La Banconota - Numero 55 - Settembre 2008

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la Banco nota ISSN 1972 - 8379

N. 55 - Settembre 2008

Strategie Torino: il Banco nella casa-studio Finanza e Investimenti In attesa di un mondo migliore L’opinione Come si incentiva il venture capital

Il Sole 24 ORE Business Media Srl - via G.Patecchio 2 - 20141 Milano - POSTE ITALIANE SPA

Costume La sartoria maschile tra il 700 e l’ 800 Itinerari Al di fuori del tempo in Val Codera Nuove tecnologie Digitale terrestre: il vecchio e il nuovo

Vincenzo De Robertis Dierre, dove si coniuga qualità e innovazione



Sommario la Banco nota Nuova Serie N. 55 - Settembre 2008 REGISTRAZIONE Tribunale di Milano n. 292 del 15/04/2005

Direttore Responsabile: Luigi Gavazzi Comitato di Direzione: Riccardo Battistel, Luigi Gavazzi, Alberto Mocchi, Marco Sala, Umberto Vaghi

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In Redazione: Alessandra Monguzzi Collaboratori: Enrico Casale, Giovanni Ceccatelli, Grazietta Chiesa, Alessandra Monguzzi, Marco Piazza, Francesco Ronchi

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Torino: il Banco nella casa-studio

Impaginazione: Diego Poletti

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In attesa di un mondo migliore

Editore incaricato:

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Castelfranco Veneto e l’influenza dei Riccati

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Albenga: non solo Centa

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Pomezia compie settanta anni

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Come si incentiva il venture capital

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Dierre, dove si coniuga qualità e innovazione

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La sartoria maschile tra il 700 e l’ 800

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Al di fuori del tempo in Val Codera

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Digitale terrestre: il vecchio e il nuovo

Via Patecchio, 2 - 20141 Milano Tel. 02/39646.1 - Fax 02/3964.6291 Presidente: Eraldo Minella Amministratore Delegato: Antonio Greco Direttore Editoriale: Mattia Losi Ufficio Commerciale e Traffico: Anna Boccaletti (anna.boccaletti@businessmedia24.com) Stampa: Faenza Industrie Grafiche S.r.l.

p. 18

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Strategie

Torino: il Banco nella casa-studio

Ristrutturato l’edificio da tutti conosciuto per essere stato l’atelier dello scultore Pietro Della Vedova, che ne fece un centro di cultura a disposizione della città

I di Alessandra Monguzzi

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l Banco Desio è ben cosciente che la sua immagine di istituto attento alle esigenze del territorio su cui opera viene sottolineata giorno dopo giorno da tutta una serie di elementi che spaziano dalla professionalità, dalla disponibilità e dalla cortesia dei dipendenti fino allo stesso aspetto delle sue filiali. Non è dunque un caso se il Banco tende a collocare i propri sportelli negli ambiti più significativi dei territori in cui vuole operare.

È buon esempio di quanto affermato, a Torino, la filiale situata in quella palazzina all’incrocio fra corso Matteotti e corso Galileo Ferraris che tutti conoscono come la casa-studio di Pietro Della Vedova - scultore attivo nella seconda metà dell’Ottocento soprattutto in Piemonte ma anche all’estero -, casa che è appunto collocata in uno dei quartieri di maggiore prestigio della città. Aperta nel 2002, la filiale oggi si presenta al pubblico ancor più bella grazie


Strategie alle numerose opere di recupero e ristrutturazione a cui è stata sottoposta la palazzina, ed è anche per questo che il Banco Desio ha deciso di unire ai servizi tradizionalmente offerti dalla filiale anche quelli di Private Banking. La palazzina, come già detto ben conosciuta da tutti i torinesi, è un’opera architettonica di pregevole valore e che non a caso è stata sottoposta ad un intervento di recupero. Tale intervento ha riguardato soprattutto gli interni, al fine di ridare da un lato splendore agli ambienti, e da un altro lato di adattarli alle moderne esigenze di utilizzo. Il risultato raggiunto ha trovato il pieno gradimento di coloro che la frequentano: clienti, collaboratori e visitatori. Per entrare nello specifico, notiamo che il restauro ha interessato i vari ambienti della casa-studio, a partire proprio da quello che era il laboratorio dell’artista e che ora è diventato il salone destinato ai servizi alla clientela della banca, salone di cui il recupero ha valorizzato l’importanza e le dimensioni. Analoga cura è stata riservata all’entrata della filiale, che si apre al centro del palazzo sul lato di Corso Matteotti e che è caratterizzata dalla presenza di due statue, una di Leonardo da Vinci e l’altra di Gaudenzio Ferrari, realizzate dallo stesso Della Vedova. Tra gli ambienti occupati dalla filiale del Banco Desio, al piano terreno dell’edificio, il massimo della cura nella ristrutturazione è stato prestato per quello che

Il Private Banking del Banco Desio Personalizzazione del rapporto, elevato grado di riservatezza della relazione, conoscenza approfondita delle esigenze del cliente, indipendenza nelle decisioni operative: questi gli elementi distintivi che caratterizzano il servizio di Private Banking del Banco Desio. L’attività pertanto si presenta variegata e multiforme ed i suoi contenuti vengono ricondotti all’interno di due componenti principali, una tipicamente relazionale e l’altra segnatamente più tecnica, entrambe finalizzate a realizzare una gestione mirata del patrimonio del cliente.

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Strategie La filiale che il Banco Desio ha aperto a Torino nella palazzina all’angolo fra corso Matteotti e corso Galileo Ferraris offre alla clientela anche i servizi di Private Banking

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è diventato l’ufficio della direzione, caratterizzato dalla presenza dei busti di quattro illustri scultori italiani di fine Settecento-metà Ottocento, e cioè di Carlo Marocchetti (Torino, 1805 - Passy Parigi, 1867), celebre a Torino per essere l’autore del monumento a Emanuele Filiberto di Piazza San Carlo; di Antonio Canova (Possagno Treviso, 1757 - Venezia, 1822), scultore tra i più noti in Europa per opere che spaziano dai ritratti ai gruppi allegorici e mitologici, alle statue; di Lorenzo Bartolini (Savignano di Prato, 1777 - Firenze, 1850), particolarmente vicino a Napoleone Bonaparte, famoso per i suoi lavori in Italia e Francia; e di Vincenzo Vela (Ligornetto Canton Ticino, 1820 - 1891), attivo prima a Milano, poi a Torino e Parigi, che realizzò opere a carattere storico e ritrattistico presenti in numerosi musei. Detto dei lavori di recupero, vediamo dunque di inquadrare la figura di questo artista, che molto probabilmente con la sua casa-studio volle creare un luogo dedicato all’arte, come dimostrano da un lato le connotazioni dell’edificio quali gli sfondi intonacati, i contrasti cromatici, le stesse statue collocate nelle nicchie all’ingresso di corso Matteotti, da un altro lato il calendario di eventi, in primo luogo concerti, che volle organizzare e tenervi.

Nato a Rima, in Valsesia, nel 1831, Pietro Della Vedova si avvicina al mondo della scultura lavorando in Germania come stuccatore di finto marmo. Basta questa esperienza per fargli iniziare gli studi artistici, che conduce inizialmente all’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera, e in seguito, dal 1854 al 1859, all’Accademia Albertina di Torino. I suoi primi lavori ne dimostrano subito il valore, tanto che bastano poco meno di dieci anni perché gli siano affidati compiti importanti: è nel 1868 infatti che gli viene richiesta la realizzazione di un’allegoria dell’Industria destinata ad essere collocata sulla facciata di Palazzo Carignano; poi, nel 1872, inizia a realizzare opere scultoree per il cimitero di Torino, e nel 1878 Amedeo d’Aosta gli commissiona il monumento funerario a Maria Vittoria (per la cripta della Basilica di Superga). Il suo nome si impone dapprima negli ambienti artistici torinesi e di buona parte del Piemonte (da Mondovì a Pinerolo) e poi persino all’estero: suoi lavori vengono richiesti in Francia, in Austria e Ungheria, in Svizzera e persino in America. Con lui, si può dire cresca anche Torino. Quelli della seconda metà dell’Ottocento, infatti, sono gli anni in cui la città deve lasciare prima a Firenze e poi a Roma l’onore di essere la


Strategie capitale d’Italia, ma impostando nel contempo un piano di sviluppo economico e urbanistico che ne farà una delle città più importanti del nuovo Regno: è in questo contesto storico che si avviano sia le prime realizzazioni di infrastrutture e di servizi dedicati alle imprese produttive, sia l’espansione della città attraverso l’occupazione di nuovi spazi oltre la cinta del dazio e la razionalizzazioni di quelli liberi al suo interno. Pietro Della Vedova, che aveva acquistato nel 1877 un lotto di terreno in quella che era la prima piazza d’armi e il cui valore si era rapidamente moltiplicato, lo pone in vendita e investe il ricavato in un altro lotto di terreno in una zona di prestigio. Siamo nel 1882, e nel giro di pochi mesi l’artista vede approvato il progetto di realizzazione di un fabbricato di civile abitazione, quello che diverrà appunto la sua casa-studio. Una duplice destinazione d’uso, questa, insolita per Torino, ma ben conosciuta altrove: Parigi e gli atelier degli artisti già facevano scuola. Da allora, quella palazzina è stata preciso punto di riferimento per i torinesi e per la loro città: ecco perché il Banco Desio è giustamente orgoglioso per avervi aperto una filiale davvero di prestigio assoluto.

