La musica delle morte parole. L'antologia di Spoon River cantata da De Andrè

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A.D. MDLXII

U N I VERSI TÀ

D EG LI S TU DI D I S ASS A RI D IPARTIMENTO DI S TORIA , S CIENZE DELL ’U OMO E DELLA F ORMAZIONE (E X F ACOLTÀ DI L ETTERE E F ILOSOFIA ) ___________________________

CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA E SCIENZE DELL’EDUCAZIONE

LA MUSICA DELLE MORTE PAROLE.

L’ANTOLOGIA DI SPOON RIVER CANTATA DA FABRIZIO DE ANDRÉ.

Relatrice:

PROF.SSA GAVINA CHERCHI

Tesi di Laurea di:

DANIELE PISCHEDDA

ANNO ACCADEMICO 2011/2012



LA MUSICA DELLE MORTE PAROLE. L’ANTOLOGIA DI SPOON RIVER cantata da FABRIZIO DE ANDRÉ.

Figura 1: ARNOLD BÖCKLIN, Autoritratto con la Morte che suona il violino

1



INDICE INTRODUZIONE

4

1. Capitolo primo: “LA MORTE COME TEMA CULTURALE“

8

1.1 Cenni storici sulla cultura della morte: tracce mitiche ed epigrafiche.

8

1.2 Viaggi nell’aldilà nella mitologia greca: Odisseo nel regno dei morti, Orfeo ed Euridice.

13

1.3 Incontri con i morti in Sardegna: La Réula e la musica contemporanea.

27

1.4 La cultura della morte: cenni antropologici e filosofici.

46

1.5 Fabrizio De André e la morte.

56

2. Capitolo Secondo: L’ANTOLOGIA

DI

SPOON RIVER e NON

AL

DENARO NON ALL’AMORE NÉ AL CIELO.

62

2.1 L’antologia di Spoon River.

62

2.2 Fernanda Pivano “intervista” Edgar Lee Masters.

69

2.3 Non al denaro non all’amore né al cielo.

72

2.4 Fernanda Pivano intervista Fabrizio De André. 98

98

Appendice: INTERVISTA INEDITA AL MAESTRO NICOLA PIOVANI.

105

CONCLUSIONI

118

BIBLIOGRAFIA

120

3


INTRODUZIONE Ci sono vari aspetti importanti da analizzare quando si parla del più grande interrogativo che nel bene o nel male attraversa la storia degli uomini - dell'uomo, termine più pregnante e più “finito” rispetto al generico termine di umanità – ovvero quando emerge il tema della morte, con tutti i risvolti che l’accompagnano: non solo riguardo al suo possibile senso, sempre da ricercare e sempre eccedente rispetto alla nostra ragione, ma anche e soprattutto rispetto alla sua presenza costante nella vita di ognuno di noi, e riguardo ai nostri modi di esorcizzarla o renderla più familiare. Il presente lavoro intende fornire un’interpretazione un po’ insolita riguardo a questo tema, soffermandosi in particolare su due opere, l' “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters,1 e il concept album “Non al denaro, non all'amore, né al cielo” di Fabrizio De André (liberamente tratto dalla medesima antologia).2 I due aspetti che colpiscono la nostra ricerca ‒ e che possono apparire sia introduttivi sia conclusivi rispetto alla stessa – sono: la capacità di Lee Masters di trattare ‒ attraverso l’espediente degli epitaffi ‒ con umorismo quasi sbeffeggiante la morte, rompendo il silenzio mantenuto con compostezza dalla società borghese americana dei primi del '900 su un tema così delicato; è, questa, una capacità che sembra essere appannaggio di pochi, di quei pochi che non solo riescono a scorgere l'invisibile linea che collega tragicità e comicità, tristezza e ironia, ma che riescono anche a farsene carico e a portarla in superficie nelle loro opere. Il secondo aspetto che non possiamo fare a meno di considerare è la straordinaria potenza con cui il ritmo ‒ attraverso la poesia, sempre in Edgar Lee Masters e attraverso la musica nel caso di Fabrizio De André ‒ riesce a rompere il silenzio della morte, scandendo umori, sentimenti, rimorsi e invidie di chi, in realtà, senza la magia di questi strumenti, non avrebbe più voce e non potrebbe parlare. La poetica di queste opere risulta in alcuni tratti struggente e dolorosa ‒ data l’irreversibilità della condizione di chi parla: sono gli stessi morti a cui non è più concesso di riparare alle proprie colpe e di rimediare ai 1

EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River (traduzione a cura di FERNANDA PIVANO, con tre scritti di CESARE PAVESE), Einaudi, Torino, 1993 2

FABRIZIO DE ANDRÉ, Non al denaro non all’amore né al cielo, Edizione Produttori Associati, Roma, 1971

