Maria Giacobbe, una scrittrice dentro e fuori l'isola

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A.D. MDLXII

U N I VERSI TÀ D IPARTIMENTO

DI

D EG LI S TU DI D I S ASS A RI S C IENZE U MANISTICHE E S OCIALI ___________________________

CORSO

DI

L A U R E A M A G I S TR A L E

IN

F I L O LO G I A M O D E R N A

MARIA GIACOBBE: UNA SCRITTRICE DENTRO E FUORI L’ISOLA

Relatore: PROF. MARCO MANOTTA Correlatore: PROF. ALDO MARIA MORACE Tesi di Laurea di: FRANCESCA M ICCOLI

ANNO ACCADEMICO 2012/2013



«Non si può fermare il progresso ma non si può inghiottire la fame». Diario di una maestrina

«il romanticismo è una grande ipocrisia, c’è solo il problema delle conseguenze, un bastardo, un aborto, malattie». Chiamalo pure amore



Ai Miei



Indice

Introduzione

3

Capitolo I. Una Vita in Letteratura

5

I.1. Maria Giacobbe, un’autrice di frontiera

5

I.2. Il contesto storico e letterario sardo dagli anni Cinquanta

11

agli anni Settanta del Novecento I.3.

Il

respiro

universale

della

poetica

di

un’autrice

16

contemporanea sarda I.4. Il mito del padre eroe: la figura di Dino Giacobbe

23

I.5. Il multiforme impegno letterario

27

I.6. Il contributo di Maria Giacobbe per la Sardegna: il dibattito

37

su identità, autonomia e lingua sarda I.7. Dentro e fuori l’Isola

46

I.8. I temi narrativi: esilio e ritorno tra la memoria e il sogno

50

Capitolo II. Una narrativa realistica e chimerica

56

II.1. L’Isola della memoria e del ricordo: la produzione

56

autobiografica II.2. Il racconto cinematografico del mito

87

II.3. Protagonisti: il mare e l’infanzia

99

II.4. La dimensione onirica nella produzione cosmopolita

105

II.5. I racconti

121


Conclusione

127

Bibliografia

129


Introduzione Per comprendere l’opera di Maria Giacobbe bisogna anzitutto cercare di conoscere i luoghi e il periodo storico nei quali essa ha vissuto e attualmente vive. I luoghi sono quelli che creano le diverse appartenenze, le infinite identità dell’autrice, la Sardegna d’origine e la Danimarca d’acquisto. La Storia è quella che dal Ventennio Fascista arriva sino alla contemporaneità. E le identità si raccontano attraverso la memoria trasposta in scrittura, che diventa opera d’arte, dando vita a storie e personaggi reali nelle quali si possono riconoscere le identità dei lettori. Personaggi e situazioni che nella loro familiarità, nel loro piccolo mondo rispecchiano l’intero universo. E tutto questo viene narrato in una prosa originale, eccezionalmente fluida, che crea l’incontro di realtà e sogno in un continuo sovrapporsi e confondersi. Un’artista complessa per la pluralità d’interessi che manifesta nella sua lunga carriera, caratterizzata da un costante impegno civile e politico che dimostra precocemente, appena diciassettenne, lavorando nell’Unione Donne Italiane a Cagliari durante la ricostruzione del dopoguerra, occupandosi di aiutare i bisognosi, e trasmettendo questa solidarietà umana in tutto il mondo attraverso le sue opere. In Danimarca è famosa soprattutto come poetessa in lingua danese mentre in Italia è apprezzata per la sua narrativa in italiano. Dopo aver rappresentato un profilo bio-bibliografico di Maria Giacobbe e prendendo in esame i suoi saggi, la critica letteraria, i dibattiti ai quali prese parte che riguardano i problemi della Sardegna e i suoi scrittori, si prende in considerazione la sua narrativa in lingua

3


italiana, comprese le opere che nacquero in danese e delle quali possediamo la traduzione, non tralasciando però di ricordare che l’autrice ha prodotto anche narrativa in danese ancora inedita in Italia. I romanzi, raggruppabili in tre gruppi a seconda del luogo, ambientati in Sardegna o in un’isola immaginaria o nel mondo, dialogano tra loro attraversati tutti dalla memoria, «come pretesto per la narrazione», 1 riprodotta in termini e stili che vanno dal reale, al fantastico, al surreale e da tematiche e personaggi che si ripropongono, sempre diversamente, nella particolare narrativa di un’artista nata in terra sarda ma emigrata da molto tempo. Dal confronto con un mondo diverso comprende meglio se stessa e il mondo che la circonda, guardando e raccontando l’Isola con uno sguardo europeo nella maggior parte dei suoi romanzi, quasi per un bisogno di «autoconoscenza e autorappresentazione».2 Il suo passato è la Sardegna, il suo presente è il mondo. Perciò non mancano scenari attuali in metropoli e città moderne, tra le quali la città adottiva della scrittrice, Copenaghen, dove i luoghi e i personaggi si raccontano per visioni, stati d’animo, sentimenti, realtà confuse ma non irreali, prodotto della coscienza ma anche dell’incoscienza. In una commistione di stili, nel plurilinguismo e con una rappresentazione unica dell’Isola, del mondo e dell’essere umano, Maria Giacobbe si delinea come un’artista al di fuori delle scuole, creatrice di una parola penetrante e di una scrittura eccezionale di sapore internazionale.

1

MEREU MYRIAM, Gli Arcipelaghi e Il figlio di Bakunìn: l’io narrante tra letteratura e cinema, «Between», II.4 (2012), http://www.Between-journal.it/, p. 5. 2 GIUSEPPE MARCI, Romanzieri sardi contemporanei, Cagliari, CUEC, 1991, p. 21. 4


Capitolo I Una Vita in Letteratura I.1 Maria Giacobbe, un’autrice di frontiera Nel panorama storico e letterario sardo, italiano ed europeo del secondo Novecento si forma la personalità della scrittrice Maria Giacobbe, nata il 14 agosto del 1928 a Nuoro ma residente a Copenaghen dal 1958 dopo aver sposato il poeta danese Uffe Harder. Autrice particolare e non classificabile permanentemente in nessuna corrente letteraria isolana né italiana, artista di frontiera, fuori dai limiti e dai canoni locali e nazionali, che dal particolare porta il suo sguardo, e quello dei suoi lettori, all’universale, dalla microstoria, dal contesto nuorese, locale, familiare, personale, arriva a parlare della macrostoria, quella mondiale, globale. Scrittrice internazionale, unica e stravagante nel suo genere, «una donna che per via di scrittura ha fatto del disordine del mondo un miracolo di relazioni sensate, e che così operando, fedele a se stessa, alla sua terra e alla sua gente, ha arricchito il panorama della storia letteraria».1 La sua è «una nuoresità non nuoresità, appartenenza e non appartenenza alla sua terra d’origine, si sente estranea a Nuoro, fuori contesto, è una bruja a casa sua».2 Dalle parole dell’autrice apprendiamo la storia di come è entrata nel mondo della letteratura e della carta scritta casualmente: infatti,

1

MONICA FARNETTI, Presentazione della candidata, in Maria Giacobbe, Laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere, Atti della cerimonia, Università degli Studi di Sassari, 2007, p. 27. 2 Dalle parole di Natalino Piras, che ha gentilmente concesso un’intervista, svoltasi presso la Biblioteca Satta di Nuoro nel luglio 2012 (la responsabilità sulla correttezza e il contenuto del testo trascritto, in questo e in successivi casi, è esclusivamente dello scrivente). 5


durante il suo primo impiego da insegnante elementare, conobbe una maestra fiorentina, che dirigeva una rivista, a cui mandò una lettera descrivendo le condizioni di arretratezza nelle quali vivevano i bambini di Orgosolo, che non avevano neanche i letti per dormire; la lettera venne pubblicata in un articolo, e tra l’altro Maria Giacobbe ricevette anche gli aiuti per i bambini. Un’altra figura importante per le prime pubblicazioni dell’artista fu Adriana Gherardi di Milano, conosciuta a Cala Gonone, che le chiese di farle vedere cosa scrivesse e le propose di pubblicare le sue storie, dove denunciava le situazioni che viveva e non andavano bene. Nel 1956 durante un viaggio Maria Giacobbe cerca la Gherardi, entra in contatto con «Il Mondo» di Mario Pannunzio e pubblica nel 1957 Diario di una maestrina,3 frutto di una scrittura pedagogica, educativa che crea la comunicazione letteraria. La prima opera nasce dalla sua volontà di capire un contesto che inizialmente la rifiutava, perché veniva dalla città, aveva idee democratiche e i vecchi maestri la vedevano come un pericolo, mentre le famiglie di pastori, gente sia povera che benestante, l’accolsero bene. Insegnava l’italiano in un periodo in cui la maggior parte della popolazione era analfabeta e parlava sardo e non italiano. Pubblicò questo libro in forma di diario, fortemente autobiografico, una forma voluta e richiesta dalla veridicità dell’esperienza raccontata nel romanzo, essendo il resoconto della sua esperienza reale come insegnante nei paesi barbaricini tra i più isolati ed arretrati dell’Isola in quegli anni di risveglio economico italiano. Un racconto partecipe e 3

Questa ed altre notizie sono tratte da varie occasioni pubbliche in cui l’autrice ha incontrato i suoi lettori (nello specifico, ci riferiamo alla presentazione del documentario Il partigiano Dino di Antonio Rojch, al teatro Eliseo di Nuoro, avvenuta il 18 ottobre 2012). 6


solidale con l’ambiente e gli alunni dei quali racconta le private storie di vita e di scuola. «Ne vien fuori un ritratto eccezionale, forse unico, per precisione del dettaglio materiale, per umana simpatia, per la volontà di rappresentare la tensione morale, l’anelito di giustizia e il desiderio di riscatto sociale che testimoniano gli alunni».4 Questo romanzo la portò subito alla notorietà nazionale e fu una delle opere che inaugurarono una nuova maniera di narrare, denunciando e testimoniando le crisi e le situazioni socialmente e civilmente deterioranti e deteriorate in questo mondo contemporaneo. «La Giacobbe dispone […] di una lucidità di visione che non attenua, anzi arricchisce, il carattere di partecipazione commossa e solidale della sua narrazione».5 Traduttrice poliglotta, curatrice di poesia e di narrativa danese, saggista, scrittrice di romanzi, racconti, poesie e opere teatrali e per la televisione e la radio, Maria Giacobbe è un’artista con un percorso letterario

e

biografico

complesso,

poliedrico

ed

insolito.

Successivamente al Diario di una maestrina, che la portò a vincere il Premio Viareggio Opera Prima e la Palma d’oro dell’Unione Donne Italiane, e che fu tradotta in altre quindici lingue, «conquistando il cuore di scrittori e pedagogisti, insegnanti e linguisti e soprattutto di quei “lettori comuni”»,6 si trasferì nei Paesi Scandinavi per rimanervi stabilmente sino ad oggi, escluse le vacanze estive che trascorre nell’Isola e i numerosi viaggi per lavoro, conferenze, presentazioni. Perciò scrisse solo il romanzo d’esordio mentre viveva ancora nella

4

GIUSEPPE MARCI, In presenza di tutte le lingue del mondo, Letteratura sarda, Cagliari, CUEC, 2005, p. 264. 5 GIUSEPPE DESSÌ E NICOLA TANDA, Narratori di Sardegna, Milano, Mursia, 1988, p. 16. 6 GIULIA PISSARELLO, Illustrazione della proposta, in Maria Giacobbe, Laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere…, p. 9. 7


sua terra d’origine, per poi continuare a tener presente l’Isola nella memoria e raccontarla nelle opere attraverso il suo sguardo lontano, assente, esterno ma forse, proprio in ragione di questa distanza, ci consegna una visione della Sardegna più attenta, critica, oggettiva nonostante ne scriva dalla Danimarca. Anche nelle opere di saggistica e di critica la scrittrice si confronta con alcuni autori sardi, ricordiamo la monografia Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna del 1974. Molte delle sue opere sono state pubblicate prima in Danimarca e poi in Italia: sono venti libri fra cui romanzi, saggi, raccolte di racconti e cinque antologie di poesie. È sarda e danese, un esempio d’integrazione positiva, ha un’intensa attività di conferenziera anche negli altri Paesi scandinavi, ha parlato della Sardegna e della cultura sarda nel mondo. Parla correntemente il francese, lo spagnolo, le lingue scandinave, l’inglese.7 Per quanto riguarda la narrativa in italiano, argomento di questa trattazione, dopo la già menzionata opera prima, si ricordano i romanzi Piccole cronache nel 1961, Il mare 1967, Euridice 1970 in danese e in italiano nel 2011, Le radici nel 1975 in danese e nel 1977 in italiano, Gli arcipelaghi nel 1995, Maschere e angeli nudi nel 1999, Scenari d’esilio nel 2003, Pòju Luàdu nel 20058, I ragazzi del veliero del 1991, Chiamalo pure amore del 1986 in danese ma in italiano del 2008. I romanzi Piccole cronache e Il mare ottengono il Premio Villa San Giovanni.9 Nel 1995 ha vinto il Premio Dessì con il romanzo Gli Arcipelaghi.

7

Cfr. FRANCA SINI, Il “chi è?” delle donne sarde, Sassari, EDES, 2000, p. 105. Cfr. MARINA ADDIS SABA, Profilo bio-bibliografico di Maria Giacobbe, in Maria Giacobbe, Laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere…, p. 51. 9 Cfr. FRANCA SINI, Il “chi è?” delle donne sarde…, p. 103. 8

8


In Italia Maria Giacobbe ha contribuito, con scelta e traduzione di testi di poetesse scandinave, all’antologia Europa in versi. La poesia femminile del ‘900, mentre in Danimarca ha collaborato a diverse raccolte di saggi e di racconti fra i quali La Bibbia ri-raccontata e E come Enciclopedia entrambi del 2001 e La mia Europa. Molteplicità nella comunità del 2003. In Danimarca è stata membro del Consiglio direttivo della Casa Editrice Arena e dell’Associazione degli Scrittori Danesi, della Commissione Nazionale Danese UNESCO, del Centro Danese per i Diritti Umani ed è tuttora membro del PEN Club internazionale, della Società Europea di Cultura e della danese Società di Politica Estera. E’ membro fondatore del Comitato degli Scrittori Danesi per la Difesa della Libertà d’Espressione,10 membro di Amnesty International, membro fondatore del comitato per la coesistenza palestineseisraeliana. Nel 1994 le viene conferito il “Premio Beatrice” dell’Accademia

di

Danimarca.

La

sua

opera

è

influenzata

dall’esperienza di vita personale, dall’impegno civile, morale e politico per una società giusta dalla Sardegna al mondo intero. Ha partecipato a numerose conferenze e convegni internazionali ed ha ricevuto i maggiori premi letterari danesi tra i quali il Dante Alighieri dell’Università di Copenaghen nel 1972, il premio triennale del Fondo Statale per l’Arte nel 1985, il Drassow destinato a scrittori che lavorano per la pace, la comprensione e la collaborazione internazionale tra popoli, il Journalist Price del Danish-Italian Commercial Association nel 2001; dal 1996 il Ministro per gli affari Culturali le concede un vitalizio statale per esprimere la gratitudine

10

Cfr. MARINA ADDIS SABA, Profilo bio-bibliografico di Maria Giacobbe…, pp. 52, 53. 9


per aver arricchito la società danese con i valori culturali espressi dalla sua arte.11 In Italia nel 1951 ottiene la medaglia di bronzo dell’UNESCO “contro l’analfabetismo”, nel 1967 il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Solidarietà Italiana; nel 1978 il premio Leone di San MarcoOzieri, nel 1988 il Premio Lioness Club “Donna Sarda dell’anno”, nel 1992 la medaglia d’oro della Camera di Commercio di Nuoro “per la sua azione culturale e sociale in Italia e all’estero”, nel 2000 il riconoscimento “Sa Nugoresa” del Comune di Nuoro, nel 2002 il Premio Eleonora d’Arborea e nel 2003 il titolo di Commendatore dell’Ordine della Solidarietà Italiana e nel 2007 il premio Mamuthone di Mamoiada.12 Nello stesso anno 2007 l’Università degli Studi Sassari conferisce la laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere a Maria, «una scrittrice […] che proprio delle lingue e delle letterature ha fatto la principale e più preziosa risorsa della sua vita […] attraversata per intero dall’impegno – che è insieme culturale e politico, di pensiero e di civiltà – di diffondere e valorizzare la sua e nostra cultura, favorendo lo scambio con i Paesi europei».13 Nel 1999, la compagnia teatrale “L’Effimero meraviglioso” di Cagliari, per la regia di Maria Assunta Calvisi, ha realizzato lo spettacolo Sento strane voci, tratto da poesie inedite di Maria Giacobbe. Nel 2002 è stato presentato in Italia il film Gli arcipelaghi tratto dall’omonimo romanzo dell’autrice con la regia di Giovanni Columbu. Nel 2005 la compagnia “Cada Die” ha realizzato e

11

Cfr. ivi, p. 53. Cfr. ivi, pp. 53, 54. 13 GIULIA PISSARELLO, Illustrazione della proposta…, p. 9. 12

10


presentato a Cagliari uno spettacolo teatrale ispirato alla sua narrativa.14

I.2 Il contesto storico e letterario sardo dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del Novecento Il Novecento è il secolo in cui il ritmo del confronto e dello scambio col mondo cresce vertiginosamente. Per l’Italia e soprattutto per la Sardegna negli anni della seconda guerra mondiale e negli anni Cinquanta del dopoguerra si ha una notevole accelerazione: l’eradicazione della malaria cambia le condizioni di vita dei sardi e favorisce lo sviluppo di quelle attività, turistiche e industriali, prima improponibili, rendendo fondamentali gli scambi comunicativi. La popolazione cresce e si assiste alla vorticosa trasformazione dell’economia e del costume con l’introduzione di stili di vita che in altre parti del mondo erano stati assimilati in maniera graduale e che in Sardegna si propongono, invece, repentinamente e determinano uno shock che lascia traccia visibile anche nelle pagine letterarie. Ma sono anche gli anni della riforma agraria, delle lotte dei minatori per mantenere i propri posti di lavoro, gli anni della tensione ideale legata alla questione sarda e al Piano di Rinascita,15 approvato nel 1961.16 Alla caduta del fascismo la Sardegna, che aveva visto accresciuto l’isolamento geografico ed economico, ebbe modo tuttavia di 14

Cfr. MARINA ADDIS SABA, Profilo bio-bibliografico di Maria Giacobbe…, p. 54. Nel corso degli anni Sessanta divenne centrale nella cultura sarda il dibattito legato alle attese suscitate dalla elaborazione del Piano di Rinascita, un progetto di intervento pianificato, con forti finanziamenti, coordinato tra la Regione e lo Stato, che avrebbe dovuto innescare un processo di crescita economico-sociale generalizzata. Gran parte della produzione letteraria di quegli anni si correla strettamente a questo sfondo. Cfr. GIOVANNI PIRODDA, Letteratura delle regioni d’Italia, Storia e testi, Sardegna, Brescia, Editrice La Scuola, 1992, p. 57. 16 Cfr. GIUSEPPE MARCI, In presenza di tutte le lingue del mondo…, pp. 238-239, 259260. 15

11


esplicare assai presto un dibattito politico-culturale, che fu subito vivacizzato dalle voci degli intellettuali antifascisti messe a tacere nel Ventennio e da quelle dei giovani che avevano maturato posizioni critiche anche all’interno degli organi di regime, voci cui si aggiunsero presto quelle degli esuli che rientravano. Nacquero molti giornali, di diverse tendenze, nei quali si dibattevano le prospettive del cambiamento, in particolare la possibilità e i modi di attuare forme più o meno radicali di autonomia. I temi culturali e letterari venivano in secondo piano rispetto ai temi politici.17 Negli anni seguenti il dibattito si focalizzò sul tema della funzione della cultura e del ruolo degli intellettuali, e specificamente della letteratura e dell’arte, anche per influsso del Neorealismo Italiano. L’urgenza di un impegno collettivo degli intellettuali di fronte alla gravità delle condizioni economiche e sociali dell’isola; la suggestione degli scritti di Gramsci che assumeva in Sardegna una valenza particolare per il forte risalto dell’esperienza sarda nelle sue riflessioni politiche e culturali; il problema dell’autonomia (finalmente raggiunta, ma con gravi limitazioni), indagato anche nelle sue radici storiche, con lo sforzo di individuare i caratteri e i limiti dei processi culturali svoltisi in Sardegna (e degli intellettuali che ne furono protagonisti), anche al fine di determinare le possibilità e il senso di una «cultura sarda»; l’attenzione, come problema peculiare, alle condizioni delle zone interne, e lo sforzo di comprensione dall’interno di aspetti tipici della società sarda come quello della società barbaricina: sono i filoni maggiori lungo i quali si mossero gli interventi più incisivi di quegli anni.18 17 18

Cfr. GIOVANNI PIRODDA, Letteratura delle regioni d’Italia…, p. 55. Cfr. ivi, p. 56. 12


Nella letteratura sarda degli anni Cinquanta si avverte il cambiamento, la trasformazione dal contatto con la modernità e nasce una nuova generazione di scrittori che si accosta alla vecchia maniera di narrare. Questi giovani autori riescono a farsi conoscere oltre i confini dell’Isola e si propongono ad un pubblico internazionale: sono gli anni in cui la Giacobbe pubblica il Diario di una maestrina. Le nuove generazioni sono riuscite a gettare un ponte tra l’isola e il continente inserendosi nella vita letteraria italiana ed europea con caratteristiche proprie ed inconfondibili, con un’impronta originale di arte che non ha disperso ma esaltato la loro sarditudine. Maria Giacobbe è il risultato più evidente di questa conquista e testimone di come questi cambiamenti vengano avvertiti nella coscienza degli artisti.19 «Insularità non significa, dunque, isolamento»20 ma anzi diventa un’apertura verso il mondo in modo da potergli raccontare e comunicare questo altro mondo insulare, in un momento nel quale, dopo il Fascismo, il ruolo dell’intellettuale e dell’artista cambia, non essendo più isolato ma impegnato civilmente e culturalmente nel denunciare il presente, nel proporre un progetto per il futuro, nell’approfondire temi sociali, mobilitando ampie fasce di lettori.21 Diario di una maestrina venne ripubblicato nel 1975 con una Prefazione dell’autrice che suona come il bilancio attento e meditato, dolente, di quel quarto di secolo di storia sarda comprendente le diverse stagioni che gli storici chiamano gli anni della ricostruzione, della battaglia per la Rinascita; della Rinascita; del fallimento della

19

Cfr. FERNANDO PILIA, Scrittori di Sardegna, in MARIA GIACOBBE, Le radici, Cagliari, Edizioni della Torre, 1979, p. 6. 20 PAOLA PITTALIS, Storia della letteratura in Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1998, p. 14. 21 Cfr. ivi, pp. 109-110. 13


Rinascita.22 «Nella sua prosa asciutta ed efficace, Maria Giacobbe rivisita il passato ed il presente della Sardegna, con una forte volontà di impegno sociale».23 I caratteri di riscatto, rinascita, autonomia originari permangono nella seconda metà del Novecento, anche se in contesti che vanno sempre più facendosi consapevoli delle specificità letterarie e quindi tendono ad attenuare gli accenti politici più espliciti. Da parte degli intellettuali sardi c’è la piena consapevolezza di trovarsi di fronte a una svolta epocale, a una radicale trasformazione della quale valutano gli aspetti positivi e quelli negativi.24 Ma sarà negli anni Sessanta, ad opera di quella nuova letteratura e di quei giovani autori che acutamente Pigliaru segnalava sin dal 1962, tra i quali si ricordi anche Francesco Masala con Quelli dalle labbra bianche (1962),25 che la tendenza proposta dalla Giacobbe si afferma dando luogo a un indirizzo i cui esiti arrivano fino ai giorni nostri, sia pure filtrati dalle esperienze del successivo ventennio.26 Sono anni ancora caratterizzati dalla ricerca di una nuova modalità narrativa capace di sperimentare forme espressive tali da rendere possibile il raggiungimento di un pubblico ampio e il confronto con l’universo della scrittura letteraria del quale gli scrittori sardi si sentono di far parte.27 Gli autori della nuova generazione non trascurano mai di osservare la realtà sociale sarda colta nel momento del trapasso fra

22

Cfr. GIUSEPPE MARCI, In presenza di tutte le lingue del mondo…, pp. 263- 264. PAOLA PITTALIS, Storia della letteratura in Sardegna…, pp. 112-113. 24 Cfr. GIUSEPPE MARCI, In presenza di tutte le lingue del mondo…, pp. 257, 259. 25 FRANCESCO MASALA, Quelli dalle labbra bianche-Il parroco di Arasolè, Nuoro, Il maestrale, 2008. 26 Cfr. GIUSEPPE MARCI, Romanzieri sardi contemporanei, Cagliari, CUEC, 1991, pp. 45, 46. 27 Cfr. GIUSEPPE MARCI, In presenza di tutte le lingue del mondo…, p. 275. 23

14


un’ancestrale fissità e le dinamiche, anche troppo impetuose, della modernità.28 L’anno 1962 rappresenta la linea di confine tra due periodi storici di grande significato nella storia della Sardegna contemporanea: gli anni della battaglia per la Rinascita (1955-1962) e quelli della Rinascita (1962-1974). È una stagione di notevole tensione morale, politica e culturale: nascono le riviste «Ichnusa» a Sassari e «Il Bogino» a Cagliari. «Ichnusa», rivista diretta da Antonio Pigliaru, storico del diritto, che si batte per una cultura «autenticamente democratica e autenticamente autonomistica», sul piano letterario oltre che su quello culturale, lotterà contro il “cosmopolitismo di maniera” e il “regionalismo chiuso” ed è da considerare l’espressione migliore del lavoro intellettuale in Sardegna nel dopoguerra. La rivista si propose il recupero di una unità degli intellettuali sardi di diversa formazione con l’intento di mettere a disposizione dell’azione politica molte prospettive individuate liberamente.29 Durante gli anni Settanta in Sardegna, deluse ormai le attese riposte nello sviluppo industriale, con la crescente sfiducia in un efficace intervento dello Stato, si arrivò alla formazione di un orientamento neosardista, con più forti istanze autonomistiche o indipendentistiche, con la richiesta della rivalutazione della lingua sarda dal punto di vista culturale e la difesa dell’identità come patrimonio storico, culturale, antropologico. Sono riemersi miti tradizionali, ma si è pure rafforzata un’esigenza conoscitiva cui ha corrisposto una ricerca storica e documentaria più sistematica e rigorosa. Anche nella letteratura è riscontrabile l’esigenza del 28 29

Cfr. ivi, p. 265. Cfr. GIOVANNI PIRODDA, Letteratura delle regioni d’Italia…, p. 56. 15


recupero del patrimonio del passato.30 Nella letteratura sarda si assiste al fenomeno del distacco dal mondo delle origini, della perdita di una fisionomia conosciuta e familiare e il bisogno di ricostruirla per avere un punto fermo al quale riferirsi (o per rendersi conto che quel mondo è, con la modernità, definitivamente perduto), si abbandonano gli scenari rurali e il paese tradizionale e lo spazio diventano urbani.31

I.3 Il respiro universale della poetica di un’autrice contemporanea sarda Maria Giacobbe è un’autrice europea caratterizzata da un costante ritorno non nostalgico al tempo dell’infanzia e del passato, da un forte impegno civile, sociale e morale, dalla portata universale dei temi dei quali narra, sia che i racconti siano autobiografici o completamente frutto d’immaginazione e fantasia, raccontando con sfumature e stili diversi, dal reale al surreale, lo stesso tema in mille diverse prospettive. La lotta per un mondo più giusto, civile, libero, senza oppressioni e violenze sono valori che eredita dalla famiglia: figlia di due intellettuali antifascisti che sacrificarono se stessi per degli ideali nobili e universali come la libertà dall’oppressore, dalla repressione, la lotta senza arrendersi, capì da giovanissima la lezione di vita, morale e civile che i genitori Dino e Graziella le insegnarono, e porta avanti, nella scrittura e nella vita, dalla sua attività di scrittrice a quella di conferenziera, l’amore e la lotta per la libertà, operando sempre per la pace e la comprensione tra popoli, per i diritti umani e sociali; non solo nella fantasia delle sue storie ma nella sua attività concreta di vita personale Maria Giacobbe è un esempio di impegno civile. 30 31

Cfr. ivi, pp. 59-60. Cfr. GIUSEPPE MARCI, In presenza di tutte le lingue del mondo…, pp. 279, 280. 16


La mia ambizione e la mia speranza è poter contribuire con la mia attività di scrittrice e di conferenziera ad una migliore comprensione tra popoli.32 Che sognavo, e che sognavo un mondo migliore, è una delle poche cose del mio passato di cui sia certa. Sognavo un mondo migliore, perché quel mondo nel quale ero nata e crescevo mi pareva triste e lo intuivo ingiusto. Sognavo un mondo migliore, cioè diverso.33

La vicenda familiare la portò a compiere degli studi diversi da quelli che i genitori si aspettavano da lei, ma considerando e comprendendo le ristrettezze economiche della famiglia durante gli anni del regime preferì abbandonare gli studi classici per conseguire privatamente il diploma magistrale e poter subito lavorare e rendersi indipendente. La sua infanzia è segnata dalla forte personalità della madre, «una nuoresità non subalterna e umilmente pastorale ma agiata e non per questo ignara delle necessità materiali e delle asprezze della vita propria ed altrui; e quella paterna, dell’antifascismo ricco di spessore politico, avventuroso e con certi tratti romantici, sempre attento ai valori di un sentire umano che il fascismo e la drammatica esperienza della guerra tendevano a rinnegare».34 Perciò le fu impartito il culto per le tradizioni sarde unito alla necessaria cultura moderna con l’impegno politico e sociale. In questo modo, dai romanzi ai saggi, viene descritta la nonna materna: […] matriarca nuorese e sanpietrina (perché Nuoro è per me terra di matriarche prepotenti, più che di schiave rassegnate) […] che m’incoraggia a non arrendermi, come lei sino a che poté non si arrese.35 32

FRANCA SINI, Il “chi è?” delle donne sarde…, p. 105. MARIA GIACOBBE, Sorelle in AA. VV., Cartas de logu, Scrittori sardi allo specchio, Cagliari, CUEC, 2007, p. 119. 34 GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità, Cagliari, CUEC, 1991, p. 269. 35 MARIA GIACOBBE, Salvatore Satta a Nuoro in Salvatore Satta giuristascrittore, a cura di UGO COLLU, Atti del Convegno Internazionale di Studi Salvatore Satta giuristascrittore, Nuoro, Teatro Eliseo, 6-9 Aprile 1989, p. 493. 33