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Finanza e Investimenti

In attesa di un

mondo migliore

L’Occidente sta vivendo una crisi di fiducia del sistema finanziario mai vista, pertanto anche il 2009 si preannuncia come un anno di transizione. Guardando avanti però…

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a cura dell’Ufficio Gestione Patrimoni Mobiliari del Banco Desio analisi al 14 Agosto 2008

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d agosto, petrolio mio non ti conosco. Produttori e speculatori hanno tirato la corda fino all’estremo questa volta: il prezzo dell’oro nero è raddoppiato nel giro di un anno, toccando il massimo di 147$ al barile, per poi perdere un quarto del suo valore. Ci sono voluti i primi segnali di recessione nelle principali economie occidentali e le “intimidazioni” di alcune autorità americane per ridare un po’ di fiato ai consumatori.

I rincari di energia e generi alimentari susseguitisi nel corso dei mesi hanno indotto molte famiglie a cambiare abitudini: viaggiare più piano in auto, usare un poco di più i mezzi pubblici e la bicicletta, comprare utilitarie anziché pick-up e Suv energivori (in America è una vera rivoluzione!), modificare il menù di tutti i giorni, posticipare l’acquisto del nuovo TV al plasma e così via. A ben pensarci, alcuni di questi cambiamenti potrebbero fare bene, non


Finanza e Investimenti solo alla salute, ma anche al futuro dell’economia mondiale. Dopo anni di crescita superiore alle proprie possibilità, finanziata tramite un crescente indebitamento pubblico e privato, la “locomotiva” americana ha esaurito il credito e si trova a dover pagare i conti lasciati a lungo in sospeso: la liquidità eccessivamente a buon mercato e troppo facile degli anni passati, gli sprechi e gli eccessi di spesa delle famiglie, la bolla del mercato immobiliare, tanto per citare i più eclatanti. Era inevitabile che gli squilibri strutturali statunitensi si dovessero risolvere con un periodo di forte contrazione o, come sta accadendo, di prolungata crescita sotto tono, abbinata ad una graduale svalutazione della moneta che dura ormai da parecchi anni. Fino ad oggi l’economia mondiale è stata sostenuta dal crescente peso di Paesi come Cina, India, Brasile e Russia, che hanno beneficiato dei processi di globalizzazione e/o del boom delle materie prime. Quest’anno però abbiamo visto anche l’altra faccia della medaglia: i prezzi di energia e generi alimentari hanno eroso la

capacità di spesa dei consumatori e molti Paesi emergenti hanno iniziato ad esportare inflazione, costretti dai maggiori costi di produzione (anche gli stipendi stanno salendo parecchio in molte economie emergenti, mediamente al ritmo del 12%). A questi problemi si aggiunga che nell’ultimo anno il mondo occidentale sta vivendo una crisi di fiducia del sistema finanziario mai vista, che sta costringendo molte grandi banche a svalutare i titoli in portafoglio e a stringere i cordoni del credito, ma anche a cambiare strategie e modelli di business. Nel frattempo il mercato immobiliare americano resta in profonda crisi, mentre la situazione si sta deteriorando in Spagna, Regno Unito e Irlanda. Nel momento in cui s’iniziava a temere che anche il sostegno dei Paesi emergenti potesse venire meno, a causa del rallentamento del commercio mondiale e della crescente inflazione, è giunto provvidenziale lo storno del petrolio. Che cosa aspettarsi quindi per il futuro? Guardando i dati su spesa, produzione e fiducia di consumatori e aziende, la crescita dovrebbe restare particolarmente debole.

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Finanza e Investimenti

Tuttavia è verosimile che il prezzo del petrolio si assesti per un po’, riducendo la già gravosa bolletta energetica (100$ al barile sono comunque tanti!), ma soprattutto consentendo all’inflazione di rallentare già dall’autunno, lasciando alla Banca Centrale Europea la possibilità di assumere un atteggiamento meno restrittivo. Per questi motivi anche il 2009 si preannuncia come un anno di transizione e di crescita relativamente debole. Guardando più avanti di qualche anno però, si può immaginare e sperare un’economia globale più sana e bilanciata: molti Paesi in via di sviluppo saranno “emersi” e godranno di redditi pro-capite e di consumi interni più alti; Stati Uniti ed Europa manterranno una crescita meno brillante ma più sostenibile e probabilmente consumeranno meno energia di oggi, grazie ad abitudini 10

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più eco-sostenibili, alle nuove tecnologie che consentiranno un uso più efficiente delle risorse ed al maggiore peso che assumeranno le fonti energetiche alternative, sul modello di Paesi virtuosi come la Germania. L’uso degli idrocarburi tradizionali non scomparirà, purtroppo ci sono troppi interessi economici e politici in gioco (i Paesi Opec e la Russia non sarebbero del tutto d’accordo…) e non sono ancora pronte all’uso tecnologie così rivoluzionarie ed all’avanguardia da consentirlo. Inoltre manca ancora una vera volontà politica in tal senso. I desideri più arditi però sono talvolta il motore del cambiamento. Quest’estate ad esempio è uscita la notizia che un gruppo di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology di Boston stanno sviluppando un sistema per ottenere ossigeno e idrogeno dall’acqua, tramite un processo di


Finanza e Investimenti elettrolisi relativamente semplice: ciò consentirebbe ad esempio di immagazzinare l’energia solare ottenuta tramite pannelli fotovoltaici che non viene immediatamente utilizzata, ma anche di produrre idrogeno per alimentare le celle a combustibile dell’automobile, direttamente da casa! Ovviamente prima di arrivare ad una tale rivoluzione bisognerà rendere veramente efficiente il procedimento chimico ed effettuare enormi investimenti per le nuove infrastrutture richieste da un tale sistema di produzioneutilizzo dell’energia. È certo però che le vie da percorrere sono molteplici e concrete. Si potrà quindi arrivare ad un mix di fonti meno sbilanciato verso gli idrocarburi e decisamente più eco-compatibile, anche se non necessariamente molto più economico. Per qualche anno ancora dovremo però fare i conti con un rapporto domanda-offerta di petrolio un po’ tirato, anche a causa dell’interesse di molti Paesi produttori di massimizzare il loro interesse. I mercati azionari quindi si muoveranno in un ambiente ancora difficile nei prossimi trimestri: gli utili aziendali saranno ancora a rischio di revisione al ribasso, ma le valutazioni ed i dividendi elevati forniranno un supporto da non dimenticare nei periodi di maggiori tensioni. Per quanto riguarda il settore finanziario, che ha registrato (giustamente) i maggiori ribassi nell’ultimo anno, vale la pena sottolineare che il processo di riduzione della leva creditizia e di svalutazione dei titoli in portafoglio non è ancora terminato e non è ancora chiaro quanta pulizia rimanga da fare. Inoltre le perdite eventuali sui prestiti concessi alla clientela e sui titoli garantiti dai mutui sono legate all’andamento dei prezzi degli immobili. In questo contesto alcune banche minori americane potranno non riuscire più a rifinanziarsi, altre banche potrebbero non trovare investitori interessati a sottoscrivere

i necessari aumenti di capitale e saranno costrette a cedere i gioielli di famiglia, come le divisioni ritenute non strategiche (cambiando così il modello di business); le più solide, però, potrebbero anche sfruttare questa situazione per rafforzare la propria posizione competitiva e fare shopping in periodo di saldi. Il settore resta quindi ancora a rischio, anche se ovviamente il mercato l’ha già prezzato almeno in buona parte.

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Nuove Filiali

Castelfranco Veneto e l’influenza dei Riccati

Alla “scuola riccatiana” si deve lo studio della media proporzionale armonica, che influenzò nel Settecento la costruzione di ville, chiese e palazzi della zona

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di Francesco Ronchi

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l borgo franco (= libero da dazi) di Castelfranco fu fondato nel 1199 in riva al Musone dal Comune di Treviso, a presidio della parte occidentale della Marca e dell’accesso dalla pianura ai Colli Asolani, che da sempre ne sono il cuore. A ribadire l’affinità secolare con le famiglie originarie da Altino, centro della costa adriatica (e antica sede vescovile), i trevigiani scelsero quale patrono per Castelfranco l’altinese san Liberale, un eremita il cui corpo era stato trasportato nel duomo di S. Pietro. A partire dall’Ottocento, quando la critica d’arte accese l’interesse di tutto il mondo per la pittura di Giorgione (1477-1510), l’artista divenne la vera gloria locale, alla pari della sola opera ben documentata rimasta nella natia Castelfranco, cioè la Pala che dal 2006, dopo un

lungo ed accurato restauro, è stata restituita alla città. Dato questo storico legame affettivo, non stupisce il fatto che ancor oggi vi sia qualcuno che mette in dubbio due fatti ormai acclarati: a) la tavola fu realizzata nel 1504 per una cappella funebre di famiglia, quindi senza alcun riferimento“pubblico”; b) il santo rappresentato con armatura e stendardo sulla sinistra del dipinto non è Liberale, ma Nicasio. La costruzione nel terzo decennio del ‘700 del Duomo, dedicato a san Liberale e all’Assunta, rappresentò un vero punto di svolta per la città, che voleva dotarsi d’un edificio atto a testimoniare la prosperità raggiunta grazie al commercio dei prodotti agricoli e d’allevamento. A quell’epoca una delle più insigni famiglie locali era quella dei conti Riccati. Jacopo, cul-