4


propri rimpianti ‒ mentre in altri raggiunge picchi di dolcezza che la rendono assolutamente sublime. L’opera è accompagnata, nell’adattamento di De André, da un’orchestrazione ineccepibile e da un’alternanza di strumenti che nel loro avvicendarsi e mescolarsi perfettamente, rendono in maniera esemplare sia l’atmosfera cimiteriale che la dimensione più intima con la quale le anime di Spoon River vivono e parlano della loro morte. Si tratta di epitaffi musicati e cantati, di una “Musica delle Morte Parole”, che fa esplodere (o meglio implodere) nella memoria una miriade di immagini: dalla discesa di Odisseo nel regno dei morti per incontrare l’indovino Tiresia e interrogarlo sul proprio destino,3 al viaggio di Orfeo nell'Ade alla ricerca della moglie Euridice, suo amore perduto:4 entrambi esempi meravigliosi di poetiche che “traghettano” i vivi nel regno degli inferi, in questo incontro spaventoso e affascinante, in cui solo attraverso il “ritmo” della parola o del canto si può comunicare. Nel primo caso possiamo accostare il potere della musica a quello del sangue sacrificale (dei morti) che è necessario che “le ombre” (le anime ormai trasformatesi in ombre) bevano per poter riacquistare temporaneamente la parola e la loro vitalità, affinché possano comunicare con Odisseo: e non è un caso che Omero, prima di iniziare il suo racconto, abbia bisogno di invocare Calliope ‒ in greco “Καλλιόπη”, che significa (oltre che “dal bel viso”) "dalla bella voce" ‒, la dea del canto, della poesia, la musa della poesia epica, per chiederle aiuto.5 Nel secondo caso l'analogia è ancora più immediata, essendo Orfeo il musico e cantore per eccellenza, capace con il suo canto e con la sua lira di commuovere chiunque e di smuovere l’intera natura, di convincere gli dèi Ade e Persefone, e persino le Furie ad ascoltare la sua richiesta: queste ultime si commuoveranno a tal punto che le loro guance per la prima volta si bagneranno di lacrime, e neanche loro potranno evitare di cedere all'amore del suo canto. In entrambe le opere (sia nell’Antologia, che nell’album di De André) è presente il medesimo potere: il potere del ritmo, della musica, della danza delle parole di 3

Cfr. OMERO, Odissea, XI, 90-137, UTET, 2005

4

Cfr. OVIDIO, Metamorfosi, X, 8-63, UTET, 2005

5

OMERO, Odissea, I, UTET, 2005

5


rompere il silenzio della morte e di restituire a queste figure la possibilità di parlare ‒ anche se per poco – della loro vita, a volte attraverso l'invettiva, altre con sottili o più esplicite ammissioni di colpa, che con l’ormai “guadagnato” distacco lasciano trapelare candidamente la loro invidia. Solo un’anima tra tutte quelle che “dormono sulla collina” non ha niente da rimproverarsi e da invidiare agli altri, e perciò De André gli riserva il privilegio – unico in tutta l’opera ‒ di chiamarlo per nome.6 È Jones, il suonatore di violino in Lee Masters, flautista (per questioni metriche) nell'album di De André. Un suonatore quindi, che ha scelto di rinunciare alle ambizioni che la sua società impone, e che ha fatto della musica una scelta di libertà: un anarchico libertario insomma, come gli autori che lo “cantano”. Un suonatore a sua volta suonato e cantato, un estremo tentativo di strappare alla sua morte una «goccia di splendore»7. Cercheremo di occuparci anche di altri racconti e di altre storie che abbiano qualche analogia con il nostro tema, come nel caso de “La Réula”, una credenza popolare gallurese che racconta di una processione di anime penitenti che ci consentiranno di “passeggiare” accanto a loro, e di trovare qua e là qualche altra immagine e qualche altro verso ancora. Il ricorso a questa “processione” è motivato ancora una volta dal potere esorcizzante che alcuni versi ‒ ed il loro ritmo ‒ hanno nei confronti di queste “anime viandanti”, un potere liberatorio attraverso cui le persone che si imbattono “nella processione” possono svincolarsi dall’influenza nefasta che scaturisce da tale incontro; scelta motivata ulteriormente dal profondo legame ‒ ampiamente documentato ‒ che lega Fabrizio De André e la Gallura. Insomma, un viaggio tra parole diverse, tra parole che incontrano la morte, o che dalla stessa morte vengono recitate, intonate, cantate. Un viaggio in cui la morte stessa ammicca e strizza l’occhio alle persone che trova dinanzi a se, suonando, danzando, ed intonando i suoi canti: come vedremo nel caso della Totentanz, la «Danza della morte», un tema iconografico tardo medievale che incontreremo per strada. 6

FABRIZIO DE ANDRÉ, op. cit.

7

FABRIZIO DE ANDRÉ, Smisurata preghiera, Anime salve, BMG Ricordi, 1996; (tratta dal libro di poesie di ÀLVARO MUTIS, Summa di Maqroll il gabbiere. Antologia poetica 1948-1988, Torino, Einaudi, 1993).

6


Cercheremo di trovare un filo conduttore che, dipanandosi dalla magica tela delle parole e dei versi, unisca tutte queste immagini e queste tematiche, cucendo insieme la vita e la morte.