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Le persecuzioni fasciste alle quali vennero sottoposti i genitori si ripercuoteranno sulla famiglia intera, negando l’infanzia a Maria ed ai suoi fratelli, sottomessi e controllati dal regime sin dentro casa. Figlia di due professionisti disoccupati per la scelta ideale e politica che fecero, visse l’infanzia consapevole delle restrizioni economiche alle quali erano sottoposti, dato che il regime fascista trovava il modo di annientare i propri avversari, se non sul piano fisico, almeno su quello economico e quindi lavorativo. Adulta già da bambina, Maria porterà sempre dentro di sé e nella sua scrittura la traccia indelebile di queste persecuzioni e della mancanza della figura paterna, vissuta traumaticamente e non liberatoria, come un lutto, consapevole che il padre non sarebbe potuto rientrare in patria. La madre Graziella Sechi (1901-1973), insegnante elementare, simpatizza per il Partito Sardo d’Azione sin dai suoi primi albori, e dopo il suo matrimonio con Dino Giacobbe ne diventa un’attiva militante. Affronta coraggiosamente le persecuzioni fasciste e la sua casa diventa punto d’incontro per gli antifascisti nuoresi.36 Nell’aprile del 1937 viene arrestata con Angela Maccioni e trascorre ventisei giorni in carcere con l’accusa di attività antinazionale per aver commentato con dolore la morte di un giovane nuorese anarchico nella guerra civile spagnola. Nell’interrogatorio dichiara: «Io nutro simpatia verso tutti coloro che combattono per la propria fede. Mi dichiaro antifascista perché il regime fascista non è un regime di libertà».37 Durante il lungo esilio del marito negli Usa, provvede ad allevare i quattro figli in un clima d’impegno morale e politico, mentre la sua casa resta aperta a quanti continuano a vedere in lei un punto di riferimento. Alla caduta del fascismo collabora 36

Cfr. FRANCA SINI, Il “chi è?” delle donne sarde…, p. 212. SIMONETTA GIACOBBE, Lettere d’amore e di guerra, Sardegna-Spagna (1937-1939), Cagliari, CUEC, 2007, pp. 9, 10. 37

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attivamente al giornale «Controcorrente», con acute analisi politiche e sociali sulla situazione sarda.38 L’etica e la poetica di Maria son rivolte alla solidarietà sociale, all’aiuto dei più deboli, alla lotta contro le violenze e ciò che nega libertà, per poter avere libertà di scelta: oggi c’è la crisi economica e tutto ciò che non ci dà la possibilità di scelta, come la disoccupazione, è fascismo, è regime.39

E nonostante il pessimismo dovuto alla sensibilità e al coinvolgimento dell’autrice nelle vicende raccontate, non perde la speranza collettiva e la fiducia nel prossimo: «con le sue ritualità, con le sue mitizzazioni, certo. Con gli occhi della distanza che fanno non solo guardare ma anche vedere, capire. Con la conoscenza del fatto che quell’isola-topos portata sempre dentro non è la tomba della tua vita. E neppure è necessariamente il luogo della tua vita di ogni giorno. Eppure esiste come forza, come pietra miliare della tua capacità di valutare e di comparare».40 Con le sue opere e la sua attività ha contribuito notevolmente alla conoscenza della cultura sarda e italiana in Danimarca e danese in Italia. «Con la sua letteratura, ella dimostra come la bellezza della natura e il respiro dell’universo, […], facciano della Sardegna uno specchio del mondo».41 Nella Prefazione a Perdu, romanzo del 1952 impostato sul modello deleddiano che la nostra autrice critica, vede come 38

Cfr. FRANCA SINI, Il “chi è?” delle donne sarde…, p. 212. Parole di Maria Giacobbe pronunciate durante la presentazione del documentario Il partigiano Dino di Antonio Rojch al teatro Eliseo di Nuoro il 18 ottobre 2012. 40 ALBERTO MERLER, Ke mariane in mesu ebbas, Quasi una autobiografia di Maria Giacobbe, scrittrice, in MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria, «Quaderni Bolotanesi», n°23, anno XXIII, 1997, p. 22. 41 ALESSANDRO MAIDA, Introduzione, in Maria Giacobbe, Laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere…, p. 7. 39

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«abominevole»,42 poiché isolava nel folklore l’ambiente sardo dal resto del mondo, scrive ‒ nella mia solitaria insofferenza, lo omologavo a certe tendenze anche politiche che, mitizzandone il passato, cercavano di ostacolare l’ingresso della nostra Isola nel presente43

‒ e così facendo ci indica le proprie letture e quelle dei suoi contemporanei, e dei modelli letterari sui quali si formò nella fase dell’adolescenza e della giovinezza, ossia nel secondo dopoguerra. La pace era stata per noi un’esplosione d’informazioni ad ogni livello che, allargando il nostro orizzonte, non saziavano anzi aumentavano il nostro desiderio di conoscere di più. Ci dominava l’ansia di affacciarci, […], oltre il chiuso del nostro vecchio orto che ci pareva piccolo e inadeguato al bisogno che sentivamo oscuro ma fortissimo d’entrare nella modernità. Cioè di diventare culturalmente contemporanei a noi stessi.44 Alla rinfusa ci arrivavano dal loro mondo anglosassone e col loro per noi ancora inaudito modo di raccontarlo Steinbeck, Hemingway, Dos Passos, Caldwell, Orwell, D. H. Lawrence… Poi scoprimmo Le mani sporche di Sartre e, […], La peste di Camus… (Simone de Beauvoir arrivò, almeno per me, un po’ più tardi ma il suo spirito era nell’aria. Come nell’aria […], era già […] l’esistenzialismo che con la poesia di Prévert ci giungeva attraverso le voci di Juliette Gréco e di Ives Montand). Intanto vedevamo con la stessa avidità e nello stesso disordine nuovi e vecchi film francesi, americani e russi e, nelle riviste gratuitamente distribuite dall’U.S.I.S., leggevamo articoli divulgativi sulle nuove frontiere della psicologia e della sociologia.45 Ma anche le voci italiane avevano cominciato a giungerci, sempre più persuasive, col Vittorini delle Conversazioni in Sicilia e di Garofano rosso, con Pratolini e la sua Firenze civilissima e proletaria, con Pavese […], nei cui personaggi, sentendoli nostri contemporanei, potevamo almeno in parte identificarci. Un processo psicologico-intellettuale che ci era necessario operare e incessantemente rinnovare per non continuare a sentirci troppo strani e soli in un mondo in cui non ci riconoscevamo e dal quale ci sentivamo imprigionati. In quegli stessi anni di quasi affannose e – per quanto mi riguardava – disordinate e solitarie letture, c’imbattemmo in Calvino con il suo giovanile Il sentiero dei nidi di ragno e nel paradigmatico Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi che io 42

MARIA GIACOBBE, Prefazione, in PARIDE ROMBI, Perdu, Nuoro, ILISSO, 2000, p. 22. Ibidem. 44 Ivi, p. 18. 45 Ibidem. 43

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accolsi come l’attesa e necessaria rivelazione di un nuovo stile e di un nuovo approccio a una realtà sociale e umana che sentivo somigliante alla mia.46 Il neorealismo nella letteratura e nel cinema stava rinnovando in Italia il modo di vedere e di raccontare gli uomini e la vita e corrispondeva al nostro bisogno di un linguaggio sobrio e trasparente che proprio in forza della sua sobrietà e trasparenza potesse incidere su quella realtà sociale intollerabilmente ingiusta che sentivamo, fra l’altro, come principale causa ed effetto dei pesanti anacronismi che ancora caratterizzavano la nostra esistenza anche come sardi. Nelle nostre ansie e aspirazioni, solo il presente contava e, perché era insoddisfacente, bisognava modificarlo. E non era nel passato, neppure letterario, che dovevamo e volevamo trovare i modelli.47

L’autrice in questa Prefazione racconta abbastanza esaustivamente i suoi principali modelli contemporanei di letteratura, gli scrittori sardi a lei contemporanei e a lei congeniali per l’uso della letteratura come denuncia sociale per migliorare l’umanità e la realtà e nei quali «la sardità non è d’ostacolo alla modernità del sentire e del vivere»48 (da Emilio Lussu, Giuseppe Dessì, a Salvatore Mannuzzu per citarne solo alcuni), e si professa aderente ai modelli anglosassoni, meridionalisti e neorealisti italiani.49 Prosegue un cammino di arricchimento culturale, tracciato dal desiderio di conoscenza e dal desiderio di espandersi e porta avanti «un suo intelligente discorso sociale, culturale, artistico e poetico con passione, con originalità e con autorità».50 Per quanto riguarda il suo ideale di scrittura l’autrice dichiara: quando scrivo non penso ai lettori, scrivo per me;51

46

Ivi, pp. 18-19. Ivi, p. 20. 48 Ivi, p. 22. 49 Cfr. ibidem. 50 FERNANDO PILIA, Maria Giacobbe e le sue «radici»…, p. 9. 51 Dalle parole dell’autrice durante la proiezione del documentario Il partigiano Dino, di Antonio Rojch, Nuoro, Teatro Eliseo, 18 ottobre 2012. 47

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inoltre non apprezza la descrizione minuziosa e pedante, che rischia di appesantire il testo e il lettore, preferendo ricercare come ideale nella prosa la «sintesi allusiva di certi detti popolari, vere metafore poetiche»,52

predilige

utilizzare

nel

suo

stile

un

ideale

«funzionalista»,53 una sorta di «economia del racconto»,54 la concisione invece dell’analisi dettagliata: quando il risultato è pari alle mie intenzioni, si cercherebbero inutilmente in questo55 come in altri libri miei delle vere e proprie descrizioni dei paesaggi e dei personaggi che preferisco presentare sempre attraverso l’azione. Sia come scrittore sia come lettore non ho alcuna difficoltà ad ammettere che mi sembra sempre preferibile che lo scrittore lasci al lettore un margine considerevole per l’esercizio della sua immaginazione e intuizione, e che gli offra il piacere d’essere suo co-creatore dell’opera. Anche perciò, alla descrizione dettagliata, talvolta pedante, […], preferisco l’evocazione concisa, rapida, impressionista.56

La scrittrice dichiara quello che vorrebbe raggiungere con le sue opere: con un massimo di trasparenza e un minimo di parole, le immagini e le idee che […] s’impongono al mio spirito e alla mia immaginazione talvolta come pure e semplici immagini, che solo dopo un’analisi a posteriori posso, quando lo posso, trasformare in idee a me intellegibili.57

Afferma di non essere tra quegli scrittori che pianificano la loro opera nel momento in cui deve scrivere un romanzo o un racconto; per quanto riguarda un saggio o un contributo è diverso, ma per i romanzi scrive: le idee e le immagini, personaggi e paesaggi che s’impongono alla mia fantasia, sono tra loro così simbioticamente legati che, […], non posso provare a separarli senza correre il rischio di farli perire entrambi. […] sento pure che la loro esistenza e il loro sviluppo non dipendono che in piccolissimo grado dalla mia 52

MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 26. Ivi, p. 27. 54 Ivi, p. 26. 55 L’autrice si riferisce a Gli Arcipelaghi. 56 MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria..., p. 26. 57 Ivi, p. 27. 53

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volontà. […] Non più, o quasi, di quanto potrei farlo con i personaggi e i paesaggi dei miei sogni notturni.58 Non sono dunque lo scrittore che s’accosta alla realtà come un pittore che voglia dipingere «dal vero».59

I.4 Il mito del padre eroe: la figura di Dino Giacobbe Per poter comprendere la personalità e la poetica di Maria Giacobbe bisogna tener presente il suo ambiente familiare d’origine nel quale crebbe e si formò, che influenzò e segnò notevolmente la sua produzione artistica, la sua ideologia e il proprio modo d’essere e d’esistere nel mondo. La vicenda familiare e personale dei Giacobbe entra in gioco in gran parte della produzione narrativa di Maria filtrata attraverso i temi della memoria, dell’infanzia, dell’autobiografismo, dell’antifascismo, dell’esilio. Il padre di Maria è un personaggio quasi leggendario, eroe della Resistenza, esule politico per gli ideali di libertà ed antifascismo, mentre Maria è esule per scelta esistenziale: Nuoro è sempre stata una bella prigione.60

L’animo eroico, forte e coraggioso di Dino, rappresentante nobile dell’antifascismo militante, convinto e combattente, del rivoluzionario repubblicano, partigiano, influenzò la figlia trasmettendole i nobili ideali di uguaglianza e di libertà. Non è un mito di famiglia il suo eroismo e la sua unicità, era considerato una personalità e ben noto alla popolazione sarda che lo ammirava per la sua lotta per la libertà.61

58

Ivi, p. 28. Ibidem. 60 Maria Giacobbe durante il suo intervento nella presentazione del documentario Il partigiano Dino di Antonio Rojch, Nuoro, Teatro Eliseo, 18 ottobre 2012. 61 Cfr. DINO GIACOBBE, Tra due guerre, a cura di MARIA e SIMONETTA GIACOBBE, Cagliari, CUEC, 1999, pp. 16, 18. 59

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Fu un intellettuale, speleologo, studioso appassionato, ingegnere, un partigiano antifascista e combattente durante la guerra civile spagnola nelle Brigate Volontarie Antifasciste (1936-1939), capo internazionale della Resistenza sarda insieme a Salvemini e Lussu, infine esule a New York e ricercato durante il periodo Fascista da tutti i posti di polizia italiani. Inoltre fu tra i primi organizzatori del movimento autonomistico in Sardegna per la sua rinascita economica, sociale e culturale e fondatore del Partito Sardo d’Azione. Il suo ruolo politico, militare ed ideologico negò però ai suoi figli, a sua moglie, alla famiglia la sua presenza, non potendo tornare in patria, assenza che è presentissima in tutta la produzione della scrittrice. L’autrice comprende a soli sette anni, da bambina, le incongruenze della società, viene a sapere che, nonostante avesse dei genitori intellettuali, virtuosi e generosi, il padre non potrà rientrare in Italia. Durante l’esilio del padre, a Nuoro un poliziotto controllava tutto il giorno la loro casa e la madre inutilmente cercava un passaporto col benestare del Partito Nazionale Fascista. Vivevano segregati in casa con poche visite di amici, controllati anch’essi. La madre era sola, addolorata e trovava sfogo parlando con Maria, che aveva paura del mondo nemico, ma dai suoi genitori comprese che non bisogna arrendersi né rassegnarsi ma combattere.62 La sorella di Maria, Simonetta, è la biografa del padre ed è colei che ha ritrovato e riordinato gli scritti di Dino; con Maria pubblicarono un libro di memorie tratte da lettere, carte e scritti autobiografici del padre durante le due guerre e sino alla sua morte.

62

Maria Giacobbe durante il suo intervento nella presentazione del documentario Il partigiano Dino di Antonio Rojch, Nuoro, Teatro Eliseo, 18 ottobre 2012. 24


Dino Giacobbe era nato a Dorgali il 14 gennaio del 1896, da padre genovese e madre sarda, si era iscritto a Roma nella facoltà d’Ingegneria e si laureò a guerra finita, nel dicembre 1921, in ingegneria civile. Muore a 88 anni nel 1984.63 «Il Patriota che divenne rivoluzionario»,64 così viene definito, durante la prima guerra mondiale fu un convinto ed entusiasta interventista e patriota, un «giovane democratico e rivoluzionario»,65 che si propose come volontario durante la guerra e ricevette anche tre medaglie al valore che poi gli vennero tolte nel 1925 poiché si era dichiarato repubblicano.66 Alla fine della guerra, dopo che la sua sensibilità e il suo animo furono colpiti dalle scene di orrore e morte,67 si ritrovò ad essere «un pacifista rivoluzionario».68 La guerra come l’omicidio è una forma di suicidio e tutti sono irresponsabili. Arrivato a questo punto il mio pensiero si rivolge in un tragico orrore. Nessuno è responsabile, il colpevole è come la vittima! tutti e due sottostanno ad una fatalità che è più forte di loro. Odio e amore, passioni e ideali, niente esiste: sono la maschera di un destino che ricopre le sue vittime. Ma nient’altro che maschera: sotto non è che dolore. D. Giacobbe.69

Quando ogni attività di partito era stata soppressa, Dino aveva aderito al movimento clandestino «Giustizia e Libertà». I fascisti lo tenevano d’occhio e non mancavano occasione per far sentire il loro potere arrivando a privarlo del lavoro. Genericamente accusato di «servirsi della mobilità che gli consente il proprio incarico per mantenere i contatti tra gli antifascisti sardi», lo allontanarono dal suo posto da ingegnere presso l’Amministrazione Provinciale di Cagliari 63

Cfr. DINO GIACOBBE, Tra due guerre…, pp. 10, 16. Ivi, p. 9. 65 Ivi, p. 13. 66 Cfr. ivi, pp. 18, 32-33. 67 Cfr. ivi, pp. 17, 21. 68 Ivi, p. 21. 69 Ivi, p. 124. 64

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e poi, del Comune di Nuoro «per soppressione di posto». Il risultato fu che scadenze e cambiali stavano avvelenando i felici temperamenti di Dino e Graziella, più propensi ai sogni e alle speculazioni intellettuali che a muoversi tra sconti e interessi.70 La loro libertà personale venne ripetutamente violata con improvvise perquisizioni alla ricerca di lettere o qualcosa che fornisca una prova della loro attività antifascista ed anche la loro corrispondenza fu sottoposta a censura. Dopo l’arresto di Graziella il giornale locale «Nuoro Littoria» la insulta volgarmente. Dino reagisce con l’unico mezzo che la situazione gli consente, sfidando a duello l’autore dell’articolo. Ma il duello non ci fu. I fascisti arrestarono Dino.71 Egli lasciò clandestinamente l’Italia il 2 settembre del 1937,72 espatriò dall’Italia volontariamente per andare a combattere il fascismo fuori dalla sua terra, perciò in Spagna dove la guerra civile diventò teatro del conflitto su scala internazionale. «La nostra capacità di sopportazione si è esaurita», scriveva Dino. «Ne concludo che con mezzi legali l’Italia non potrà più scrollarsi la dittatura fascista; chi ne ha la forza deve andare a combattere il fascismo dove questo dà battaglia. Perciò, in questo momento, in Spagna».73

Prima di arrivare in Spagna fu incaricato di comandare la Colonna Rosselli, una formazione italiana di giellisti (singoli gruppi legati al movimento di liberazione durante la resistenza) e anarchici in aiuto alla repubblica spagnola, nonostante ciò Dino fu controllato in guerra dagli stessi Comunisti che combattevano al suo fianco, e poté rientrare dalla sua famiglia dopo i campi di concentramento in Francia, dai

70

Cfr. SIMONETTA GIACOBBE, Lettere d’amore e di guerra…, p. 8. Cfr. Ivi, pp. 9-10. 72 Cfr. Ivi, p. 7. 73 Ivi, p. 11. 71

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quali riuscì a scappare, e l’esilio negli Stati Uniti, solo nel settembre del 1945.74 Nella narrativa della scrittrice il padre viene raccontato, idealizzato, compare il mito del padre-eroe, l’orgoglio per il genitore che combatte per la libertà del mondo dall’oppressore, e che tanto viene atteso, immaginando il suo rientro, soprattutto nel romanzo familiare e fortemente autobiografico Piccole Cronache, mito che in seguito viene ribaltato in Scenari d’esilio, dove è la protagonista a salvare il padre indifeso e inerme minacciato da un crostaceo gigante nella parabola La città di luce. Nonostante la figura del padre compaia soprattutto nella produzione più autobiografica è sempre la storia familiare raccontata dentro la storia universale: senza conoscere il passato non si può costruire il futuro.75 Il Fascismo esiste ancora e sta in mezzo a noi, è tutto ciò che impone qualcosa violando la libertà.76

I.5 Il multiforme impegno letterario Maria Giacobbe è un’artista eclettica che durante la sua lunga carriera si è occupata della letteratura in diverse forme: da traduttrice a critico letterario, da saggista a giornalista, oltre ad essere una scrittrice di prosa e poesia. Tra i suoi lavori di traduzione in italiano si possono ricordare il romanzo dello spagnolo Juan Goytisolo Lutto in paradiso e le opere dei danesi Per Kirkeby Studio dal vero e Bravura e di Ludvig Bødcther Tra Roma e i Colli Albani, oltre ai volumi Cinque film di C. 74

Cfr. Ivi, pp. 16, 35, 115, 117. Maria Giacobbe durante il suo intervento nella presentazione del documentario Il partigiano Dino di Antonio Rojch, Nuoro, Teatro Eliseo, 18 ottobre 2012. 76 Ibidem. 75

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T. Dreyer e Georg Brandes in Italia.77 Ha tradotto in italiano dal danese e dallo spagnolo per Einaudi, Comunità Feltrinelli, e dall’italiano in danese le opere di Eduardo de Filippo e di Dario Fo.78 Si può ricordare il volume di poesie inedito in Italia del 1978 Voci e lettere dalla provincia europea. Ha curato l’antologia Giovani poeti danesi (1979)79 per Einaudi e Poesia moderna danese (1971).80 In qualità di saggista e giornalista, dal 1956 al 1963 collaborò al settimanale «Il mondo» di Mario Pannunzio con articoli sulla Sardegna e sulla Danimarca e in seguito a diversi periodici italiani e stranieri: «Comunità», «Tempo Presente», «Critica Sociale», «Il Veltro», «La Grotta della vipera», «Uomini e Libri», «L’Unione Sarda» per l’Italia. Per le sue collaborazioni con il quotidiano «L’Unione Sarda» nel 1958 le viene assegnato il XXII Premio Iglesias di giornalismo. In Danimarca collabora inoltre ai programmi culturali della Danmarks Radio e della televisione.81 Il lavoro di critico letterario è rivolto in grande misura alla Sardegna, con una monografia sull’opera e la personalità della scrittrice nuorese Grazia Deledda e con un contributo al Convegno di Studi in onore di Salvatore Satta, anch’esso scrittore e nuorese. In queste opere rende omaggio, con il suo particolare spirito critico, senza adulazione ma con partecipazione, a due autori che con essa condividono la professione, la passione per la letteratura e la terra d’origine. Inoltre scrive la Prefazione a Perdu dello scrittore sardo Paride Rombi. 77

Cfr. MARINA ADDIS SABA, Profilo bio-bibliografico di Maria Giacobbe…, p. 52. Cfr. FRANCA SINI, Il “chi è?” delle donne sarde…, p. 104. 79 Giovani poeti danesi, a cura di MARIA GIACOBBE, Torino, Einaudi, 1979. 80 Poesia moderna danese, a cura di MARIA GIACOBBE, Milano, Edizioni Comunità, 1971. 81 Cfr. MARINA ADDIS SABA, Profilo bio-bibliografico di Maria Giacobbe…, pp. 51, 52. 78

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Nel saggio Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna del 1974, pubblicato durante la stagione del “Neorealismo sardo”,82 Maria Giacobbe ci consegna un discorso di grande suggestione e di estrema utilità per intendere un’opera complessa e intensa, delineando e analizzando con grande acutezza critica l’opera, presentando la biografia ma anche la storia e l’ambiente nel quale visse l’autrice, componenti che le conferirono quelle particolarità artistiche riscontrabili nella sua scrittura.83 «Questo libro è pregevole anzitutto perché esprime un punto di vista particolare e raro (forse unico) sulla personalità e l’opera di Grazia Deledda, scritto, come è, da un’altra donna, anche lei nuorese di nascita e scrittrice».84 Per Maria la Deledda è «una grande scrittrice, e una narratrice nata»85 che dedica alla Sardegna tutta la sua produzione raccontando una realtà mai prima di allora raccontata, e nel descrivere l’Isola tocca temi di portata universale pur presentando «non la Sardegna ma la sua Barbagia»,86 «un’isola nell’Isola».87 La Giacobbe già dal titolo della monografia riassume in tre parole il tratto caratteristico di Grazia Deledda: Introduzione alla Sardegna. È grazie alla produzione letteraria della scrittrice nuorese di fine Ottocento che l’Isola diventa protagonista e scenario delle sue opere. Maria racconta la storia dell’Isola passando dai conquistatori Fenici ai Romani, dagli Spagnoli ai Piemontesi, dalla Legge delle chiudende al 82

Durante il breve periodo del neorealismo sardo gli autori scrivono testi animati da una forte tensione morale e civile, persuasi di poter trasformare positivamente la realtà regionale. Cfr. PAOLA PITTALIS, La scrittrice sul confine, in MARIA GIACOBBE, Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna, Milano, Bompiani, 1974, p. 19. 83 Cfr. LUIGI LOMBARDI SATRIANI, Prefazione, in MARIA GIACOBBE, Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna…, p. 11. 84 PAOLA PITTALIS, La scrittrice sul confine…, p. 19. 85 MARIA GIACOBBE, Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna…, p. 86. 86 Ivi, p. 69. 87 Ivi, p. 68. 29


banditismo sardo, descrivendo con acutezza la città di Nuoro ai tempi della Deledda, «rigida nella sua composizione sociale e culturale»:88 Nuoro avrebbe […] potuto far pensare a una Sparta barbarica, concentrata […] nell’esercizio di una sua ostinata difesa che era rifiuto e chiusura verso tutto ciò che, essendo nuovo, non apparteneva a quella tradizione autoctona di cui era fiera e che era la sua stessa ragione di esistere.89

La Giacobbe ricostruisce con appassionato fervore la secolare vicenda storica dell’isola: una messa a fuoco esemplare del difficile rapporto tra una regione periferica e il centro politico (o meglio il dominatore di turno).90 Infatti la comprensione della scrittrice Deledda non può essere svincolata dalla comprensione dell’ambiente nel quale visse e si formò la sua personalità, e nel quale si proiettano nel mondo sardo, nella sua tradizione culturale, tutte le fantasie e i racconti della sua vasta produzione letteraria; Maria «delinea un efficace quadro della Sardegna antica e moderna attraverso il ritratto della sua maggiore interprete letteraria».91 La Giacobbe analizza temi, scrittura, lingua, descrive alcune opere, lo stile dell’autrice, i personaggi, gli ambienti e i tempi della narrativa deleddiana, passa in rassegna la critica fatta fino ad allora su Grazia Deledda, cercando di dare una visione autentica e reale della scrittrice che vinse il Nobel e che poco fu compresa dai critici italiani. «Particolarmente interessanti sono le notazioni di Maria sulla lingua adoperata da Grazia Deledda che mostrano piena padronanza critica del rapporto lingua-cultura»:92

88

Ivi, p. 33. Ivi, p. 43. 90 Cfr. PAOLA PITTALIS, La scrittrice sul confine…, pp. 20-21. 91 LEANDRO MUONI, Grazia secondo Maria. Una storia di Sardegna vista con occhi di donne, «La Nuova Sardegna», 11/10/1999, p. 52. 92 LUIGI LOMBARDI SATRIANI, Prefazione…, p. 12. 89

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per Grazia Deledda l’italiano fu e restò tutta la vita una lingua non appresa naturalmente e durante l’infanzia dalla bocca dei vicini e dei familiari, ma una lingua imparata artificialmente, per atto di volontà.93

I problemi che Maria affronta in quest’opera sono anche di ordine più generale, non riguardano soltanto la Sardegna, ma investono tematiche connesse alla nostra condizione attuale, tratti da illuminare per comprendere meglio la nostra stessa temperie culturale e politica.94 Apre la mente a riflessioni sulla situazione della Sardegna d’oggi, isola vittima della colonizzazione e dell’inquinamento culturale straniero.95 Maria Giacobbe, partendo dall’opera di Grazia Deledda, «elabora domande di fondo sui processi acculturativi del nostro tempo»:96 che cosa è vera civiltà? che significato ha in definitiva il termine progresso? possono darsi una civiltà e un progresso che non siano frutto di libera evoluzione interiore, di autoconquista, ma che siano imposte con le armi e con l’abolizione violenta di regole e consuetudini che non abbiano compiuto nella coscienza comune il loro ciclo storico, che non siano state superate dall’interno?97

Con equilibrio critico, chiarezza e passione l’autrice sardo-danese ricorda la mancanza d’impegno e d’interesse storico, l’apoliticità98 della Deledda, una «spettatrice agnostica»99 nel raccontare con semplicità la sua Isola, e ci mostra come si possa essere universali e, contemporaneamente, profondamente radicati in una terra, in una cultura continuamente riplasmata dalla propria fantasia, dove

93

MARIA GIACOBBE, Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna…, p. 79. Cfr. LUIGI LOMBARDI SATRIANI, Prefazione…, pp. 13-14. 95 Cfr. FERNANDO PILIA, Maria Giacobbe e le sue «radici»…, p. 9. 96 LUIGI LOMBARDI SATRIANI, Prefazione…, p. 15. 97 MARIA GIACOBBE, Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna…, pp. 48-49. 98 Cfr. ivi, p. 51. 99 Ivi, p. 122. 94

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memoria, storia e nostalgia si incontrano e danno pregnanza alla parola, che è datrice di senso e fondatrice di realtà.100 «Maria Giacobbe ci dice cose di grande interesse, con la sua chiarezza e la sua passione da sarda, in una lettura che è, si potrebbe dire, da donna a donna, da sarda a sarda, da scrittrice a scrittrice».101 La Giacobbe ce la presenta come solitaria e ribelle autodidatta, che scrive in una lingua non sua, restando fedele al suo mondo soltanto nella tematica, ignara delle correnti culturali del mondo a lei contemporaneo, dal marxismo alla psicanalisi, una grande scrittrice che chiude un’epoca, mentre Kafka, Musil, Proust ne aprono un’altra. E ancora la dice estranea alla storia, di una radicale apoliticità, come la sua terra immobile nel tempo.102 Ma in seguito questo critico dissente sull’apoliticità della Deledda e sul fatto che le correnti di pensiero del marxismo e la psicanalisi erano bandite dal fascismo e ignote alla maggior parte della popolazione. Ed ancora lamenta la mancanza di uno studio organico e sistematico sull’autrice Grazia Deledda.103 Oltre a condividere il luogo di nascita, la città di Nuoro, gli stessi paesaggi, seppure le due scrittrici siano di generazioni diverse, le legò l’amicizia familiare, la condizione di emigrate spontaneamente dall’Isola, l’esilio volontario, la scrittura in italiano invece che in sardo per motivazioni completamente diverse, l’estraneità nella loro città di nascita mantenendo con essa però un legame fortissimo, e la

100

Cfr. LUIGI LOMBARDI SATRIANI, Prefazione…, pp. 15,16, 17-18. MARINA ADDIS SABA, «Società Sarda», periodico di nuovo impegno, nel fascicolo a. 1999, n°11, p. 69. 102 Cfr. ibidem. 103 Cfr. ivi, p. 70. 101

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memoria del luogo d’origine rielaborato con la fantasia, tanto che in entrambe è presente e costante nella loro produzione artistica. Maria Giacobbe interviene con un contributo al Convegno di Studi sul concittadino e scrittore Salvatore Satta nel 1989, professando inizialmente la sua umiltà di fronte a tanti studiosi e specialisti di letteratura e di diritto, poiché non si ritiene una studiosa al loro pari, ma proponendo la sua personale prospettiva, il suo punto di vista sulla personalità dello scrittore e sull’ambiente nel quale esso si è formato:104 Questi uomini e queste donne sono seduti in cerchio, attorno a un fuoco o a una bottiglia di vino, o in fila l’uno accanto all’altro e forse non si guardano neppure, mentre sono intenti alla loro occupazione privilegiata, che è quella dell’ascoltare e del raccontare.105 Ciò che questi uomini e queste donne sono intenti a raccontarsi sono storie di altri uomini e altre donne che hanno vissuto o ancora vivono nelle stesse strade, […] queste storie che già altre volte loro stessi hanno raccontato e che a loro sono state raccontate. E la cui ripetitività, lungi dall’annoiare ha una sua funzione e un suo valore che sono fondamentali, essendo per queste donne e questi uomini il raccontare e l’ascoltare quasi l’inconscia celebrazione d’un rito tribale. Una necessaria conferma del loro vivere individuale e comunitario. Gli uomini e le donne che lo celebrano, questo rito del raccontare e del raccontarsi, sono uomini e donne che la Storia nel suo percorso ha spesso duramente colpito ma che non ha mai interrogato, sono uomini e donne che perciò hanno potuto credere di non partecipare alla Storia, che si sono rassegnati alla Storia e che raccontando e ripetendo le loro storie hanno cercato di fermare il tempo, non di trasformarlo.106