Nuove Filiali tore di studi matematici formatosi presso il Collegio dei Nobili di Brescia, fu consulente del Senato di Venezia per l’eterno problema della regolamentazione delle acque della Laguna. Corrispondente di varie accademie e università straniere, indirizzò i figli allo studio di due discipline connesse alla matematica, cioè l’architettura e la musica, e favorì un clima di confronto con altri scienziati e professionisti che ebbe un profondo influsso sulla cultura pre-illuminista del XVIII secolo. Un interesse che accomuna i membri della scuola riccatiana fu lo studio della “media proporzionale armonica”: al fine d’ottenere un’ottima acustica all’interno di un edificio, l’altezza del corpo principale va ricavata dividendo per due il risultato della somma delle altre due dimensioni, cioè lunghezza e larghezza. Nel 1711 il fisico e ingegnere Giovanni Rizzetti realizzò a Salvarosa, presso Castelfranco, una villa (Cà Amata) in cui era applicata tale regola; ciò gli valse, qualche anno dopo, l’incarico per il Duomo. Ma egli declinò l’offerta, sia perché troppo impegnato nella stesura di alcuni trattati scientifici sulla natura e gli effetti della luce, sia perché s’era reso conto del fatto che, anche distruggendo completamente la vecchia chiesa romanica situata nel luogo centrale prescelto per il Duomo, lo spazio non era sufficiente per rispettare l’equilibrio proporzionale dell’edificio. Al suo posto venne scelto un altro castellano, il giovane Francesco Maria Preti (1701-1774), anch’esso formatosi a Brescia;

La nuova sede di Castelfranco Veneto del Banco Desio è in Via San Pio X, 55

grazie all’appoggio del Riccati egli ottenne una delibera del Senato che acconsentiva ad abbattere parte delle mura cittadine, così da risolvere il problema del coro, coronamento dell’abside della nuova chiesa, che incideva sulla lunghezza complessiva. I lavori non furono semplici, soprattutto per la periodica carenza di fondi, ed il Preti portò avanti sino alla morte il progetto di questo edificio neoclassico ispirato alla chiesa veneziana del Redentore di Andrea Palladio senza avere la soddisfazione di veder compiuta la cupola. Subì nell’800 notevoli rimaneggiamenti anche l’altro importante edificio pubblico del Preti a Castelfranco: il Teatro Accademico, anch’esso rispettoso della media armonica. Gli fu commissionato verso il 1750 dagli Accademici, un sodalizio in cui avevano un ruolo di primo piano i fratelli Vincenzo e Giordano Riccati: il primo è noto per gli studi sul calcolo infinitesimale, l’altro per il suo Trattato delle corde vibranti. La Banco nota

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Nuove Filiali

Albenga:

non solo Centa

I detriti di questo fiume hanno dato origine alla più estesa pianura costiera della Liguria su cui è prosperata l’agricoltura, senza però mai interrompere il dialogo col mare

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di Francesco Ronchi

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La Banco nota

ella lingua dei liguri il termine “alba” designava un centro abitato; i romani, padroni della regione dal 181 a.C., lo adottarono, aggiungendovi un aggettivo riferito agli abitanti della zona. Così nacquero i nomi di Albium Intemelium (Ventimiglia); Alba Docilia (Albisola) e Albium Ingaunum (Albenga), capitale degli Ingauni. La città è prosperata grazie al Centa, i cui detriti hanno dato origine alla più estesa pianura costiera della Liguria, consentendo alla popolazione di sviluppare una fiorente agricoltura oltre alla produzione di sale. Dal municipium romano, sviluppatosi soprattutto dopo l’apertura, dal 13 a.C., della via Iulia Augusta, dipendeva l’area di costa tra Sanremo e Finale Ligure, estesa nell’entroterra sino alla valle del Tanaro. Data la sua importanza, essa fu tra le prime che Costanzo, generale

dell’imperatore Onorio, riuscì a strappare, nel V secolo, ai Goti di Ataulfo, che l’avevano devastata. Risale a quest’epoca la costruzione del più antico monumento dei molti che conserva il centro storico, il Battistero ottagonale di chiara ascendenza ravennate. Gli albenghesi parteciparono alla prima crociata del 1098, e nel secolo seguente si costituirono in libero comune. L’istituzione consentì di realizzare importanti lavori di pubblica utilità: nel XIII secolo, in particolare, il ponte lungo, di cui rimane la parte superiore delle dieci arcate, a testimoniare quale fosse l’antico corso del fiume, ed i borghi franchi di Villanova, Pogli e Cisano per tenere meglio a bada i colpi di mano e le scorrerie di signori feudali quali i Clavesana, spesso appoggiati strumentalmente da Genova nella loro aspirazione di controllo sulla ricca Albenga.


Nuove Filiali La coltivazione intensiva di pesche, albicocche, asparagi e carciofi non ha mai interrotto il dialogo col mare, da cui derivano le fondamentali risorse della pesca e del commercio. Gli albenganesi, man mano che il limo portato dal Centa se le inghiottiva, hanno continuato nei secoli a ricostruire case e torri a ridosso delle strade e dell’antico porto romano, che secondo gli archeologi in origine era collocato in località Vadino, a sud est dell’attuale abitato. Le navi dei mercati albenghesi partivano dalla spiaggia antistante le mura sud occidentali, alla volta dei fondachi del Mediterraneo Orientale; per porre fine alla concorrenza, la Superba s’impegnò nella conquista della città, portata a termine a metà del ‘400. Essa ebbe immediati riflessi sullo sviluppo del centro abitato, che rimase per diversi secoli sostanzialmente racchiuso nella cerchia delle mura rinascimentali e delle estensioni originate dall’insediamento dei due grandi ordini religiosi dei domenicani e dei francescani. All’interno del centro storico le trasformazioni più significative sono dovute alla tendenza di alcune grandi famiglie (tra cui i Cepolla, i Lengueglia, i Peloso, i D’Aste, gli Stucchi, i Rolandi Ricci), ad ampliare i propri palazzi acquisendo ed inglobando le case più prossime; ciò specialmente nel ‘600. Basti un dato a marcare la differenza con altre località costiere liguri non altrettanto legate all’agricoltura: ad Alassio le seconde case sono oltre il 40% del totale; ad Albenga, dove pure il turismo balneare non è sconosciuto, non superano il 10%.

Ad Albenga, il Banco ha aperto da poco una sua filiale in Viale Liguria, 10

Tuttavia negli ultimi trent’anni la tendenza alla concentrazione delle attività produttive ha ridotto notevolmente l’incidenza delle tradizionali attività agricole sull’economia locale. Ne è derivato un ulteriore aumento del prezzo dei terreni; questo fatto, ma soprattutto la mancanza d’un porto commerciale, ha indotto alcuni anni fa gli eredi del cav. Luigi“Gin”Noberasco, patron della più importante azienda locale (fondata giusto un secolo fa, nel 1908, dal padre Benedetto) a trasferire il sito produttivo della Agri Food a Vado. Una scelta non facile, dato che questo raro cognome è testimoniato in città almeno dalla metà del ‘400, quando un Giambattista Noberasco sancì con un’alleanza matrimoniale la comunanza d’interessi con una famiglia locale di orafi, i Costa, destinati nel giro di poche generazioni ad assumere notevole ricchezza e un ruolo di prestigio a Genova, a Roma e a Malta. Si deve a questi ultimi la costruzione della bella piazzetta coi tre leoni in pietra che ornavano nel ‘300 la facciata del loro palazzo, passato poi per legami ereditari ai Del Carretto di Balestrino. Oggi il centro storico di Albenga, stretto attorno alle tre torri (del Municipio, del Comune e della Cattedrale) continua a restituire interessanti testimonianze materiali di complesse vicende storiche; ma per molti il reperto più affascinante rimane il relitto della nave da carico romana contenente migliaia di anfore ancora integre, la cui scoperta negli anni ‘50 ha stimolato la nascita d’un centro di ricerche sottomarine tra i più quotati del nostro paese. La Banco nota

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Nuove Filiali

Pomezia compie settanta anni

Nel giugno 1939, all’epoca della “battaglia del grano”, furono quaranta famiglie forlivesi le prime a stabilirsi nella zona, accolte con grandi onori in altrettanti poderi

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di Francesco Ronchi

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La Banco nota

el 1929, quando iniziò ad operare il Consorzio di Bonifica incaricato di realizzare le “città nuove” di Littoria [Latina], Sabaudia e Pontinia, una palude vera e propria non copriva più del 10% dell’attuale territorio della città di Pomezia. Tuttavia la conformazione della costa e la scarsità d’acqua dolce rendevano davvero ardua la valorizzazione in senso agricolo delle dune e delle basse colline tufacee invase dai rovi e flagellate dalle zanzare. Uniche attività praticate, da secoli, erano l’allevamento di ovini e bovini allo stato brado e la produzione di carbone di legna. Agli inizi degli anni ‘30, quelli della crisi economica mondiale, il Consorzio preferì dedicarsi agli altri centri dell’Agro Romano, iniziando nel novembre 1931 alcune opere preliminari solo su 18 mila ettari dei latifondi, espropriati, compresi tra la tenuta presidenziale di Castel Porziano, il litorale di Tor Vaianica e, a est, Albano Romano ed i Castelli.