7


Capitolo primo: LA MORTE COME TEMA CULTURALE

1.1 Cenni storici: la cultura, l’epigrafia, il mito. “La morte come tema culturale” 8 è un importante volumetto di Jan Assman, tradotto e pubblicato non a caso a Torino, sede di un autorevole Museo Egizio e di un ingente quantitativo di studi sull’egittologia. Il volume, che dà il titolo al primo ‒ e più generale ‒ capitolo di questo lavoro, rende nota la necessità, già da parte dei popoli pagani, e nella fattispecie di quello egizio, di sostenere l’immortalità dell’anima e trattare culturalmente il tema della morte. L’autore parte da questa premessa: «La cultura scaturisce dalla consapevolezza della morte e dell’essere mortali, e costituisce il tentativo di creare uno spazio e un tempo al quale l’uomo possa pensare al di là del suo limitato orizzonte di vita, prolungando le linee del suo operare, esperire e progettare verso quei più estesi orizzonti e quelle più ampie dimensioni d’appagamento in cui soltanto trova soddisfazione il suo bisogno di dare significato alla vita e si placa la dolorosa, anzi intollerabile consapevolezza della propria pochezza e limitatezza esistenziale.»9 È la morte, come sostiene anche Morin, che «introduce fra uomo e animale una frattura ancor più sorprendente di quanto non lo sia quella prodotta dall’utensile, dal cervello e dal linguaggio»,10 e che costituisce la natura essenziale degli uomini, ovvero il suo rifiuto della morte, che prende forma attraverso l’elaborazione dei «miti relativi alla vita dopo la morte, la risurrezione e l’immortalità […].»11 E ancora ‒ continua Morin ‒ : «La morte si colloca nello snodo che tiene assieme il mondo

8

JAN ASSMAN, La morte come tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto, Torino, Piccola biblioteca Einaudi, 2002 9

Ivi., p. 5

10

EDGAR MORIN, L’uomo e la morte (traduzione di ANTONIO PERRI e LAURA PACELLI), Meltemi, Roma, 2002, p. 21 11

Ivi., pp. 21-2

8


biologico e quello antropologico, poiché rappresenta l’aspetto più umano, più culturale dell’anthropos.»12 Come già Hegel e Heidegger ‒ oltreché Morin ‒ anche Assman nel suo studio mette in rilievo questo aspetto: l’uomo è l’unico essere che è consapevole della propria finitudine, ed è questo il tratto che caratterizza la condizione autenticamente umana.13 Egli parte dal medesimo presupposto; infatti, secondo l’autore, tutta l’attività culturale dell’uomo nascerebbe dal fatto che: «[…] l’uomo, e soltanto lui, sa anche che deve morire. Gli dei non lo sanno perché sono immortali, e non lo sanno gli animali perché non si sono nutriti dell’albero della conoscenza. D’altra parte il sapere minaccia di scombussolare l’uomo, poiché determina una condizione intollerabile. Chi ne dispone non dovrebbe morire. E chi è mortale non dovrebbe saperlo.»14 L’aspetto culturale dunque, consiste nella costruzione di una memoria che impronta i nostri ricordi, le nostre esperienze e le nostre aspettative individuali, inquadrandole in orizzonti e prospettive che abbracciano non solo i millenni, ma anche gli spazi dell’aldilà.15 La morte dunque, o meglio, la consapevolezza del nostro essere mortali, come l’ autore continua a sostenere nelle stesse righe, è un fattore generatore di cultura. Egli riprende delle considerazioni sviluppate anche da Bauman 16: «Una parte importante del nostro operare, e in particolare proprio quello culturalmente rilevante – l’arte, la scienza, la filosofia […] ‒, scaturisce dal bisogno di immortalità, dall’impulso a trascendere i limiti dell’Io e del tempo che ci è dato da vivere.»17 La ricerca di Assman riguarda anche le immagini e i riti funebri dell’antico Egitto. Egli sostiene che: «Immagini e riti procedono insieme. Le immagini travalicano l’effetto paralizzante, traumatizzante della morte e rendono in un certo senso la morte

12

EDGAR MORIN, L’uomo e la morte, cit., p. 25

13

Cfr., T. MACHO, Todesmetaphern, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1987, p. 108

14

JAN ASSMAN, La morte come tema culturale. Immagini e riti mortuari nell’antico Egitto, cit., p. 4.

15

Ibidem.

16

Z. BAUMAN, Tod, Unsterblichkeit und andere Lebensstrategien, Fisher, Frankfurt am Main, 1994

17

JAN ASSMAN, op. cit., p. 6

9


malleabile, “trattabile”. Senza simili figurazioni della morte, ogni azione sarebbe impossibile.»18 L’autore riporta due miti provenienti dall’antico Oriente, che riguardano appunto la condizione “ibrida” dell’uomo, che è provvisto del sapere degli déi, ma non della loro immortalità:19 «Il primo mito è babilonese e racconta di Adapa, il figlio di Ea.20Ea è il dio della sapienza che poté trasmettere in eredità al figlio il suo sapere ma non l’immortalità. Un giorno una folata di scirocco lacera la rete con cui Adapa sta pescando. Adapa maledice il vento che soffia da meridione, e poiché dispone della sapienza degli dèi, la sua maledizione è così violenta da spezzare le ali del dio del vento. Diviene così evidente una situazione insostenibile: un essere terreno dispone del sapere degli dèi eppure non è un dio. Adapa è citato dinnanzi al trono di Anu, il re degli dèi. Ea gli suggerisce di non accettare alcun cibo che gli dèi dovessero offrirgli. Potrebbe trattarsi dell’alimento della morte. Difatti Adapa rifiuta quel che gli offrono da mangiare. Senonché si trattava dell’alimento della vita, poiché gli dèi intendevano porre fine alla sua situazione insostenibile facendone un dio. Così invece il precario connubio di sapere e di morte si è perpetuato nel tempo.» 21 L’altro mito che Assman riporta è quello biblico del peccato originale, in cui Adamo ed Eva mangiano il frutto dell’albero della conoscenza divenendo in questo modo sapienti “come dio”, però prima che possano mangiare anche il frutto del vicino albero della vita e riescano ad acquisire l’ immortalità, vengono cacciati dal paradiso.22 Ecco il passo della Genesi: «“Ecco Adamo è divenuto quasi uno di noi, e conosce il bene e il male; che egli non abbia a stender la mano, e prendere anche dall’albero della vita, e mangiare, e vivere in eterno!” E il signore Dio lo mandò fuori dal paradiso di delizia, affinché lavorasse