La nostra autrice ci consegna con queste parole una visione particolare della vita quotidiana del proprio ambiente d’origine, l’«antica propensione nuorese all’ascolto»,107 il tradizionale rito ciclico del raccontare e dell’ascoltare le storie nella sua città natale, la facilità di apprendere da parte di tutti coloro che lo volessero, e sin 104

Cfr. MARIA GIACOBBE, Salvatore Satta a Nuoro…, p. 493. Ivi, pp. 493-494. 106 Ivi, p. 494. 107 Ibidem. 105

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dall’infanzia, queste narrazioni dai familiari, compaesani, parenti e vicini di casa nelle cucine, nei cortili, nei bar, eredità comune agli scrittori nuoresi Salvatore Satta e Grazia Deledda, ed anche a Maria Giacobbe. Tre autori accomunati anche dalla condizione d’esiliati rispetto alla loro patria perché vivono tutti lontani dall’Isola, ma nei quali è costante il richiamo alla Sardegna perché tutto il male e il bene che fai lo fai per Nuoro. Dovunque tu vada, Nuoro t’insegue, s’apposta come un brigante all’angolo della strada o come un esattore che vuole le sue gabelle.108

Salvatore Satta è un giurista sardo che vive in Italia, fuori dall’Isola, a volte rientra in vacanza nella sua Nuoro, e per due volte nella sua vita si lasciò andare a questo impulso ereditario di raccontare, sempre in momenti tragici della sua vita, e si fece scrittore entrando nel rito del racconto con la narrazione dei miti e delle storie della sua terra: si è dedicato totalmente agli studi e ha represso quel suo segreto male nuorese, quel suo nuorese bisogno di raccontare. […] Forse fu la gravità d’una malattia […], che lo fece indulgere con se stesso e l’indusse ad auto concedersi la tregua, la sosta d’un racconto. Ma non ci fu ascolto e comprensione da parte del pubblico al quale si rivolse. E fu per lui la delusione cocente, e fu da allora, almeno apparentemente, la totale rinunzia alla vocazione del raccontare e la dedizione totale allo studio severo del diritto.109 […] sentendo approssimarsi la morte, di nuovo fu indulgente con se stesso e si concesse di ri-raccontare, prima di tutto a se stesso, quelle storie nuoresi che tanti anni prima aveva sentito raccontare o aveva vissuto. Quelle storie impietose eppure coinvolgenti, concrete e misteriose, quasi incomprensibili, intrise di quotidiano e metafisiche, ripetitive e magicamente prive di monotonia, rudi e barbariche eppure affascinanti nella loro complessità mitologica. Si concesse finalmente di ri-raccontare a se stesso quelle storie che si era portato dentro tutta la vita. Ma […] quelle storie uscirono trasformate. Crudeli e impietose come sempre erano state, ma più disperate, più metafisicamente enigmatiche, universali. E con esse […] è ritornato alla sua Nuoro odiata e amata. 108 109

Ivi, p. 496. Ibidem. 34


Ma quelle stesse storie, diventate da nuoresi universali, nel momento in cui lo restituiscono a Nuoro, consegnano al mondo il narratore che, con le sue inquietudini e con i suoi miti d’un oltretomba sempre presente, può parlare e già parla ai pubblici di tutte le lingue del mondo.110

Sia nell’opera sulla Deledda che nel contributo per la celebrazione di Satta, nella critica letteraria su autori sardi, si trovano dei punti di contatto, dei temi e degli ambienti comuni tra gli scrittori presi in esame dalla nostra autrice e la Giacobbe stessa, soprattutto per la condizione biografica dell’esiliato e il conseguente tema dell’esilio, della lontananza, della condizione dell’emigrato e nella costante rappresentazione della Sardegna, dove ognuno, a suo modo, racconta la propria immagine dell’Isola. Nella Prefazione al romanzo Perdu di Paride Rombi111 la Giacobbe, introducendo il romanzo nella nuova edizione del 2000 e descrivendo la personalità e la biografia dell’autore, gli scenari, i temi e la storia che viene narrata, ci illumina sulla sua poetica e sui propri modelli letterari e gli anti-modelli, racconta la sua concezione della scrittura, il motivo che porta alla genesi di un romanzo o di una narrazione, che per la nostra autrice, nella sua scrittura, è l’urgenza di voler documentare una realtà che si vuole profondamente trasformare: Una genesi letteraria che […] io stessa, insieme a molti altri scrittori, conosco per esperienza personale e alla quale io, come donna, ho più di una volta dato una connotazione quasi fisiologica assomigliando la stesura del libro a un parto facile e felice dopo una gravidanza non del tutto voluta e per una parte del suo decorso inavvertita.112 Ma simili “parti miracolosi”, specialmente nel caso di “opere prime” […], non mancano di presentare anche qualche problema, o svantaggio, dovuto il più delle volte all’ingannevole facilità con cui il testo è stato composto e alla conseguente 110

Ivi, p. 497. La prima edizione del romanzo è del 1952, anno in cui vinse anche la prima edizione del “Premio Grazia Deledda”. 112 MARIA GIACOBBE, Prefazione, in PARIDE ROMBI, Perdu…, p. 15. 111

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mancanza di quella severa autocritica che nella scrittura dovrebbe sempre seguire la fase creativa e che, quando e se manca, fa rischiare all’autore di mandare per il mondo un figlio un po’ claudicante.113

Maria confessa di non aver apprezzato immediatamente questo romanzo nella sua prima edizione avvenuta nel dopoguerra, un momento storico, politico e culturale importante per la Sardegna ed i suoi abitanti che si avvicinavano alla modernità. Cercando delle trasformazioni e non trovando in Perdu delle nuove strade, dei cambiamenti, delle innovazioni che potessero modificare la realtà e la società isolana, ne aveva severamente giudicato e notato con asprezza solo i difetti, considerandolo a quei tempi un prodotto anacronistico, remoto.114 Ora che la modernità è entrata a far parte della vita dell’Isola, i timori, le riserve e le prospettive dell’autrice e lettrice Maria su questo romanzo, che collega agli arcaici e anacronistici moduli deleddiani, ma che nell’epoca contemporanea non possono più danneggiare la realtà sociale isolana, scompaiono e cambiano poiché corregge il suo pregiudizio e rende il giusto merito a Rombi, in veste di critico letterario abbandona l’impulsività della prima lettura per dedicarsi alla rilettura razionale e imparziale di quest’opera, analizzandone «vantaggi e svantaggi, e cioè anche pregi e difetti»,115 e rammaricandosi del fatto che questo narratore non solo non fu preso per niente in considerazione dalla critica italiana ma ancor meno parole dedicano a lui eminenti storici e critici della letteratura sarda.116 Anche in questo autore sardo, come nei precedenti scrittori esaminati, il filo conduttore è sempre l’Isola come scenario e protagonista del romanzo con i suoi paesaggi, la società sarda e la 113

Ivi, p. 16. Cfr. ivi, pp. 17, 20, 21. 115 Ivi, p. 16. 116 Cfr. ivi, pp. 22, 23, 24. 114

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memoria della sua terra,117 e sebbene Paride Rombi viva lontano dall’Isola, l’autrice spiega: come è quasi regola per molti artisti, a imporglisi nel momento creativo erano i paesaggi e la condizione umana che avevano improntato il suo mondo negli anni formativi dell’infanzia.118

I.6 Il contributo di Maria Giacobbe per la Sardegna: il dibattito su identità, autonomia e lingua sarda […] c’è da augurarsi che i Sardi, proprio nel momento in cui più facilmente potrebbero essere spazzati via dalla faccia della terra sotto il doppio insidiosissimo attacco della civiltà industriale e della civiltà delle immagini, capiscano finalmente che il voler soltanto “conservare” non è […] che disperata dichiarazione di sconfitta. Solo se, riflettendo sulla propria storia e riallacciandosi in modo fattivo alle proprie origini, essi riescono a capire da uomini liberi il loro presente, essi riusciranno anche a prospettarsi un futuro nel quale ci sia posto per loro come etnos. […] uomini vivi e nuovi e sardi i quali, per poter appartenere alla grande famiglia umana non da generici e spaesati “cittadini del mondo”, o da spettatori impotenti, siano finalmente e liberamente cittadini coscienti, attivi e partecipi del loro universo sardo.119

Maria Giacobbe si caratterizza come un’autrice e una personalità fortemente impegnata sul piano sociale e civile, non solo nella produzione narrativa ma anche nei saggi, nelle conferenze, nelle interviste, negli articoli sui quotidiani e nelle riviste culturali, cercando con la sua esperienza diretta e con la sua opera letteraria di testimoniare la realtà della situazione sarda nella sua arretratezza e nei suoi limiti, ma anche nelle sue possibilità di rivincita e reazione; analizzandola attraverso la storia, l’economia, la politica, la tradizione e la società dimostra, in un dibattito che dura dagli anni Sessanta del Novecento e che ancora è lontano dalla conclusione, uno spirito 117

Cfr. ivi, pp. 8, 9, 10. Ivi, p. 9. 119 MARIA GIACOBBE, Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna…, pp. 124-125. 118

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combattivo che non si vuole arrendere e che ha speranza nel cambiamento positivo per l’Isola, e il grande desiderio di giustizia universale che la anima soprattutto nei confronti dei popoli e degli individui sottomessi. Negli anni Sessanta gli intellettuali sardi contribuirono al dibattito sull’autonomia, che si espresse nella miglior forma e risultato nella rivista di cultura «Ichnusa» negli anni 1949-1964, con un’interruzione dal 1951 al 1956, sede dei dibattiti e di riunione delle forze culturali più avanzate dell’Isola che portava avanti l’ideologia di una Sardegna moderna ed autonoma che uscisse dal regionalismo, - purtroppo furono le forze politiche e non quelle degli intellettuali a condurre la battaglia sull’autonomia.120 Negli anni Settanta gli intellettuali isolani, sempre più inseriti nella cultura nazionale ed europea, mentre si trasformava la questione sarda, non riguardando più soltanto contadini e pastori, ma il mondo industriale e minerario, portarono avanti la difesa dell’autonomia in modo indipendente e sempre separato dalle forze politiche.121 La tendenza del capitalismo a penetrare sempre più profondamente nelle zone periferiche economico-sociali, porta a ripensare in nuovi termini il problema della «dipendenza» sia economico-politica che culturale. L’ambito tradizionale del dibattito sulla questione sarda è stato quasi esclusivamente quello politico e sociale, cercando di stabilire le cause economiche e sociali dell’arretratezza e solo sporadico è stato il riferimento alle peculiarità linguistiche e culturali.122

120

Cfr. GIANNETTA MURRU CORRIGA, Introduzione, in Etnia Lingua Cultura, un dibattito aperto in Sardegna, a cura di GIANNETTA MURRU CORRIGA, Cagliari, Edes, 1977, pp. 9-10. 121 Cfr. ivi, pp. 14-15. 122 Cfr. ivi, pp. 20-21-22. 38


Nella Prefazione all’edizione del 1975 di Diario di una maestrina e Piccole cronache in un unico volume, Maria Giacobbe, a diciotto anni di distanza dalla prima edizione, riepiloga i fallimenti del Piano Rinascita,123 della riforma agraria e industriale, delle iniziative politiche, economiche e finanziarie rivolte alla Sardegna, con un’acuta e sottile analisi sociale insieme alla sua testimonianza del periodo dal 1957 al 1975, provvedimenti che non portarono a delle trasformazioni positive, per cui giunge alla grave e dolente conclusione che purtroppo non molto è cambiato per i sardi dalla prima edizione della sua prima opera: Invecchiano i romanzi, e persino i libri di poesia invecchiano; a maggior ragione e più rapidamente dovrebbero invecchiare delle opere come queste due mie che non hanno mai preteso essere altro che testimonianze. Per meglio dire, avrebbero potuto e dovuto invecchiare, […], se la società sarda e italiana che vi veniva descritta in alcuni dei suoi aspetti e settori, si fosse evoluta guarendo e crescendo dai mali che allora la affliggevano e che, […], segnavano i destini e le vite dei personaggi dei due libri. Allora il dispiacere di doverli considerare come dei piccoli oggetti da museo, anziché strumenti ancora utili, sia pure nella loro modestia, sarebbe stato per me considerevolmente minore di quello che provo quando sono costretta ad ammettere che, sebbene con qualche cambiamento e non sempre per il meglio, la realtà sociale e umana che me li aveva suggeriti è fondamentalmente immutata.124 Era una Sardegna povera quella che avevo descritto, ma una Sardegna che forse stava per svegliarsi e rialzarsi. […] Però, in attesa del Piano Rinascita, già cominciavano ad avvenire delle cose importanti che avrebbero potuto trasformare la Sardegna in un ridente giardino.125 Una rinascita scaturita dal basso e che sarebbe stata economica e morale insieme, perché l’una non è concepibile se disgiunta dall’altra. 123

Il Piano di Rinascita, approvato nel giugno del 1962, prevedeva un ingente finanziamento aggiuntivo per la Sardegna agli stanziamenti ordinari in modo da favorire l’occupazione ed investire sulle tradizionali risorse sarde favorendone di nuove che riversassero i loro profitti nell’Isola, ma così non fu perché gli stanziamenti ordinari non furono erogati, per cui i fondi del Piano vennero utilizzati per opere di carattere ordinario perciò lo sviluppo economico e il progresso dell’Isola venne nuovamente rimandato. Cfr. MARIA GIACOBBE, Prefazione a Diario di una maestrina-Piccole cronache, Bari, Laterza, 1975, pp. XI, XII, XIV. 124 Ivi, p. IX. 125 Ivi, p. X. 39


Ma gli anni purtroppo passavano, senza che la montagna riuscisse a partorire il topo. Quell’autonomia amministrativa di cui la regione godeva e che avrebbe dovuto colmare il solco che, per evidenti ragioni storiche e geografiche, in Sardegna più che altrove separava lo Stato dal cittadino, non riusciva a diventare operante.126

«Quelle pagine introduttive sono, quindi, il dolente inventario delle attese tradite, delle speranze vanificate da uno svolgimento della prassi costantemente contrario alle legittime aspettative».127 Insieme sono arrivati gli echi del cosiddetto « miracolo economico italiano »: attraverso i rotocalchi, il cinema e la televisione, il « mondo moderno » si presenta col suo aspetto di una felicità tutta basata sulle possibilità di consumare, di spendere, di sprecare. Una sfida, una risposta offensiva alle abitudini e alla necessità di parsimonia del mondo rurale sardo.128 Il diffondersi a tutti i livelli e il coagularsi in forme sempre più concise e politicizzate del vecchio e mai spento sentimento di una speciale appartenenza etnica da difendere, sono prove della convinzione che si sta facendo strada fra i Sardi che negli ultimi decenni è stato perpetrato ai loro danni uno dei più grandi tradimenti della loro storia, e forse il più fatale e definitivo. Nel quadro di questa presa di coscienza politica rientrano episodi come l’occupazione, […], dei pascoli di Pratobello per difendere il diritto dei pastori a restarvi, contro la destinazione a uso militare che se ne era fatta; rientra la resistenza della popolazione di Lula alla costruzione nel territorio del suo comune di un’altra industria parassitaria e inquinante […]; rientrano i numerosi dibattiti e le numerose iniziative prese dai nuovi circoli culturali sorti e operanti in diverse città e paesi dell’Isola.129

Nel dibattito sul problema delle minoranze,130 «il problema del nostro diritto o meno di essere sardi, o addirittura di esistere»,131 e non 126

Ivi, p. XI. GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 268. 128 MARIA GIACOBBE, Prefazione a Diario di una maestrina-Piccole cronache…, p. XVII. 129 Ivi, p. XXII. 130 Il problema delle minoranze etnico-linguistiche riguarda le regioni inserite per conquista o per trattato in una realtà nazionale diversa da quella originaria, che rivendicano con quest’ultima una continuità storica, linguistica e culturale. In Sardegna questa tematica si è innestata su quella autonomistica tradizionale e dal 1975 ha dato luogo a un dibattito acceso e a diversi movimenti autonomistici. Cfr. GIANNETTA MURRU CORRIGA, Etnia Lingua Cultura…, pp. 5-6. 131 MARIA GIACOBBE, Il dovere di vivere, in Etnia Lingua Cultura…, p. 91. 127

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solo linguistiche, ma etniche e culturali, che ha per oggetto la Sardegna, nonostante si senta «Ke mariane in mesu ebbas»,132 Maria interviene ammettendo di non essere una specialista, sentendosi impreparata ed essendo anche distante dal teatro del dibattito, ma volendo comunque raccontare il suo punto di vista e la sua riflessione, nella condizione particolare ma non rara di emigrata che non parla il sardo, lingua delle origini e dell’ambiente familiare nel quale è nata e cresciuta, perché non fu stimolata a farlo, perché mai nessuno le insegnò a scrivere nella lingua che doveva essere per natura la sua. La scrittrice vive con rimpianto e come una menomazione, che peraltro condivide con altri suoi conterranei, l’ignoranza della lingua sarda, come l’esser stata vittima di un piano ben architettato di sradicamento linguistico ed etnico, quasi un Genocidio, se si pensa alla fallimentare politica economica sarda che portò al grande fenomeno migratorio dalla Sardegna nella metà del secolo:133 l’emigrazione aumentava e aumenta di anno in anno. Una emigrazione in molti casi disorganizzata e avventuristica che spesso, dalla povertà del villaggio, non conduce che alla miseria ancora più squallida.134

132

Ibidem. Il significato della locuzione in sardo “Ke mariane in mesu ebbas” è in italiano “Come la volpe in mezzo alle cavalle”, un modo proverbiale per indicare «qualcuno che abbia l’ardire di mescolarsi a persone più grandi di lui» in MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 23. Questa locuzione riemerge nella mente e nella penna di Maria Giacobbe ogni volta che si trova di fronte ad un momento di crisi e deve parlare davanti a teorici, specialisti volendo illustrare il proprio punto di vista con umiltà. Diversamente da quanto riportato dalla curatrice di Etnia Lingua Cultura nell’introduzione al volume, non c’è rapporto fra il succitato saggio di Maria Giacobbe e l’articolo apparso su «L’Unione Sarda» dal titolo I dialetti proibiti, fra l’altro risalente al 14/03/1976 a p. 3 e non al 04/03/1975, p. 3. Nell’articolo in questione l’autrice chiarisce ulteriormente la propria visione a difesa delle lingue minoritarie parlando della lotta del governo francese contro il regionalismo della Corsica. 133 Cfr. MARIA GIACOBBE, Il dovere di vivere, in Etnia Lingua Cultura…, pp. 91-92, 94, 98. 134 MARIA GIACOBBE, Prefazione a Diario di una maestrina-Piccole cronache…, p. XVII. 41


Nei villaggi […] sono rimasti i vecchi, dei quali si attende la morte, e i bambini che appena ne avranno l’età cercheranno di fuggire anche loro. Sono rimasti […] uomini e donne molto testardi e coraggiosi, o troppo rassegnati.135 […] i miei sospetti sulla possibile scaltrezza che forse si nasconde sotto l’apparente insipienza di coloro i quali in questi ultimi venti anni hanno manipolato i destini della mia isola. La parola genocidio ha cominciato a non sembrarmi sproporzionata.136

Maria è convinta della «necessità morale di appoggiare ogni iniziativa tendente ad aiutare i sardi a ritrovare la coscienza di se stessi e dunque a liberarsi anche economicamente e politicamente. Aiutarli cioè a non lasciarsi sopprimere».137 Quando io ero bambina, e dunque in pieno periodo fascista, il parlare in sardo, il cantare in sardo, il danzare i balli tradizionali sardi, erano considerati come un parlare, un cantare, un danzare da servi, come prova di appartenenza alle classi inferiori.138

Storicamente e linguisticamente la decadenza della lingua sarda a favore della lingua italiana cominciò con l’Unità d’Italia nel 1861, quando la Sardegna entrò a far parte a tutti gli effetti del governo nazionale e vennero inviati maestri toscani per insegnare nelle scuole dell’Isola dove i bambini sardi apprendevano la storia, la geografia e la loro seconda lingua, straniera, l’Italiano, senza però una regolamentazione, nata solo negli anni Novanta del Novecento, per la difesa e la trasmissione della lingua sarda che non veniva insegnata nelle scuole, né tantomeno la cultura e la storia sarde, perché la Sardegna faceva parte dell’Italia e doveva uniformarsi al modello linguistico, storico e culturale dei dominatori. Ancora ai primi del Novecento però la popolazione era quasi completamente analfabeta e 135

Ivi, p. XVIII. Ivi, p. XXI. 137 MARIA GIACOBBE, Il dovere di vivere, in Etnia Lingua Cultura…, p. 98. 138 Ivi, pp. 92-93. 136

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la maggioranza di essa si esprimeva in sardo, fu con il boom economico degli anni Sessanta e l’arrivo nelle case sarde della televisione, grande mezzo di comunicazione e d’insegnamento di un Italiano standard senza inflessioni regionali, che le madri stesse non parlarono più ai loro figli in sardo ma in italiano, considerando questa seconda lingua la più prestigiosa, la lingua nazionale che dà possibilità economiche, lavorative e si riduceva in questo modo sempre di più alla sola cerchia familiare l’uso del sardo, o si andava perdendolo progressivamente del tutto. Durante gli anni Settanta il turismo, l’emigrazione, le nuove comunicazioni ebbero la conseguenza di un contatto più stretto con il continente. […] se […] «le lingue muoiono», la loro morte deve essere un lento processo di trasformazione […], non la conversione forzata in una lingua già esistente e impostasi con la violenza del «dato di fatto politico». Perché in questo secondo caso la morte non sarebbe un trapasso naturale ma un assassinio.139 Dando alle qualità culturali che ci distinguevano in quanto sardi un segno negativo, deprezzante, questa classe egemone e straniera raggiungeva il risultato che si proponeva e che era quello di fare di noi dei rinnegati, cioè degli schiavi più facilmente manovrabili. Subdolamente ci persuadevano che sardo coincidesse con incivile, con subordinato […]. Privandoci della nostra lingua, negandoci la conoscenza della nostra storia […] si garantivano contro una nostra pericolosa presa di coscienza, contro una nostra eventuale pretesa di diventare protagonisti della nostra storia. 140 […] il solo problema a questo riguardo fu ed è il rimpianto che, […] il mio bilinguismo sardo-italiano sia stato e sia rimasto irrimediabilmente monco.141

Maria Giacobbe in diverse occasioni esprime la sua opinione sulla cultura sarda battendosi perché la sua autonomia e peculiarità siano riconosciute e apprezzate, nel concreto ha lavorato sempre per far

139

Ivi, p. 97. Ivi, p. 93. 141 MARIA GIACOBBE, Lingue e variabili appartenenze. Lectio doctoralis, in Maria Giacobbe, Laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere…, p. 31. 140

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conoscere la cultura sarda oltre i confini italiani e soprattutto nella sua seconda patria, la Danimarca, non lasciandosi però intaccare dai fondamentalismi o dall’isolazionismo, contro i quali si può ricordare un articolo in cui propone di raccogliere tutti gli studi di ricercatori stranieri sulla Sardegna con criteri di scientificità ma senza chiudersi in un atteggiamento acritico e prevenuto contro tutti coloro che, da non sardi, vogliano occuparsi della Sardegna in uno qualunque dei suoi aspetti: La rinunzia alla collaborazione culturale e allo scambio di cui il nostro come tutti i paesi del mondo ha bisogno, mi pare francamente dell’insensato isolazionismo.142

Sempre durante gli anni Settanta nasce il dibattito sulle regioni oppresse, per la difesa e la conservazione della cultura regionale, della lingua sarda: uno degli effetti positivi per la scrittrice è la pubblicazione e la traduzione di molte opere in sardo, tra cui anche la sua Pòju Luàdu.143 Maria Giacobbe scrive in italiano e fa tradurre le sue opere in danese, non si vuole identificare con una sola nazione, etnia o cultura rinnegando le altre, essendo la lingua o le lingue che usiamo una parte inscindibile della o delle identità di ciascuno di noi, ed essendo l’identità o le identità un risultato della nostra, anzi delle nostre molteplici appartenenze.144

Questo atteggiamento è riscontrabile nella sua personalità come nelle sue opere, la multiculturalità, l’aspetto internazionale ed universale che contraddistingue l’autrice: 142

MARIA GIACOBBE, Raccogliere tutti gli studi sulla Sardegna che sono stati fatti da ricercatori stranieri, «Nazione Sarda», Giugno-Luglio 1978, p. 15. 143 MARIA GIACOBBE, Pòju Luàdu, Traduzione in sardo di Giagu Ledda, Sassari, Edes, testo in italiano del 2005, traduzione del 2012. 144 MARIA GIACOBBE, Lingue e variabili appartenenze. Lectio doctoralis…., p. 46. 44


Una vita ormai lunga mi ha confermato che, senza tradire niente e nessuno, il mio essere nata in Sardegna, a Nuoro, nel quartiere di San Pietro, non può e non deve impedirmi di sentirmi ed essere come i miei figli e, direi, come l’ambiente culturale e fisico che mano a mano si è creato nella mai casa copenaghese, l’ambiente pluriculturale e multilingue nel quale loro sono cresciuti e nel quale io vivo e mi riconosco – di sentirmi ed essere, dicevo, anche italiana, danese e europea. E anche “mediterranea”.145

L’autrice parla diverse volte di identità, di ciò che significa l’appartenenza nella sua particolare condizione esistenziale di vita in una terra straniera, lontana dalla sua terra d’origine: Ma fra tutte le identità, o appartenenze come preferisco chiamarle, quelle che ho avuto per nascita e quelle che ho acquistato con gli anni e che felicemente convivono dentro di me, vorrei non dimenticare mai la più importante che è, o dovrebbe essere, la mia appartenenza al grande consorzio umano col quale divido, non solo entro i confini fisici o politici di un’isola o di una penisola o un continente, ma anche al di là di questi, una responsabilità per il destino del vulnerabile pianeta sul quale e del quale noi tutti viviamo.146

Nella recente sfida, lanciata da Giulio Angioni nel volume Cartas de logu, Scrittori sardi allo specchio, a diversi scrittori contemporanei nati in Sardegna, residenti nell’Isola o altrove, per parlare e raccontare d’identità sarda e in che cosa consiste la diversità, perché «vivere in quest’isola a volte è impegnativo, quanto l’andarsene o il restarci, e magari scriverne»,147 Maria Giacobbe esprime nel suo breve saggioracconto Sorelle l’essenza stessa di ciò che per lei è l’identità sarda, quel mondo arcaico, mitico, il ricordo dell’universo sonoro e dei mestieri antichi, di quegli uomini che sembrano «eroi omerici»,148 che vive e riemerge e fa parte di lei nei sogni passati e presenti e che così costantemente riaffiora soprattutto nella sua narrativa: 145

Ivi, pp. 46-47. Ivi, p. 47. 147 GIULIO ANGIONI, Premessa, in AA. VV., Cartas de logu, Scrittori sardi allo specchio, Cagliari, CUEC, 2007, p. 15. 148 MARIA GIACOBBE, Sorelle in AA. VV., Cartas de logu, Scrittori sardi allo specchio…, p. 118. 146

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Qui nella mia dimora copenaghese sotto un nuvoloso cielo nordico, […], dopo tutta una lunga esistenza con stupore ritrovo ancora viva e pregnante dentro di me con i suoi silenzi e la sua musica, con l’esempio del taciturno coraggio di vivere della mia gente, quell’“antichità omerica” della quale sognando fui contemporanea e partecipe ignara.149

I.7 Dentro e fuori l’Isola Nella narrativa di Maria Giacobbe è possibile una prima suddivisione tra le opere che sono ambientate in Sardegna o che, pur essendo collocate altrove, nell’immaginario e senza riferimenti espliciti all’Isola, il lettore individua comunque in essa il luogo e il tempo della narrazione, e quei romanzi che invece sono situati al di fuori dell’Isola, in spazi lontani, immaginari, in metropoli e città europee che non hanno niente a che vedere con il luogo d’origine della scrittrice: nei miei romanzi e nei miei racconti tanto i lettori quanto i critici credono sempre di riconoscere i paesaggi della mia isola natale, la Sardegna. Anche quando, come nel caso del mio ultimo romanzo «Gli Arcipelaghi», ho avuto l’avvertenza di non usare un solo toponimo che potesse condurre all’identificazione del luogo nel quale il dramma si svolge.150

I luoghi della prosa riflettono le molteplici identità della scrittrice e i tempi della narrazione e della sua storia personale: la terra d’origine, la Sardegna, appartiene al tempo del passato, arcaico e mitico, fermo e prolungato, dell’infanzia e della giovinezza, ed è lo spazio nel quale si crea la personalità e la principale e originaria identità e il senso di appartenenza all’Isola di Maria Giacobbe; la Danimarca rappresenta il tempo del passato più recente e il tempo presente, la contemporaneità, la creazione di una famiglia da parte dell’autrice, la scelta esistenziale di vivere da emigrata in terra 149 150

Ivi, p. 122. MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 25. 46


straniera, sviluppando una duplice appartenenza, una doppia identità, la nazionalità danese accanto a quella sarda ed italiana. I luoghi dell’immaginario, i non-luoghi, ossia gli spazi non definiti né descritti volutamente affinché non ci fosse un’identificazione da parte del lettore con un luogo reale, come anche le metropoli, sono invece i possibili mondi dell’universo, spazi concreti ma non per questo reali che somigliano a molti mondi plausibili: in queste ambientazioni si ritrovano sia il tempo del passato, del presente e del futuro e vi si riversano le molteplici identità di un’artista contemporanea e cosmopolita come la Giacobbe. Per quanto riguarda l’ambiente Sardegna «l’opera di Maria Giacobbe testimonia per frammenti l’attenzione affascinata e severa verso la sua terra, sia di uno sforzo appassionato ed inesausto di interpretazione, sia della volontà di costruire un pensiero che possa rendere la Sardegna non solo più leggibile come testo letterario ma anche meglio vivibile come realtà»151 con «una prosa autobiografica che, nonostante gli allontanamenti e i ritorni, ha sempre tematizzato i propri luoghi d’origine».152 Tra i luoghi sardi alcuni sono quelli dell’infanzia, del passato, la casa materna, della nonna, la città di Nuoro, le spiagge sarde, perciò l’isola è nella sua narrativa spazio e tempo passato, perduto, che si può ritrovare solo con la Letteratura.153 L’Isola è sempre presente, «verso la quale […] indirizza, durante la sua lunga attività di scrittrice, una

151

GIULIA PISSARELLO, Illustrazione della proposta…, pp. 10-11. FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie, «Portales», n°11, AISPA Edizioni, Ottobre 2010, p. 111. 153 Cfr. ALESSANDRO MAIDA, Introduzione…, p. 8.