Nel 1935 l’ormai prossima spedizione in Etiopia fece sorgere il dubbio sull’opportunità di proseguire il programma iniziale; nel frattempo quei terreni erano andati a rimpolpare il patrimonio fondiario dell’Opera Nazionale Combattenti (Onc), alla cui guida da febbraio era stato chiamato uno dei più preparati funzionari del Regime, il barese Araldo di Crollalanza (1892-1986), già ministro dei Lavori Pubblici. Resosi conto dello stato miserevole dei bilanci dell’Ente, egli chiese al Duce più tempo prima di porre mano a nuovi impegni. Tuttavia la volontà politica ebbe la meglio, e a novembre s’avviò il progetto della quarta città, Aprilia. Nel 1937 l’Onc indisse il concorso per il progetto della quinta città, Ausonia [Pomezia], vinto dagli architetti romani Petrucci, Tufaroli, Paolini e Silenzi. Ormai le sanzioni internazionali costringevano il Regime a portare avanti sino in fondo la “battaglia del grano”, quindi giunsero i finanziamenti pubblici.


Nuove Filiali La posa della prima pietra risale al 25 aprile 1938; in maggio, appena terminati i lavori nella vicina Aprilia, si pose mano all’installazione di quattro stazioni di pompaggio nella zona sud di Pomezia, tra La Fossa e Tor San Lorenzo. Nel giugno 1939 giunsero i primi coloni: quaranta famiglie forlivesi, accolte con grandi onori in altrettanti poderi. Le case erano arredate, ma i terreni ancora infestati da mosche e zanzare. A confortare gli agricoltori ogni mattina giungevano dei butteri a cavallo, incaricati dall’Ente di fornire loro latte e uova. Da settembre giunse un altro tipo di coloni: la Francia, in guerra contro Hitler, non accettava più italiani. L’’Onc consegnò a ciascun capofamiglia aratri, erpici e due vacche. L’inaugurazione ufficiale si tenne alla fine di ottobre; di Crollalanza aveva ottenuto il rispetto dei tempi di consegna dei principali edifici pubblici, di trenta alloggi per impiegati dell’ente e di alcuni empori, oltre a 187 case coloniche (46 delle quali erano gli antichi casali, riadattati). Nel Dopoguerra un fattore decisivo per lo sviluppo del territorio fu l’inclusione nell’area soggetta ai finanziamenti pubblici della Cassa per il Mezzogiorno, l’ente istituto nel 1950 per realizzare infrastrutture ed impianti industriali. Grazie ai forti incentivi diretti ed indiretti sorsero molte fabbriche, anche di grandi dimensioni, come la FEAL, e numerosi quartieri residenziali: sia destinati ad ospitare i nuovi lavoratori, sia seconde case dei romani. Quest’ultima tipologia s’è diffusa soprattutto dalla seconda metà degli anni ‘80, quando

Il moderno palazzo di Via Dei Castelli Romani, 22 che a Pomezia accoglie la filiale del Banco Desio

l’abolizione della Cassa ha messo in crisi molte aziende, ed al posto delle fabbriche hanno cominciato a crescere i centri commerciali. Data la mancanza di collegamenti ferroviari diretti con la Capitale, si avvertono gli effetti negativi dell’insufficiente rete viaria, originariamente prevista per una colonia agricola. Oggi purtroppo resta ormai solo un ricordo di quello che fu uno dei più bei litorali della provincia romana, tuttavia Pomezia è una città dinamica ed operosa, non più disposta a fungere da semplice appendice all’onnivoro capoluogo. Lo dimostra, tra l’altro, l’iniziativa per la realizzazione di un Polo Universitario autonomo (ma strettamente legato alle realtà produttive del territorio) il cui nucleo è oggi il campus “Selva dei Pini”, complesso residenziale e sportivo. La Banco nota

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L’opinione

Come si incentiva

il venture capital

Novità ed agevolazioni per gli investitori che apportano capitali di rischio per finanziare nuovi progetti imprenditoriali e lo sviluppo di nuove società

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di Marco Piazza*

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aranno esenti dal capital gain le plusvalenze conseguite da persone fisiche e dagli altri soggetti non imprenditori in occasione della cessione di partecipazioni in società “start up” se saranno reinvestite, entro due anni, in un’altra start up di più recente costituzione. L’agevolazione è contenuta nell’articolo 3 del decreto legge 112 del 2008 che ha introdotto, nell’articolo 68 del Testo unico, due nuovi commi (6 bis e 6 ter) ed è stata proposta da AIFI (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital) e IBAN (Associazione Italiana Investitori Informali in Capitale di Rischio), nell’ambito delle proposte per incentivare l’attività di venture capital in Italia, con particolare riguardo agli investimenti in società di nuova o recente costituzione.

CHI PUÒ BENEFICIARE DELL’ESENZIONE L’esenzione spetta ai soggetti ai quali si applica l’articolo 68 del Testo unico, che sono - in generale - coloro che realizzano la plusvalenza al di fuori dell’esercizio d’impresa. I soggetti che appaiono in concreto maggiormente interessati sono le persone fisiche e le società non residenti prive di stabile organizzazione in Italia, le quali, peraltro, di norma fruiscono delle esenzioni previste dalle convenzioni internazionali, più facili da applicare, in quanto soggette a minori condizioni. LE PLUSVALENZE ESENTI Sono esenti le plusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni, strumenti finanziari e contratti di associazione in parte-


L’opinione cipazione di cui alle lettere c) e c bis) dell’articolo 67, Testo unico. Sono citate le cessioni di “partecipazioni al capitale” in società in nome collettivo e in accomandita semplice residenti (sono escluse le società semplici e gli enti ad esse equiparati) e quelle in società per azioni, in accomandita per azioni e in società a responsabilità limitata, le cooperative e mutue assicuratrici, nonché le società, anche cooperative, europee residenti. In base all’articolo 67 del Testo unico, sono assimilate alle cessioni di partecipazioni anche le cessioni dei diritti attraverso cui possono essere cedute le predette partecipazioni, il che consente di annoverare nell’ambito delle plusvalenze di cui all’articolo 67, comma 1, lettere c) e c bis) anche quelle derivanti dalle cessioni di diritti d’opzione di cui all’articolo 2441 del codice civile, dei warrants e delle obbligazioni convertibili. I diritti sopra citati non costituiscono “partecipazioni al capitale” in senso proprio, il che potrebbe indurre, seguendo un’interpretazione rigorosamente letterale, ad escludere l’agevolazione in caso di cessione di diritti d’opzione e simili. Considerate le finalità della norma, però, si propende per una applicazione estensiva del suo campo di applicazione. La società ceduta deve essere fiscalmente residente in Italia. La limitazione è lesiva del principio comunitario della libertà dei movimenti di capitale. Infatti gli investimenti in società non residenti sono discriminati rispetto a quelli in società residenti. La norma si applica anche alla cessione di partecipazioni in società residenti le cui azioni sono negoziate in Italia o all’estero, e anche nel caso in cui il corrispettivo della cessione sia reinvestito in società quotate in Italia o all’estero. Ciò comporterà un considerevole aumento delle complessità procedurali per gli intermediari finanziari che agiscano in qualità di responsabili d’imposta, per conto del contribuente. La circostanza che, nel regime di risparmio gestito, le plusvalenze siano tassate per maturazione e non al momento della percezione, rende ancora più complessa l’applicazione della norma, in quanto i presupposti dell’esenzione sono subordinati al verificarsi di una condizione, che, come vedremo, non è neppure chiaro se sia sospensiva o risolutiva.

LE CONDIZIONI DI ESENZIONE Le condizioni di esenzione sono molto articolate e complesse: 1) la società ceduta, oltre ad essere residente in Italia, deve essere stata costituita da meno di sette anni; 2) il cedente deve aver posseduto le partecipazioni cedute per almeno tre anni; 3) il reinvestimento deve avvenire entro due anni dal realizzo delle plusvalenze; 4) il reinvestimento deve essere fatto in partecipazioni di una società residente in Italia; 5) la società in cui avviene il reinvestimento deve svolgere la medesima attività della società ceduta;

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L’opinione

6) il reinvestimento deve avvenire mediante la sottoscrizione del capitale sociale o l’acquisto di partecipazioni al capitale della società acquistata; 7) la società acquistata deve essere stata costituita da non più di tre anni 8) l’esenzione spetta nei limiti delle plusvalenze reinvestite; 9) l’esenzione non può in ogni caso eccedere il quintuplo del costo sostenuto dalla società le cui partecipazioni sono oggetto di cessione, nei cinque anni anteriori alla cessione, per l’acquisizione o la realizzazione di beni materiali ammortizzabili, diversi dagli immobili, e di beni immateriali ammortizzabili, nonché per spese di ricerca e sviluppo. LA CONDIZIONE CHE LA SOCIETÀ CEDUTA SIA COSTITUITA DA NON PIÙ DI SETTE ANNI Particolarmente complessa sarà l’applicazione della condizione che la società, di cui si cedono le partecipazioni, sia stata costituita da non più di sette anni. In precedenti occasioni, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che per data di costituzione si intende quella dell’atto di costituzione e non quella in cui la costituzione è stata iscritta nel registro delle imprese. Poiché la legge dà rilevanza al solo atto formale della costituzione della società, è anche 20

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possibile che la società neo costituita nasca dalla scissione o dall’apporto di un ramo d’azienda proveniente da una società non residente o da una società residente costituita da oltre sette anni, società che, di per sé, non potrebbero beneficiare del regime agevolato. Ove il socio non imprenditore effettuasse contestualmente un apporto in denaro o in natura a tale società neo costituita, oppure, semplicemente ne acquistasse una partecipazione, si verificherebbe il presupposto iniziale per l’esenzione se egli cederà la sua partecipazione dopo tre anni dall’acquisto. È quindi probabile che le cessioni esenti in base ai commi in commento saranno valutate attentamente dall’Amministrazione, allo scopo di contestare quelle poste in essere con intenti elusivi. Osserviamo che la circostanza che la plusvalenza sia esente in capo al cedente non impedisce all’acquirente di considerare come costo fiscalmente riconosciuto il prezzo pagato per l’acquisto (si veda per analogia, la circolare 4 agosto 2004, n. 36/E, par. 3). LA CONDIZIONE CHE LA PARTECIPAZIONE SIA POSSEDUTA DA ALMENO TRE ANNI Le partecipazioni cedute devono essere possedute da almeno tre anni e i contratti di associazione in partecipazione siano stati stipulati da almeno tre anni.


