconografia delle pareti, sulle quali sono rappresentate in successione figure di uomini anziani, seminudi, semi-sdraiati che versano acqua da anfore. Sono i fiumi, i sei corsi d’acqua dolce che rendono fertili le terre mantovane: il Po, detto da Virgilio il re dei fiumi, il Mincio, il Chiese, l’Oglio, il Secchia e il Mella, che confluisce nell’Oglio ad Ostiano, un tempo terra gonzaghesca. Si può facilmente riconoscere la rappresentazione simbolica del mito delle acque dolci, espressa nella raffigurazione antropomorfica dei sei corsi d’acqua del Mantovano. In che rapporto stanno i simboli rappresentati nella volta con i precedenti? Analizzando le parti della scena mitologica della volta si riconoscono particolari che riconducono alla simbologia del mito di Fetonte. Si tratta di un racconto complesso, che riporta alle origini del Cosmo che emerge dal Caos, alla creazione primordiale. Nella parte superiore i personaggi rappresentati sono il dio Sole, assimilato ad Apollo e il giovane Fetonte raffigurato mentre chiede al padre di condurre per un giorno il suo carro di fuoco (il sole). Avrà il permesso, ma dimostrandosi incapace di controllarlo verrà punito da Zeus facendolo precipitare nelle acque del fiume Eridano, il Po. Nella simbologia iconografica intervengono anche figure femminili: sono le Ore, che tengono i cavalli per le briglie e indicano il tempo che si ferma, il momento di sospensione che segna un nuovo ordine di anni. E infine Saturno, che rappresenta il ritorno della pace e la fecondità dopo la rovina e la distruzione. L’affresco ci riporta nel clima spirituale della seconda metà del Settecento, nel secolo della ragione, che ricorre ai modelli degli antichi per significare una rigenerazione nel campo delle istituzioni e della cultura. Rinnovamento di cui è fautrice una sovrana illuminata, Maria Teresa d’Austria. Questa allegoria decorativa infatti si pone quasi come il suo manifesto ideologico, la proposta di un nuovo equilibrio politico nella consapevolezza del passato culturale della città. [Cfr. M.G. Fiorini Galassi, Palazzo Ducale di Mantova: analisi mitografica degli affreschi della sala dei fiumi, in «Civiltà Mantovana», n° 2 (serie 1983-90), pp. 39-52]

28


29 Foto di Giovanni Fortunati, Sala dei Fiumi, Complesso Museale di Palazzo Ducale - Mantova. Su concessione del Ministero dei Beni e delle AttivitĂ Culturali


[Cfr. R. Margonari, Il “fantastico” Aldo Andreani. Rilettura di un edificio mantovano, in «Civiltà Mantovana», n° 112 (2001), pp. 33-49]