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sorta di ininterrotto discorso d’amore»,154 l’Isola che vede al tempo stesso «storica e atemporale»:155 tenacia del rapporto involontario che io, come persona umana e come scrittrice, ho ancora con la cultura della mia terra d’origine. Un rapporto che non s’è interrotto neppure dopo che già da una quarantina d’anni ho lasciato la Sardegna, dove ho le mie vecchie radici, e mi sono trasferita in Danimarca, dove ne ho piantato di nuove.156

Nella narrativa sarda novecentesca, autori diversi con differenti punti di vista, esprimono tutti una riflessione sul popolo sardo, sulle sue caratteristiche e le modalità in cui esso si sia posto nei confronti della storia e tutti, idealmente, hanno voluto dedicare il proprio lavoro creativo alla terra che rappresenta un riferimento irrinunciabile della loro attività intellettuale.157 I sardi, con quasi assoluta costanza, hanno individuato nella propria terra il più appassionato oggetto di scrittura, restituendoci con le loro opere un’immagine della Sardegna che è la testimonianza del modo in cui un popolo, attraverso la sua più alta espressione intellettuale, percepisce ed intende la terra in cui è nato e alla quale è unito da un fortissimo legame di amore e di odio, di insofferenza o di nostalgia, e i tratti morali e del carattere che ne derivano.158 Tra gli scrittori sardi vi è quindi una «comune atmosfera»,159 «la Sardegna […] si accampa sulla pagina, col sentimento della sardità e con il comune patrimonio di storia, di cultura e di affetti. Con la visione del mondo che è propria dei

154

GIULIA PISSARELLO, Illustrazione della proposta…, p. 10. FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, p. 111. 156 MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 24. 157 Cfr. GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 10. 158 Cfr. ivi, pp. 14-15. 159 Ivi, p. 357. 155

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sardi».160 «La storia […] domina nella pagina dei narratori sardi, una storia sempre uguale a se stessa, immobile o ripetitiva, tragica per i suoi effetti devastanti».161 Ma nel secondo Dopoguerra, gli scrittori oltre a prestare attenzione agli elementi di continuità col passato, iniziarono ad interessarsi anche a quelli di rottura, all’innovazione, che ebbe modalità e ritmi sconvolgenti in Sardegna, sottolineando gli aspetti del cambiamento sia positivi che negativi;162 il popolo sardo e l’Isola divennero i veri protagonisti nei romanzi del Novecento, in risposta a un bisogno di identificazione per «affermare il pieno diritto d’esistere per una gente che era stata minacciata, nel corso dei secoli, non tanto sotto il profilo dell’esistenza quanto, indubbiamente, sotto quello dell’identità».163 In tutti gli scrittori contemporanei sardi si ritrova «la percezione del mondo naturale isolano come ambiente irripetibile, caratterizzato da una straordinaria bellezza, ferace, […], forte di quella forza che si comunica agli uomini e detta comportamenti coerenti, fieri e generosi».164 «Dire spazio, dunque, per Maria Giacobbe è dire senz’altro Sardegna, e tutto il rapinoso splendore che questa terra tanto drammaticamente sa esprimere, con una violenza che fa male al pensiero e una bellezza che fa perdere i sensi».165 Altri sono i luoghi dell’immaginario, nei quali a volte si possono riconoscere caratteristiche comuni a dei luoghi reali sardi, ma non solo, a luoghi danesi e di tutto il mondo. Infine esistono anche dei 160

Ibidem. Ivi, p. 16. 162 Cfr. ibidem. 163 Ivi, p. 17. 164 Ibidem. 165 MONICA FARNETTI, Presentazione della candidata…, pp. 20-21. 161

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non-luoghi, degli spazi non ben delineati né descritti, magari solo indicati da una simbolica montagna da scalare o da tortuose vie di un generico paese straniero o città distrutte dalla guerra, spazi non riconoscibili in nessun luogo specifico ma in molti possibili, presentati non con la descrizione dettagliata ma resi con l’impressione, attraverso simboli e sensazioni.

I.8 I temi narrativi: esilio e ritorno tra la memoria e il sogno I nuclei poetici fondamentali della sua narrativa si ritrovano in tutte le ambientazioni ed hanno portata universale. Nelle opere che hanno come sfondo la Sardegna prevale l’autobiografia e il ricordo dell’infanzia nelle sue varie sfaccettature, soprattutto come infanzia violata. La memoria e il ricordo del passato e dell’infanzia sono intesi in senso leopardiano, senza nostalgia, malinconia, ma in un eterno ritorno alimentato dalla scrittura stessa, una «ricerca leopardiana di una società stretta, non nostalgico vagheggiamento di un passato per definizione migliore del presente»166 nella quale «il tema dell’origine appare disgiunto dal tema del ritorno».167 «C’è la testimonianza che il “ritorno” sia lavoro della memoria, riconoscenza, pratica linguistica incessante, e inestinguibile atto di pensiero e d’amore»:168 Diario di una maestrina, Piccole cronache, Le radici, Maschere e angeli nudi, Gli Arcipelaghi rientrano in queste tematiche. Ma come mai queste mie immagini-idee o idee-immagini continuano a essere tanto caratterizzate dai paesaggi fisici, umani e culturali della regione dove ho vissuto le prime stagioni della mia esistenza? In quale misura sono pensiero e in quale sono memoria? E che cos’è dunque la memoria per me? 166

GIUSEPPE MARCI, In presenza di tutte le lingue del mondo…, p. 273. MONICA FARNETTI, Presentazione della candidata…, p. 22. 168 Ivi, p. 23. 167

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Nel serbatoio della memoria, così come io lo concepisco, le esperienze sensoriali e psichiche, arrivandovi, s’aggregano in organismi complessi nei quali continuano a vivere e a svilupparsi acquistando nuovi significati e caratteristiche, trasformandosi in immagini-simbolo.169 Quanto a me, proprio l’improvviso scaturire di ricordi, non sempre facilmente identificabili come tali, è stato spesso la prima molla del mio scrivere.170

In questa produzione maggiormente realistica, dove a volte la realtà si mescola col mito, è presente la lotta per la civiltà, la denuncia e la critica sociale, della politica, dell’economia, dell’arretratezza sarda negli anni Sessanta e Settanta in cui questa società si andava trasformando da agricola e pastorale ad industriale, e diventava meta turistica privilegiata per la bellezza naturalistica incontaminata, mentre l’Italia e l’Europa vivevano il miracolo economico. Si parte dalla storia familiare e personale della scrittrice per arrivare a significati e fatti storici universali che vengono narrati per conoscere il passato, poter così migliorare il presente e progettare un futuro migliore. L’impegno civile, morale, politico e la lotta per la libertà sono motivi fondamentali e ricorrenti in tutta la sua narrativa, il grande tema dell’antifascismo esiste anche svincolato dal tema autobiografico e dall’esperienza personale della scrittrice perché si trova in Piccole cronache e Pòju Luàdu come in Euridice e in Chiamalo pure amore, e questi ultimi due romanzi non hanno niente che possa rimandare all’Isola, come la denuncia dell’inciviltà si riscontra anche in romanzi che non parlano di fascismo. Spesso, i critici che si sono occupati di me mi hanno descritto come «uno scrittore impegnato nei problemi sociali, politici ed umani del suo tempo», come uno scrittore che offre ai lettori dei «documenti toccanti sulla nostra epoca». Una tesi 169 170

MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 27. Ivi, p. 28. 51


di laurea su di me, […] s’intitola: «Maria Giacobbe. Una letteratura per la vita». Ancora una volta, esaminando la mia opera, è stato il mio aspetto socialmente e politicamente impegnato che ha attirato l’attenzione della giovane autrice della ricerca. E non posso darle torto: io sono una scrittrice interessata ai problemi del mio tempo e del mondo nel quale vivo. I miei personaggi sono immersi in paesaggi concreti e i loro destini non mi sono indifferenti. Ma, persino nelle pagine che anche il lettore sente come più direttamente impegnate nel presente immediato, non ho mai preteso fare una fotografia della realtà. Tutto ciò che ho scritto sino ad oggi è stato – e non pretendeva essere altro che questo – la mia immagine d’una certa fetta di vita che mi aveva commosso, colpito e forse ferito e che, attraverso le lenti probabilmente deformanti delle mie emozioni e della mia soggettività, era penetrata nella mia coscienza, era diventata parte di me.171

L’esilio, il viaggio, la condizione dell’emigrato e il ritorno o non ritorno, sono aspetti che fanno parte della reale esperienza di vita dell’autrice e sono presenti sin dall’inizio della sua produzione per raggiungere il culmine nel romanzo Scenari d’esilio, scelta di quindici parabole da due libri in lingua danese dell’autrice, inediti in Italia, riguardanti la condizione dell’esiliato, di colui che è lontano dalla patria, ed ogni parabola propone il tema da diverse prospettive e angolazioni. All’interno della tematica dell’esilio si percepiscono le sfumature dell’esilio esistenziale, la solitudine e l’esilio forzato, la prigionia, il sentimento della lontananza rispetto ad una patria, ad una terra originaria e il sentimento della separazione dalle persone amate. «L’esilio diventa al contempo la sua più autentica dimensione di scrittrice e il tema più fertile della sua poesia: ricorre infatti in tutte le sue opere e le alimenta con ricchezza e intensità di pensiero».172 Per gli scrittori, abituati a utilizzare nel proprio lavoro l’analisi e l’autoanalisi, la situazione di emigrati può essere molto meno negativa, se non addirittura fertile, soprattutto nel caso l’emigrazione non sia stata causata da una disgraziata necessità politica, e un ritorno al paese natale sia sempre possibile, se desiderato. Ma come tutti gli esseri umani, anche gli scrittori hanno bisogno di sentirsi parte di un cosmo riconoscibile e di sapere che il loro rapporto mentale con i luoghi 171 172

MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 30. ALESSANDRO MAIDA, Introduzione…, pp. 7-8. 52


delle loro yerofanie non è rotto. Il loro eventuale espatrio, aumentando questo bisogno accresce la forza e l’importanza delle radici e attribuisce ai ricordi del paese natale un posto privilegiato nelle loro opere.173

L’amore, la guerra e la morte, l’arte e la bellezza della natura e del paesaggio si ritrovano in tutta l’opera della Giacobbe, alcuni esempi sono il romanzo Il mare e il libro per giovani I ragazzi del veliero, l’«amore è infatti per lei una forma di intelligenza, un motore di sapienza, una potente capacità di distinguere tra il Bene e il Male che regnano nel mondo».174 […] la natura, paesaggio e personaggio nei quali l’uomo s’identifica in una concezione-intuizione secondo la quale, natura anch’esso, divide con tutti gli altri esseri viventi non solo le dure leggi della nascita, del deperimento e della morte, – nonché quelle del piacere e del dolore fisico – il che è evidente, ma in una certa misura anche le sue leggi morali e debolezze sentimentali.175

Alcuni romanzi hanno un’andatura tipicamente cinematografica, con prospettive e punti di vista diversi prodotti da narratori multipli, con la descrizione di personaggi molto caratterizzati psicologicamente più che fisicamente da poche ma sapienti pennellate evitando la descrizione, tanto che proprio da uno di questi nasce l’omonimo film Gli Arcipelaghi. Tra questi si può inserire il romanzo Pòju Luàdu. Il mito, anzi i miti della scrittrice, la tradizione, il mito del padreeroe e dell’antifascismo militante, componenti del suo passato ma sempre ritrovabili nel presente e continuamente rinnovati nella fantasia come tematiche delle sue narrazioni, il mito che diventa realtà, che con essa si fonde e si trasforma, insieme con la dimensione internazionale e moderna di Maria, l’appartenenza e non appartenenza ad una sola terra, l’identità multipla e sfaccettata, sono caratteri propri 173

MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 29. GIULIA PISSARELLO, Illustrazione della proposta…, p. 11. 175 MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 24. 174

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dell’animo della scrittrice che riversa nel tessuto delle sue narrazioni, dei suoi racconti, delle sue storie che dal particolare riescono ad arrivare all’universale. Perciò il luogo d’origine, le sue storie ed i suoi miti riemergono ma si proiettano negli infiniti mondi e identità che vivono nella fantasia della Giacobbe. Anche questa storia venne ripetuta, come tutte le storie a Nuoro vengono ripetute, e nella ripetizione è anch’essa diventata mito. Perché tutto a Nuoro diventa mito, quando lo si è ripetuto un numero sufficiente di volte. E i Nuoresi non si stancano di creare miti, come non si stancano di ripetere le loro storie minime. Perché i Nuoresi non possono fare a meno di raccontare, essendo questo il loro modo di esistere, di sentirsi esistere.176

«Per il Sardo la preistoria è sempre a un passo, fuori dalla porta di ogni capanna e di ogni casa, è possibile capire il mistero della solitudine e al tempo stesso della socialità del Sardo. È infatti nella preistoria che egli ritrova la misura della civiltà più autentica, da cui discende, per lui, il concetto del bene e del male, della giustizia e della ingiustizia».177 «Non è facile accettare questa idea della preistoria sempre operante e attiva anche nel presente; ma pure è questa la condizione per capire i sardi e tutto ciò che è sardo».178 La dimensione del sogno, delle visioni, della fantasia, del mito e del ricordo presentati come se fossero realtà e contemporaneità, quella che si potrebbe considerare la produzione surrealistica e più europea dell’autrice, è presente nelle opere meno autobiografiche, nonostante i sogni siano presenti dal mondo dell’infanzia, ed il romanzo Euridice esprime e racchiude nella totalità questi temi e questo particolare stile: Era guardando dentro di me, non fuori di me, che avevo trovato i miei personaggi e i miei paesaggi, o piuttosto che essi mi avevano trovato perché, senza 176

MARIA GIACOBBE, Salvatore Satta a Nuoro…, p. 495. GIUSEPPE DESSÌ E NICOLA TANDA, Narratori di Sardegna…, p.7. 178 Ivi, p. 8. 177

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abbandonarmi agli esercizi di scrittura automatica dei surrealisti, so che le mie idee e immagini più vitali sono nate in me spontaneamente come le immagini dei sogni […]. E tutte, le quotidiane, «realiste» , come le più strane o – secondo la definizione di certi critici - «surrealiste» , scaturiscono dal deposito delle mie esperienze più vere nei luoghi ombrosi delle mie yerofanie personali e sono proiezioni lungamente filtrate del mio vissuto, vero o immaginario che sia. Ma dov’è la linea di demarcazione tra il così detto reale, e l’immaginario?179

179

MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 30. 55


Capitolo II Una narrativa realistica e chimerica II.1. L’Isola della memoria e del ricordo: la produzione autobiografica Nella narrativa della Giacobbe si possono raggruppare quattro romanzi, tutti ambientati esplicitamente in Sardegna e appartenenti alla produzione autobiografica, nei quali i temi del ricordo, della memoria e dell’infanzia sono i fili conduttori: Diario di una maestrina, Piccole cronache, Le radici e Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia fanno parte di questa linea poetica dell’autrice. L’artista in queste opere, non cronologicamente, ripercorre la sua reale esperienza, la sua infanzia, la vita dei suoi genitori ed antenati, presentando un’«autobiografia pedagogica»1 e operando una mirabile compenetrazione della storia personale in Letteratura e nella Storia universale. «Tale percorso ha implicato, per la scrittrice, una precisa strategia narrativa: solo mettendosi sulle tracce del proprio tempo e della propria biografia pare aver guadagnato il significato dell’identità e insieme quell’autocoscienza che permette ai luoghi di rispecchiarsi negli uomini».2 Le prime due opere, del 1957 e del 1961, Diario e Piccole cronache, sono entrambe scritte sotto forma di diario, uno della maestrina Maria Giacobbe, personaggio-autore che testimonia i suoi primi anni d’insegnamento, l’altro della piccola protagonista e narratrice Marina Geremia, nel quale annota le sue sensazioni e gli 1

ANTONIO ROMAGNINO, Non vestiva alla marinara, «L’Unione Sarda», 29/07/1975, p. 3. 2 FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, p. 111. 56


avvenimenti che segnano le proprie giornate, in uno spazio di tempo che si dispiega dalla fuga del padre per combattere la guerra civile di Spagna, sino alla morte di quest’ultimo. Entrambe sono collocabili all’interno della corrente letteraria del Neorealismo ed esprimono attraverso la denuncia sociale, civile e politica, il tema dell’infanzia violata e negata: in Diario si racconta la situazione di estrema povertà dei bambini delle zone interne ed arcaiche della Barbagia, che devono provvedere a se stessi lavorando per assicurarsi un pasto quotidiano, e non vivono l’infanzia, sono già maturi ed adulti; in Piccole cronache l’infanzia violata è quella della piccola protagonista, riflesso autobiografico della scrittrice adolescente, che è costretta a crescere a causa delle situazioni politiche e delle scelte idealistiche compiute da chi le sta vicino. Certo è che la vicenda biografica del padre dell’autrice non corrisponde alla conclusione del romanzo in questione, che propone la visione pessimistica, la concretizzazione dell’incubo che probabilmente, durante i nove anni di assenza di Dino, aveva turbato le notti e l’animo di Maria, che per sua fortuna poté nella vita reale riabbracciare suo padre, non restò solo un ricordo, al contrario della protagonista del libro. Dentro di me ho vissuto la sua morte. Del resto come dare il lieto fine a un libro che racconta di un’enorme ingiustizia e di una guerra. Le guerre non portano lieti fini.3

Diario narra la scoperta di una realtà popolare segnata dalla sofferenza e nasce «da una totale immersione nell’universo di appartenenza».4 L’esordio è il breve capitolo dove la narratrice si 3

FRANCA RITA PORCU, Maria Giacobbe e la scrittura necessaria, «L’Unione Sarda», 08/10/1999, p. 33. 4 GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 272. 57


presenta come una ragazza di «buona famiglia»,5 accenna alla sua infanzia infelice e alla precoce maturità dovuta alla distanza del padre, all’antifascismo, alla guerra, all’esilio e la libertà, tutti temi che si ritroveranno nell’intera produzione letteraria dell’autrice, in uno stile «semplice e parsimonioso»6 che sempre le sarà congeniale. Libertà era una parola che mi piaceva e avrei voluto dirla a voce alta, correre per le strade gridandola a gola aperta, affacciarmi alla finestra e dire “libertà” in modo che tutti mi sentissero. Ma sapevo che “era proibito”.7 Fino al suo ritorno dopo la guerra non avemmo più notizie di babbo e ci sembrava di essere orfane.8 Eravamo antifascisti e non vedevamo l’ora che la guerra finisse, e con la sconfitta che meritavamo.9

La ragazza fresca di abilitazione magistrale scopre «a pochi chilometri dalla sua Nuoro una realtà umana di cui non sospettava l’esistenza e che la sconcerta»,10 «un’umanità in crisi definitiva tra due epoche»,11 e nella sua concezione della storia, anche quella individuale, sottomessa e intima diventa emblematica. La narrazione segue «tra racconto di una personale esperienza, segnalazione delle insufficienze che caratterizzano l’istituzione scolastica e osservazione attenta del paese».12 La scrittrice rappresenta un quadro scrupoloso e fedele, e parlando dei suoi scolari penetra il mistero della vita di

5

MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina, Nuoro, Il Maestrale, 2009, p. 9. TANIA BAUMANN, Donna Isola, Ritratti femminili nel romanzo del Novecento, Cagliari, CUEC, 2007, p. 216. 7 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina…, p. 10. 8 Ivi, p. 13. 9 Ivi, p. 15. 10 GIUSEPPE PILI, Maria Giacobbe, in GIUSEPPE MARCI, Scrivere al confine, Radici, moralità e cultura nei romanzieri sardi contemporanei, Cagliari, CUEC, 1994, p. 49. 11 MARIO CIUSA ROMAGNA, Il mondo di Maria, in MANLIO BRIGAGLIA, Tutti i libri della Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1989, p. 200. 12 GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 271. 6

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quella gente silenziosa e chiusa in se stessa da secoli. La sua forza di persuasione è la sua perfetta adesione all’ambiente.13 La realtà scolastica, impersonata dalla maestrina, entra in contatto con la difficile vita degli alunni riuscendo a capire l’intimo degli animi e dei problemi da loro affrontati quotidianamente, occupati in una lotta per la sopravvivenza oltre che in quella per l’istruzione elementare. La maestra comprende l’immensa sofferenza di questa gente, pur non tollerando gli atteggiamenti troppo primitivi, poco civili e moderni. Il suo personaggio è autentico, è reale, è Maria, è l’insegnante che cerca di costruire un rapporto tra la scuola e la famiglia, oltre che con gli studenti, per indagare, conoscere le difficoltà e, a volte, trovare la soluzione. Sommersa da questa realtà immobile e quasi irreale per le condizioni miserabili, per l’arcaicità dei costumi, cerca di trasformarla come può, da educatrice a donna, intervenendo con piccoli gesti (le docce, i letti, i giocattoli), leva una voce dal coro impassibile e muto, e racconta la reale condizione dell’isola all’intera società, dalle riviste nazionali e locali ai genitori degli studenti, affinché le cose possano mutare positivamente dall’ascolto delle tristi storie dei personaggi del diario. E riesce nel suo intento considerato il grande successo dell’opera prima, essendo clamorosa la «materia bruciante e viva scelta dalla scrittrice»,14 facendo conoscere una parte dell’Isola, sola e dimenticata, a tutto il mondo, per cui la «scrittrice nuorese ha per sé realizzato di rimanere nella storia».15 Il resoconto della maestra si articola dalle scuole elementari serali con studenti adulti, ai bambini beneducati di Bolotana e quelli 13

Cfr. GIUSEPPE DESSÌ, Scoperta della Sardegna, Antologia di testi di autori Italiani e stranieri, Milano, Edizioni Il Polifilo, 1966, p. 632. 14 MARIO CIUSA ROMAGNA, Il mondo di Maria…, p. 200. 15 ANTONIO PIGLIARU, Note sul «Diario di una maestrina», «Ichnusa», n°20, 1957, p. 22. 59


poverissimi di Fonni e Orgosolo. I temi che vengono affrontati vanno dalla

natura

al

all’analfabetismo,

banditismo, descrivendo

dalla e

miseria

denunciando

all’ignoranza, le

componenti

quotidiane della vita critica e reale dei paesi più poveri dell’Isola alle soglie degli anni Sessanta, luoghi che sembrano non avere niente a che fare col mondo dentro la televisione. «La prima e più immediata speranza di riscatto per gli uomini di quel mondo è data dalla scuola».16 Benché il paese sia grande, circa settemila abitanti, e vicino al capoluogo, non ha ancora né fognatura né acquedotto.17 L’“aggiudu” con la mancanza di libri e quaderni, con la fame e il freddo è il mio più potente antagonista.18 Bisogna si rendano conto che il loro modo di vita è anacronistico e che si deve lottare per trasformarlo.19 […] i servizi igienici indispensabili sono un lusso da signori, l’acqua un liquido preziosissimo che già in primavera comincia a scarseggiare e che si porta con fatica, sottraendolo agli orti assetati, da sorgenti spesso lontane dal paese, allora il bagno non è più questione di buona volontà e di buona educazione e non potrà mai diventare una buona abitudine.20

Il fatto più sconvolgente è che le critiche e le riserve al suo operato umanitario le vengano mosse dai tradizionalisti, conservatori o solo ignoranti restii ai cambiamenti, all’interno della classe degli intellettuali, tra gli insegnanti, siano essi anziani o giovani, e da coloro che sono a capo delle istituzioni scolastiche. Gli educatori, i suoi colleghi, non le esprimono solidarietà per le azioni umanitarie da lei intraprese ma le osteggiano con imperterrita resistenza. 16

GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 270. 17 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina…, p. 31. 18 Ivi, p. 50. 19 Ivi, p. 56. 20 Ivi, p. 65. 60


«È un romanzo di denuncia contro un sistema sociale e scolastico classista e ingiusto nei confronti dei deboli. […] certe condizioni “di inferiorità” non sono né biologiche, né volute dal popolo sardo, ma anzi imposte da politiche […]. La denuncia di Maria Giacobbe […] rivela l’esistenza di una forza oppressiva e repressiva che passa anche attraverso la scuola ed anche attraverso tutti quegli insegnanti, sardi o meno, che fingono di non rendersi conto e ne divengono complici, magari involontariamente. In sintesi […] parliamo di diritti sociali».21 È presente in ogni pagina la riprovevole ingiustizia del calpestare l’infanzia, rendendola drammatica, un tempo che dovrebbe essere popolato da sogni e giochi, non da sofferenze ed indigenza. L’infanzia violata, la crescita prematura delle bambine che già lavorano come servette nelle case altrui a Fonni, oppure la mentalità già adulta dei bambini di Orgosolo vengono così descritte: Mi fanno pena queste bambine già adulte per la loro eccessiva saggezza e propongo un tema che le faccia sognare. Vorrei proprio conoscere i loro sogni: “Se avessi una bacchetta magica che cosa mi piacerebbe fare?”22 Quando sin da bambini si è abituati a vivere rinunziando a tutti gli agi, anche i più comuni, quando anche il latte è un lusso e il letto una mollezza vergognosa, e l’ideale educativo è quello che può indurire più rapidamente, non è strano che la vita del bandito, con tutti i disagi che comporta, non spaventi e continui anzi ad avere un alone di eroismo romantico. […]; i nostri alunni già conoscono la legge della fierezza e dell’onore esasperati e la legge biblica del taglione.23

In un libro «prezioso, sorridente anche e fresco»,24 «di un interesse così vivo e di un così esatto e spesso perfetto taglio

21

ANTONI ARCA, Piccoli sardi crescono, «Quaderni Bolotanesi», n°31, anno XXXI, Bolotana, Edizioni Passato e Presente, 2005, p. 342. 22 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina…, p. 83. 23 Ivi, p. 122. 61


narrativo»,25 Maria Giacobbe «ci dà, […], un’immagine conturbante dei paesi del centro dell’Isola, e proprio di quelli che più hanno contribuito a renderla tristemente famosa per l’alta percentuale di crimini che vi si commettono».26 Impressionista il «ritmo funzionale e suggestivo»27 del discorso quando inserisce il tema del banditismo, che inizialmente viene solo accennato, creando l’aria di attesa, passa alla panoramica sull’intero paese, fermo e immobile, nel quale il paesaggio essenziale e il mondo interiore orgolese si corrispondono: «sotto una apparente intensissima agitazione sentimentale, paesaggio e paese sono così fermi, così immobili quasi assenti».28 L’insegnante che attraverso la propria esperienza di un’infanzia e di una adolescenza vissuti nella guerra e nel fascismo, «giunge a formarsi una visione del mondo diversa, nuova e veramente democratica»,29 e rappresenta un’intellettuale non classista nei confronti degli alunni ai quali deve insegnare, «più che le nozioni per leggere e scrivere, quelle per cui imparino a vivere come cittadini in una società civile e in uno stato veramente democratico».30 Il libro è «illuminato da una luce di intelligenza e da un senso di carità che restituisce un volto umano e comprensibile a quei luoghi che l’efferatezza di certi crimini aveva, in un certo senso, strappato per sempre all’umano consorzio. E questo avviene senza che il lettore venga urtato dall’impegno politico dell’autrice, che pure è alla base del suo modo di conoscere e di scrivere. Questo è l’impegno politico 24

ALDO CAPITINI, A proposito del diario di una maestrina, «Ichnusa», Rassegne, n°24, 1958, p. 43. 25 [ANTONIO PIGLIARU], «Ichnusa», n°19, 1957, p. 70. 26 GIUSEPPE DESSÌ, Scoperta della Sardegna…, p. 632. 27 ANTONIO PIGLIARU, Note sul «Diario di una maestrina»…, p. 17. 28 Ibidem. 29 GIUSEPPE DESSÌ e NICOLA TANDA, Narratori di Sardegna…, p. 245. 30 Ibidem. 62


della Giacobbe che si pone davanti alle cose senza schemi preconcetti, senza assurdi paradossi»,31 con rispetto e desiderio di giustizia. Diario «non è un libro dal facile esame critico»32 per la complessa struttura, unitaria, ma molto articolata in diversi stacchi stilistici, considerato questo uno dei maggiori pregi del modulo narrativo della Giacobbe,33 e per i diversi interessi letterari, culturali, sociali e politici e umani che stimola nel lettore, che mostrano il piccolo mondo scolastico come l’immagine stessa della comunità che gli gravita intorno.34 Per Maria la Sardegna non è più un assoluto che vive il rapporto con l’esterno come un disturbo (la dominazione, il saccheggio delle risorse), nella convinzione che tutto il bene possibile sia nel suo territorio e tutto il male all’esterno, ma è una terra che nel confronto con la contemporanea realtà italiana e mondiale scopre la propria debolezza e la nuova ingiustizia da cui è colpita.35 L’autrice è giunta a risultati concreti, si salva dalla retorica sia dall’inchiesta d’occasione, è un «raro esempio di corretta organizzazione di intelligenza e sensibilità in senso regionale. Ma […], non nel senso di un regionalismo chiuso […], ma […] vivo e vitale […], vissuto nel suo essere particolare, come un autentico universale concreto».36 L’esperienza come insegnante è a Oliena nelle scuole serali, dove la giovane Maria deve confrontarsi con adulti, trenta uomini tra i diciotto e i venticinque anni; più un vecchio di circa sessanta. Contadini-pastori appartengono alla classe dei “massajos”, lavoratori della terra che per vivere devono saper fare di tutto,37 31

GIUSEPPE DESSÌ, Scoperta della Sardegna…, p.632. ANTONIO PIGLIARU, Note sul «Diario di una maestrina»…, p. 13. 33 Cfr. ivi, pp. 15-16. 34 Cfr. ivi, p. 16. 35 Cfr. GIUSEPPE MARCI, In presenza di tutte le lingue del mondo…, pp. 265, 266. 36 ANTONIO PIGLIARU, Note sul «Diario di una maestrina»…, pp. 22-23. 37 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina…, p. 32. 32

63


riesce a farsi rispettare trattando questi uomini, «la feccia di Oliena»,38 come suoi amici e pari e «mostra come si costituisce un suo metodo attraverso trovate ed iniziative felicissime»:39 Voglio che diventiamo amici: io sono qui per insegnarvi qualcosa di cui sentite bisogno e che sinora non avete avuto tempo di imparare, ma sono sicura che anche voi avete molte cose da insegnarmi. La nostra vita è stata diversa, per me ci sono stati i libri, per voi un’esperienza di lavoro che mi interesserebbe conoscere. Perciò non voglio che qui ci siano una maestra che parla sempre e degli alunni che ascoltano; abbiamo quasi la stessa età, dobbiamo essere un gruppo di amici che lavorano insieme. Se dirò cose che già sapete vi prego di avvertirmi, non voglio farvi perdere del tempo…40 […] essi in questa scuola, forse per la prima volta, sentono di far parte di una società civile nella quale gli uomini si distinguono dalle bestie non solo perché un po’ meglio si sanno difendere dalle intemperie ma soprattutto per la capacità di capire ed esprimere l’essenza delle cose.41