18

JAN ASSMAN, op. cit., p. 10

19

Ivi., p. 3

20

Traduzione di E. A. Speiser, Adapa, in: J. B. PRITCHARD, Ancient Near Eastern Texts Relating to tye Old Testament, Princeton University Press, Princeton, 1955, pp.101-3. 21

JAN ASSMAN, op. cit. p. 3-4

22

Ibidem.

10


la terra dalla quale fu cavato. Scacciò Adamo, e pose a guardia del paradiso di delizia un cherubino con una spada fiammeggiante e roteante per custodire la via dell’albero della vita.»23 Questa è la situazione di incompletezza che contraddistingue la natura umana, e che dà vita al tentativo perenne di riuscire in qualche modo a “sopravvivere” alla propria morte biologica, bisogno sia individuale che collettivo, che assume modalità culturali di elaborazione completamente diverse nel tempo e nello spazio, dai riti funebri alle immagini della morte, dall’elaborazione del lutto alle iscrizioni funebri, dalla musica alla poesia. «Guardandosi in uno specchio, gli uomini scoprono la morte. […] I pittori hanno saputo rendere questo effetto di sorpresa […]. Ma è forse questo che rende la storia della morte tanto affascinante.»24 Dato che con Edgar Lee Masters viene inaugurato il genere epigrammatico moderno, ci sembra importante riportare qualche cenno storico sull’epigrafia, ed in particolare su quella funebre: «Epigrafia è la scienza delle epigrafi e le epigrafi […] sarebbero […] i testi iscritti in qualsiasi modo, su qualsiasi materiale.»25Sono scritti coi quali le antiche civiltà classiche (sia quella greca che quella latina), fissavano il proprio pensiero su pietre, tavole, lamine metalliche e sui più svariati oggetti.26 Questa però è una definizione troppo generica; infatti il genere epigrammatico è stato molto utilizzato dalla cultura Greca, sia durante l’età arcaica che in quella ellenistica. Un esempio illustre ci è fornito dall’Antologia Palatina, che è appunto una raccolta di epigrammi greci, attraverso i quali vengono trattate le più svariate tematiche: dagli argomenti amorosi a quelli d’intrattenimento, da racconti burleschi a lamenti funebri. Ciò che a noi interessa è proprio accennare alle epigrafi funebri, che spesso sono scritte in versi. «Lo scopo principale dell’iscrizione funeraria (così come del monumento funerario nel suo complesso) era quello di attirare l’attenzione del 23

Genesi, 3, 22-24

24

MICHEL VOVELLE, La morte e l’occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, Bari, Laterza, 1986, p. V

25

MARGHERITA GUARDUCCI, L’epigrafia greca dalle origini al tardo impero, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1987, p. 1 26

Ibidem.

11


passante, in modo da indurlo a sostare e a leggere almeno il nome del defunto o dei defunti […], nella convinzione che così si potesse far rivivere, sia pure per un breve istante, la memoria di un individuo, sottraendolo all’oblio eterno.»27 «Le iscrizioni sui sepolcri avevano […], tradizionalmente, il compito di tenere aperto un canale di comunicazione tra i vivi e i morti: per questa ragione il passante era invitato perentoriamente (siste et lege) a interrompere il suo cammino per soffermarsi a riflettere, intrecciando talvolta un dialogo immaginario con il defunto, sulla vita e sulla morte, sulla caducità dell’esistenza, sulle gioie della vita, sul probabile nulla che attende l’uomo dopo la morte; le iscrizioni sepolcrali costituivano così l’occasione per suggerire semplici teorie esistenziali o elaborare brevi esercitazioni poetiche filosofeggianti […] tentativi di compendiare in modo sintetico ma comunque «esemplare» l’esperienza di una vita, di mantenere un legame quanto più indissolubile con i viventi, in assenza di una forte prospettiva escatologica, che a Roma si diffuse molto tardi […] le epigrafi registravano i dati anagrafici, le cariche pubbliche raggiunte, le attività di lavoro, le benemerenze pubbliche e familiari […].»28 I supporti scelti sono duri e durevoli, come la pietra e il marmo, per sconfiggere il tempo e fissare quantomeno il proprio nome nell’eternità.29 Questo è l’intento comune all’epigrafia classica, agli epitaffi di Edgar Lee Masters, e alle canzoni di Fabrizio De André: far rivivere e dare voce, anche solo per un attimo a chi altrimenti rimarrebbe destinato al silenzio, all’insopportabilità di un oblio eterno. È questa la straordinaria potenza della poesia e della musica, del ritmo del suono come quello delle parole; ed è questa la funzione anticamente svolta dal mito, che anche per questioni metriche, può essere accostato a queste due forme estetiche. Anche il mito cerca di opporsi alla potenza nullificante della morte ed all’angoscia che essa produce: «Per decine e decine di millenni l’esistenza dell’uomo ‒ globalmente e in ogni suo singolo aspetto ‒ è guidata dal mito. Il mito non intende 27

ALFREDO BUONOPANE, Manuale di epigrafia latina, Roma, Carocci editore, 2012, pp. 204-5

28

SILVIA GIORCELLI BERSANI, Epigrafia e storia di Roma, Roma, Carocci editore, 2009, pp. 15-6

29

Ibidem.