L’opinione Manca un regola per stabilire quali partecipazioni o strumenti finanziari si intendono ceduti per primi nel caso in cui alcuni di essi siano stati acquistati da meno di tre anni. L’articolo 67, comma 1 bis del Testo unico dispone espressamente che si considerano cedute per prime le partecipazioni acquistate per ultime (Lifo continuo). Ai fini della participation exemption, l’articolo 87 del Testo unico (per le imprese) stabilisce un analogo criterio. Certamente, gli scopi della norma sarebbero raggiunti con maggiore efficienza se si considerassero cedute per prime le partecipazioni acquistate per prime, così come è avvenuto, interpretativamente in materia di stock option. L’ONERE DI REINVESTIMENTO L’esenzione spetta a condizione e nella misura in cui, entro due anni dal loro conseguimento, le partecipazioni siano reinvestite in società di capitali, snc, sas e assimilati residenti in Italia, che svolgono la medesima attività, mediante la sottoscrizione del capitale sociale o l’acquisto di partecipazioni al capitale delle medesime, sempreché si tratti di società costituite da non più di tre anni. La formulazione della norma è alquanto generica. Si ritiene che gli aspetti procedurali saranno illustrati in un documento di prassi. In primo luogo non è chiaro cosa il legislatore abbia inteso utilizzando il termine “conseguite”. Nell’ambito della tassazione dei redditi diversi di natura finanziaria si sa che la data del “realizzo” della plusvalenza è quella in cui è avvenuto l’atto di cessione, mentre la data di percezione è quella in cui è avvenuto il pagamento del corrispettivo. Essendo lo scopo della norma quello di agevolare il reinvestimento di capitali disinvestiti, appare più razionale ritenere che il decorso del periodo biennale parta dalla data di incasso del corrispettivo, se successiva alla data del “realizzo”. Si usano cioè gli stessi criteri che si utilizzano per determinare il periodo d’imposta in cui la plusvalenza è ordinariamente tassata. In secondo luogo non è chiaro se la condizione del reinvestimento abbia carattere sospensivo (nel senso che la tassazione della plusvalenza viene sospesa per due anno in attesa del reinvestimento) oppure risolutivo (nel senso che al verificarsi della condizione le imposte già

pagate saranno rimborsate). Si è maggiormente propensi a ritenere corretta la prima soluzione. Del resto la legge non prevede il computo di interessi né a favore del contribuente né a favore dell’Erario. Osserviamo che, letteralmente (ma anche considerando le finalità della norma) appare possibile anche che le partecipazioni, gli strumenti finanziari o i contratti in oggetto siano semplicemente conferiti nella start up acquirente, il che comporterebbe la verifica della condizione simultaneamente alla cessione. Il reinvestimento può, comunque, avvenire solo mediante la sottoscrizione del capitale o l’acquisto di partecipazioni al capitale. Anche la condizione di reinvestimento è lesiva del principio di libertà di movimento dei capitali (si veda, ad esempio, la sentenza della Corte di Giustizia 18 gennaio 2007, n. C-104/06; C-436/00; C-251/98) in quanto non sono ammessi reinvestimenti in società estere. Particolarmente difficile è comprendere il motivo per cui il reinvestimento debba necessariamente avvenire in una società che svolga la medesima attività di quella ceduta. Spesso l’investitore è anche un manager della società ceduta, il che, di norma, comporta che abbia firmato un patto di non concorrenza con la società stessa, che, di norma, dura più di due anni. In questi casi sarà praticamente impossibile, per questo genere di investitore, realizzare la condizione richiesta per beneficare dell’esenzione. DECORRENZA L’agevolazione si applica a partire dall’entrata in vigore del decreto legge (25 giugno 2008), ma non è precisato se riguardi le plusvalenze percepite a partire da quella data, prescindendo dalla data di cessione della partecipazione, dello strumento finanziario o del contratto, oppure solo da quelle derivanti da atti di cessione stipulati dal 25 giugno. Osserviamo che la relazione tecnica assume che il provvedimento sia entrato in vigore“con riferimento alle cessioni avvenute successivamente al 30 giugno 2008”. *Dottore commercialista e professore di Economia e Tecnica degli scambi internazionali presso l’Università Cattolica di Milano La Banco nota

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Cover Story

Dierre, dove si coniuga qualità e innovazione Dagli stabilimenti del Gruppo escono porte di sicurezza e da interni, serrature e casseforti realizzate con attenzione artigianale e concepite non come elementi funzionali ma come complementi di arredo. Più di 50 i brevetti depositati fino ad oggi

C di Enrico Casale

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osa si nasconde dietro una porta? Dipende. Dietro una porta Dierre c’è un mondo fatto di innovazione tecnologica, attenzione al cliente e alle sue esigenze, puntualità e competenza nell’assistenza, raffinatezza nella comunicazione. Un mondo complesso eppure semplice, rinchiuso in un oggetto che accompagna la nostra vita e ne delimita gli spazi. A parlarcene è Vincenzo De Robertis, presidente della Dierre, 55 anni, una passione per lo sport e per i libri di storia.

Quando nasce la Dierre? La Dierre nasce ufficialmente nel 1975 dall’esperienza della Csa, l’azienda che tre anni prima avevamo fondato io e mio fratello Alessandro. La nascita della nostra azienda coincide con la realizzazione della prima porta di sicurezza industriale. In precedenza, le porte di sicurezza erano più che altro realizzate a livello artigianale. Il nostro prodotto ha avuto subito successo, tanto è vero che già nel 1980 il nostro fatturato ha raggiunto il miliardo di


Cover Story lire. Nel 1982 abbiamo inaugurato il primo stabilimento a Villanova (At) dove il gruppo ha ancora la sua sede principale.

allo stabilimento di Villanova d’Asti, negli anni si sono aggiunti quelli di Sant’Ambrogio (To), Mondovì (Cn) e Verderio Superiore (Lc).

Quali prodotti realizzate oggi? Noi realizziamo: chiusure di sicurezza (anche per esterni), chiusure tagliafuoco (in acciaio e in legno), chiusure scorrevoli a scomparsa, porte per interni (in legno massiccio, in essenza e laccate), chiusure basculanti, rivestimenti, chiusure speciali, serrature e casseforti. Ogni anno produciamo 200 mila porte di sicurezza, 80 mila porte da interni, 300 mila serrature e casseforti e 25 mila basculanti. Oggi la Dierre è una realtà produttiva di eccellenza che realizza un fatturato di circa 160 milioni di euro (2005), ha un migliaio di dipendenti e ha investito negli ultimi anni circa 32 milioni di euro nell’innovazione sia dei prodotti sia dei processi di produzione. In Italia, possiamo contare su una rete commerciale capillare fatta di 5.500 punti vendita. Nel frattempo anche la nostra capacità produttiva è stata potenziata. Oltre

Quali sono le caratteristiche che vi hanno permesso di svilupparvi fino alle dimensioni assunte oggi? La nostra è un’azienda che si è sviluppata cercando di coniugare sempre qualità e innovazione. L’espressione di questa caratteristica sono i nostri brevetti. Tra questi ne ricordiamo alcuni di cui andiamo particolarmente orgogliosi: nel 1986, la serratura con blocchetto intercambiabile «Mia»; nel 1988, il telaio per porta applicabile senza lavori di muratura; nel 1989 il battente blindato per finestre e portefinestre; nel 1994, il deviatore di sicurezza a uncino «Hook» e le cerniere «Micron» registrabili in altezza; nel 1995, la serratura elettronica motorizzata «Elettra»; nel 1996 la chiusura «DCode»; nel 2005, la chiave a scatto «JacKey». A questi però se ne aggiungono molti altri. Tenete presente che, negli anni, la Dierre ha

Nella pagina a fianco, la sede di Villanova d’Asti della Dierre S.p.a.

Vincenzo De Robertis, presidente di Dierre S.p.a., che ha fondato nel 1975

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Cover Story Qual è la vostra filosofia di produzione? Il nostro concetto di prodotto cerca di coniugare sicurezza, funzionalità e design. Cerchiamo cioè di offrire prodotti tecnologicamente avanzati, ma che, allo stesso tempo, si adattino a ogni stile di arredamento. Noi siamo stati tra i primi a concepire la porta non più solo come un elemento funzionale, ma come un autentico complemento d’arredo che entra nelle case e si deve fondere con lo stile e il gusto dell’abitazione. Per questo motivo gli elementi base delle porte di sicurezza, l’acciaio e il legno (elementi solo apparentemente antitetici) vengono «amalgamati» attraverso una gamma infinita di forme e colori per offrire al cliente un prodotto su misura.