L’autrice mette in evidenza le condizioni inumane ed i sacrifici che queste persone sopportano con millenaria pazienza. Non si compiace di questa situazione, che è sempre apparsa all’osservatore superficiale e svagato, pittoresca, insiste, e quasi mette sotto accusa, la società e lo stato che, in tanti anni di storia, non si sono mai veramente occupati delle condizioni di vita di questo popolo e della sua antica miseria. Si avverte, pur attraverso l’apparente oggettività della descrizione, un animo partecipe e commosso della sorte di questa umanità dimenticata.42 «E’ uno spirito illuminato, pronto a mettere in discussione l’apparenza delle cose. Pare quasi che si vergogni della sua infanzia agiata, si vergogni di non aver condiviso il malessere dei

38

Ivi, p. 34. ALDO CAPITINI, A proposito del diario di una maestrina…, p. 41. 40 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina…, p. 34. 41 Ivi, p. 42. 42 Cfr. GIUSEPPE DESSÌ e NICOLA TANDA, Narratori di Sardegna…, p. 251. 39

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suoi alunni».43 «Dietro l’apparenza fragile e dimessa, nella maestrina si nasconde una volontà forte e rivoluzionaria».44 Maria chiede di essere trasferita dalla sua cattedra a Bortigali, un paese di benpensanti dove bambini e famiglie sono educati e si bada all’apparenza, e nel quale ha l’aiuto della comunità nello svolgere la sua professione ‒ Bortigali ha un aspetto di benessere e lindura.[…]. Le classi sono poco numerose e i bambini vengono a scuola puliti e vestiti quasi con eleganza. […]. Sono persino troppo brave e gentili per le mie aspettative.45

‒ ad Orgosolo, un paese molto povero che «è diventato leggendario; scrittori e registi si sono occupati del triste fenomeno del banditismo».46 «Come resistere alla tentazione di assumere un ruolo chiave per una comunità, di essere un dispensatore di nuove idee, di una civiltà più moderna, di portare luce dove c’è solo oscurità? Per soddisfare la sua indole, Maria decide di trasferirsi dove lo spirito è più forte ma la coscienza è più debole. A Orgosolo più che altrove studia le cause del malessere, propone miglioramenti e si attiva socialmente».47 Rappresenta con semplicità e intensità la violenza della

miseria:

«bambini

denutriti,

donne

dignitose,

uomini

perseguitati, l’attaccamento a forme di vita superate, la sfiducia nella giustizia e nella legge».48 E adesso sono tre anni che insegno a Orgosolo. […]. Orgosolo non è più l’“Università del delitto”. Tutti nel paese mi conoscono e tutti mi salutano; […]. I loro problemi sono i miei problemi, perché questa è la mia gente.49

43

GIUSEPPE PILI, Maria Giacobbe, in GIUSEPPE MARCI, Scrivere al confine…, p. 50. Ibidem. 45 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina…, p. 93. 46 GIUSEPPE DESSÌ e NICOLA TANDA, Narratori di Sardegna, …, pp. 254-255. 47 GIUSEPPE PILI, Maria Giacobbe, in GIUSEPPE MARCI, Scrivere al confine, …, p. 51. 48 GIUSEPPE DESSÌ e NICOLA TANDA, Narratori di Sardegna, …, p. 255. 49 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina, …, p. 175. 44

65


Sono pagine in cui la commozione raggiunge il tono di un’ingenua epopea, cosicché ciascun personaggio acquista rilievo nella sua dignitosa sopportazione di sacrifici e, avvicinandocelo, ci rende coralmente partecipi di quelle quotidiane lotte.50 E nelle pagine su Orgosolo spicca un personaggio, più caratterizzato tra gli studenti, che cattura la simpatia del lettore come sicuramente aveva attirato l’attenzione e l’amore della maestra, il piccolo Giovanni, figlio di un bandito, che a soli sei anni si esprime nei modi, negli atteggiamenti, nelle azioni già con la malizia di un adulto e mostra vivacità ed intelligenza particolari. Le pagine che lo descrivono, soprattutto nei suoi moti di ribellione, nella tradizionale visione della giustizia e delle forze dell’ordine dell’orgolese, dimostrano che Giovanni aderisce perfettamente alla mentalità dell’arcaico ambiente nel quale è immerso, mostrano una sottile analisi psicologica da parte dell’autrice dei comportamenti e dell’ambiente che spingono i futuri uomini di Orgosolo a darsi al banditismo e diventare dei fuorilegge. Il bambino tratta sia la maestra che i compagni di scuola con superiorità e sfida, e l’insegnante riesce a imporsi solo dimostrandogli la propria forza fisica, in maniera brutale, esprimendosi però con il codice e linguaggio che lui conosce, al quale è abituato e che perciò rispetta. La Giacobbe nella Prefazione alla ristampa delle prime due opere del 1975, ripensando con dispiacere alla loro attualità e concludendo che se ci fossero stati «coraggio e coerenza maggiori sarebbe potuto derivare alla Sardegna un destino attuale ben diverso da quello che si presenta ai suoi occhi ad ogni ritorno nell’isola»,51 chiarisce la prospettiva dei suoi testi che, altrimenti, potrebbero apparire resoconti 50

Cfr. GIUSEPPE DESSÌ e NICOLA TANDA, Narratori di Sardegna, …, p. 262. GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 273.

51

66


minori, effusioni sentimentali, ricordi dell’infanzia e di una prima esperienza lavorativa. Come per chi pensa che «vogliono dare dignità di cronaca, in stile volutamente dimesso, a fatti e figure umili e familiari».52 E questo sono, anche, ma non solo. Perché a sorreggere il ricordo, ad evitare i rischi della memoria nostalgica c’è il punto di vista attraverso il quale l’intera esperienza è filtrata: derivante da una particolarissima scuola e da un itinerario formativo non comune, in quegli anni, in Sardegna né altrove.53 La possibilità di coniugare uno sguardo critico e razionale sulla realtà, e allo stesso tempo comprendere il sentimento mitico di cui essa è intessuto, senza tollerarlo o condannarlo, è un’ambizione di cui la sua narrativa si fa carico da Diario in poi. Un’operazione ardua, perché presuppone la messa in discussione degli assunti della civiltà moderna che fanno coincidere il progresso con l’acquisizione della razionalità. Per sciogliere tale antinomia, quella fra l’ethos barbaricino e la necessità di vivere nella contemporaneità, la scrittrice decide di passare al vaglio della coscienza il proprio vissuto di donna e scrittrice sarda: in una parola, fare i conti con la propria biografia.54 «La scrittrice è a favore di un progresso umanistico, e non meramente tecnologico»,55 un «progresso auspicabile sarebbe, conclusivamente, quello che nell’evoluzione degli aspetti materiali, sappia conservare i valori spirituali».56

52

GIOVANNI PIRODDA, Letteratura delle regioni d’Italia…, p. 58. Cfr. GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, pp. 268-269. 54 Cfr. FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, pp. 112-113. 55 GIUSEPPE PILI, Maria Giacobbe, in GIUSEPPE MARCI, Scrivere al confine…, p. 52. 56 Ibidem. 53

67


La Sardegna, il contesto nuorese, la tradizione culturale e politica della famiglia, il rapporto sentimentalmente vivo e razionalmente strutturato con la propria gente, sono altrettanti punti fermi sui quali s’incardinano il Diario e Piccole cronache, e Le radici.57 Nel Diario, come poi ne Le radici, l’esordio è quello classico della narrativa sarda tradizionale: la casa, il pane, la famiglia, la scuola, l’ambiente naturale, il mare e la montagna. Subito dopo, però, compare l’esperienza soggettiva più importante: la politica e l’antifascismo che per la Giacobbe in primo luogo significano amore per l’uomo, fiducia nella sua possibilità di riscatto dalle oppressioni cui è soggetto.58 E riesce,

in

maniera

totalmente

personale,

nella

letteratura

contemporanea, a fondere il classico, il tempo e il mondo del mito con quello attuale e contemporaneo. Piccole cronache racconta, attraverso lo sguardo della narratrice bambina, la reale situazione della famiglia Giacobbe perseguitata durante il Fascismo e la fuga del padre, esule politico, cogliendo un «momento della storia nazionale in Sardegna attraverso una vicenda non solo autobiografica»,59 perciò è «definito da Paolo Milano su L’Espresso “il primo libro italiano su un’infanzia antifascista”».60 Forse le mie Piccole cronache potevano essere un contributo, anche se modesto, nell’opera di smascheramento che si era resa necessaria.61 Tutti sappiamo fin troppo bene che, se quindici anni fa poteva essere ancora lecito considerare i fascisti nostrani come dei tetri sopravvissuti, oggi non si può che 57

Cfr. GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 267. 58 Cfr. ivi, p. 269. 59 ARRIGO SEGNERI, Le “piccole cronache” di Maria Giacobbe, «Ichnusa», Rassegne, n°46-47, 1962, p. 66. 60 PAOLA CARÙ, Maria Giacobbe, Una scrittrice fra due mondi, «Salpare», anno X, n°31, Maggio/Giugno 1997, p. 14. 61 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina, dalla Postilla all’edizione del 1975, Nuoro, Il Maestrale, 2009, p. 215. 68


prenderli terribilmente sul serio come strumenti di strage, di persecuzione e di morte. In Italia e in altre parti del mondo, fascismi vecchi e nuovi hanno da allora quasi ininterrottamente conculcato i loro oppositori e costretto fiumane di profughi (qualche volta chiamati “emigrati”) ad abbandonare le loro case e le loro famiglie; bambini d’ogni parte del mondo continuano per ragioni politiche a perdere i loro genitori e a essere derubati della propria infanzia.62

«La stessa immediatezza e lo stesso impegno morale che contraddistinguevano il primo lavoro volto a dare valore e dignità umana e storica ad esperienze e mondi separati, periferici, si ritrovano ancora nella seconda opera».63 Si tratta della narrazione articolata in brevi episodi, come delle «cronache di una piccola sarda cui circostanze politiche più grandi di lei hanno tolto il sostegno morale del padre, antifascista, indotto a volontario esilio dalla propria terra per non rinnegare le proprie convinzioni».64 Il motivo centrale del libro è costituito dalle precoci riflessioni di una bambina che potrebbe non essere sarda ma di qualunque regione d’Italia o parte del mondo. Marina Geremia assiste attonita allo sfaldamento del proprio nucleo familiare, causa le assurdità cui può portare un regime dittatoriale.65 L’infelicità alla quale è stata condannata Marina, il lutto che si porta dentro, dipendono da scelte politiche che coinvolgono l’umanità, il Fascismo, la guerra, l’esilio, la morte e la distruzione, ma che deve comprendere, per capire, per poter perdonare al genitore la scelta dell’esilio e il conseguente distacco. «Timori, paure, rivelazioni improvvise rivivono nell’animo della piccola, dubbiosa, talvolta, se ognuno non abbia una

62

Ivi, p. 216. GIOVANNI PIRODDA, Letteratura delle regioni d’Italia…, p. 377. 64 FIORELLA MILAZZO, «Ichnusa», Rassegne, n°44, 1961, p. 79. 65 Cfr. ibidem. 63

69


propria visione della realtà. Perché non rendere un’umanità migliore tenendo l’infanzia al suo giusto posto?».66 L’autrice

gioca

con

il

linguaggio

nell’onomastica

della

protagonista, che si chiama Marina, aggiungendo una n al suo nome, e per il cognome, Geremia e Giacobbe, in cui è palese l’eco biblico. La protagonista è volutamente autobiografica. Tal quale la Marina di Piccole Cronache, io avevo cominciato sin da bambina a sentirmi angosciata dal problema dell’ingiustizia, della sofferenza e della morte, a sentirmi oppressa dall’esigenza morale di una necessaria ma non sempre realizzabile solidarietà con i sofferenti e gli oppressi.67

Il racconto si svolge in sintonia con gli avvenimenti particolari e collettivi dell’ambiente, vissuti da un’adolescente che matura nel coinvolgimento in sentimenti e drammi individuali e familiari, e nella percezione che essi si colleghino, soprattutto attraverso il pensiero del padre assente, ad eventi storici di vasta portata.68 È la narrazione carica e intensa delle emozioni, degli stati d’animo, delle sensazioni di perenne disagio, dei dubbi e delle domande che resteranno insoluti dell’io narrante, nell’aurea negativa, nel clima angoscioso che all’improvviso hanno circondato la sua famiglia. Marina è un’adolescente silenziosa e timida, afflitta dalla malaria, sa ascoltare e risparmia di raccontare alla madre, dimostrando anche così la sua maturità, le infamie che i paesani raccontano a lei e ai suoi fratelli sul padre. La dimensione che presenta è quella della solitudine che è generata dall’assenza, da un esilio forzato, dalla morte. Il padre-eroe, il professore Marco Geremia, viene idealizzato e stimato nelle sue virtù, anche se non mancano le pagine nelle quali la 66

Ivi, p. 80. MARIA GIACOBBE, Il mare, Nuoro, Il Maestrale, 1997, p. 11. 68 Cfr. GIOVANNI PIRODDA, Letteratura delle regioni d’Italia…, p. 377. 67

70


narratrice esprime la difficoltà di comprendere la contraddizione di una guerra giusta, in nome di nobili ideali e si chiede anche se suo padre non sia egli stesso un assassino: Sapeva anche i nomi di tutte le piante e di tutti gli uccelli, e questi, anche senza vederli, li riconosceva dal canto.69 Anche io quando sarò grande, se mi sposerò, sposerò un uomo buono e generoso come babbo.70 Babbo invece faceva solo le cose di cui era convinto; e se una cosa non gli pareva giusta non la faceva, a nessun costo. E mamma era d’accordo con lui.71 E poi, per uno che sia proprio cristiano, nessuna guerra può essere giusta perché in tutte le guerre, […], gli uomini diventano assassini o vengono assassinati; e spesso entrambe le cose insieme. Dunque, anche babbo […] è un assassino;72

Il personaggio che domina è la madre della protagonista, Giulia Geremia alias Graziella Sechi: è una toccante raffigurazione della madre dell’autrice, una splendida lode alle sue virtù di coraggio, perseveranza, altezza morale per colei che «resistette sul “fronte interno” della lotta per la vita quotidiana in una piccola città di provincia, costretta all’isolamento dalla situazione politica»;73 un omaggio a colei che portò avanti i propri ideali a testa alta, senza vergogna né paura nonostante le persecuzioni alle quali fu sottoposta, «il ritratto d’una vera signora».74 Forse sentirete delle cose cattive su di lui, ma dovete ricordarvi sempre che babbo è l’uomo migliore del mondo, e il più coraggioso e il più onesto. E che vi vuole tanto bene e che tutto quello che fa e che ha fatto lo fa e l’ha fatto pensando a voi. Perciò voi dovete essere buoni e studiosi per non dargli dispiacere e per mostrare a tutti che i figli del professor Geremia sono i ragazzi meglio educati della città.75 69

MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina-Piccole cronache…, p. 164. Ivi, p. 180. 71 Ivi, pp. 192-193. 72 Ivi, pp. 215-216. 73 PAOLA CARÙ, Maria Giacobbe, Una scrittrice fra due mondi…, p. 14. 74 ARRIGO SEGNERI, Le “piccole cronache” di Maria Giacobbe…, p. 67. 75 MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina- Piccole cronache…, p. 156. 70

71


Ma nonostante tutte le buone qualità Giulia fa trapelare la sua tristezza, l’infelicità, l’insicurezza, il dolore e le trasmette alla sensibile figlia Marina e ingiustamente la sua infanzia scompare per sempre, travolta dal dispiacere e lo sconforto per l’assenza della figura paterna e per lo stato quotidianamente addolorato della madre. Anche adesso so perché mamma è così disperata, ma non dirò nulla a nessuno e voglio essere buona con lei. Per consolarla perché babbo se ne è andato. Per sempre. Perché è scappato e i fascisti lo uccidono se ritorna qui.76 È tanto tempo che babbo è partito e certe volte mi pare addirittura che non sia mai esistito e che ce lo siamo immaginato noi. Tanto più che adesso non arrivano mai sue notizie.77 E tutto questo, insieme alle storie che si raccontano in giro di babbo e al fatto che non riceviamo notizie da lui e che mamma e nonna sono così tristi e nervose, in certi momenti mi fa desiderare di essere morta, perché la vita è proprio cattiva.78

L’amica Luisa è un personaggio simbolico che rappresenta la perdita e il lutto, la sofferenza e la morte: si ammalerà di una malattia mortale e il distacco tra le due amiche avverrà mentre Luisa è ancora viva. Le pagine più cariche di tensione emotiva sono nella conclusione drammatica del romanzo, «con quelle semplici sconcertanti e profonde, anche se rapide, notazioni sulla morte»,79 quando la famiglia Geremia viene a conoscenza della perdita del padre nella guerra, «una morte vissuta con tanti interrogativi sospesi, che rimandano le loro risposte alla maturità della scrittrice».80

76

Ivi, p. 151. Ivi, p. 196. 78 Ivi, p. 202. 79 ARRIGO SEGNERI, Le “piccole cronache” di Maria Giacobbe…, p. 67. 80 GIOVANNI PIRODDA, Letteratura delle regioni d’Italia…, p. 377. 77

72


Ma che cosa significa che è morto?81 Forse che babbo è morto, come dicono loro, significa soltanto che nel posto dove sta adesso non può più fumare delle sigarette stando sdraiato sull’erba e con la testa appoggiata alle radici di un albero. O significa che non può più guardare le nuvole per vedere da quale parte viene il vento, né osservare le stelle e dirne il nome. O significa che non può più leggere né parlare, né ridere né dormire, né essere allegro né essere triste, né disprezzare i fascisti né insegnare ai ragazzi. […] Ma forse significa soltanto che mamma non uscirà più dalla sua camera e che starà lì per sempre, chiusa nel buio, a singhiozzare, e che tutti in casa dovremo sempre camminare in punta di piedi e parlare a bassa voce e che, se ci sarà una giornata di sole, dovremo chiudere strette le finestre e tirare le tende, per non ridiventare allegri mai più.82

Le radici venne pubblicato in danese nel 1975 e si dovrà aspettare due anni per la prima edizione in italiano: è un libro di memorie che propone «uno scavo storico-antropologico dell’ambiente d’origine»,83 una «discesa laica nel labirinto dell’infanzia barbaricina»,84 dalla cronaca familiare descrive avvenimenti storici di grande importanza per l’Isola e per la città di Nuoro, e vi «si riflette pertanto tutta la vita della Sardegna insieme alla poesia e alla documentazione dei ricordi familiari e personali».85 «La famiglia diviene centro storico».86 È un libro «illuminato non soltanto dalla luce d’una sorridente memoria, ma anche dalla felicità di una scrittura d’impareggiabile limpidezza»87 in un «affresco della cultura sarda in bilico fra il forte radicamento nel passato e la necessità più recente di emigrare».88 Si narrano le vicissitudini che segnarono il trasferimento del trisavolo dell’autrice da Fonni a Nuoro in seguito alla crisi economica

81

MARIA GIACOBBE, Diario di una maestrina-Piccole cronache…, p. 265. Ivi, p. 266. 83 GIOVANNI PIRODDA, Letteratura delle regioni d’Italia…, p. 377. 84 MICHELANGELO PIRA, In Barbagia con Maria Giacobbe, «L’Unione Sarda», 05/06/1977, p. 3. 85 FERNANDO PILIA, Maria Giacobbe e le sue «radici»…, p. 12. 86 MARIO CIUSA ROMAGNA, Il mondo di Maria…, p. 200. 87 MANLIO BRIGAGLIA, Un libro un’autrice, «L’Unione Sarda», 29/05/1977, p. 3. 88 PAOLA CARÙ, Maria Giacobbe, Una scrittrice fra due mondi…, p. 14. 82

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abbattutasi sulla Sardegna alla fine del Settecento, che «dà origine ad una famiglia di onesta piccola borghesia paesana, la quale, pur avviluppata nel groviglio delle tradizioni provinciali, ha tuttavia il gusto della buona cultura, il culto della dignità ed un radicato impegno politico verso gli ideali libertari, socialisti e autonomisti».89 «Le «radici» che predominano sono quelle degli avi materni, […], presentati come il centro della vita pastorale dell’intera regione, inquadrati in un ambiente che per secoli è restato come cristallizzato in una sorprendente forma di attardamento e di conservazione».90 Raccontando della vita dei nonni l’autrice ci dà informazioni di storia e società sarda ricordando la «Notte di San Bartolomeo», tra il 14 e il 15 maggio 1899, nella quale vennero arrestati tantissimi barbaricini tra cui suo nonno materno, perché il governo italiano voleva fermare il fenomeno del banditismo sardo, e descrive come la legge tradizionale continuasse a predominare sulla legge imposta dall’Italia e non ritenuta naturale: Di qui la regola dell’omertà come una virtù civile per chi la praticava, ma delitto imperdonabile per lo Stato. Di questa virtù e di questo delitto pochi Barbaricini potevano considerarsi esenti. L’omertà era per loro una necessità non solo civile ma anche esistenziale, una condizione di fatto che non si discuteva neppure perché era considerata ovvia e fatale.91 Sono quasi un migliaio di persone incatenate e malmenate con la brutalità tipica delle truppe di conquista sulle popolazioni soggiogate ma non domate.92

Il suo è un particolare realismo, che non vuole essere una fotografia del vero, perciò il romanzo è un libro autobiografico ma scritto in terra e in lingua danese, che «nasce dal distacco, dalla 89

FERNANDO PILIA, Maria Giacobbe e le sue «radici»…, p. 10. Ibidem. 91 MARIA GIACOBBE, Le radici, Nuoro, Il Maestrale, 2009, p. 31. 92 Ivi, p. 36. 90

74


conoscenza dei modi diversi nei quali l’esistenza si svolge in Danimarca, dal ritorno che è il confronto, meditazione, recupero consapevole della propria fisionomia e, come il titolo dice, delle radici»,93 per questo il dato reale viene raccontato in letteratura attraverso il filtro della memoria, del ricordo, della soggettività e della doppia identità e natura dell’autrice sardo-danese, esprimendo «in termini europei […] il suo impegno politico».94 La memoria della protagonista che parla in prima persona è filtrata da un doppio punto di vista consapevole, che rende più complesso l’inventario del passato, il confronto tra il passato e il presente, la ricerca dei cambiamenti.95 Il ritorno dell’autrice nel paese d’origine con i suoi figli porta alla rievocazione delle radici, allo scaturire dei ricordi, in cui mito e storia, fantasia e realtà, si fondono in questo luogo delle memorie d’infanzia e adolescenza. La casa dei nonni è l’oggetto che fa riemergere il passato ed è stata trasformata nel corso degli anni. Ma non c’è nostalgia, si rifiuta la retorica dell’esilio, opera la «recisione del cordone ombelicale con la propria terra e si riflette in Sardegna senza pietismi».96 Riemergono i fantasmi del passato, racconta una civiltà che ancora non aveva fatto i conti con la modernizzazione, è un romanzo che nasce dalla meditazione a distanza della scrittrice emigrata ormai da vent’anni, su Nuoro e l’Isola, «donna di

93

GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 272. 94 GIUSEPPE MARCI, Radici e poesie della Sardegna, «La Nuova Sardegna», 05/06/1987, p. 28. 95 Cfr. GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 272. 96 ALDO MARIA MORACE, L’essenza delle radici e l’albero della diaspora, intervento pronunciato in occasione della presentazione del documentario Il partigiano Dino, Nuoro, Teatro Eliseo, 18 ottobre 2012. 75


straordinaria sensibilità, capace di mettersi in sintonia con le cose, arrivare alla comprensione attraverso la partecipazione e l’affetto».97 In questo agglomerato di edifici cerco quella che fu la mia casa. Ma solo chiudendo gli occhi riesco a ritrovarla.98

«Il tono dominante, poetico, […] nasce dalla malinconia assorta e meditata, dolce e triste, che assume l’evocazione di cose e persone scomparse, di fatti, sempre sensibilmente sofferti, che hanno lasciato un segno nell’anima».99 […] a questi vecchi scomparsi per sempre, insieme ad altri più giovani la cui morte ancora ci brucia come un’incomprensibile ingiustizia, un torto fattoci a tradimento, a tutti loro ripenso in questa casa che è stata la mia e anche la loro […].100 […] nel mio primo ritorno dopo tanti anni alla mia città natale sento che niente di ciò che vi è accaduto durante la mia assenza potrà risultarmi comprensibile se prima non riesco, come un archeologo da un monumento saccheggiato e manomesso, a far riemergere dalle maschere e dalle incrostazioni nelle quali si è nascosta, la casa della mia infanzia.101

«Da

questo

“luogo

mitico”,

delle

prime

esperienze

dell’immaginazione, dei segreti della bambina che vi abitò, la scrittrice deriva ogni altra esperienza. Tutto ciò che verrà non potrà che essere declinazione ulteriore di quegli spazi e di quei tempi».102 […] per me è come se tutto ciò che nel corso del tempo mi accadde, tutto ciò che mi fu dato provare, godere, soffrire e anche pensare, non sia stato che un approfondirsi, un ripetersi, un momentaneo lacerarsi per nuovamente ricomporsi, uno sbiadirsi o riprendere colore, un alternativo sommergersi o riemergere delle conoscenze, delle sensazioni, delle intuizioni, delle impressioni, delle fantasie che furono le profonde, fondamentali esperienze dei primi anni dell’infanzia. 97

GIUSEPPE MARCI, Radici e poesie della Sardegna…, p. 28. MARIA GIACOBBE, Le radici…, p. 5. 99 MARIO CIUSA ROMAGNA, Il mondo di Maria…, p. 199. 100 MARIA GIACOBBE, Le radici…, p. 49. 101 Ivi, p. 68. 102 FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, p. 113. 98

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È come se da allora nessuna conoscenza abbia potuto e potrà essere altro che un ripetersi di qualcosa di già provato, o un confrontarsi con questo. Nessun paesaggio, nessuna città, nessun viso poté o potrà essere altro che una variazione sui modelli che allora conobbi in quella che comunemente si chiama realtà e nel mondo altrettanto reale che è quello dell’immaginazione.103

«Il quesito di fondo è se il cambiamento abbia rappresentato una progressione verso il meglio o se invece non contenga soltanto il pericolo della perdita della fisionomia».104 Sintetica ma penetrante la descrizione della nonna come di una razionalista severa, misurata nei sentimenti, con grande senso della giustizia, comprensione e solidarietà, il ritratto di una donna forte e coraggiosa: Insieme a questa energia e a questo ardire, la sua compostezza e la sua naturale istintiva signorilità le aprirono porte che per altri erano rimaste chiuse e le diedero un’autorità che conservò tutta la vita, ma che dovette apparire insolita in una donna ancora così giovane e che sino a quel momento era stata confrontata solo con i problemi e i compiti normali nella vita domestica di una ragazza di buona famiglia.105 A lei come a una matriarca si rivolgevano parenti, amici e vicini, sicuri che il suo senso di giustizia e la sua chiarezza di giudizio le avrebbero suggerito il consiglio di cui avevano bisogno. […]. La dittatura fascista, la sconfitta spagnola e una nuova guerra dovevano appesantire i suoi ultimi anni.106

Già anticipato in Piccole cronache, il tema dell’esilio e dell’emigrazione, sia quello forzato da necessità politiche del padre, vittima del Fascismo, sia il concetto di emigrato in generale viene ne Le radici ricordato, riflettuto e raccontato con più matura forza descrittiva e letteraria. Il romanzo si apre e si chiude con questo tema, tra l’emigrazione dell’autrice in Danimarca e la ricerca delle proprie 103

MARIA GIACOBBE, Le radici…, p. 63. GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 272. 105 MARIA GIACOBBE, Le radici…, pp. 40-41. 106 Ivi, pp. 47-48. 104

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radici dopo tanta assenza, e la figura finale del pastore emigrato. E raccontando se stessa rappresenta diverse tipologie di emigrato, da quello nostalgico a quello che riesce, attraverso molteplici difficoltà, a piantare nuove «radici» in terra straniera. Spesso, nella mia residenza copenaghese, sia nel sogno durante la notte, sia nell’indomabile fantasticare del giorno, tutte queste persone mi tornano in mente e, rivedendole come erano allora, mi domando cosa siano diventate oggi.107

Il personaggio che rappresenta la visione positiva di emigrato, non legato alla nostalgia, ad un ritorno in patria, ma che riesce a realizzare i propri sogni nella città estranea, è il pastore fonnese emigrato a Parigi, che riuscì ad avere un piccolo gregge di capre nella città, cosa che tanto aveva desiderato fare in Sardegna: rappresenta l’integrazione e l’adattamento nel paese straniero che può diventare patria, ricchezza, se si pensa a vivere il presente ed il futuro invece che guardare nostalgicamente al passato perduto, «diventa simbolicamente una figura ponte fra due mondi molto diversi».108 «Il passato, pur nell’inevitabile malinconia del ricordo, non può, nel suo assieme, essere definito in termini positivi».109 «L’emigrazione come pratica di espressione e comunicazione fra due o più modi di essere, stili di vita, culture e lingue. Tale è stata, […], l’esperienza di Maria Giacobbe», non dimenticando che l’autrice scrive la sua narrativa in italiano ma le sue poesie in lingua danese, ed «ha provato a vivere l’emigrazione non come esilio ma come tentativo di nuovo radicamento, come ampliamento delle proprie potenzialità di donna ed artista».110

107

Ivi, p. 149. PAOLA CARÙ, Maria Giacobbe, Una scrittrice fra due mondi…, p. 14. 109 GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 273. 110 PAOLA CARÙ, Maria Giacobbe, Una scrittrice fra due mondi…, p. 15. 108

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[…] se la luce del giorno le illuminava, anche quelle strade, anche quella città, potevano diventare un luogo dove l’uomo poteva anche vivere da uomo.111

Il significato del romanzo nasce «dall’intersecarsi delle linee della doppia vita dell’autrice, la sarda e la danese, dall’equilibrio con il quale in ogni momento sa guardare alla sua infanzia, vissuta in circostanze difficili e talora drammatiche ma comunque allietata dal dono della cultura che l’ambiente familiare elargiva, e le infanzie, per altri versi drammatiche, dei suoi coetanei, dalla costante ricerca di un cambiamento che non significhi perdita dell’io collettivo e quindi dal bisogno di ritrovare nella memoria gli elementi costitutivi dell’identità personale e di popolo».112 Maria Giacobbe si racconta, nella vita familiare, nei suoi sogni e fantasie del tempo dell’infanzia, rivela le sue letture, dalle fiabe di Esopo e dei fratelli Grimm, alle Mille e una notte ai russi Puskin, Gogol’, Goncarov e Checov, ed infine Leopardi.113 Si trova una riflessione profonda sulle contraddizioni che permanevano nella sua famiglia con ideali libertari ed antifascisti, che ancora negli anni precedenti al Fascismo aveva alle sue dipendenze la servitù, e questo contrasto si concretizza nei personaggi del contadino Bobore e della domestica Augusta in maniera completamente differente. Bobore è un personaggio caratteristico, ricordato con affetto e simpatia, era un uomo d’onore e di poche parole che non considerava i suoi datori di lavoro dei padroni ed era amico dei borghesi per i quali lavorava, che condividevano con lui gli stessi ideali e le medesime persecuzioni: 111