12


essere una invenzione fantastica, bensì la rivelazione del senso essenziale e complessivo del mondo. Anche nella lingua greca il significato più antico della parola mýthos è “parola”, “sentenza”, “annunzio”; a volte mýthos significa persino “la cosa stessa”, “la realtà”. Solo in modo derivato e più tardo, nella lingua greca mýthos indica la “leggenda”, la “favola”, la “fola”, il “mito”.»30 Anche Cesare Pavese sottolinea quest’aspetto, ovvero l’unicità del gesto e dell’evento mitico, che proprio per questo motivo diventa simbolico: «Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione.»31

1.2 Viaggi nell’aldilà nella mitologia greca: Odisseo nel regno dei morti, Orfeo e Euridice. Riportiamo qui di seguito un significativo passo tratto dall’ XI dell’Odissea che narra della profezia di Tiresia; si tratta della cosiddetta nékyia, cioè evocazione dei morti (presso gli antichi greci era il sacrificio o rito con cui si evocavano i morti a scopo divinatorio)32,

che

allo

stesso

tempo

rispecchia

le

primitive

concezioni

dell’oltretomba, e costituisce il modello per tutte le successive opere letterarie che hanno come tema la catabasi (presso gli antichi greci, la discesa dell’anima negli inferi). Odisseo (Ulisse è il nome latino) lascia l’isola di Eèa, dopo il lungo “soggiorno” presso la maga Circe, e riuscito a raggiungere i confini dell’oceano con una sola nave, giunge nel paese dei Cimmeri e, avvolto dalla nebbia discende nel regno di morti dove incontra l’indovino Tiresia (che essendo stato accecato da Era,

30

EMANUELE SEVERINO, La filosofia, dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, Milano, Bur, 2010, p. 21. 31

CESARE PAVESE, Tutti i racconti, Einaudi, Torino, 2002, p.127-9

32

http://www.treccani.it/enciclopedia/nekyia/

13


riceve come risarcimento da Zeus il dono della preveggenza, e il privilegio di goderne anche dopo la morte) e lo interroga sul proprio destino.33 Ecco il passo: 1

Infine venne l’anima del tebano Tiresia, con uno scettro d’oro, e mi conobbe e mi disse: «Divino Laerzíade, ingegnoso Odisseo, perché infelice, lasciando la luce del sole,

5

venisti a vedere i morti e questo lugubre luogo? Ma levati dalla fossa, ritira la spada affilata, che beva il sangue e poi il vero ti dica». Parlava così, e io, ritirandomi, la spada a borchie d’argento rimisi nel fodero; lui bevve il sangue nero,

10

poi finalmente mi disse parole, il profeta glorioso: «Cerchi il ritorno dolcezza di miele, splendido Odisseo, ma faticoso lo farà un nume; non credo che sfuggirai all’Ennosígeo, tant’odio s’è messo nel cuore, irato perché il figlio suo gli accecasti;

15

ma anche cosí, pur soffrendo dolori, potrete arrivare, se vuoi frenare il tuo cuore e quello dei tuoi, quando avvicinerai la solida nave all’isola Trinàchia, scampato dal mare viola, e pascolanti là troverete le vacche e le floride greggi

20

del Sole, che tutto vede e tutto ascolta dall’alto. Se intatte le lascerai, se penserai al ritorno, in Itaca, pur soffrendo dolori, potrete arrivare: ma se le rapisci allora t’annuncio la fine per la nave e i compagni. Quanto a te, se ti salvi,

25

tardi e male tornerai, perduti tutti i compagni, su nave altrui, troverai pene in casa, uomini tracotanti, che le ricchezze ti mangiano,

33

Cfr. http://www.edu.lascuola.it/edizionidigitali/DivinaCommedia/data/files/m5/viaggi_nell_aldila_prima_di_dante.pdf

14


facendo la corte alla sposa divina e offrendole doni di nozze. Ma la loro violenza punirai, ritornato. 30

E quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento, o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato, allora parti, prendendo il maneggevole remo, finché a genti tu arrivi che non conoscono il mare, non mangiano cibi conditi con sale,

35

non sanno le navi dalle guance di minio, né i maneggevoli remi che son ali alle navi. E il segno ti dirò, chiarissimo: non può sfuggirti. Quando, incontrandoti, un altro viatore ti dica che il ventilabro tu reggi sulla nobile spalla,

40

allora, in terra piantato il maneggevole remo, offerti bei sacrifici a Poseidone sovrano – ariete, toro e verro marito di scrofe – torna a casa e celebra sacre ecatombi ai numi immortali che il cielo vasto possiedono,

45

a tutti per ordine. Morte dal mare ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli beati saranno. Questo con verità ti predico».34

34

OMERO, Odissea XI, 90-137 (traduzione di Rosa Calzecchi Onesti), Torino, Einaudi, 1963

15


Figura 2: Odisseo e Tiresia.