Dierre: una realtà industriale dalla qualità artigianale

depositato più di 50 brevetti. Ciò ha fatto, della nostra azienda, una delle 500 imprese europee più tecnologicamente avanzate. Il vostro è un Gruppo con forte vocazione all’export? Abbiamo sempre avuto un’attenzione non solo al mercato nazionale, ma anche a quello estero. La nostra espansione fuori dai confini è iniziata nel 1994. In quell’anno abbiamo infatti stretto un primo rapporto di partnership in Francia. Tre anni dopo abbiamo firmato un’altra partnership questa volta però in Portogallo. Attualmente abbiamo presenze in tutta Europa e partner commerciali in Spagna, Portogallo, Francia, Grecia e Polonia. La nostra azienda esporta il 30% della sua produzione. I mercati di riferimento sono, oltre ovviamente all’Europa, il Nord Africa, l’Asia e l’America.

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E tutto ciò viene realizzato a livello industriale... Non vorrei che chi legge ci fraintendesse. È vero che noi siamo una realtà industriale che ha grandi numeri, punta sulla tecnologia più avanzata e investe costantemente in ricerca e innovazione. Ciò però non toglie che noi lavoriamo con un’attenzione e una cura artigianale. Proprio grazie a questa attenzione artigianale tutti i prodotti Dierre, dal momento in cui vengono ordinati, hanno una loro vita propria: sono infatti contrassegnati con il nome del cliente che li riceverà. In questo modo, ogni porta e ogni serramento diventa unico. E, ancora oggi, per garantire la massima qualità dei collaudi e dei controlli finali vengono sì utilizzate tecnologie avanzate, ma sono ancora impiegati artigiani con un’esperienza decennale nel settore. La Dierre ha una forte attenzione allo stile dei suoi prodotti. In passato avete anche collaborato con designer di fama. Oggi che rapporti avete con il design? In passato abbiamo realizzato con Giorgetto Giugiaro, uno dei più famosi designer italiani, un kit di maniglieria per le porte blindate. Concluso quel rapporto, non abbiamo più avuto occasione di collaborare con designer di fama. Questo però non significa che trascuriamo questo aspetto, che invece riteniamo importantissimo. Tutti i nostri prodotti nascono dalla matita di designer interni particolarmente attenti alle innovazioni in campo stilistico.


Cover Story La Dierre però è all’avanguardia non solo nell’innovazione dei prodotti, ma anche nell’innovazione dei processi di produzione. Questo cosa significa? Il nostro Gruppo ha sempre investito notevoli risorse per riuscire a coniugare la standardizzazione della produzione con la massima personalizzazione richiesta dai nostri clienti. Per esempio, Dierre oggi può contare su software e tecnologie esclusive. Rientra in questo campo il configuratore di prodotto, un software che gestisce e normalizza ogni nuovo ordine e lo inserisce in un database generale consultabile da tutti i dealer che sono così in grado di dare risposte efficaci ai nostri clienti. Questo permette ai rivenditori di seguire passo dopo passo l’iter dei loro ordini: dall’emissione alla consegna fino all’installazione. Chi sono i Dierre Partner? E quale ruolo hanno nella strategia Dierre? I Dierre Partner sono punti vendita selezionati dall’azienda che rivendono in esclusiva i prodotti top della gamma Dierre. A oggi sono presenti sul territorio nazionale circa 400 partner. L’obiettivo per i prossimi due anni è di raggiungere una copertura di circa mille rivenditori qualificati. Con il lancio di Dierre Partner, nel 2004, il Gruppo ha voluto sottolineare l’importanza della figura del rivenditore all’interno della filiera. Noi riteniamo che proprio il rivenditore sia un alleato prezioso dell’azienda e la accompagna nel suo percorso di sviluppo ed evoluzione. In questo senso, la nostra azienda ha investito molte risorse per mettere a disposizione dei partner strumenti mirati per riuscire a cogliere le opportunità offerte dai mercati e rafforzare la partnership.

di essere vicini al cliente nell’intero ciclo di vita del prodotto: dalla scelta all’installazione fino alle eventuali successive necessità e risponde all’esigenza del consumatore - che acquista prodotti all’avanguardia, tecnologicamente avanzati e di valore - di essere supportato da personale qualificato e preparato. La Dierre ha scommesso molto sulla comunicazione. Perché? Fin dagli inizi, per noi della Dierre, la comunicazione è stata una leva competitiva fondamentale. Noi siamo stati i primi in Italia a presentare la porta di sicurezza in uno spot televisivo e in una telepromozione. Ancora oggi, nel nostro settore siamo quelli che investono più risorse in comunicazione e siamo il primo editore di documentazione tecnica destinata a rivenditori e clienti. La Dierre ha avuto anche testimonial molto noti. Ne ricorderei due in particolare: Sharon Stone, attrice internazionale e simbolo di donna sicura e di grande fascino, e Andy Garcia, attore di fama e di successo mondiale, attuale testimonial dei nostri prodotti.

Dierre produce ogni anno 200.000 porte di sicurezza e 80.000 porte da interni

E che cos’è il Dierre Technical service? Noi siamo convinti che un’impresa per essere competitiva deve investire non soltanto nella ricerca, nell’innovazione dei prodotti e dei processi e nell’immagine, ma deve destinare molte delle sue risorse ai servizi. I Technical service sono una rete di tecnici qualificati e radicati sul territorio che garantiscono assistenza tecnica di altissimo livello ai nostri clienti. Per qualsiasi evenienza, infatti, il consumatore può usufruire dei tecnici Dierre che intervengono in modo rapido e con ricambi originali. Questo ci permette La Banco nota

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Società e Costumi

La sartoria maschile

tra il 700 e l’800 Come la Francia scoprì l’Inghilterra nel campo dell’abbigliamento come in quelli dell’alimentazione, del gioco e dello sport, ma anche della cultura e della politica

di Grazietta Chiesa

Figura 1 “Wiskhet di caccia” da “Giornale delle nuove mode di Francia e d’Inghilterra”, 10 agosto 1788, tav. 144

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L

’esasperata ricerca del modello inglese, esplosa nella seconda metà del XVIII secolo, non cancellò del tutto l’archetipo cortigiano che alimentava perfino le ambizioni mondane della borghesia e la sua corsa all’imitazione aristocratica. Lo studioso della moda Daniel Roche, nel suo importante saggio “La cultura delle apparenze”, registra, nella società parigina della fine ‘700, la diffusione di un lusso che non si annidava più solamente tra le classi privilegiate. E’ proprio in questa commistione tra la semplicità e il rigore delle mode assorbite in Francia da Oltremanica e il prezioso gusto nobiliare, nutrito degli splendori della corte, la caratteristica della moda di

questo periodo; una caratteristica soprattutto evidente nell’abbigliamento maschile dove l’anglomania interpretava, con la diffusione della sua democratica semplicità, le istanze sociali poi esplose con la rivoluzione. Se il modello inglese continuò a prendere piede nelle pause di pace tra i due paesi e dopo Waterloo, la sua influenza fu sicuramente favorita dai cittadini britannici - nobili in viaggio in Europa nel corso del tradizionale Grand Tour, scrittori e intellettuali, borghesi o commercianti, tutti attirati dai piaceri della vita parigina - così come dai visitatori francesi in terra inglese, i più colti e impegnati attratti dalla vivacità della vita politica e culturale, il


Società e Costumi riformismo illuminato, l’effervescenza dell’attività giornalistica del mondo britannico. In realtà, l’anglomania che influirà così fortemente sulla moda maschile europea per circa due secoli fu spesso indissolubile da un’anglofilia politica e intellettuale. Come in Inghilterra, le classi più elevate francesi (Parigi era più che mai arbiter della moda in Europa) privilegiarono - rispetto agli abbigliamenti richiesti dalla corte e, in genere, all’”habit habillè” - l’informale “déshabillè commode” di marca londinese. Accanto a questa scelta, ogni cosa fu all’inglese: dai cibi e dalle bevande alle vetture leggere e veloci come cabriolets e wiskis (fig.1), dai giardini alla caccia alla volpe, dal gioco del whist al gusto per lo sport. Sport che anche per gli inglesi, come per i loro emuli, si incentrò su un unico animale: il cavallo. L’amore per il cavallo aveva cambiato la vita (e quindi l’abbigliamento) della nobiltà inglese: lunghi soggiorni in campagna intervallati da brevi visite in città per gli affari e le cerimonie di corte, cavalcate quotidiane, affascinanti escursioni attraverso le proprietà, molte cacce con gare di velocità tra gli amici. Proprio da queste sfide, nate nell’eccitazione della caccia, nacque la passione tutta inglese per le corse organizzate e i cavalli purosangue. Attorno al culto del cavallo iniziò a formarsi una nuova élite maschile, che si affermerà poi nel secolo seguente, ma che, sul piano vestimentario, si manifestò con singolare chiarezza tra gli ultimi decenni del XVIII secolo e gli anni dell’Impero napoleonico, tanto da rappresentare completamente la moda maschile neoclassica. Le riviste di moda la documentano con grande frequenza, anche lontano dalle grandi capitali della moda Londra e Parigi; l’esempio che pubblichiamo (fig.2) è tratto infatti da una rivista milanese: una perfetta tenuta da equitazione, come dimostrano sproni e frustino, con quel tanto di vera eleganza che rende l’abito portabile in ogni occasione e in ogni ambiente al di fuori delle circostanze di gala. Il frac inglese copre, sul davanti, solo il busto dove si chiude con doppia fila di bottoni (fig.3), mentre sul dietro si allungano le due “code” divise da un ampio spacco, facilitando, appunto, la posizione del cavaliere in quanto si distendono sulla groppa dell’animale; i calzoni sono in pelle scamosciata e sono tagliati in

modo da aderire al massimo alle gambe così da evitare qualunque piegatura o deformazione del materiale; calzature preferite sono ormai gli stivali -“a calza”e, ovviamente,“d’Inghilterra”. La continua citazione, nelle vesti dei nuovi gentiluomini, alla mise da equitazione è dimostrata anche dal restringersi delle “code” del frac sul dietro, evidentemente per rendere più comodo il cavalcare; tale, però, da produrre effetti francamente ridicoli come appare dalle illustrazioni che riproducono momenti della vita quotidiana (fig. 4). Qualche settimana prima della pubblicazione del nostro figurino, la stessa rivista che ne inseriva il disegno, commentava:“La gioven-