MARIA GIACOBBE, Le radici…, p. 194. GIUSEPPE MARCI, Narrativa sarda del Novecento, Immagini e sentimento dell’identità…, p. 273. 113 Cfr. MARIA GIACOBBE, Le radici…, pp. 103, 130, 162. 112

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Anche Bobore, ripensandolo oggi, potrebbe sembrare una contraddizione e un anacronismo; e invece, in quella situazione e con quel suo particolare temperamento, era assolutamente coerente con se stesso e con la propria eccezionalità.114 Con quel suo aspetto arcaico da bronzetto nuragico, con quel suo viso irregolare e asciutto, così arcaico anch’esso e protosardo, con quel suo parlare incisivo e quasi avaro, Bobore era, e sapeva di esserlo, anarchico-comunista.115 Per il fatto che erano giusti e fraterni, sia pure nella loro condizione di privilegio, Bobore, l’anarchico-comunista, poteva permettersi di essere giusto e fraterno con loro.116

Augusta è una giovane adolescente, domestica della madre di Maria che ne aveva avuto pietà, era diventata ormai parte del gruppo familiare; nonostante con Maria avessero circa la stessa età, non ebbero davvero un’amicizia e confidenza, non furono mai realmente intime, perché divise dalle classi e dai ruoli sociali. Augusta decide alla fine di licenziarsi per andare a lavorare da padroni molto severi e distaccati con la servitù rispetto alla famiglia Giacobbe: E forse il motivo vero e profondo della ribellione e del distacco di Augusta fu la sua intuizione e la sua condanna dell’incongruenza tra la professione dei nostri ideali e il nostro vivere quotidiano con lei.117 Fu forse questa coerenza che piacque ad Augusta, perché finalmente le permetteva ciò che da noi le era sempre stato impossibile realizzare sino in fondo: di “odiare i padroni, perché i padroni sono d’un’altra razza e un giorno o l’altro tanto ti tradiscono”.118

I personaggi sono descritti non solo esteriormente ma nella loro «dimensione intima»119 e nella loro «conformazione sociale»,120 incarnano i vari aspetti dell’Isola; è presente una galleria di 114

Ivi, p. 130. Ivi, p. 131. 116 Ivi, p. 133. 117 Ivi, p. 180. 118 Ivi, p. 181. 119 MARIO CIUSA ROMAGNA, Il mondo di Maria…, p. 201. 120 Ibidem. 115

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«personaggi femminili (soprattutto domestiche) tanto vivi che il libro può essere letto anche come un saggio sulla condizione delle donne nuoresi di diverse classi sociali tra le due guerre».121 Ritorna il tema dell’antifascismo familiare nel ricordo dell’infanzia e collegato al mito del padre, anche se solo accennato, diluito tra divertenti e ironiche rappresentazioni delle tipologie dei matti del paese, che incarnano una «saggezza alternativa»,122 e la descrizione di alcune caratteristiche delle donne di famiglia, come i loro perpetui mal di testa «causati dalla loro sensibilità morale e dal loro scrupolosissimo senso di responsabilità»,123 tra ricordi di tradizioni ataviche, preghiere e scongiuri che rientravano nel mondo della magia e della superstizione, «né mancano alla trama, apparentemente tenue, ma in realtà ricca di elementi interessanti e popolata di personaggi ben definiti, raffigurazioni efficaci e indimenticabili, come la presentazione dei sogni della povera servetta baroniese […], come il richiamo degli aspetti suggestivi delle sagre popolari, la considerazione dei contrasti tra vecchio e nuovo, tra vita rustica di marca preistorica attardata e le prime innovazioni del progresso tecnologico, ed il riemergere, insieme alla memoria delle cose perdute come un’infanzia, di quei sapori e di quei profumi che sembrano suscitare emozioni e sentimenti di profonda intensità».124 Oggi, a ricordarlo, tutto quel mondo mi pare irreale e antico quasi quanto le fiabe e le cantilene di Martina, e quando con nostalgia ne parlo ai miei figli mi pare irreale e antico anche quel calessino leggero e scoperto, tirato dal cavallo pezzato, che era il nostro più rapido mezzo privato di locomozione a quei tempi.125 121

MICHELANGELO PIRA, In Barbagia con Maria Giacobbe, «L’Unione Sarda», 05/06/1977, p. 3. 122 Ibidem. 123 MARIA GIACOBBE, Le radici…, p. 95. 124 FERNANDO PILIA, Maria Giacobbe e le sue «radici»…, p. 11. 125 MARIA GIACOBBE, Le radici…, p. 127. 81


Maschere e angeli nudi venne pubblicato nel 1994 in danese (tradotto dall’italiano dal figlio dell’autrice Thomas Harder, scrittore, giornalista e traduttore), e nel 1999 si ebbe l’edizione in italiano. Racconta «uno scavo della memoria sociologica di una comunità, di una bambina, di un tempo».126 Questo romanzo rappresenta il culmine e il punto d’arrivo della produzione autobiografica dell’autrice, che dopo d’allora scriverà delle opere che, nonostante risentano sempre della sua esperienza biografica, non riguarderanno più nel particolare la sua memoria di vita personale. Come se l’artista si possa ritenere ormai soddisfatta dalla ricerca, dall’indagine e dalla riesumazione delle proprie memorie e ricordi, «dall’autobiografia dell’anima»,127 e dopo averle raccontate in maniera originale in letteratura, possa dedicarsi ad un tipo di narrativa non più memorialista. Le radici isolane e familiari sono state indagate, il personaggio-autore si è raccontato dalla nascita sino alla sua emigrazione in Danimarca nei quattro romanzi autobiografici, ha ritrovato e riscoperto l’originaria identità mitica che ha per nascita e che ora s’incontrerà e fonderà con l’identità danese, europea, contemporanea. I paesi del Nord mi parevano particolarmente affascinanti, così vicini a quella zona dove la carta, e cioè il mondo, finiva e dove quindi il cielo doveva iniziare. Le loro coste erano frastagliate e il mare intorno a loro era disseminato di isole e isolette che parevano petali di fiori sui quali immaginavo che gli angeli bambini, cioè quelli buoni non spioni, camminassero e giocassero come nei “giardini del cielo”.128

126

ALBERTO MERLER, Il divertimento interculturale di Maria Giacobbe, in MARIA GIACOBBE, Il fox-trot della Madonna, Quaderni Bolotanesi, n°21, anno XXI, 1995, p. 285. 127 MARIA PAOLA MASALA, Autobiografia di un’anima, «L’Unione Sarda», 19/05/1995, p. 10. 128 MARIA GIACOBBE, Maschere e angeli nudi, Ritratto d’un’infanzia, Nuoro, Il Maestrale, 2009, p. 101. 82


Maschere e angeli nudi completa e approfondisce il ritratto che la scrittrice vuol dare di se stessa e del suo passato nell’Isola, perciò si ritrovano alcuni spunti e personaggi già presenti in Le radici ora nuovamente analizzati e più riccamente descritti e definiti. La narrazione si articola nelle tre parti nelle quali si ripartisce il romanzo e informa sulle memorie addirittura dal tempo in cui la scrittrice era neonata, sino ad arrivare ai dieci anni di età. Abbiamo la descrizione di Maria Giacobbe da bambina, timida e riflessiva, della sua infanzia di sogni e paure che si riflettono nel panorama della dittatura fascista, e la comprensione di ciò che questo momento storico significò per la famiglia dell’autrice. La protagonista ricorda i propri dubbi sull’esistenza di Dio e degli angeli, riflette sulla morte ed esprime con una bellissima rappresentazione dantesca i sintomi della malaria, simili a delle sensazioni vicine alla morte: Ricordi isolati ma precisi di quella mia lontana condizione angelica. Così presto perduta, perché troppo precocemente si sviluppò in me una perniciosa tendenza all’introspezione e alla sospettosa ricerca dei volti che si nascondevano dietro le maschere, e del mondo occulto e minaccioso celato dietro le apparenze falsamente tranquillizzanti del quotidiano.129 […] non ero quasi mai felice. E tanto meno ero spensierata.130 La morte dunque era la sola vera realtà, mentre la vita era maschera, inganno e autoinganno.131

La bellezza del contatto con la natura, con il mare, si esprime in termini di rapporto d’amore ed è notevole la descrizione della città di Cagliari: La gioia del mio primo incontro col mare e la sabbia e l’erba, e con la beata armonia che regnava tra loro e tra i loro colori, fu totale e perfetta. Il cosmico, 129

Ivi, p. 13. Ivi, p. 14. 131 Ivi, p. 139. 130

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luminoso rapporto d’amore che quella volta si stabilì tra me e il mare, e la sabbia e l’erba, a differenza di altri rapporti d’amore, non s’eclissò mai.132 Cagliari era un mondo in tutto e per tutto diverso da quello dove ero nata e dove avevo vissuto sino a quel momento, Cagliari era un mondo di totale bellezza dove la paura, la volgarità e la violenza non potevano esistere. Forse Cagliari era il cognome di Paradiso.133 Nessuna città del mondo, né Parigi né Roma, né New York né Londra poterono reggere il confronto con essa.134

Si ritrova la riflessione sulla tradizione matriarcale e atavica della famiglia materna e dell’intero mondo sardo negli anni Trenta, delle regole che ognuno doveva rispettare a seconda del rango di nascita, l’importanza del nucleo familiare; si ricorda il sogno di un mondo migliore, senza schiavitù e con la parità dei diritti, tra uomini e donne, ceti sociali differenti, senza la morte e pieno di allegria. Il romanzo ruota attorno al tema dell’antifascismo, agli ideali dei genitori della scrittrice e agli enormi cambiamenti che portarono nei suoi affetti e nella sua visione del mondo. L’ultima parte del romanzo ha l’indicativo titolo L’esilio, che per l’autrice iniziò nel momento in cui il padre dovette abbandonare l’Isola e l’Italia, esilio dall’infanzia e dall’ingenuità, entrata nel crudele mondo reale. Si sviluppa in maniera completa la rappresentazione della figura del padre e del suo mito come eroe, si avvertono tutti i cambiamenti avvenuti dal momento della sua assenza come negativi e si aspetta il suo ritorno, con immenso dolore, sofferenza. Mio padre sapeva un mucchio di cose su tutto. Forse sapeva veramente tutto. Sapeva i nomi delle piante, delle pietre, degli uccelli, degli insetti e delle stelle.135

132

Ivi, p. 11. Ivi, p. 54. 134 Ivi, p. 60. 135 Ivi, p. 24. 133

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[…] trauma insanabile quando babbo, l’uomo che senza il minimo dubbio era per me il migliore del mondo, quello del cui amore mai avevo dubitato, nella scelta tra me e “la necessità di difendere la libertà, la giustizia e la propria dignità d’uomo”, dimostrò di preferire, la libertà, la giustizia e la dignità e se ne andò per sempre, lasciandomi in un mondo nemico e offensivo, dove senza di lui la tristezza e la mancanza di speranza divennero il sapore costante di quasi ogni ora.136 […] siccome credevo che i fascisti in Italia li avremmo avuti sempre, quella separazione la sentii subito definitiva, tragica e irrimediabile.137

È presente la riflessione, maturata in molti anni sui propri genitori, l’amore e gli ideali che li legavano, la difficoltà di essere figli di perseguitati politici. […] non posso fare a meno […] di domandarmi se davvero quei miei genitori così buoni e avveduti, così affettuosi e colti, abbiano sino in fondo misurato lo spessore dei problemi che io e i miei fratelli dovevamo affrontare in quanto loro figli. Figli di perseguitati politici libertari, eravamo degli esiliati in un mondo che si era piegato alla rassegnazione mediocre e redditizia degli schiavi e che, nella sua umiliazione, non era avaro di vendette contro i ribelli. E i figli dei ribelli. Figli d’intellettuali progressisti di cultura europea, assorbivamo però le nostre prime fondamentali impressioni da un ambiente ancora imbevuto di cultura arcaica conservativa. Figli di “liberi pensatori” nemici dei pregiudizi e delle superstizioni, muovevamo i nostri primi passi in un mondo retto ancora da rigide regole tribali e da divieti il cui senso in gran parte era andato perduto e che non di rado erano diventati pregiudizio e superstizione…138

Le maschere, sono quelle dietro le quali si nascondevano e difendevano la personalità e i sentimenti della piccola protagonista dalle paure e dai dubbi infantili, «disposta a dare agli adulti […] ciò che gli adulti si aspettavano da lei»:139 E se non altro mi stimolarono a cercare d’essere attenta e rispettosa nei miei rapporti con gli altri e soprattutto con i piccoli. M’insegnarono a vedere, o a provare a vedere, la complessa e spesso contradditoria realtà sotto le apparenze 136

Ivi, p. 96. Ivi, p. 234. 138 Ivi, p. 86. 139 MARIA PAOLA MASALA, Autobiografia di un’anima…, p. 10. 137

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semplificanti dietro cui si cela. E m’insegnarono la necessità di tentare di capire, senza violare il diritto che bambini e adulti possiamo avere di proteggere dietro una maschera le nostre insicurezze e la nostra vulnerabilità.140

La madre e la nonna dell’autrice acquistano più spessore come personaggi in questo romanzo, descritte meno sinteticamente approfondendo le loro caratteristiche con nuovi elementi e particolari che denotano due caratteri di donna forti e coraggiosi; si riaccenna ai personaggi di Bobore, Martina e Teresa, già presenti in Le radici. Mamma era, per i suoi tempi e ancora di più in rapporto alla piccola città di provincia in cui era nata e in cui le persecuzioni politiche la condannavano a vivere, una donna eccezionalmente colta, nutrita di ottime e numerose letture, modernamente e coraggiosamente impegnata nei problemi politici e morali della sua epoca. Ma era anche figlia e nipote di generazioni e generazioni di prinzipales per i quali l’accettazione e la fedeltà a ruoli e rituali prefissati da secoli o millenni non potevano essere messe in discussione.141 L’incertezza sulla sorte di una persona amata è a lungo andare più penosa e logorante dello scontro diretto con la realtà, per quanto dura questa possa essere. Mamma era una donna forte, ma da quel giorno non credo di averla più vista sorridere. Si concentrò tutta a fare per noi un mito del nostro babbo assente e a insegnarci che dovevamo essere fieri di essere suoi figli.142 Nonna era umana e giusta, si diceva. Poteva anche essere compassionevole. Ma non era confidenziale. Non era materna.143 Nonna era nata antifascista, come antifascisti erano nati i suoi antenati, molto prima che la parola fascismo esistesse. Perché la fierezza e il rifiuto della tirannide e dell’arbitrio, […], erano state le colonne portanti di quella cultura minoritaria e resistenziale di cui essa era prodotto.144

Vi è il racconto in termini surreali dei luoghi degli incubi nella «prospettiva disincantata della scrittrice-bambina che, anche quando è angosciata e timorosa, anche quando mette a nudo le contraddizioni e

140

MARIA GIACOBBE, Maschere e angeli nudi, Ritratto d’un’infanzia…, p. 89. Ivi, p. 27. 142 Ivi, p. 233. 143 Ivi, p. 111. 144 Ivi, pp. 239-240. 141

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l’assurdità della vita, trasfigura la realtà, commuove e incanta».145 In questo romanzo si ritrovano i nuclei poetici che si svilupperanno in seguito, in testi dove realtà e immaginazione si fondono e legati alla produzione più cosmopolita della scrittrice. Ormai non ho più molti dubbi che l’amore umano sia un dono più prezioso e chissà forse anche più raro della volubile benevolenza di Dio e della saltuaria anche se miracolosa protezione dei santi.146

Il libro si conclude con la promessa della protagonista di occuparsi del «futuro dell’umanità»,147 promessa che ha peraltro portato avanti nella sua letteratura e nella «sua idea di cultura odierna: composita, “creolizzata”, in movimento insieme alle individualità e ai popoli che si muovono nel mondo d’oggi».148

II.2. Il racconto cinematografico del mito Gli Arcipelaghi, del 1995, rientra tra quei romanzi che non sono ambientati in una città reale ma in un’Isola non nominata: i paesi in cui si svolgono i fatti hanno nomi fittizi, ma dai lettori i luoghi, le tradizioni ed i personaggi della storia, sono collocati con sicurezza in un paese possibile della Sardegna, anche se non in uno specifico. Proprio con questo libro infatti, per me era importante lasciare nel vago il luogo geografico (non l’ambiente-paesaggio), per evitare che il lettore s’accostasse al racconto con delle false aspettative e che il valore paradigmatico che speravo di potergli dare non ne venisse diminuito. Ma ugualmente sembra che, i lettori in Italia, in Danimarca e in Svezia, i tre paesi dove questo romanzo è stato pubblicato, non abbiano avuto alcun dubbio che la storia si svolge in Sardegna. Perché? Per un’associazione di idee, perché i miei lettori sanno che sono originaria di quest’isola, o per altri motivi più intrinseci al testo? 149 145

[ARTICOLO REDAZIONALE], La voce degli angeli bambini, «La Nuova Sardegna», 22/01/2000, p. 35. 146 MARIA GIACOBBE, Maschere e angeli nudi, Ritratto d’un’infanzia…, p. 40. 147 Ivi, p. 275. 148 ALBERTO MERLER, Il divertimento interculturale di Maria Giacobbe…, p. 286. 149 MARIA GIACOBBE, Paesaggi, Personaggi, Letteratura e Memoria…, p. 26. 87


Il libro nasce come un «atto finale di un lungo processo d’interpretazione e autointerpretazione. Di un’isola, ma anche di sé nell’isola: due realtà finalmente separate ma comunque partecipi nello stesso arcipelago umano».150 La cultura barbaricina, con i suoi riti, miti e le sue leggi antiche, l’abigeato, l’uccisione di un bambino che per sua sfortuna ne è stato testimone, e la conseguente vendetta che deve compiere il gemello dell’ucciso per non essere disonorata la famiglia, la morte che chiama altra morte, la legge ancestrale del taglione applicata nel mondo contemporaneo sono tutti elementi liricamente narrati in questo romanzo. Il racconto «esprime il tentativo della scrittrice di esaminare “il problema del male, il mistero del male”»151 facendo incontrare e confrontare «i terribili drammi dell’odio e dell’onore, riproposti però per giungere alla catarsi, per rendere inutile e vana la vendetta».152 C’è una sublime sintesi e scontro tra civiltà: tra un mondo regolato da un codice d’onore arcaico, in cui vige l’istituto della vendetta, ed un mondo regolato da un diritto più moderno scaturisce la possibilità di una soluzione più umana dei conflitti interno alle comunità isolane.153 Anche se «la vendetta è […] atto liberatorio, attraverso il quale si compie il riscatto, se non dal dolore, dai vincoli rituali del lutto»154 e serve per «ristabilire all’interno della comunità l’ordine compromesso, poiché è la comunità stessa che esige che la colpa venga punita»,155 il 150

ALBERTO MELIS, Gli arcipelaghi di Maria, «L’Unione Sarda», 30/05/1995, p. 10. PAOLA CARÙ, Maria Giacobbe, Una scrittrice fra due mondi…, p. 15. 152 NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 84. 153 Cfr. PAOLA PITTALIS, Storia della letteratura in Sardegna…, p. 113. 154 ANGELO DE MURTAS, Per destino la vendetta, «La Nuova Sardegna», 23/01/1996, p. 35. 155 Ibidem. 151

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romanzo si chiude con la speranza di un cambiamento, simboleggiata da una futura nascita nel mondo civile e dall’assoluzione di Oreste nel processo. Da questi temi se ne sviluppano altri che s’intrecciano, come l’onore, la paura, l’omertà, tutti valori della società pastorale arcaica che nel 1968 non è ancora cambiata. E inoltre quelli cari all’autrice da sempre dell’esilio, della morte e dell’infanzia violata. La vendetta viene letta non in termini di orgogliosa diversità ma alla luce di una razionalità e diritto “europei”,156 condannandola e affrontando il problema della giustizia, in un realismo partecipe ai fatti e ai personaggi. L’autrice racconta le norme ataviche con uno stile e una poesia, «una analisi […] lucida e ragionata»157 che mai nessuno prima d’ora era riuscito a fare, offrendo ai lettori delle immagini profonde dell’Isola, nonostante narri di una sua esperienza autobiografica.158 «La Giacobbe affronta un’ordinaria ma spietata vicenda di sangue, con un analisi lucida e sofferta lasciandosi coinvolgere dai processi di coscienza dei vari protagonisti per evidenziarne le motivazioni oscure».159 Il delitto ha rotto un equilibrio che deve essere ristabilito, non solo per un obbligo verso la comunità, ma anche perché l’anima del bambino invendicato, secondo la credenza popolare, non troverebbe pace. La giustizia statale non ha alcun valore per la madre dell’ucciso che con determinazione e in nome di una sovrumana giustizia,

156

Cfr. NERIA DE GIOVANNI, Carta di donna, Narratrici italiane del ‘900, Torino, Società Editrice Internazionale, 1996, p. 28. 157 NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 77. 158 Cfr. TANIA BAUMANN, Donna Isola…, pp. 228-229. 159 NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 76. 89


sacrifica l’infanzia e il futuro di un altro innocente. Con queste motivazioni e facendo leva sui concetti di virilità e balentìa, Lucia, la madre dell’ucciso, riesce a convincere il piccolo Oreste, fratello della vittima, a compiere la sua vendetta.160 Il «vendicatore bambino»161 non a caso si chiama Oreste, come l’eroe delle tragedie greche classiche dell’Orestiade: è un ragazzo sensibile che insieme al gemello Giosuè sognava il mare e un lavoro diverso da quello di pastori al quale la madre li aveva già condannati. La sorella si chiama Cassandra, anche lei ha il nome di un personaggio mitico che prevedeva il futuro ma non veniva ascoltata e creduta, che ha il compito tra i narratori «di rendere quasi cinematograficamente, la vita all’interno della casa»;162 i loro nomi mitici portano in sé il destino tragico al quale saranno sottoposti. Cassandra vorrebbe non capire quello che sta accadendo intorno a lei e vorrebbe un mondo diverso, come tutti i giovani del romanzo, da Giosuè ed Oreste al figlio di Antonio Flores, che hanno il sogno di una vita diversa, lontana, da emigrati, e sono tutti simbolo della voglia di modernità e libertà. Volontariamente si inserisce nel mondo classico quello moderno, rappresentando «tale contrasto soprattutto nelle diadi vecchi-giovani, madri-figli. I figli sono i depositari della speranza del cambiamento, rispetto all’arcaismo statico delle madri, […], spesso raffigurate con tratti demoniaci e animaleschi».163 Si sentono estranei ai comportamenti dei genitori che vedono come degli irrazionali e irragionevoli. La comunità è pienamente immersa nel mondo mitico, 160

Cfr. FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, p. 114. 161 ALBERTO MELIS, Gli arcipelaghi di Maria…, p. 10. 162 FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, p. 114. 163 Ivi, p. 115. 90


che si è fermato dai tempi d’Omero; la religione cristiana incarnata da Don Marcellino, tentato dalla carne e tanto codardo, non aiuta i compaesani. Oreste, vero protagonista del romanzo, è condotto e armato dalla madre a compiere la vendetta familiare, macchiando se stesso e la sua coscienza dal delitto, ma accettando passivamente il suo ruolo nella gestione tradizionale della giustizia: Se io non lo avessi vendicato, Giosuè non avrebbe mai trovato pace nella sua tomba. Anzi sarebbe stato come se non gli avessimo neppure dato sepoltura, e avrebbe continuato a credere che di lui e della sua morte barbara non ce ne importava niente. E non trovando pace non poteva perdonare né a noi né ai suoi assassini e perciò non poteva entrare in paradiso.164 Giosuè era mio fratello gemello. Spettava a me liberarlo dalla tomba e permettergli di entrare in paradiso. E anche mia madre e le mie sorelle non dovevano essere condannate a vivere nella vergogna, da donne disonorate che tutti dopo potevano continuare a offendere. Era mio dovere lavare la macchia e difenderle da altre offese.165

«L’io narrante vorrebbe che fosse, come l’Oreste del mito, l’ultimo di una generazione eroica, schiva di un fato tremendo, e il primo di una generazione umana che vive in una libera atmosfera in cui il giusto si sostituisce all’eroico, l’assennatezza alla potenza, la coscienza alla violenza e alla forza del Fato».166 Le particolari visioni del mondo e le soggettive verità sono espresse dai diversi narratori, che intrecciano le loro voci e parole, personaggi che prendono parte alla storia, presentandola in un andamento cinematografico: raccontano Lorenzo e sua moglie, la dottoressa Rudas, parlano Cassandra e Oreste, i fratelli del bambino 164

MARIA GIACOBBE, Gli Arcipelaghi, Roma, Biblioteca del Vascello, 1995, pp. 138139. 165 Ivi, p. 146. 166 NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 85. 91


assassinato, mostrano i propri flussi di coscienza i testimoni al delitto, il derubato e suo figlio. Con i personaggi e la loro analisi psicologica, che avviene tramite monologhi interiori e la descrizione di sogni, incubi e presagi, «tratteggiati in belle pagine con mano ferma e impietosa»,167 si esplora la società isolana, che «rivela non solo “arcipelaghi” formati da isole, ma anche isole di individui singoli e di gruppi sociali che, per caratteri e aspetti, sono allo stesso modo altrettanto distanti e insieme diversi»:168 si suddividono in questo modo i diversi ed anche opposti punti di vista attraverso i quali viene narrata la vicenda. Il racconto «sfugge alla linearità logico-temporale per scomporsi in una pluralità di voci»,169 molteplicità dei punti d’osservazione, che «collaborano alla ricostruzione di una tragedia collettiva».170 Sono «voci intime che esprimono speranze o paure, ricordi, riflessioni, parole mai pronunciate, spesso giustificazioni per placare una coscienza torturante, risultati psichici di filtrazione e censura. Non hanno invece voce i personaggi che non sono tormentati dai dubbi»171 come Lucia o il Falco o la nonna di Oreste. La Civiltà moderna è impersonata dalla dottoressa Rudas, anzi la transizione da codici arcaici a quelli moderni, e da Lorenzo, ancor più civile e moderno di lei, nel pensare che «se Oreste ha ucciso è pure lui vittima di un sistema e di una cultura che l’hanno indotto a quel gesto».172 Le donne del romanzo, divise come gli uomini dal conflitto generazionale, che vede le più anziane attaccate alle rigide norme 167

ALBERTO MELIS, Gli arcipelaghi di Maria..., p. 10. NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 74. 169 PAOLA PITTALIS, Storia della letteratura in Sardegna…, p. 113. 170 Ibidem. 171 TANIA BAUMANN, Donna Isola…, p. 229. 172 FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, p. 115. 168

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tribali e le più giovani che invece non vogliono farsi coinvolgere in questo arcaico mondo barbaro, sono caratteri di donne forti, matriarche o razionaliste. La nonna e la madre di Giosuè e la vedova Rudas rappresentano gli aspetti negativi e positivi della tradizione, mentre Cassandra e la dottoressa Rudas vogliono vivere in un mondo diverso e civile. Ogni primo capitolo di ognuna delle quattro parti nelle quali si struttura il libro, riporta i pensieri e i ricordi del narratore Lorenzo, sono una sorta di prologhi che si distinguono dal resto del testo per l’uso del corsivo. I titoli e i prologhi delle quattro parti introducono le tematiche di cui si parlerà. Il romanzo inizia con un ritorno nell’Isola dall’esilio milanese di Lorenzo, veterinario di madre sarda e padre fiorentino. Nel primo capitolo dal significativo titolo Esilio, si avverte «un’aura rarefatta, mitica, che rinvia all’atmosfera liricamente sospesa»,173 e il narratore è desideroso di tornare nell’Isola, aveva vissuto con nostalgia il distacco da questo luogo. «Il titolo “arcipelaghi” si apre così, fin dall’inizio, a una pluralità di significati convergenti, perché l’isola, vista dall’alto, con il suo contorno di isole minori, appare piuttosto come una serie di arcipelaghi».174 Lorenzo compie «un processo di autoidentificazione e al tempo stesso di autocoscienza, non disgiungibile dalla valorizzazione delle emozioni e degli affetti, può ridare senso a un recupero che riconsegni la Sardegna al mito dal quale proviene e dal quale deriva il fascino che esercita sul visitatore. Il solo fascino che riesce a immetterla

173

NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 79. 174 Ivi, p. 74. 93


nell’immaginario

postindustriale

e

postmoderno

del

nuovo

millennio».175 Dopo tanto spazio di mare, così azzurro che le creste circolari delle onde vi spiccavano con la ferma grazia di atolli, apparvero i contorni dell’isola, rosei come una cicatrice recente, bordati d’una frangia di spuma. Deserti, sembravano vergini, inviolati.176 Nell’Isola è ancora così, diceva. Da una parte la malignità della critica che ti misura e ti fa misurare ogni gesto, e dall’altra la solidarietà e la generosità che ti sorreggono ogni volta che il destino ti colpisce e hai bisogno d’aiuto. Come ai tempi d’Omero, diceva.177

L’approccio soggettivo di Lorenzo, che racconta esperienze, percezioni, sensazioni, ricordi, «ci rivela il sentimento che l’io narrante ha degli arcipelaghi, dell’isola-rifugio, isola-paradiso perduto, e insieme, dichiara la volontà di recuperarne la memoria per comprenderla, con un atto conoscitivo che non può che essere quello che l’io ha del presente e del passato. Prevale la tenace volontà di penetrare le oscure vicende di sangue che contraddistinguono la vita degli abitanti della Barbagia. Un atollo sopravvissuto alla preistoria che richiede un processo di autoidentificazione per comprendere le paure ancestrali che le lotte con la natura per la sopravvivenza hanno prodotto».178 Lorenzo rappresenta la modernità, la cultura civile ma è anche legato alla società e tradizione sarde, e s’impegna in una «difficile lettura di questa isola imperfetta ma mitica».179 Il vissuto e le esperienze personali aiutano Lorenzo a penetrare meglio dentro la

175

Ivi, p. 79. MARIA GIACOBBE, Gli Arcipelaghi…, p. 9. 177 Ivi, p. 11. 178 NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 75. 179 Ibidem. 176

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realtà sarda, a passare dal mitologema e dalla contemplazione dello spettacolo naturale alla comprensione vera.180 Nonostante il racconto abbia l’impianto classico del viaggio, un esilio e un ritorno, la tecnica che utilizza, quella del «futuro ricordato»,181 porta a una contemporaneità di ricordi, a una sospensione del tempo, a un «racconto che non scorre uniforme come un fiume ma ha intermittenze e compone, nella sua contemporaneità spaziale, davvero un “arcipelago di ricordi”».182 «Innestando il flusso di coscienza nel linguaggio essenziale del diario-cronaca che mirava a rappresentare, a tutto tondo e dall’esterno, fatti e personaggi, la Giacobbe rivela il groviglio di reazioni dell’individuo che, immerso in una società ancora arcaica, mostra la sua capacità di sviluppare, in situazioni di emergenza, quegli automatici e istintivi meccanismi di difesa, che possono talora salvare la vita di un uomo e al tempo stesso produrre una catena di altri delitti. Mette a nudo insomma, in ciascun personaggio, quella fulminea, istintiva tempestività con la quale l’animale reagisce all’insidia del predatore».183 È la «storia di molte solitudini che si intrecciano, si intersecano, si sfiorano senza mai confondersi l’una nell’altra. Non è la stessa solitudine della quale negli arcipelaghi è prigioniera ciascuna isola?».184 L’autrice «sembra abbia guadagnato la coscienza di questo