30

Foto Mara Pasetti

Andreani e la Camera di Commercio

La Camera di Commercio di Mantova è l’edificio più dettagliatamente studiato fra quelli progettati da Aldo Andreani (Mantova 1887 – Milano 1971), architetto, scultore ed eccezionale disegnatore. Tanto interesse è sicuramente dovuto al fascino della sua stranezza, quasi aliena dallo stile architettonico della città. Andreani è infatti uno dei maggiori esponenti dello stile eclettico che si afferma in Italia tra le due guerre. Eclettismo che combina il gotico a modelli di rinascimento mantovano con suggestioni orientaleggianti e, in alcuni casi, anche a modelli gaudiani (i finestrini dell’interrato e della facciata principale). È un’architettura che ha sempre suscitato pareri controversi proprio per tali peculiarità che, in controtendenza rispetto all’architettura lombarda del periodo, richiesero ai suoi committenti notevole coraggio. La Camera di Commercio fu inaugurata il 1 ottobre 1914. Il progetto, per creare un luogo atto al commercio dei cereali, fu presentato nel 1911 destando subito interesse, anche se poi venne rivisto in molti dettagli. Il giovane e prestigioso architetto era dotato di visionarietà e fantasia non comuni, aveva sotto gli occhi esempi importanti di edifici dovuti ai progetti di Alberti e Pippi di cui certo subì il fascino. Per Mantova la costruzione andreiana, poste le debite proporzioni, ebbe un impatto paragonabile all’inserimento del Centre Pompidou nel Beaubourg di Parigi ad opera di Renzo Piano. Sebbene singolarissima, questa fabbrica non può essere considerata un’opera d’avanguardia e comunque rappresenta una vittoria del pensiero moderno sul conservatorismo e il provincialismo locali. Del resto Andreani professò sempre una posizione di orgoglioso isolamento, un fortissimo individualismo e un’indifferenza totale alla politica, atteggiamenti che ben interpretavano l’indole della borghesia virgiliana da cui proveniva. Progettata nei primi anni del futurismo, la Camera di Commercio rappresenta per la città un momento di transizione dall’Ottocento al Moderno perché malgrado le apparenti “stranezze” è un edificio perfettamente allineato al gusto più colto della propria epoca. Fu una performance che mise alla prova decoratori, fabbri, muratori, mobilieri di cui Andreani si poté avvalere, intervenendo a volte personalmente nei dettagli pittorici decorativi. Peraltro, il suo progetto tenne in considerazione non solo i fabbricati adiacenti (per es. la casa-torre a cui si può collegare il verticalismo estremo della trifora che fa corpo col portale d’ingresso), ma anche con quelli in corso d’opera (vedi la Banca d’Italia). A rendere interessante l’edificio sono anche i vari aspetti di iper-decorazione: un affollamento architettonico e pittorico come per es. sotto il lucernario dove ritroviamo evidenti aspetti liberty di sapore klimtiano. Meraviglia desta l’inventiva con cui sono disegnati gli infissi di ferro, dove ricorre la struttura ad anelli concatenati di memoria gonzaghesca come pure il sapiente utilizzo di ogni combinazione decorativa e modulare del mattone a vista. All’interno poi Andreani introduce altri motivi, mescolando Rinascimento e moresco senz’alcuna inibizione: chi sale lo scalone a forbice di concezione cinquecentesca, trovandosi sul pianerottolo, ha l’impressione di essere sospeso a metà nel cavo del palazzo. Da qui si raggiunge una loggia che raccorcia e contrae lo spazio così ampiamente annunciato e si immette in alcuni alloggi ben compartati. Proseguendo, si accede ad un salone che prende luce da 5 bifore - particolare assolutamente inatteso nel contesto spaziale. L’ampia sala del Consiglio camerale è suddivisa in tre campate ritmate da due amplissimi archi di sapore medievaleggiante ed è decorata con motivi e armi di ispirazione gonzaghesca. Impressionante è il grande candeliere-lampadario circolare in ferro battuto desunto da modelli medievali che accresce la sensazione asfittica del pur ampio ambiente. Per quanto riguarda gli esterni, l’edificio appare quasi ci si trovasse di fronte a quattro palazzi simili, ma differenti. Ogni facciata infatti è concepita come se dovesse rappresentare l’ingresso. Volumetrie e dialogo tra pieni e vuoti sono determinati e condizionati dalla Loggia dei Mercanti che, con il suo aspetto d’aperta moschea, prende circa un quarto dell’intera costruzione in orizzontale, affacciandosi sulle due vie d’angolo secondo ben noti esempi rinascimentali, soprattutto toscani. È evidente che Andreani non si accontentò di quello che aveva concepito ma, in corso d’opera, andò via via modificando e perfezionando l’idea primitiva. Infine, se l’edificio suggerisce qualcosa di eccessivo, non si tratta di un risultato secondario; anzi, si pone al pari di una provocazione che sottolinea la grande versatilità dell’opera e del suo autore.