Figura 2 Figurino dal “Giornale delle mode principali d’Europa dedicato alle dame italiane”, tav.504, 1 aprile 1794

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Società e Costumi “doppia rivoluzione”, perfettamente integrata con l’immagine dell’uomo-cavallerizzo. La doppia rivoluzione, infatti, interessava i cambiamenti avvenuti nei settori della biancheria e della lana. Se la prima si riferiva all’uso eccessivo di camicie e cravatte di sottili tele di lino sempre impeccabili e di bucato, la seconda riguardava l’espansione della produzione laniera inglese e l’acquisita perfezione della sartoria nella lavorazione dei tessuti di lana. Se il mito del cavallo aveva aiutato a scardinare l’élite nobiliare - la sua etichetta e il suo apparire - è innegabile che alla vigilia della Rivoluzione francese il consumo della moda maschile si era allargato ovunque, creando nuovi modelli e nuovi mercati. Il risultato era stato raggiunto anche grazie all’interesse della nobiltà terriera inglese perché tutti i lavoratori al suo servizio fossero forniti di abbigliamenti rispondenti alle esigenze delle loro mansioni specifiche, sia per chi le svolgeva all’interno delle dimore signorili che per quanti lavoravano all’aria aperta. La moda maschile, nelle novità che la caratterizzeranno nel corso del XIX secolo, terrà infatti sempre conto della funzionalità raggiunta dagli abbigliamenti da lavoro. Figura 3 Dettaglio di abito all’inglese, 1790c. Parigi, Museo de la Mode et du Costume

Figura 4 La confiserie “Le Goût du Jour” n.5, inizi sec.XIX Parigi, Musée Carnavalet

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tù, seguace delle mode non porta assolutamente più alcun abito di gala, o di spada, la moda attuale è l’Anglo-Allemand… Tutti gli uomini di moda hanno il tuono di discendere da cavallo o di essere pronti a montarvi.” Appena due anni prima di queste note, il generale Dumouriez, vedendo il ministro Roland che si presentava al re Luigi XVI con le scarpe chiuse da stringhe invece che da fibbie dorate o argentate, senza i tacchi rossi di prammatica alla corte francese, aveva esclamato rivolto al maestro di cerimonie “Helas! oui monsieur, tout est perdu!”. La crisi dell’etichetta cortigiana e delle regole del suo apparire aveva preceduto la presa della Bastiglia, contemporaneamente manifestandosi nello stretto rapporto uomo-cavallo. Horace Walpole, con humour tutto britannico, avevano etichettato i giovani allora alla moda “i piccoli palafrenieri”. Comunque, dopo la metà del secolo, il codice di eleganza elaborato da Brummell, che la borghesia puritana avrebbe fatto proprio, contro la nobiltà cortigiana, si basava su due pilastri essenziali definiti dagli storici del costume una


Società e Costumi Con l’ingresso nel nuovo secolo, si apre una nuova era che ebbe nel sarto il cardine, lo strumento essenziale di un’eleganza incentrata su due elementi: qualità delle stoffe e vestibilità. Cut e fit divennero le parole d’ordine della sartoria maschile in Europa, tutta ovviamente di scuola inglese. La chiave di volta fu il “taglio all’inglese” che si diffuse dopo il primo decennio del secolo, consentendo la perfetta aderenza dell’indumento al busto, mai raggiunta pienamente fino a questo momento a causa di una duplice esigenza affidata alle vesti: l’ampiezza necessaria all’uso della spada - un obbligo, per la nobiltà, tenerla al fianco come segno di prestigio sociale, cancellato dalla Rivoluzione francese - e l’alto costo dei tessuti di seta, specialmente di quelli operati, per cui gli abiti diventavano spesso ambiti lasciti ereditari. La soluzione elaborata a Londra impose - al posto del taglio in verticale che produceva in un unico pezzo, dalla spalla all’orlo, metà dietro e quarto anteriore - un taglio che separava il busto dalla zona inferiore dell’abito; ognuna di queste parti era poi provata e lavorata sul “cliente” prima di essere unificate.

Figura 5 George Cruikshank Il sarto con il suo cliente, part., 1825c.

L’apporto determinante di questa innovazione per la specializzazione sartoriale è dimostrato da un commento tratto dalla rivista francese “Petit Courrier des Dames”, dicembre 1928, a proposito della situazione di sudditanza dei sarti francesi rispetto ai loro colleghi inglesi: “…il fatto è che Staub, Barde, Languillet etc. ( nomi di sarti francesi, n.d.A.) sono decisamente passati sotto le forche caudine dei sarti londinesi; nelle loro mani, le forbici creative dei Léger (uno dei principali sarti francesi, n.d.A.) e dei tanti altri nomi illustri negli annali della moda, producono solo imitazioni servili… il più abile tra loro è colui che riesce a riprodurre per primo un capo d’opera d’oltremare”. La preoccupazione principale dei manuali sartoriali pubblicati in Europa tra il secolo XVI e la fine del XVIII era stata quella di non sciupare il tessuto con il taglio e, per raggiungere questo risultato, il sarto preparava, sulle misure del cliente, il modello in carta e lo applicava sul tessuto per seguirne poi esattamente i contorni con il taglio; nei numerosi manuali pubblicati invece nei primi trent’anni dell’800 (circa una cinquantina) accanto a questa attenzione a non sciupare stoffa emerge invece una volontà di razionalizzazione che si appoggia allo studio della geometria e dell’antropometria fino ad elaborare, sul corpo umano, una vera scienza dei volumi. Può sembrare ininfluente, ma tutto questo era scattato da una di quelle “invenzioni” tanto semplici quanto basilari: il nastro graduato come lo conosciamo oggi, che, non a caso, chiamiamo metro da sarti perché venne immediatamente utilizzato proprio in quell’ambito, sostituendo l’antico metodo di prendere le misure con una striscia di carta (fig.5). La Banco nota

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Itinerari

Al di fuori del tempo in Val Codera

Priva di collegamenti moderni, questa località lombarda è raggiungibile solamente a piedi tra sentieri e mulattiere: arrivati nel paese sembra di essere tornati indietro nel passato

N di Enrico Casale

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arra la leggenda che Dio, all’inizio della creazione, fosse ancora inesperto e non sapesse bene come dar vita alle montagne. Concentrò così in una piccola zona tutte le montagne più scoscese e i dirupi più ripidi. Nacque così la Val Codera, una delle valli più suggestive della Lombardia e certamente una meta tra le più belle e curiose per gli appassionati del trekking. Ancora oggi infatti non è raggiunta da una strada carrozzabile e quindi vi si accede soltanto a piedi o in elicottero.

La storia La Val Codera sorge a nord del Trivio di Fuentes, una località che è sempre stata strategica. Qui confluiscono la Val Chiavenna e la Valtellina e da qui nei secoli sono passati molti eserciti invasori: dai celti ai romani, dai francesi agli svizzeri, dagli spagnoli agli austroungarici. I segni del loro passaggio sono ancora visibili, basti pensare al Forte di Fuentes, avamposto spagnolo a guardia del Lago di Como, le cui


Itinerari rovine sono ancora visitabili poco fuori da Colico. Il Trivio era anche una zona fortemente malarica. In questa zona infatti confluiscono il fiume Mera, proveniente da nord, l’Adda da est e il Lago, a sud. Le continue scorrerie degli eserciti stranieri e la poca salubrità dell’aria costrinsero quindi le popolazioni locali a cercare rifugio in una zona più sana e non facilmente raggiungibile. Cioè la Val Codera, una valle inaccessibile e seminascosta, ma anche più vivibile della paludosa piana di Fuentes. Certo, la vita non è semplice. La terra non è delle più fertili ed è scoscesa. Il clima è rigido per la maggior parte dell’anno e l’isolamento non è facile da sopportare. Nei secoli però la gente della valle imparò a strappare da quelle montagne così aspre di che vivere. Le ripide pareti delle montagne vennero via via terrazzate. Sui terrazzamenti si iniziò a coltivare di tutto: dalle fibre per i tessuti (canapa e lino) ai vegetali per l’alimentazione (patate, granoturco, orzo, segale, ecc.). I boschi poi vennero sfruttati per il legname e per i loro prodotti (prima fra tutti la castagna).