180

Cfr. ivi, p. 83. ALDO MARIA MORACE, L’essenza delle radici e l’albero della diaspora, intervento pronunciato in occasione della presentazione del documentario Il partigiano Dino, Nuoro, Teatro Eliseo, 18 ottobre 2012. 182 NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 74. 183 Ivi, p. 77. 184 ANGELO DE MURTAS, Per destino la vendetta…, p. 35. 181

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“tempo astronomico”»,185 in «un’operazione di grande rilievo etico e stilistico,

poiché

la

distanza

favorisce

i

due

atteggiamenti

dell’identificazione e della conoscenza se si controllano le mozioni degli affetti e quello delle ideologie che affliggono la corretta lettura di questa terra-isola, […], che distilla come un miele nascosto, il fascino di un rapporto autentico con una natura inviolata»186 e recupera «insieme al sapere antropologico religioso, il senso del sacro che ha il suo fondamento nel sapere umanistico»,187 consegnandoci «un “romanzo di vibrante tono poetico e penetrante forza innovativa”, poiché ha ricondotto la vicenda narrata in una prospettiva di grande ampiezza, che è, quella in cui l’uomo si misura con gli archetipi dei millenari saperi sulla vita».188 Pòju Luàdu,189 romanzo del 2005, non viene esplicitamente ambientato in Sardegna, ma in un’isola ideale, in un paese immaginario il cui toponimo significa «fiume avvelenato», dietro i quali si riconosce però la patria della scrittrice, soprattutto dai discorsi del protagonista sui problemi attuali che affliggono il luogo che si racconta. Ma tocca anche problemi di attualità mondiale, come la guerra in Palestina. Romanzo simbolico già dal titolo, è l’immagine di un paese accanto ad una discarica, della degenerazione dell’ambiente e dell’uomo che in esso vive, conseguenza delle scelte politiche ed economiche dei governanti. Anche i bambini del paese sono il riflesso della degenerazione, sono infatti piccoli delinquenti. «Pòju è una 185

FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, p. 118. 186 [ARTICOLO REDAZIONALE], Premio speciale della Giuria, Maria Giacobbe, Gli Arcipelaghi, «Salpare», anno VIII, n°24, Ottobre- Novembre 1995, p. 14. 187 NICOLA TANDA, Non isola ma “Arcipelaghi”: Maria Giacobbe tra ethos barbaricino e mito classico…, p. 86. 188 Ibidem. 189 MARIA GIACOBBE, Pòju Luàdu, Nuoro, Il Maestrale, 2005. 96


specie di buco nero che risucchia dall’interno l’anima del paese e lo precipita a livello dei suoi rifiuti, vestigia di un passato ormai ridotto a deiezione e scarto, che si ricompone solo per via negativa, raccogliendo i suoi frammenti e i suoi residui».190 Ed è in questo paese, sua patria natale, che decide di tornare l’ormai novantenne Ciro, in un esilio ragionato, per voler chiudere volontariamente la sua vita lì dov’era iniziata. Nonostante le nipoti non condividano la sua scelta. «Il recupero di autocoscienza, il confronto coi propri luoghi e la coralità delle voci che partecipano alla costruzione dell’identità ritornano in questo libro a suo modo biografico. Tutti i personaggi che si raccontano lo fanno attraverso la formula del flashback o del flusso di coscienza».191 Con un andamento tipico del cinema sono diversi narratori che parlano, per offrirci diverse visioni del mondo, da quella del capostipite familiare Ciro alla nipote repressa, afflitta dal complesso di Penelope, la bigotta Gervasa, da Mira e Gala al piccolo Emilio, ognuno porta nel racconto i propri pensieri e il proprio modo di vedere i fatti e gli altri. I personaggi sono descritti dai propri pensieri ma anche dalla visione che gli altri narratori esprimono, in multiple prospettive e delineando con pochi tratti i caratteri particolari di ciascuno, dagli uomini alle donne di famiglia, ai bambini del quartiere. I temi sono la memoria, l’infanzia, l’antifascismo, la guerra, l’amore e la morte, l’arte e la natura, l’esilio, l’emigrazione e il viaggio, la critica sociale e del progresso che ha portato ad una civiltà contaminata; potrebbe essere definito un romanzo cerniera perché 190

FRANCESCA CONGIU, La Sardegna di Maria Giacobbe fra realismo documentario e antiche mitologie…, p. 117. 191 Ivi, p. 116. 97


comprende tutti i temi della narrativa della Giacobbe, e realizza una maniera moderna di parlare del mito, della storia universale e personale attraverso l’immaginazione. «Il maggior bagaglio di ricordi appartiene a Ciro, […], unico depositario di quella dimensione della Storia capace di trasformare una semplice esistenza in una militanza a favore dell’ideale. Le vicende di antifascista e di rifugiato politico, di avventuriero e di studioso, di lettore e archeologo, fanno di questo personaggio il vero protagonista “positivo” del romanzo. Il suo ritorno al paese d’infanzia si configura con un meditato ritorno alle proprie radici e come occasione per un bilancio della propria esistenza. Questo sentimento di liberatoria gratitudine e solidarietà con i propri spazi, manca a gran parte delle donne della famiglia, che intendono Pòju, […], come luogo d’infanzia di costrizioni (Gervasa e Mira), o come scenario per un’irreale dimensione mitica, che realizza la sua vivibilità soltanto in una condizione idilliaca (la storia d’amore di Gala con Alain)».192 «L’isola è il luogo da cui tutti i personaggi sono partiti, ma con cui il legame non viene mai reciso. Proprio l’impossibilità di pacificarsi con la propria terra porta però a delle ricadute che sfogano la loro patologia a livello inconscio o automatico. È il caso di Mira, che vuole dimenticare […]. Il senso di colpa ritorna, come rimorso di vivere».193 La

costruzione

della

casa

è

senz’altro

simbolo

della

ricomposizione di un’identità, così come lo era stato per la stessa Giacobbe, autrice e protagonista dell’autobiografia Le radici. «Ma il recupero della casa-identità avviene in Pòju attraverso un’operazione narrativa più forte: una vera e propria riedificazione dalle fondamenta 192 193

Ivi, p. 116. Ibidem. 98


che, meglio della semplice descrizione memoriale, dà conto del processo di rimozione che vi sta alle spalle».194 In questa fase creativa l’artista, «dopo aver documentato, con accreditato realismo, l’arcaicità statica e inaccettabile dell’isola nel reportage diaristico della maestrina, sembra aver diluito nel tempo quella posizione critica»,195 e in quest’opera molto attuale fonde tutti i temi portanti della sua narrativa e crea dei personaggi che restano impressi per la loro tipicità caratteriale e per le personali storie di vita, in uno stile che riporta le azioni quanto i pensieri. «Non occorreva cioè un punto di vista sulla realtà, ma arrivare alla comprensione del luogo-Sardegna come sede dell’esperienza vissuta».196 «Collegando il recupero del tempo dell’infanzia al motivo della ricostruzione della casa, con Le radici prima e con Pòju Luàdu poi, la scrittrice è entrata in contatto con la sua geografia umana e ne ha riportato a galla spazi e tempi (e più tempi insieme)».197

II.3. Protagonisti: il mare e l’infanzia Il romanzo Il mare venne pubblicato contemporaneamente in danese e in italiano nel 1967: è la storia di una crescita, della trasformazione della protagonista Rosa, di dodici anni, che attraversa il delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza durante un’estate, scandita dalla parte prima e seconda nelle quali si articola il libro, che si potrebbero anche chiamare infanzia e adolescenza. Rosa parla in prima persona, presenta il suo particolare punto di vista e descrive «le

194

Ivi, p. 117. Ibidem. 196 Ibidem. 197 Ivi, pp. 117-118. 195

99


sue sensazioni della scoperta della “grande acqua”»,198 il mare dal quale è profondamente attratta che è parte integrante della sua esistenza e protagonista insieme a lei di questo romanzo. La genesi del romanzo ci viene raccontata dalla stessa autrice nella premessa all’edizione del 1997: l’ambiente nel quale si svolge la storia è un villaggio di mare, di pescatori e marinai, simile a molti già conosciuti, «ma che non era nessuno di quelli in particolare»,199 anche se i nomi Spiaggia dei Confetti e Cala delle Barche, rimandano a due reali spiagge esistenti nella località di Santa Lucia di Siniscola, che ancora oggi è un villaggio di pescatori, ma l’autrice non colloca esplicitamente la narrazione in Sardegna. La storia che Rosa mi dettava e che io scrivevo non era la mia storia, Rosa non era me e non mi somigliava, anzi mi piaceva più di quanto io mai, neppure nei momenti di maggiore generosità verso me stessa, mi sia piaciuta: quel suo modo di sentirsi all’unisono con la natura escludendone il mondo degli uomini non era stato il mio, quella sua franchezza nel rifiutare di caricarsi dei problemi degli altri non era stato il mio. […]. In comune avevamo però l’accesa sensibilità per quella natura mediterranea nella quale Rosa come me si era sviluppata e quella capacità di mettersi in contatto con essa in uno stato di quasi nirvana, che però forse è comune a tutti gli adolescenti del mondo.200 […] la storia di Rosa mi si rivelò […]. Mentre lo scrivevo non avevo altro bisogno che quello di fermare sulla carta le immagini che, come in un film, si svolgevano davanti agli occhi della mia fantasia e non mi ponevo né problemi di stile né problemi morali o politici.201

Il tema dell’infanzia è collegato, come nei primi due romanzi, alla critica e denuncia sociale, anche se più velata in questo romanzo. Il padre di Rosa è un marinaio che sta lontano per lavoro, la madre è sbadata e poco si occupa di lei e del fratello, presa da trucchi, vestiti, amici, sigarette e giochi di carte. Viene descritto un mondo adulto 198

FERNANDO PILIA, Maria Giacobbe e le sue «radici»…, p. 9. MARIA GIACOBBE, Il mare…, p. 10. 200 Ivi, pp. 10-11. 201 Ivi, p. 12. 199

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egoista e chiuso nel pettegolezzo paesano, dove i bambini a volte vengono trascurati. Ma l’eccezione a questo gretto mondo adulto sono la coppia degli Stranieri, Vivi e Franz, non sposati e con costumi, maniere e corpi diversi dai compaesani di Rosa, che la bambina idealizza come persone libere e bellissime e prende a modello di coppia. […] dato il carattere di scrittura quasi automatica di questo lavoro, avevo manifestato quel mio sentimento profondo che l’età che chiamiamo comunemente “maturità” sia già una decadenza, forse ancora impercepita ma non per questo meno fatale, di cui la “giovinezza” fu l’inizio, mentre la vera, irripetibile età della pienezza, della fertilità creativa, della perfezione angelica, fu e per sempre sarà l’infanzia. L’infanzia che tanto più è piena e autentica quanto meno l’adulto con il suo influsso sia pure bene intenzionato sia riuscito a contaminarla.202

Nella prima parte del romanzo Rosa evade con la fantasia e con le sue avventure dal mondo degli adulti che per ora rifiuta, ed è completamente immersa nella natura con la quale si rapporta in maniera diretta e con l’immaginazione; con la crescita invece perde interesse alle avventure e vorrebbe solo stare sola e accoccolata con Giorgio, il ragazzo del quale s’innamora, o partire sola con lui in luoghi lontani; inizialmente legge dei giornalini di avventura o dei fumetti che la fanno volare con la fantasia, mentre in conclusione si emoziona leggendo romanzi d’amore, sentimentali, perciò la trasformazione è denotata anche dalle sue letture. Forse come meccanismo d’autodifesa contro queste incombenti minacce di decadenza, il bambino possiede un’istintiva, dura e spesso infallibile capacità di giudicare senza mezze misure l’ambiente che lo circonda e, se necessario, di evaderne col mezzo che gli è proprio e inalienabile, la fantasia. Rosa, al momento in cui l’infanzia sta per sfuggirle e il mondo fantastico dell’avventura non è più sufficiente a sostenerla nel suo rifiuto di quello quotidiano che le appare meschino e pietoso, trova in una fortuita e forse banale

202

Ivi, p. 13. 101


coppia di stranieri, trasformata nella sua mente in una coppia di semidei, la sua possibilità d’evasione.203

Nella seconda parte si racconta del primo innamoramento, le prime sensazioni di gioia e di benessere derivanti dall’amore, ma anche la separazione dall’amato e la quasi piena comprensione del misero mondo adulto. Il romanzo si conclude con il ritorno del padre di Rosa che scopre il tradimento della moglie, e la figlia che ascolta la discussione tra i genitori: simbolicamente segna la conclusione di ogni ulteriore possibilità di prolungare l’infanzia, Rosa ora è scaraventata nella realtà e vorrebbe morire, sa che non si può tornare indietro. La consapevolezza delle sue trasformazioni le provocano ira e confusione, reagisce spesso con l’aggressività. Spesso le capita di riflettere sulla morte e sull’«angoscia per l’ineluttabile trascorrere del tempo e delle cose […]».204 Volevo essere sola, non tornare più fra gli altri, non vederli mai più. Volevo che qualche corrente sottomarina mi afferrasse e mi trascinasse lontano dove mai più nessuno mi avrebbe trovato. Neppure morta volevo tornare fra loro. […]. Anche io volevo morire.205 Rosa de Il mare lotta con tutte le sue forze per non arrendersi alle trasformazioni che lo scorrere delle stagioni lasciano nel suo spirito e sulla sua carne. Alla fine del libro, la vediamo già vinta quando il presagio della maturità fisica è ormai una realtà alla quale si accompagna un senso e un desiderio di morte.206

Sfondo e protagonista del romanzo è la natura spettacolare sia nella tempesta che quando è pacifica, descritta attraverso colori, suoni, sensazioni, immagini di forte poesia: Sotto, e sembrava lontanissimo, c’era il mare come una lastra lucida compatta e sopra solo foglie e cielo. 203

Ivi, p. 14. Ivi, p. 13. 205 Ivi, pp. 54-55. 206 Ivi, p. 13. 204

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Il coro delle cicale era così forte e sonoro che persino la terra e il mare sembravano trattenere il respiro per l’emozione. Me ne stavo lì a guardare e ascoltare senza pensare niente, come se avessi smesso di esistere.207 […] la tempesta mi penetrava da ogni parte e il rombo e gli schiocchi del mare diventavano così forti che sempre potevo immaginare di essere una mosca sopra la musica di un organo.208 […] i cavalloni che per un attimo stavano ritti, impennati con le loro criniere di schiuma, poi si gettavano con violenza mordendo gli scogli come se volessero divorarli.209 […] rilievo che vi ha trovato la natura con la forza dei suoi elementi primordiali – mare, sole, vento, luce – i quali a ben vedere sono forse i più veri protagonisti del racconto e che tutti insieme, nello scatenarsi della loro violenza ma anche nella loro dolcezza e bellezza dei momenti di pace, potrebbero rappresentare quel sogno già allora disperato di totale libertà che nella storia era dell’adolescente Rosa. Sogno che era e non poteva essere altro che la proiezione di un sogno dell’autrice nella situazione in cui essa allora si trovava, ma un sogno in cui essa, pur con tutte le immancabili differenze e distanze, potrebbe ancora oggi riconoscersi.210

I ragazzi del veliero è l’unico libro della Giacobbe in italiano dedicato a lettori giovani, un romanzo d’avventura per ragazzi ambientato sullo sfondo del mare nella località estiva turistica di Cala Mirto, tra Orosei e Siniscola, perciò nell’Isola, pubblicato nel 1991 come traduzione di un testo danese di qualche anno precedente. Il tema della “sardità” è centrale,211 dell’identità sarda, gli abitanti di questa terra, che «non fosse per la povertà, i sardi rappresenterebbero il popolo più progressista al mondo», sono presentati positivamente.212 «La Giacobbe si identifica e racconta attraverso l’occhio dell’indigeno»213 in questo «racconto ideologico».214

207

Ivi, p. 33. Ivi, p. 37. 209 Ivi, p. 39. 210 Ivi, pp. 15-16. 211 Cfr. ANTONI ARCA, Piccoli sardi crescono…, p. 344. 212 Ibidem. 213 Ivi, p. 350. 214 Ivi, p. 351. 208

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Il protagonista Marco Dessolis è un bambino che si confronterà con un’avventura estiva «da adulti, cioè con criminali capaci di uccidere e misteri socialmente ben concreti da risolvere».215 Insieme col suo gruppo di amici farà scoprire alle forze dell’ordine dei criminali che su un veliero trasportavano armi, droga e schiavi bambini. Marco rappresenta l’identità sarda, conosce i segreti e i tesori che sanno solo gli abitanti del luogo. Lorenzo e la sua famiglia sono ugualmente un modello identitario positivo. L’«identità sarda immutabile, resistente e comunque positiva»216 è «vista come forza per sopportare un turismo altrimenti dannoso e come unico valore di riferimento per interpretare una deriva sociale che è tutta da combattere».217 Intrinseco al testo il valore di amare le proprie radici e la propria terra, per poter amare il mondo. La foresta pietrificata è un segreto che siamo in pochi a conoscere, e mamma mi ha raccomandato di non dire a nessuno che esiste, perché «bisogna proteggerla dai vandali e dai saccheggiatori» che andrebbero a scavare senza criterio e distruggerebbero tutto.218

È un romanzo pedagogico che cerca di insegnare il rispetto per l’altro e l’amore per l’umanità con il sentimento della generosità: «punta sui sentimenti più belli dell’essere umano: la solidarietà, l’amicizia, l’amore e la voglia di battersi contro il razzismo e la droga».219 Si trovano nel libro descrizioni di una natura positiva, bella, da mantenere il più possibile incontaminata, sfiora il tema della guerra e dell’emigrazione.

215

Ivi, p. 344. Ivi, p. 353. 217 Ibidem. 218 MARIA GIACOBBE, I ragazzi del veliero, Cagliari, Editrice Dattena, 1991, p. 30. 219 ALBINO BERBARDINI, Qualche considerazione finale, in MARIA GIACOBBE, I ragazzi del veliero…, p. 119. 216

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Dopo aver salvato i due giovani arabi libanesi dai criminali, i bambini vengono a sapere che li manderanno in un campo profughi, e avvertendo l’ingiustizia per questi loro coetanei che erano soli, senza genitori, né casa e che erano scappati dalla guerra, nonostante la legge preveda ciò, decidono di fare una sollevazione popolare di fronte alla caserma dei carabinieri per un atto di umana solidarietà nei confronti dei due emigrati clandestini. E come in tutte le favole, riescono a vincere i giovani nel bel lieto fine. Fondamentale è la descrizione e la valutazione positiva di «questa capacità adattativa che distingue i sardi dagli altri popoli. Riescono a vivere dovunque senza perdere la propria identità».220

II.4. La dimensione onirica nella produzione cosmopolita Due sono le Euridici che il Mito e la Storia ricordano: La prima è la sfortunata sposa d’Orfeo, Perduta per troppo amore; L’altra fu la regina di Macedonia che Olimpia Madre potente e intrigante Di Alessandro Magno Perseguitò E fece morire In carcere. Le altre Euridici che né Storia né Mito ricordano Sono in ogni luogo e tempo anche qui e oggi Innumerevoli Alle vittime di soprusi e violenze bambini e donne in prevalenza e delle guerre che oggi ancora anelli d’una catena ininterrotta da secoli o millenni fanno stragi tutte come ogni strage

220

ANTONI ARCA, Piccoli sardi crescono…, p. 352. 105


ingiuste insensate e fratricide221

Pubblicato nel 1970 a Copenaghen in danese Euridice, ma uscito in Italia solo nel 2011, è un romanzo che rientra pienamente nella produzione europea, simbolista, surrealista e cosmopolita dell’artista, anzitutto perché è ambientato in tempi e luoghi non definiti né identificabili ma generici, come la Città Nuova, la Capitale, la Montagna, per cui fuori dalla Sardegna. È un mondo in rovina, la distruzione, l’orrore, la sofferenza e la morte sono il contorno alle macerie, alle rovine, al deserto creato dall’uomo. Nonostante ciò anche in questo romanzo è sempre la memoria dell’autrice che conduce il racconto, che si esprime nel riaffiorare dei ricordi in flashback confusi della protagonista che creano l’opera letteraria, e nel caos della memoria, del destino e dell’inconscio si dispiega la vicenda. Riferendosi alla data di composizione e di prima pubblicazione, si può affermare che i diversi stili o meglio, i differenti tipi di romanzi, uno afferente alla tematica autobiografica, e l’altra più cosmopolita, non sono da classificare come due fasi letterarie separate della stessa autrice, ma come due fasi contemporanee, che s’intersecano spesso per temi e personaggi, che dialogano tra loro ed esprimono i caratteri essenziali della personalità sfaccettata di quest’artista: l’anima sarda e lo spirito danese. Euridice è «una storia rarefatta, narrata con tocchi surrealisti, che risponde a imperativi diversi»222 e nasce dal ripensamento in termini simbolici e visionari dello stato d’animo di colei che vive la separazione dall’amato a causa di forze maggiori come la guerra.

221

MARIA GIACOBBE, Euridice, Nuoro, Il Maestrale, 2011, p. 8. ANGELA GUISO, Euridice, dal mito alla storia il romanzo di Maria Giacobbe, «L’Unione Sarda», 11 ottobre 2011, p. 46. 222

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Nella protagonista si riflette il lato più oscuro e sensibile della madre dell’autrice, che restò dieci lunghi anni lontana da suo marito e come questa è una donna lontana e separata dal suo amato causa la guerra; si racconta la parte più drammatica, intima e segreta della vicenda biografica materna, quella che lei da bambina poté solo intuire, alla quale solo indirettamente partecipava, quella dei pensieri, dei momenti di depressione, e della sensazione d’abbandono che dovette provare la madre dentro di sé, in uno scompiglio sentimentale, causato dalla partenza del marito volontariamente in una guerra non sua. Una protagonista che racconta, attraverso il proprio flusso di coscienza, per visioni, incubi, sogni e ricordi il suo stato d’animo interiore e più segreto, le sue lacerazioni durante la guerra che la separarono dall’amante, la paura che quel Lui sia morto e la sensazione di morte in vita, narrato da un occhio esterno che le dà del “tu”, che la osserva, che la incalza nella sua lotta esistenziale e di volontà per non cedere all’inerzia, alla confusione e al dolore, per reagire, per combattere, una lotta che la madre dell’autrice portò sempre avanti fiera e coraggiosa, mentre Euridice tentenna, si sente indifesa e spesso si lascia cadere nell’oblio, cerca di urlare, di parlare ma resta muta o inascoltata, la sua è una flebile, fragile volontà. Euridice racconta andando oltre il senso della vista, il suo sguardo è plurisensoriale, ci sono gli odori, sensazioni uditive e tattili, si spinge oltre la realtà che appare vera anch’essa. La notizia che per qualche tempo hai atteso non arriva. Forse non arriverà mai.[…]. E forse non c’è più niente da attendere. Forse le cose hanno cessato di accadere. Forse fuori di qui il mondo ha cessato d’esistere.223 Il tempo si è fermato. Tutto si è fermato.224 223

MARIA GIACOBBE, Euridice…, p. 10. 107


«Lo specchio e il labirinto, […], le modalità predilette per riflettere l’immagine di una donna duplice e triplice, creatura altrettanto attendibile di differenti spicchi di realtà».225 Qui vengono narrati i cedimenti dell’io, della donna fragile ed abbandonata, che non ha il sostegno di nessuno e viene impossessata dalla disillusione, perde la speranza nel futuro, trova infine la morte sotto i bombardamenti. Come l’Euridice del mito la protagonista è discesa negli Inferi e attende che il suo Orfeo venga a salvarla, ma diversamente dal mito, dove il poeta perde l’amata per troppo amore, qui è la moderna Euridice a respingerlo, a cambiare ipocritamente idea, a mettere una delle sue maschere in questo amore combattuto, tenuto segreto e contradditorio e a non creder più a lui, a preferire il mondo apparente e chiuso del convento ed infine a morire sotto i bombardamenti, in una rilettura differente del mito del ritorno, una Penelope indifferente al ritorno tanto atteso del suo Ulisse che è diventato un estraneo, che non la può salvare. Se il titolo rimanda alla perenne verità del mito, il racconto non è la sua ennesima variazione dentro un immutabile anello atemporale, ma una vicenda calata nella Storia e in una Guerra, emblema di tutte le guerre, nella quale vorticano la protagonista e gli altri personaggi, definiti con nomi generici, secondo alcuni dettami dell’espressionismo tedesco, e coerenti con il simbolismo del testo.226

La protagonista è presentata, «forse ieri, forse mille anni fa»,227 nella cella di un convento di una paese a lei estraneo nel quale risiede per sua libera scelta, non è costretta né prigioniera, potrebbe lasciare quel luogo d’esilio esistenziale quando lo desidera. La sua clausura,

224

Ivi, p. 28. ANGELA GUISO, Euridice, dal mito alla storia il romanzo di Maria Giacobbe…, p. 46. 226 Ibidem. 227 Ibidem. 225

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reclusione non è però confortata dalla religione nonostante sia in un luogo adibito al sacro. La sua prigionia volontaria ed esistenziale in attesa del ritorno di un lui che potrebbe essere stato arrestato, deportato, ucciso o non tornare mai più, è a lungo combattuta, angosciosa e spesso la cella le appare come luogo di calma e di pace, sebbene di solitudine profonda dove il mondo esterno non esiste, la guerra non è tangibile. È la descrizione della perdita, il vivere l’angosciosa attesa del ritorno dell’amore perduto, in solitudine e in un mondo distrutto e desolato che riflette l’animo della protagonista che subisce violenze disumane. Con toni di poesia vibrante e insuperabile descrive l’amore della coppia moderno-mitica Euridice/Orfeo nella quale lei è una donna sposata e lui l’oggetto del tradimento, non solo del marito, ma anche del falso ordine costituito dallo Stato essendo l’amante un rivoluzionario: Lui è qui. Ha sentito il tuo richiamo. È qui e sei tu che l’hai chiamato. È qui, e la tua volontà ha trionfato delle distanze e dei silenzi. È qui ma che cosa gli dirai? È qui ma che cosa ti dirà? È qui, ma vorrà parlarti? È qui e se vi parlerete avrai il coraggio di dirgli che non vuoi perderlo più? È qui, ma non osi voltare la testa per guardarlo. È qui ed è la tua volontà che l’ha condotto. È qui, ma…228

La donna ha desiderio di sicurezza, vorrebbe essere amata incondizionatamente anche se mente sulla propria identità dal primo istante, e non sa gestire la sua libertà. Quando la protagonista è nell’ospedale, che sembrerebbe psichiatrico, nel quale viene sottoposta a interventi-torture per la sua riabilitazione alle quali sempre si sottopone liberamente, l’aurea è tetra, cupa, negativa, irreale. Simbolico il sogno del gattino bianco nel quale inizialmente s’identifica, che simboleggia purezza e innocenza, che viene poi accerchiato e sbranato da quattro grossi ratti mentre lei lo guarda 228

MARIA GIACOBBE, Euridice…, p. 33. 109


inerme, e che in un’altra visione lo partorisce. Si sente minacciata da forze alle quali non si può opporre. Probabilmente durante la guerra viene violentata e l’intervento è l’aborto del prodotto di quella violenza. C’è il ricordo di un campo di concentramento e del marchio del numero identificativo. I vincitori le vogliono rubare l’anima, i ricordi, i segreti dell’inconscio e cancellarli per darle una nuova esistenza dove non ci fosse il ricordo della guerra. La condizione esistenziale è quella dell’esiliato-isolato e confuso che si sente disorientato in un mondo che è ormai in macerie. Ma è libera di poter interrompere l’esilio. Nel paesaggio straniero lei, come gli altri che incontra, ha le catene alle caviglie, fronte e polsi: costoro hanno un’altra identità marchiati da un numero sulla spalla e sul braccio, sono dei vinti, dei deportati, degli oppressi, dei numeri, la cui vita non conta poi così tanto. Coloro che cercano di togliersi le catene vengono uccisi dagli uomini con gli stivali neri, i soldati, i vincitori. Si descrive, con sfumature che ricordano Leopardi, l’isolamento individuale del singolo nelle proprie paure e solitudini, mentre gli ideali prima della guerra e dei soprusi erano comuni a tutto il popolo. Schiava a causa della guerra, nonostante riesca a fuggire, decide di rinunciare alla libertà imprigionandosi nel convento, in un tempo immobile, fermo e irreale sentendosi estranea da sé, un’altra persona, ha perso la coscienza, non ricorda cosa è accaduto, non vuole reagire e non scinde il reale dall’immaginazione, la dimensione onirica penetra ovunque e Orfeo non può salvarla. L’Orfeo qui rappresentato è un uomo che si batte per i suoi ideali contro il potere costituito, ha molti tratti del padre dell’autrice,

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conosce i nomi delle piante229 e lascia l’amata per la guerra. Le dice la realtà, la verità, ma non insiste nel violare la pace fasulla che Euridice si è costruita, non abbassa né prova a scalfire il muro d’indifferenza che lei innalza immotivatamente. La Città nuova è artificiale, tutto è di plastica, non esiste materiale organico, simboleggia la finzione, un mondo irreale non soggetto al naturale deperimento, un’illusione non benefica. È costruita dai vincitori per soggiogare ancora i vinti. I personaggi vengono identificati in maniera simbolista con il proprio ruolo invece che con il nome, la Superiora, L’Avvocato, Il Professore, Il Colonnello, gli uomini con gli stivali neri, e sono solo tratteggiati non descritti. Il Colonnello sembra il ritratto di un tiranno, di un demagogo, un dittatore che plagia le masse e le menti ai suoi subdoli piani: «sono il padre di tutti e perciò bisogna ubbidirmi. Io son la Famiglia e la Legge».230 La vita e la morte si confondono e l’ombra, il buio e la notte che portano paura, dolore, solitudine, sono in opposizione alla luce, all’aria fresca, alla vita. Il mondo esterno viene raccontato per suoni, colori e sensazioni, i dialoghi sono rari. Euridice racconta un’attesa che logora, forse inutile, che confonde, che smarrisce contorni dell’uomo che si ama e sentimenti, sogno e realtà si confondono e l’identità si annulla, ma «i sentimenti resistono. Come le passioni».231 Nella struttura per visioni e ricordi, il primo episodio si ricollega però all’ultimo dove si respira un’aria di speranza perché la protagonista vuole uscire dal buio, aprire la finestra. «Ciò che piega la mano alla scrittura pare l’amara percezione del momento attuale che orienta verso il pessimismo. Non è casuale che la salvezza sia 229