31 Foto Mara Pasetti


Curato da Associazione Culturale Ca’

Gioiosa • Via Trieste, 44 • Mantova

marzo

gioiosa

CA’ GIOIOSA

01 17

27 marzo 2017 / Anno VII Editrice Ca’ Gioiosa, Mn

Impaginazione e stampa Publi Paolini, Mn

Responsabile redazionale Claudio Fraccari Coordinamento artistico Raffaello Repossi Coordinamento editoriale Mara Pasetti Ricerca, selezione e sintesi di Sandra Fontanesi Claudio Fraccari Laura Pasetti Mara Pasetti Fotografie di ´ Giulia Flavia Baczynski Giovanni Fortunati Mara Pasetti Si ringraziano: – Banca Popolare di Milano spa – Comune di Mantova – Peter Assmann, Direttore Complesso Museale di Palazzo Ducale – Ministero dei Beni e delle Attività Culturali – Fondazione D’Arco – Personale dell’Archivio di Stato di Mantova – Rivista «Civiltà Mantovana»

CA’RTE DI ARTE Come promesso, ecco il secondo numero, altrettanto corposo, dedicato all’Arte del territorio mantovano – e dunque il secondo omaggio che «Ca’rte» e l’Associazione culturale Ca’ Gioiosa rivolgono all’autorevole rivista «Civiltà Mantovana». Nell’apprestarci a scegliere gli argomenti, temevamo quel che in effetti abbiamo toccato con mano: il materiale critico inerente alle produzioni artistiche è monumentale, molteplice, magmatico. Ben più che la storia, la storia delle arti si presenta estremamente variegata; il primo criterio adottato è stato quello di privilegiare quanto concerne l’architettura e la decorazione parietale – ossia ciò che costituisce un patrimonio stabile. Al fine di rendere comunque conto della varietà, abbiamo seguito un secondo criterio: alternare opere famose ad altre che famose non sono; inoltre, si è cercato di abbracciare un arco cronologico abbastanza vasto, benché il periodo rinascimentale sia restato giocoforza centrale e dominante. Siamo ovviamente consapevoli che la nostra scelta è arbitraria, quanto semplificatorie sono le nostre sintesi. Tuttavia, per chi volesse approfondire, indichiamo sempre gli estremi bibliografici che conducono ai saggi di «Civiltà Mantovana» che si sono presi come fonte. Crediamo che, in conformità con gli intenti divulgativi di Ca’ Gioiosa, i testi e le immagini possano bastare a istillare l’interesse, al minimo la curiosità, per i temi trattati. Insomma, una parte per il tutto. Buona lettura. Claudio Fraccari

Qual è il filo rosso che lega le ultime pubblicazioni di Ca’ Gioiosa? Mantova, con la sua ricchezza storico-artistica, le sue tradizioni enogastronomiche e il suo paesaggio di grande fascino. Stiamo portando avanti un progetto che ci vede partner di numerosi soggetti cittadini, istituzionali e non. Con un obiettivo comune: promuovere la conoscenza della città e del territorio per chi desidera un approfondimento. Gente di fuori, certo, ma soprattutto per noi mantovani. Non si dia per scontato infatti che, avendo sotto gli occhi ogni giorno il patrimonio di bellezza, forme e colori cui Mantova ci ha abituati, non si possano fare ancora numerose ‘scoperte’. Ca’ Gioiosa, con Ca’rte, ricopre un ruolo importante di guida. Ca’ Gioiosa c’è. Mara Pasetti

L’associazione Ca’ Gioiosa è a disposizione degli eventuali aventi diritto per le fonti non individuate. Scriveteci i vostri commenti su Facebook: ogni visita ci aiuterà a portare avanti il progetto di Ca’rte.

Per info e iscrizioni agli eventi: telefonare al 339.5836540 pag. Facebook: Associazione Culturale Ca’ Gioiosa

cagioiosamantova@gmail.com • www.cagioiosa.org pubblicazione on line in http://ISSUU.com/cagioiosa

32

Con il patrocinio del Comune di Mantova

Ca’ Gioiosa ringrazia per la sensibilità che sempre dimostrano a sostegno delle sue iniziative

Banca Popolare di Milano spa, Levoni spa, Pavimantova snc, Cantine Virgili, Gustus, Gallery B&B 1 Stile


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.