Odisseo incontra tante anime insieme a quella di Tiresia, tra cui quelle della madre Anticlea, di Agamennone, di Achille e di Patroclo; ma sono anime che sembrano ombre, fantasmi, che hanno bisogno di bere il sangue sacrificale per comunicare con lui35, ed è questo un’ulteriore collegamento che ci interessa: sia negli epitaffi di Spoon River che in questo passo dell’Odissea, i vivi comunicano con i morti, ed hanno bisogno di un elemento, di un medium che consenta loro di comunicare. Il sangue dunque in questo caso rappresenta la vita, la carne, e svolge una funzione analoga e probabilmente superiore al ritmo, alla musica delle parole, restituendo alle anime una vitalità ormai perduta. Chi invece sottolinea il potere del ritmo e della poesia per riuscire a comunicare con le anime dei morti è Ovidio, che nel X libro delle Metamorfosi narra del mito di Orfeo, in grado con il suono della sua voce e quello della sua lira di far commuovere l’intera natura. Orfeo scende negli inferi per “sfidare” la morte, e tentare di convincere Ade e Persefone a lasciar tornare con lui sulla terra sua moglie Euridice, 35

EMANUELE SEVERINO, La filosofia, dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, CIT. Milano, Bur, 2010, p. 21: “Il mito arcaico è sempre collegato al sacrificio, cioè all’atto col quale l’uomo si conquista il favore degli dei e delle forze supreme che, secondo la rivelazione del mito, regnano nell’universo. Il sacrificio può essere cruento, oppure del tutto incruento […]; ma in ogni caso il suo intento è di identificarsi e di dominare ciò che nel mito appare come la potenza suprema.”

16


morta a causa del morso di un serpente. Egli riesce a farlo, a condizione però che durante la “risalita” non si volti mai a guardare la sua sposa prima di essere usciti dall’Oltretomba; quando però il loro cammino è quasi terminato, Orfeo non riesce a resistere e si volta, perdendola così definitivamente36.

Figura 2: NICOLAS POUSSIN, Paesaggio con Orfeo ed Euridice (1650-51)

Ecco di seguito riportato il passo: [...] la giovane sposa, mentre tra i prati vagava in compagnia d’uno stuolo di Naiadi, morí, morsa al tallone da un serpente. A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta 5

del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti, non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro: tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse alla presenza di Persefone e del signore che regge

36

http://www.edu.lascuola.it/edizionidigitali/DivinaCommedia/data/files/m5/viaggi_nell_aldila_prima_di_dante.pdf

17


lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde 10

della lira, cosí disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi; dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire, se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,

15

irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa. Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato, in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso. Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato: ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;

20

se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero: se non è inventata la novella di quell’antico rapimento, anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi, per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno, vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!

25

Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra, presto o tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo. Qui tutti noi siamo diretti; è l’ultima dimora, e qui sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine. Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto

30

il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono. Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo: io non me ne andrò: della morte d’entrambi godrete!». Mentre cosí si esprimeva, accompagnato dal suono della lira, le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d’afferrare

35

l’acqua che gli sfuggiva, la ruota d’Issíone s’arrestò stupita; gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l’urna le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno. Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,

40

regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera, 18


e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava, e venne avanti con passo reso lento dalla ferita. Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito 45

dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono. In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile. E ormai non erano lontani dalla superficie della terra, quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,

50

l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno; cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata, ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente. Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero (di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);

55

per l’ultima volta gli disse «addio», un addio che alle sue orecchie giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.37

Orfeo, dopo la perdita di Euridice, decide di rinunciare per sempre alle donne, e quando alla fine le Baccanti straziano il suo corpo, la sua testa e la sua lira continuano a cantare, trascinate dalla corrente del fiume Ebbro fino all’isola di Lesbo, dove Apollo conferirà alla sua testa poteri profetici.38 Ecco sopravvivere ancora una volta il canto e la musica, che non possono morire insieme alla morte del corpo. Orfeo è l’artista per eccellenza, e incarna la capacità dell’arte di trionfare sulla morte, almeno temporaneamente (dato lo scacco fatale dell’arte nel confronto con la morte). Orfeo è l’archetipo della figura del poeta, il simbolo della poesia nei suoi più alti

37

OVIDIO, Metamorfosi X, 8-63 (traduzione di MARIO RAMOUS), Milano, Garzanti, 1992

38

Cfr., http://www.edu.lascuola.it/edizionidigitali/DivinaCommedia/data/files/m5/viaggi_nell_aldila_prima_di_dante.pdf

19


livelli espressivi.39 Sulla sua figura si basano, oltre che la religione orfica, moltissime opere della tradizione filosofica, musicale, scultorea e pittorica dei secoli successivi.

Figura 3: Orfeo e Euridice, dipinto di FEDERICO CERVELLI

Questi sono solo degli esempi di viaggi nell’aldilà nella letteratura pre-dantesca; un altro esempio fondamentale è rappresentato dalla discesa di Enea nell’Averno, narrata da Virgilio nel canto VI dell’Eneide, che costituisce appunto il modello di riferimento della Divina Commedia. Non a caso Dante si farà guidare nella prima parte della sua opera fondamentale proprio da Virgilio.40 Dicevamo dell’enorme interesse e della potenza evocativa che il mito di Orfeo ha suscitato su tutta la cultura occidentale; soprattutto dal punto di vista letterario, già a partire dall’antichità, le sue narrazioni saranno differenti e presenteranno delle variabili. Virgilio per esempio, nel suo racconto del mito riportato nelle “Georgiche”41, inserisce la figura del pastore Aristeo che corteggia senza successo Euridice: è

39

Cfr. http://www.edu.lascuola.it/edizionidigitali/DivinaCommedia/data/files/m5/viaggi_nell_aldila_prima_di_dante.pdf 40

Ibidem.