Cfr. MARIA GIACOBBE, Euridice…, p. 72. MARIA GIACOBBE, Euridice…, p. 89. 231 ANGELA GUISO, Euridice, dal mito alla storia il romanzo di Maria Giacobbe…, p. 46. 230

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rappresentata dal topos della montagna. In alto si pone la speranza. Raggiungibile? Forse sì, se c’è chi ha il coraggio della verità in un mondo in cui pensare è vietato e si conculca il libero pensiero e lo si controlla. […]. Per un attimo Euridice abbandona il corpo logorato e lacero. Lascia deserto il corpo prima abusato. A chi si aggrappa Euridice, per non cadere nel baratro? Ai ricordi che, come pietre, le rotolano addosso? alla guerra che con la sua rapina la travolge? All’attesa passiva della verità?».232 E nel ricordo della storia familiare posta non più in chiave memorialista ma inserendola nel mito moderno e rendendola universale, storia affrontata immedesimandosi spiritualmente nelle pene e nei turbamenti interni all’animo umano e a quello materno, dalla prospettiva della donna che cerca di non arrendersi, la Giacobbe realizza uno splendido ritratto di tutte quelle donne che soffrono a causa della guerra, un omaggio a coloro che purtroppo perdono l’amore e vanno incontro a un destino di morte che altri hanno scelto per loro. E tra mito classico greco, reminiscenze dantesche nelle descrizioni delle sensazioni fisiche e soprattutto leopardiane nelle immagini di infinito e dell’oblìo, insieme alla visionaria e simbolista introspezione psicologica della protagonista, che creano una commistione elegante e perfetta di stili, il mito classico ne esce reinterpretato in chiave contemporanea. Chiamalo pure amore, (Quattro storie di mezzo secolo) è un romanzo suddiviso, come indica il sottotitolo, in quattro storie ambientate in luoghi diversi in Europa, con protagoniste delle donne e l’amore dagli anni Quaranta alla fine del secolo. I racconti del 232

Ibidem. 112


romanzo si ambientano in città moderne, «sul senso intimo ed esterno del viaggio, su realtà urbane che non escludono una dimensione locale, costipata entro quattro mura domestiche».233 In Maria Giacobbe «la parola perde il suo valore conoscitivo in un mondo in cui i rapporti e i gesti dicono più delle discussioni».234 In questo romanzo ci sono i tempi della contemporaneità, i diversi tipi d’amore, i diversi stili: «ci sono le donne che parlano di se stesse e del presente (Dolores e Cecilie), quelle che riferiscono di altre e di un passato doloroso, ma non ancora definitivamente lontano (Odette e Chantal), e c’è il rovesciamento del motivo narrativo in apertura e chiusura dell’opera».235 Il primo è l’ultimo racconto sono filtrati dal ricordo dei narratori che non parlano di se stessi ma di due donne, Odette e Chantal, ormai morte. «Il doppio del doppio erra dentro l’opera»,236 non sono solo le quattro donne ritratte ad animare il romanzo, ma anche le altre donne narratrici e personaggi, in un romanzo in cui «la figura femminile giganteggia dentro condizioni storiche avverse e disagi familiari e condizionamenti religiosi».237 Quattro donne con un’educazione borghese e un pensiero complesso, contorto, incerto, disincantato,238 sono «disilluse, addolorate, frustrate, annoiate, talvolta si ridestano alla vita se c’è un guizzo d’amore. Ma non sempre. L’amore è sofferenza, aspra, irriducibile. Tragedia».239 La prima parte è occupata dalla storia di Odette, negli anni Quaranta durante la seconda guerra mondiale in Italia; Odette è una 233

ANGELA GUISO, Il doppio segno della scrittura, Deledda e oltre, Sassari, Carlo Delfino Editore, 2012, p. 136. 234 Ivi, p. 137. 235 Ivi, p. 138. 236 Ivi, p. 147. 237 Ivi, p. 148. 238 Cfr. ivi, p. 149. 239 Ivi, p. 150. 113


giovane e bella ragazza francese, che persi entrambi i genitori e per motivi di studio si rivolge alla zia. La giovane rappresenta la giovinezza, la libertà, la bellezza, la purezza, la vita. «Odette è modellata su due stereotipi culturali, ha movenze flessuose e “stregonesche” e dello stereotipo ha la prevedibilità. In lei si rappresenta lo statuto dello “straniero” e, insieme, dell’ “ebreo” accanto a quello di “capro espiatorio” nella persona della protagonista, offesa da un sottile male di vivere di cui pensa d’essere vittima».240 La narratrice è la cugina di Odette, che resta senza nome, la quale raccontando a distanza di tempo, rievoca la figura della cugina e si descrive come una zitella prematura, con una mentalità chiusa, segnata da un orribile lutto che la portò ad essere vedova prima ancora delle nozze, perdendo il suo amato il giorno prima delle matrimonio; ricorda la vicenda che le cambiò la vita e che portò alla conseguente rovina e morte della cugina francese. La voce narrante presenta la sua prospettiva, rinchiusa in una solitudine e isolamento da lei non osteggiati perché non interagisce con le persone né si dedica alla vita sociale, invecchiata prima del tempo trascura e disprezza il corpo e lo spirito, è attenta solo alle apparenze e alle buone maniere della casta alla quale appartiene. Il rapporto tra la madre e la narratrice è travagliato, ostile, non si amano, sono estremamente diverse; non l’ha mai compresa nonostante sia stata una figlia devota e per niente ribelle, ma diversa dalla donna forte che è la madre; inoltre si sente in colpa per non aver reso la madre nonna e vive lei stessa come una mutilazione il fatto di non essersi concessa al suo amato e consumato con lui l’amore, di non essere stata madre e di essersi rinchiusa in una volontaria ed eterna castità. Con la morte del futuro marito era morta 240

Ivi, p. 143. 114


anche lei e la sua gioventù. Il desiderio di maternità supera quello carnale e diventa un’ossessione per la narratrice, che lo riversa sulla cugina francese arrivata orfana nella loro casa italiana. Ma l’amore che lei vuole donarle non viene corrisposto da Odette, hanno solo dieci anni circa di differenza ma sono profondamente differenti, non instaurano un’amicizia né hanno confidenza. La narratrice «è la maschera di un’immaturità e di un’impotenza psicologica che si condensano nell’impossibilità ad affrontare la realtà esterna».241 La guerra è una cornice della storia: Odette soffre per le sorti della Francia, vorrebbe tornare in patria ma le viene sconsigliato dal suo tutore, le vengono inferte delle violenze razziste e si sparge la voce che sia antifascista. All’interno di questa casa popolata da donne isolate ognuna nella sua solitudine arriva un elemento straniero, estraneo e maschile, un ufficiale medico che deve dimorare nella loro casa. La casa, «il luogo chiuso da cui non ci si allontana, a connotarsi come nido vuoto o svuotato dai sentimenti, dunque, nido disgregato».242 Il rapporto di confidenza e amicizia che s’instaura tra Odette e l’ufficiale fa scaturire la gelosia, l’invidia e la cattiveria della protagonista, che si estranea volutamente da ogni possibilità di vita sociale, ma nei sogni vorrebbe poter scambiare se stessa e la sua decadenza con Odette e la sua giovinezza, e vivere al suo posto una storia d’amore. Questi infidi sentimenti, non una convinzione politica o patriottica, la portarono a compiere la follia di denunciarla al fascismo e di portare a compimento il destino: la giovane verrà arrestata e, scoperte le origini ebraiche, sicuramente deportata in un campo di concentramento e di morte. La narratrice sacrifica proprio 241 242

Ivi, p. 140. Ivi, p. 141. 115


l’oggetto del suo sconsiderato amore con il quale non riuscì mai a intrattenere un dialogo, tra loro ci fu sempre l’incomunicabilità. La madre della narratrice si chiuderà nel silenzio sino alla morte per dimostrarle il disprezzo nei suoi confronti dopo questa azione di delatrice, e la narratrice seguirà la sua vita inutile e isolata ed estranea anche a sé stessa senza comunicare, nel silenzio e lasciandoci queste parole come testamento della coscienza nel momento in cui decide di agire su di sé provocandosi la morte. La storia viene raccontata come la lettera di una suicida, una debole, perché la narratrice dà la motivazione del suo uccidersi nel disprezzo che nutre per sé stessa, nonostante le colpe di tutto siano da imputare a forze superiori che la manovrarono come strumento di morte e rovina per gli altri e per sé stessa, una sorta di vittima capace di compiere azioni incontrollabili dalla sua volontà: la sua punizione e liberazione dall’inutile spirito e dal corpo deformato, a causa dei rimorsi della coscienza, è il togliersi la vita. In un’unica fiamma finalmente brucerà il ramo sterile e secco.243

La seconda storia presentata è quella di Dolores, ambientata negli anni Sessanta, in cui la protagonista e narratrice Dolores ci rende partecipi, riportando i suoi pensieri, sogni e viaggi cerebrali, e nei dialoghi riportando solo le proprie parole, delle sensazioni e dei dubbi provocati dall’innamoramento. Dolores è una donna emancipata, si sente libera e nuova, è una studentessa all’estero, di razza bianca, e racconta il suo primo week-end in viaggio con l’uomo che le piace e con il quale stanno iniziando a conoscersi, uno studente di architettura 243

MARIA GIACOBBE, Chiamalo pure amore, (Quattro storie di mezzo secolo), Nuoro, Il Maestrale, 2008, p. 57. 116


e musicista jazz, mulatto. La punteggiatura stessa riflette il carattere di pensieri sparsi, «l’incertezza dell’esistere nel parlare rotto e franto»,244 non ci sono maiuscole ad inizio capoverso, né punteggiatura che indica la pausa alla fine di una frase, in uno stile surreale che però ci da la sensazione di poter toccare la materia dell’inconscio, la natura dei sogni. La giovane protagonista, tutta proiettata al presente e al futuro, che avrà meno di trent’anni, è nata da una ricca famiglia di usurai, benpensanti, cattolici e bigotti; sino al liceo ha studiato in un collegio gestito da suore, è laica e laureata in Lingue. Si trova a studiare all’estero grazie ad una borsa di studio, apprezza la sua nuova vita e vorrebbe restare nel paese straniero che la ospita, lo preferisce alla città natale dove tutti sanno di lei, nel castello di famiglia, fasullo tanto quanto il loro titolo nobiliare, nel quale si sente oppressa, come in una campana di vetro, oppressa dai genitori che nei suoi incubi diventano dei pescecani. La riflessione è sul come la prenderebbero i genitori sul colore di pelle del suo ragazzo se la loro storia continuasse, vengono considerati i pregiudizi sociali e razziali, il classismo e le apparenze. L’amore va oltre i confini e i pregiudizi, nonostante essi siano di paesi e razze diverse, l’amore è universale. Con immediatezza, con un tono amichevole come se si stesse confidando con la più intima delle amiche, Maria Giacobbe attraverso le parole di Dolores presenta la coscienza, i pensieri intimi dell’anima, rende «l’effetto della coscienza che farfuglia»245 e il desiderio entusiasta di felicità, vita e amore. Nel testo ci sono dei versi poetici e di canzoni d’amore in corsivo e francese. È ammirabile la descrizione dell’amore e della sensazione di sintesi in un solo essere con l’amato: 244 245

ANGELA GUISO, Il doppio segno della scrittura, Deledda e oltre…, p. 138. Ibidem. 117


l’aria è un liquido freddo che beviamo a sorsi lunghi e profondi, camminiamo insieme senza sfiorarci e senza sentire la terra sotto i piedi, il nostro silenzio non ha bisogno di essere riempito di parole, il mondo già non è altro che un eco del suo essere lì unito a me più di quanto io non lo sia a me stessa […]246

Una narrativa fra moderno e postmoderno, dove l’uomo della postmodernità non si realizza nell’interazione con l’altro e dove le relazioni vengono svuotate di significato dentro rapporti precari e scoordinati.247 La terza storia è quella raccontata dalla protagonista Cecilie, per flash-back, negli anni Ottanta, pittrice quasi quarantenne, che si presenta in un momento di crisi e stasi artistica nel quale l’abbandono e la trascuratezza prendono il soppravvento nella sua vita e la portano a riflettere sulla sua storia d’amore con Albert, con il quale si sente come una vecchia coppia annoiata e non sa se è amore quello che li lega perché cede al tradimento. Cecilie e Dolores narrano la loro storia, sono donne confuse, nel dubbio, nei momenti d’incertezza. Cecilie rappresenta «L’amore al tramonto»248 mentre Dolores «L’amore al presente».249 Nella quarta e ultima parte del romanzo si presenta la storia, ambientata a Copenaghen, di Chantal attraverso le parole della sua migliore amica, anch’essa senza nome,. L’occasione che fa scaturire il racconto è il funerale, la morte di Chantal, che porta la narratrice a ricordare la loro amicizia e i racconti di vita che l’amica le fece. La narratrice è una musicista e profuga di Beirut sposata con un danese, diplomatico, che la salva da una sicura morte in guerra nella quale ha perso tutta la sua famiglia. Le due donne sono entrambe artiste, 246

MARIA GIACOBBE, Chiamalo pure amore, (Quattro storie di mezzo secolo)…, p. 75. Cfr. ANGELA GUISO, Il doppio segno della scrittura, Deledda e oltre…, p. 139. 248 Ivi, p. 140. 249 Ibidem. 247

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Chantal è una pittrice, hanno conosciuto la guerra e sono sposate con uomini potenti. Sono entrambe straniere in quella città che ora le ospita, Chantal era francese. E la più anziana Chantal racconta alla sua amica la storia del suo matrimonio, tra tradimenti, aborti, menzogne e indifferenza, del suo amore infelice. Oltre all’amore infelice viene raccontata la storia di un’amicizia al femminile tra donne di ambienti altolocati nel «continuo rovesciamento di fronti psicologici»;250 la narrazione si chiude con la speranza perché la narratrice riacquista forza e successo superando la sua travagliata condizione esistenziale. Il tema della vita e della morte, dell’amore in tante sfumature, «morte e rinascita si rappresentano in questo conato di eterno ritorno in cui la morte cede il passo alla vita e viceversa, dentro le dinamiche poetiche e filosofiche del primo Novecento».251 Scenari d’esilio, Quindici parabole, del 2003, non è un romanzo ma nasce da una scelta dell’autrice tra racconti provenienti da due volumi in danese, inediti in Italia, Il cieco di Smirne del 1982 e Esilio e separazione del 2011, variazioni sul tema dell’esilio, «dell’essere e del sentirsi esiliati, dalla propria terra come dai propri affetti e ricordi, dal proprio vissuto, dal proprio corpo e dal proprio stesso essere»,252 dell’emigrazione e della solitudine esistenziale nelle quali è «preminente l’elemento onirico e l’influenza della psicologia del profondo».253 Sono narrazioni allegoriche in scenari visionari delle sfumature della condizione dell’esiliato; alcuni racconti ricordano le favole di Andersen come in apertura Ingratitudine.254 I paesaggi si

250

Ivi, p. 145. Ivi, p. 146. 252 ALESSANDRO MAIDA, Introduzione…, p. 8. 253 TANIA BAUMANN, Donna Isola…, p. 222. 254 Cfr. ibidem. 251

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fanno personaggi e riflettono con forza surrealista e visionaria gli stati d’animo dei personaggi che si muovono nelle brevi parabole. La dimensione del sogno, del viaggio, del ritorno, della solidarietà tra stranieri, ma anche dell’emarginazione, si diffondono in questo libro insieme a vari aspetti e visioni della città, a volte negativa, deserta, desolata, in rovina, ma a volte positiva, lucente, bellissima. Si riflette in questo libro una tematica importante e la condizione esistenziale stessa dell’autrice, che mette radici all’estero e ci regala, con Scenari d’esilio, la realizzazione della creatività che questa condizione ha creato in lei, una duplice o meglio multipla vista e prospettiva che si esprime nella parola calma, chiara, evocativa nella sua scrittura. Alcuni racconti del volume Scenari d’Esilio255 erano stati pubblicati precedentemente in rivista e in alcuni di essi sono presenti delle varianti d’autore, come tra il racconto Il Frigorifero256 in rivista e la XI parabola di Scenari d’esilio. Nel passaggio dalla rivista al volume troviamo molte abbreviazioni dei pronomi personali e delle preposizioni (lo/l’, mi/m’, di/d’), vengono cambiate delle preposizioni con quelle più corrette grammaticalmente (da cucina/di cucina, dalla scala/ per la scala) e corretti gli errori di concordanza col soggetto (aveva visto splendere/avevo visto splendere). L’autrice ha quindi ricontrollato e corretto il testo formalmente e grammaticalmente compresa la punteggiatura. In altri casi le varianti dalla rivista al libro consistono in aggiunte, anche di una sola parola per precisare meglio il senso come in: “lì dentro si sarebbero conservati meglio, che sparsi sul pavimento/ lì dentro in ogni caso si sarebbero conservati meglio e 255

MARIA GIACOBBE, Scenari d’esilio, Quindici parabole, Nuoro, Il Maestrale, 2003. MARIA GIACOBBE, Il frigorifero, «La grotta della vipera», anno XXIV, n°81, Primavera 1998, pp. 41-44. 256

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più a lungo che sparsi sul pavimento”, ma si può notare anche il caso contrario in cui nel passaggio dalla rivista al volume viene espunta qualche parola: viaggio lungo e improrogabile/viaggio improrogabile. In altri casi vi è la sostituzione con un sinonimo: piatto/vassoio, congelamento/surgelamento. La variante più sorprendente è l’intera conclusione della parabola che viene notevolmente cambiata: ne «La Grotta della Vipera» troviamo “Affondai le dita nei loro capelli. Una grande pace si chiuse su di me.”. In Scenari d’esilio invece: “affondai le dita nei loro capelli. Annegai finalmente nell’immobilità d’una pesantissima pace che mi chiuse nel suo tiepido cerchio d’oblio.”; la variante del libro specifica una condizione di armonia trovata nel nichilismo e nell’annientamento del prossimo, ricordando L’Infinito leopardiano.

II.5. I racconti Scrittrice di romanzi ma anche di racconti, brevi ma intensi, alcuni dei quali furono pubblicati prima in rivista e confluirono in seguito in alcuni romanzi, a volte cambiati, altri vennero ripresi ed ampliati durante la sua lunga carriera. Ha collaborato con un racconto-saggio sulla condizione femminile al libro di Joyce Lussu, Donna come te, del 1961. La battaglia257 potrebbe essere definito un racconto autobiografico dove non è la memoria che fa da guida ma il sogno, le visioni, l’inconscio, perciò è anche surreale: narrato in terza persona da un narratore onnisciente che descrive il flusso di coscienza della signora H. che potrebbe essere la signora Harder, nome da sposata della 257

MARIA GIACOBBE, La battaglia, «La grotta della vipera», anno III, n°10/11, Primavera-Estate 1978. 121


scrittrice, mentre torna a casa passeggiando. La protagonista è madre di due figli, vive in un paese del Nord non definito ma descritto come pulito, ordinato, con parchi, alberi particolari, un ambiente sereno ed elegante che ricorda Copenaghen. Cammina pensierosa lasciandosi trasportare dai pensieri, dalle preoccupazioni e dalla paura di possibili sventure e disgrazie che potrebbero capitare ai suoi cari. Nonostante «la pace, il benessere, la pulizia erano in un giorno come quello, in un quartiere come quello, delle realtà tangibili»,258 la signora H. è agitata da contrapposte immagini di morte e intensa voglia di vivere, apprensione e amore per i figli e la famiglia, pericoli dei tempi antichi ed odierni, riflette sull’inevitabile trascorrere del tempo che invecchia e deteriora, e sulla malattia, con riflessioni molto profonde e moderne sull’eutanasia. Desidera una vita lunga e felice per l’umanità intera ma le torna in mente la visione di una malato che desidera invece la morte. La conclusione chiarisce qual è la battaglia, la lotta esistenziale della protagonista: quella di distinguere tra realtà e immaginazione, in cui il confine è labile come quello tra la vita e la morte. I guerrieri di pietra è un racconto che alla prima apparenza potrebbe sembrare una fiaba, una leggenda in un linguaggio chiaro e semplice anche perché come tale viene presentata, ma nasconde dei significati, ideali e simboli profondi e porta a riflettere sulle disparità e le contraddizioni della vita umana, sulla ricchezza e la povertà, criticando socialmente il comportamento e il potere imposto dai più forti sui deboli, insomma è la parabola in cui gli oppressi si riscattano dagli oppressori, nella quale la morale è che ogni uomo ha pari diritti di un altro suo simile e che non dovrebbero essere la condizione

258

Ivi, p. 52. 122


sociale, la ricchezza e il potere a dover decidere della felicità e della fratellanza umana. Il ricco e il povero sono legati da parentela ma non si conoscono né sono amici per qualche motivo lontano e sconosciuto anche ad essi, sebbene si somiglino anche fisicamente: inoltre il povero è anche muto. Il mutismo è il simbolo della condizione assoggettata degli oppressi che non hanno parole per esprimersi e per difendersi, restano muti di fronte all’ingiustizia sociale. Il potente vive in un castello meraviglioso con un grande parco e molte proprietà, e per testare la fedeltà delle sue guardie spesso le condanna alla morte: la vita umana è meno importante dei beni materiali. Purtroppo il povero ha ereditato un debito nei confronti del ricco per poter appoggiare la sua capanna al muro di recinzione del castello, che non riesce a pagare, e il ricco gli offre un lavoro e il vitto nelle sue tenute per non offendere il suo onore e per un suo senso di equilibrio e giustizia nel mondo: il povero ne è riconoscente. Quest’ultimo, per scampare ad una sicura morte durante una notte di tempesta, entra dentro le mura del palazzo per ripararsi dalla pioggia e viene accusato e punito per furto dal ricco inclemente, che si comporta come se fosse un dio in terra, forte della sua superiorità data dai beni materiali e non dalle virtù umane, e chiede al misero uomo di rischiare la sua vita per riconquistare la sua benevolenza. Si svelano le apparenze: il povero guardando da un altro punto di vista nota che i guerrieri sul tetto del palazzo sono di pietra e non fanno più paura ma pietà, non sono reali, sono le capanne che creano il muro del palazzo che senza di esse non esisterebbe, la ricchezza e il potere sono beni effimeri, e tutt’intorno vede moltissimi uomini uguali a lui, poveri come lui, che lavorano per il padrone come degli schiavi. 123


Fu come se vedesse se stesso, moltiplicato in migliaia o milioni di esemplari, tutti ugualmente grigi, tutti ugualmente chiusi nella propria solitudine, tutti ugualmente tristi e senza speranza.259

La consapevolezza, la coscienza della realtà fa cadere tutte le maschere, il muto può parlare, non ha più paura, può chiamare e gridare a quei suoi simili «Fratelli! Fratelli!»260 per unirsi con forza contro la falsità, l’ingiustizia e la schiavitù: la solidarietà e la comprensione umane, la generosità, l’uguaglianza dei diritti sono grandi valori espressi in questo breve racconto all’apparenza ingenuo. L’insegnamento, esplicito nella conclusione, è l’importanza e la speranza nella fratellanza umana: il povero e il ricco erano parenti ma si comportavano come se non lo fossero, mentre si è fratelli con tutti gli esseri umani. […] in quel paese molto molto lontano dal nostro e dal nostro molto diverso, gli uomini seppero che la gioia era possibile e che la terra apparteneva in modo uguale a tutti i suoi figli, e che nessuno vi nasceva per comandare e che nessuno vi nasceva per servire.261

Giosuè,262 del 1991, è un racconto che si ritrova nel secondo capitolo del romanzo Gli Arcipelaghi dal titolo Giosuè, la nave, la luna: l’unica differenza notevole tra l’edizione in rivista e quella in volume è il fatto che Enea, fratello di Giosuè nella versione più antica, diventerà Oreste nel libro. Enea che fu l’eroe mitico che poté compiere la discesa agli Inferi da vivo, un predestinato. È il racconto della minaccia subita dal bambino-pastore da parte del ladro di bestiame. 259

MARIA GIACOBBE, I guerrieri di pietra, «La grotta della vipera», anno V, n°18, Autunno 1980, p. 38. 260 Ibidem. 261 Ivi, p. 39. 262 MARIA GIACOBBE, Giosuè, «La grotta della vipera», anno XVII, n°56/57, AutunnoInverno, 1991, pp. 33-37. 124


Alessio e Sabina263 è la storia d’amore, ambientata nell’Isola, tra un uomo già sposato e una donna, che durò sino alla morte, tra la guerra di Russia, la povertà e il lavoro in miniera, ma la condanna della comunità nei confronti della donna durò sinché questa visse. È un racconto della memoria e dell’identità, che mostra delle prospettive diverse, c’è la narratrice Sabina, protagonista, e un altro narratore che viene distinto dal carattere corsivo. La parte in corsivo era quella che costituiva il più antico Il lungo autunno di Alessio e Sabina. Bassorilievo: piccola dolce storia nuorese264 che descrive, dal punto di vista dell’autrice, loro compaesana, la coppia ormai anziana, poveri e «antichi»,265 che vivevano insieme da quarant’anni senza essere sposati. La famiglia e la comunità rifiutano Sabina, che viene esiliata ed emarginata dalla morale comune in quanto donna non ritenuta onesta perché aveva ceduto ad un amore peccaminoso con un uomo sposato, e che resta sola e senza lavoro quando Alessio viene chiamato in guerra. Decide allora per sopravvivere di andare a lavorare in miniera, dalle parti di Cagliari. Il loro amore supera le avversità e si ritrovano ancora innamorati dopo la guerra. Nel breve racconto viene ricreata l’atmosfera della festa durante la quale si innamorano, con il costume tradizionale e i gioielli, il ballo tondo, cavalli e cavalieri, la musica dell’organetto. Tra i racconti che confluiscono in volume si ricordi anche La montagna,266 presente come terza parabola in Scenari d’esilio, ma

263

MARIA GIACOBBE, Alessio e Sabina, in AA. VV., Contos, Roma, Fandango libri, 2009, pp. 55-65. 264 MARIA GIACOBBE, Il lungo autunno di Alessio e Sabina. Bassorilievo: piccola dolce storia nuorese, «L’Unione Sarda», 09/02/1986, p. 19. 265 MARIA GIACOBBE, Alessio e Sabina…, p. 57. 266 MARIA GIACOBBE, La montagna, «La grotta della vipera», anno XXVI, n°89, Primavera 2000, pp. 21-27. 125


pubblicata precedentemente. Non ci sono notevoli varianti tra le due versioni, a parte la sostituzione con qualche sinonimo e alcune minime precisazioni. Altro racconto abbastanza recente è Sorelle,267 in cui poeticamente e tramite il ricordo dei suoni, dei colori, degli antichi mestieri femminili e maschili, l’autrice riconosce l’identità e l’arcaicità mitica sarda che riemerge in lei nonostante la sua condizione da emigrata.

267

MARIA GIACOBBE, Sorelle, in AA. VV., Cartas de logu, Scrittori sardi allo specchio…, 2007. 126


Conclusione Maria Giacobbe, una scrittrice dentro e fuori l’Isola, con la sua anima, personalità e con la sua narrativa. Dopo aver ritrovato se stessa raccontandosi e creando la sua immagine dell’Isola nella produzione memorialista, ripercorrendone la storia, i miti, le tradizioni, gli ambienti e i personaggi che ne facevano parte, rielabora l’immagine dell’isola attraverso la memoria, la fantasia, e gli innumerevoli stimoli della letteratura europea. E nascono due capolavori, Gli Arcipelaghi e Pòju Luàdu, quando, raccontando in un’isola-mito innominata l’Isola dei ricordi e dell’immaginazione, porta quei mondi mitici in epoca contemporanea, nello scontro tra civiltà e diversità. E ambientata fuori dall’Isola la narrativa consiste in racconti e romanzi originali, nuovi, dove predomina la dimensione onirica che non si percepisce come tale e si confonde nella realtà. I mondi visionari, il viaggio, sono espressi in un linguaggio dei sentimenti e dell’inconscio che cerca di non perdere il contatto con la realtà, tra animi femminili travolti dall’odio e dall’amore e le sensazioni di spaesamento dello straniero alla ricerca di mondi possibili e infiniti, o di una patria alternativa, o in un ritorno violato dall’irriconoscibilità del luogo. E nonostante il pessimismo storico dettato dall’analisi, dalla denuncia dell’inciviltà e dal suo impegno politico, riscontrabile anche nei temi dell’amore, della morte, della guerra e dell’esilio, si ritrovano in tutti i testi delle immagini di speranza nel genere umano, offre una rappresentazione unica dell’emigrazione e del cambiamento vissute

127


come risorse, come conoscenza e approfondimento dei nostri mondi interiori e di quelli possibili e reali. Questo vuole essere il ritratto di una scrittrice europea di lingua italiana che nel suo plurilinguismo, nella diversità di stili e nelle sue identità sovrapposte, nelle infinite visioni del mondo è riuscita ad arricchirsi ed arricchirci dal confronto con il diverso, della condizione di straniera ne ha fatto poesia e integrazione. Con una freschezza, chiarezza e concretezza nel raccontare che avvince e coinvolge.

128


Bibliografia Opere di Maria Giacobbe a)

Narrativa Diario di una maestrina- Piccole cronache, Bari, Laterza, 1975. La battaglia, «La grotta della vipera», anno III, n°10/11,

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129


Sorelle in AA.VV. Cartas de logu, Scrittori sardi allo specchio, Cagliari, CUEC, 2007. Chiamalo pure amore. (Quattro storie di mezzo secolo), Nuoro, Il Maestrale, 2008. Le radici, Nuoro, Il Maestrale, 2009. Diario di una maestrina, Nuoro, Il Maestrale, 2009. Maschere e angeli nudi, Ritratto d’un’infanzia, Nuoro, Il Maestrale, 2009. Alessio e Sabina, in AA. VV., Contos, Roma, Fandango libri, 2009. Euridice, Nuoro, Il Maestrale, 2011. Pòju Luàdu, Traduzione in sardo di Giagu Ledda, Sassari, Edes, 2012.

b)

Articoli, saggistica, curatele Poesia moderna danese, Milano, Edizioni Comunità, 1971.

Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna, Milano, Bompiani, 1974. I dialetti proibiti, «L’Unione Sarda» del 14/03/1976. Il dovere di vivere, in Etnia Lingua Cultura. Un dibattito aperto in Sardegna, a cura di Giannetta Murru Corriga, Cagliari, Edes, 1977. Raccogliere tutti gli studi sulla Sardegna che sono stati fatti da ricercatori stranieri, «Nazione Sarda», Giugno-Luglio 1978. Giovani poeti danesi, Torino, Einaudi, 1979. Salvatore Satta a Nuoro, in Salvatore Satta giuristascrittore, a cura di UGO COLLU, Atti del Convegno Internazionale di Studi Salvatore Satta giuristascrittore, Nuoro, Teatro Eliseo, 6-9 Aprile 1989.

130


Paesaggi,

Personaggi,

Letteratura

e

Memoria,

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c)

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REDAZIONALE],

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Sitografia MEREU MYRIAM, Gli Arcipelaghi e Il figlio di Bakunìn: l’io narrante tra

letteratura

e

cinema,

«Between»,

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(2012),

http://www.Between-journal.it/.

135


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