E poi l’allevamento. Le mucche per il latte e la carne, ma soprattutto le pecore allevate allo stato semibrado. Nei secoli si scoprì anche che quelle montagne così dure e inospitali, nascondevano nelle loro viscere un materiale preziosissimo, il sanfedelino: un granito dalle proprietà uniche che poteva essere utilizzato per costruire tetti, muretti, stipiti, reggigronda, soglie e davanzali, scale, terrazzi, panchine, vasche, lavatoi, mangiatoie. Venne così sempre più sfruttato. Tanto che negli anni la valle arriva ad avere un migliaio di abitanti. Nel 1933 vi abitavano ancora 500 persone. Tra le due guerre, la valle è stata testimone di una particolare forma di resistenza al fascismo. Il regime aveva infatti sciolto tutte le organizzazioni giovanili all’infuori dell’Opera Nazionale Balilla. Tra le organizzazioni soppresse anche l’Asci, l’associazione degli scout cattolici. I suoi membri della Lombardia continuarono però a ritrovarsi. Meta dei loro ritrovi fu appunto la Valle Codera che per la sua inaccessibilità era l’ideale per gli incontri clandestini.

La Val Codera non è servita da alcuna strada carrozzabile: la si può raggiungere in circa due ore a piedi, partendo da Novate Mezzola

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Sopra, la piccola chiesa di Codera. Al centro, un tratto del sentiero che porta al paese

Il secondo dopoguerra però segna il declino. Il mancato collegamento con una strada o con una teleferica e le migliori opportunità di lavoro nelle città fecero sì che in poco più di un decennio la valle si spopolasse. Oggi solo una ventina di persone vi abitano stabilmente, sopportando però grandi sacrifici. Come si arriva Raggiungere Novate Mezzola, da dove parte il sentiero per la Val Codera, non è difficile. Da Milano vi si può arrivare in auto percorrendo la statale 36 (Vallassina) fino al Trivio di Fuentes. Qui, invece di dirigersi verso la Valtellina, si prosegue in direzione Chiavenna-MadesimoSankt Moritz fino a Novate Mezzola. Da Varese e da Como invece conviene andare fino a Lecco e poi proseguire per l’itinerario precedente. Da Bergamo e da Brescia si può arrivare sempre a Lecco con la statale 342 e poi proseguire per l’itinerario precedente fino a Novate Mezzola. Ci si può arrivare anche in treno. Da Milano si può prendere un treno della linea che conduce a Sondrio o a Tirano. Arrivati alla stazione di Colico bisogna scendere e prendere la coincidenza per Chiavenna fino alla stazione di Novate Mezzola. A Colico, qualora non ci fossero coincidenze comode per

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Chiavenna, si può prendere l’autobus (sempre per Chiavenna) che parte sul piazzale di fronte alla stazione. Una volta arrivati a Novate Mezzola per imboccare il sentiero che ci porterà alla nostra meta è sufficiente seguire le indicazioni per la Valle Codera. In una decina di minuti dalla stazione si arriva all’attacco del sentiero. La mulattiera è abbastanza larga e, in molti tratti, lastricata. La prima parte di cammino è impegnativa per chi non è allenato. Il sentiero sale infatti a gradoni e con tornanti molto stretti. Ma all’inizio attraversa un bosco e quindi, anche d’estate, è riparata dal sole. Dopo circa un’ora di cammino si arriva a un piloncino. Da questo punto lo spettacolo è meraviglioso. Nelle giornate soleggiate e un po’ ventilate si può ammirare il lago di Novate Mezzola, il Trivio di Fuentes, Colico e la parte più settentrionale del Lago di Como. Dal pilone c’è un’altra oretta di cammino per arrivare a Codera. Ma non è più così impegnativa come la prima ora perché prosegue con tranquilli e numerosi saliscendi. Poco dopo il pilone si incontra Avedèe, la prima piccola frazione della valle. Sono poche case, con una graziosa cappelletta proprio a fianco del sentiero. Qui è possibile vedere ancora i terrazzamenti che nei secoli passati erano stati costruiti dalla gente


Itinerari

della valle per strappare alla montagna un po’ di terreno pianeggiante per le coltivazioni. Da osservare sono anche numerose edicole sacre. Hanno immagini semplici, ma sono comunque toccanti perché dimostrano la forte devozione degli abitanti della valle. Poco fuori Codera, c’è il piccolo cimitero della comunità. Ciò che colpisce è la scritta che appare all’ingresso del camposanto: «Ciò che noi fummo un dì, voi siete adesso. Chi scorda noi, scorda se stesso». Un ammonimento a ricordare e a rispettare i morti. Tra i sepolti nel piccolo cimitero c’è anche un inglese che si era innamorato talmente tanto della valle che aveva deciso di rimanerci anche dopo la morte.

Suggestivo anche il piccolo monumento ai caduti che ricorda i coderesi morti in guerra. Codera è il primo paese della valle. Chi vuole può addentrarsi e arrivare fino al Rifugio Brasca percorrendo un sentiero che attraversa un paesaggio sempre più alpino. Chi invece non intende proseguire può tornare a Novate Mezzola per la strada che passa dalla frazione San Giorgio. Il sentiero parte da Codera e scende fino al torrente per poi risalire sul versante opposto dopo aver attraversato un bel ponte di pietra con una piccola immagine sacra. Prima di arrivare a San Giorgio si attraversano le piccole frazioni di Cii e Cola per poi prendere un sentiero che si addentra in una piccola valle selvaggia. Alcuni punti sono davvero suggestivi perché si cammina tra le rocce e su piccoli ma splendidi ponticelli in pietra. Per arrivare a San Giorgio si impiegano due ore. La frazione è adagiata su un pianoro e le case sono più sparpagliate di quanto non siano a Codera. Anche qui molte abitazioni sono state ristrutturate e vengono utilizzate come seconde case da gente che abita a Novate Mezzola. Presso il cimitero si trovano due massi avelli (sepolcri) di epoca romana. Da San Giorgio parte infine un sentiero che in un’oretta riporta a Novate Mezzola.

Dirigendosi verso la Val Codera si può osservare tra l’altro Colico e la parte più settentrionale del Lago di Como

Il paese Entrare a Codera è come fare un balzo indietro di sessant’anni. Il paesino è rimasto intatto. All’ingresso dell’abitato c’è la piccola chiesa con una piazzetta che le fa da sagrato. Poco più in là c’è l’edificio che un tempo ospitava la scuola. Alcune case sono state ristrutturate e sono abitate nel periodo estivo. Merita una visita il Museo etnografico nel quale sono ricostruiti, attraverso una raccolta di attrezzi, gli ambienti della vita quotidiana e dell’economia del passato. La Banco nota

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Nuove Tecnologie

Digitale terrestre:

il vecchio e il nuovo Nel giro di poche settimane, apparecchi appena acquistati sono diventati obsoleti perché non certificati per la ricezione dei canali a pagamento

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di Alessandra Monguzzi

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orremmo riprendere il discorso sul digitale terrestre da dove lo avevamo lasciato, discorso che avevamo incentrato sui televisori, accennando a come essi fossero già predisposti per la ricezione dei segnali digitali “free”, gratuiti, mentre per ricevere i nuovi canali a pagamento, quelli del calcio e delle offerte di film, occorreva collegare al televisore un decoder, capace di scalare dalle apposite tessere prepagate - chiamate smart card - i costi degli spettacoli acquistati. In attesa di apparecchi tv che consentissero anche questa operazione, e che la pubblicità televisiva e sui giornali annunciava come imminenti. Così imminenti che infatti, diciamo all’inizio dell’estate, essi sono stati resi disponibili sul mercato, con tanto di certificazioni che garantivano anche quella funzione. Quali le differenze rispetto ai modelli precedenti? Essenzialmente di software, ci viene sempre detto. Per chiarire, premettiamo che l’hardware relativo, e cioè il componente fisico, l’interfaccia, capace di far colloquiare il

televisore con le schede prepagate necessarie per accedere ai canali a pagamento, era disponibile da tempo. Questo dispositivo si chiama CAM, Conditional Access Module: munito di una smart card va introdotto in uno specifico alloggiamento del televisore che altro non è, per chi conosce qualcosa dei computer e del mondo dell’informatica, che il connettore Common Interface adatto a ricevere sui computer portatili le schede PCMCIA (quelle per intenderci che tra l’altro consentono la connessione internet via cellulare). Perché l’accesso vada a buon fine, da ultimo, il televisore deve disporre dell’apposito software. Software che in una qualche versione era presente anche nei modelli di televisori precedenti, senza però essere certificato: in altre parole, senza alcuna garanzia di funzionamento. È successo pertanto che molti per non dire tutti coloro che hanno acquistato un televisore “nuovo” a maggio, magari per gustarsi prima i campionati europei di calcio e poi le olimpiadi su uno schermo da 40 pollici, hanno visto il proprio apparecchio diventare obsoleto, “vecchio”, nel giro di qualche settimana, appunto perché non certificato per la ricezione della televisione digitale a pagamento. Certo, per riceverla basta sempre collegare alla televisione il decoder relativo… ma non è la stessa cosa, ammettiamolo: è sempre un apparecchio, un telecomando e dei cavi in più, di cui si farebbe volentieri a meno in salotto. Una soluzione? Rischiare comunque l’acquisto di un modulo CAM, e sperare che funzioni sul proprio televisore (alcuni siti Internet segnalano i modelli di “vecchi” apparecchi che lo accettano).




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