41

VIRGILIO, Georgiche, Rizzoli, Milano, 1983

20


proprio mentre lei sta tentando di sfuggirgli che poggia il piede sulla serpe che con il suo morso le darà la morte (questa versione raccontata da Virgilio è precedente rispetto a quella riportata da Ovidio).42 L’evoluzione moderna del mito invece, viene sottolineata in maniera molto interessante in un volume recente dal titolo: “Orfeo, variazioni sul mito”43, in cui vengono raccolti i più significativi contributi e le interpretazioni differenti che sono state maturate durante i secoli rispetto a questo mitico cantore.44 Per esempio, Rainer Maria Rilke, scrittore e poeta austriaco di origine boema, considerato uno dei massimi poeti lirici moderni, dedica uno dei suoi più importanti volumi a questo mito: il volume difatti è intitolato “Sonetti a Orfeo”. Si tratta di un’opera costruita sinfonicamente in cui Orfeo emerge dalla profondità delle origini, ma le sue prerogative mitiche sono rilette alla luce delle condizioni storiche dell’ odierno Ade, tecnologico, industriale e frenetico. L’eroe è il testimone della centralità della parola, l’unica potenza che può ricongiungere il regno dei morti e quello dei vivi, l’ultima incarnazione di ciò che è perduto.45 «Rilke fu detto «poeta della morte». E, certo, tanta parte della sua prosa e poesia s’aggira intorno all’idea morte con ossessiva tenacia e insaziata mobilità prospettica, come nel tentativo di esaurirne il senso. […] Ma la morte rilkiana non è per vocazione un tetro fantasma, ha le sue generazioni e rigenerazioni, […] si fa musica, […] voce per eccellenza orfica […].»46 Come nel compianto funebre per un giovinetto che viene riportato nel testo: la musica prima osò sciogliere l’arido muro dell’aria; e nello spazio sgomento cui d’improvviso per sempre 42

Cfr. VIRGILIO, op. cit.

43

MARIA GRAZIA CIANI, ANDREA RODIGHIERO, (a cura di), Orfeo, variazioni sul mito, Marsilio, Venezia, 2004 44

http://www.drammaturgia.it/recensioni/recensione2.php?id=1454, (recensione di MASSIMO BERTOLDI) 45

Cfr. RAINER MARIA RILKE, Sonetti a Orfeo (introduzione a cura di GIACOMO CACCIAPAGLIA) Pordenone, edizione studio tesi, 1990 46

Ivi., p. XIII

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un giovane quasi divino mancava, entrò il vuoto in quel ritmo che oggi ci esalta e consola e ci aiuta.47 Dunque la poesia-musica come luogo di profondità e di intimità con i morti, in cui i due regni, vita e morte, si accomunano in uno solo, e di cui il poeta Orfeo diviene il mistico Signore e rimane l’unica istanza sopravvivente al crollo delle altre fedi.48 Come si legge chiaramente in un altro sonetto dell’opera intitolato “Baudelaire”: Il poeta, lui solo, ha unificato il mondo Che in ognuno di noi in frantumi è scisso. Del bello è testimone inaudito, ma esaltando anche ciò che lo tormenta dà alla rovina purezza infinita: e persino la furia che annienta si fa mondo.49 Rilke poeta della morte, ma soprattutto poeta della voce che attraversa la morte e ne serba la musica.50 Egli dedica anche una meravigliosa poesia giovanile ad Orfeo ed Euridice, intitolata: “Orfeo. Euridice. Ermes.”, con cui viene inaugurato il ciclo delle riprese novecentesche del mito.51 «[…] scritta nel 1904, fu considerata da Josif Brodskij52 “la più grande opera di questo secolo”. Orfeo viene descritto, avvolto in un mantello azzurro, mentre corre in salita verso la luce, con lo sguardo proteso in avanti, inseguito a distanza da due personaggi “muti” e “con passo lieve”: sono Euridice ed Hermes. Ma l'amata vive ormai nell'oblio della morte, mentre Orfeo è vivo. Finisce così la parabola letteraria della storia d'amore come motore narrativo 47

RAINER MARIA RILKE, Sonetti a Orfeo, cit., p. XIII

48

Ibidem.

49

Ivi., Baudelaire, (PSP, n.23), p. 181

50

Ibidem

51

Cfr., http://www.drammaturgia.it/recensioni/recensione2.php?id=1454, (recensione di MASSIMO BERTOLDI) 52

JOSIF ALEKSANDROVIČ BRODSKIJ, poeta russo, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1927

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del mito e inizia il mito del poeta e della sua libertà.»53 Riportiamo di seguito la poesia: Orfeo. Euridice. Ermete. Era la prodigiosa miniera delle anime. Come vene d’argento silenziose scorrevano il suo buio. Tra radici sgorgava il sangue che affluisce agli uomini e greve come porfido appariva nel buoi. Di rosso altro non c’era. Rupi c’erano, selve incorporee e ponti sul vuoto e quell’enorme, grigio, cieco stagno, sospeso sopra il suo lontano fondo come cielo piovoso su un paesaggio. E in mezzo a prati miti di pazienza, pallida striscia, un unico sentiero era visibile come una lunga tela distesa ad imbiancare. E per quest’unico sentiero essi venivano. In testa l’uomo snello in manto azzurro, guardando innanzi muto e impaziente divorava la strada col suo passo a grandi morsi senza masticarla. Gravi, chiuse, dalle pieghe del manto pendevano le mani, dimenticata ormai la lieve lira ch’era incarnata nella sua sinistra come tralci di rosa nel ramo dell’ulivo. Ed i suoi sensi erano in due divisi: mentre l’occhio in avanti correva come un cane, 53

http://www.drammaturgia.it/recensioni/recensione2.php?id=1454, (recensione di MASSIMO BERTOLDI)

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tornava ed ogni volta nuovamente lontano alla prossima svolta era ad attenderlo l’udito gli restava - come un odore - indietro. Talora gli sembrava di percepire il passo degli altri due viandanti che dovevano seguirlo fino al colmo dell’ascesa. Poi nient’altro che l’eco del suo ascendere dietro di lui e il vento del suo manto. E tuttavia venivano, si disse a voce alta, e udì perdersi la voce. Venivano, gli parve, ma con passo inudibile, i due. Se per un attimo gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare non fosse la rovina dell’intera sua opera prima del compimento) li vedrebbe i silenziosi due che lo seguivano: il dio dei viandanti e del messaggio lontano, sopra gli occhi chiari il pètaso, lo snello caducèo proteso innanzi, e alle caviglie il battito dell’ali; e affidata alla sua sinistra: lei. La Tanto-amata che un’unica lira la pianse più che schiera di prèfiche nel tempo, e dal lamento un mondo nuovo nacque, ove ancora una volta tutto c’era: selva, valle, paesi, vie, e campi, e fiumi e belve; e intorno a questo mondo del lamento come intorno ad un’altra terra, un sole ed un cielo stellato taciti si volgevano, un cielo del lamento pieno di astri stravolti‒: Lei, la Tanto-amata.

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Ma ella andava alla mano di quel dio, e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri, incerta, mite e senza impazienza; chiusa in sé come un grembo che prepari una nascita, senza un pensiero all’uomo innanzi a lei, né alla via che alla vita risaliva. Chiusa era in sé. E il suo essere morta la riempiva come una pienezza. Come d’oscurità e dolcezza un frutto, era colma della sua grande morte, così nuova che tutto le era incomprensibile. Ella era in una verginità nuova ed intangibile. Il suo sesso chiuso come un giovane fiore sulla sera, e le sue mani erano così immemori di nozze che anche il dio che la guidava col suo tocco infinitamente lieve, come un contatto troppo familiare l’offendeva. E non era più lei la bionda donna che echeggiava talvolta nei canti del poeta, isola profumata in mezzo all’ampio letto; né più gli apparteneva. Come una lunga chioma era già sciolta, come pioggia caduta era diffusa, come un raccolto in mille era divisa. Ormai era radice. E quando il dio bruscamente fermatala, con voce di dolore esclamò: Si è voltato ‒, lei non capì e in un soffio chiese: Chi? Ma in lontananza - oscuro contro la soglia chiara qualcuno in volto non riconoscibile 25


immobile guardava la striscia di sentiero in mezzo ai prati dove il dio messaggero, l’occhio afflitto, si voltava in silenzio seguendo la figura che per la via di prima già tornava, e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri, incerta, mite e senza impazienza.54 Euridice è ormai colma della sua morte, al punto che tutto ciò le sembra incomprensibile, ed il suo sesso è ormai chiuso come un giovane fiore al calar della sera, rinnovato da una nuova ed intangibile verginità. Successive rielaborazioni verranno anche da Jean Cocteau, in una rappresentazione teatrale del mito del 192655, e da Cesare Pavese ne: “L’inconsolabile”56, un dialogo tratto da un volume del 1947; in entrambe le opere viene data un’interpretazione diversa rispetto al gesto del voltarsi che Orfeo compie: secondo entrambi gli autori infatti, anche se in maniera diversa, Orfeo si volterebbe appositamente verso Euridice. Sarebbe un voltarsi non per distrazione, ma per calcolo, per disfarsi di Euridice e recuperare l’ispirazione poetica.57 Nel dialogo pavesiano Orfeo si confida con Bacca, usando queste parole: «È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscio del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere

54

RAINER MARIA RILKE, Orfeo. Euridice. Ermete., (traduzione di GIACOMO CACCIAPAGLIA)

55

JEAN COCTEAU, Orphée, 1926

56

CESARE PAVESE, L’inconsolabile, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino, 1947

57

Cfr., http://www.drammaturgia.it/recensioni/recensione2.php?id=1454

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ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi: “Sia finita”, e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela.»58 Questo è stato un breve viaggio “a cavallo” delle varie interpretazioni di questo mito, che ci aiutano a far emergere attraverso la figura di Orfeo, tutta la potenza della poesia-musica che sembra rappresentare l’unica via per sopravvivere alla morte. Abbiamo richiamato il mito di Orfeo per questo motivo centrale, e perché, ancora di più rispetto al mito di Odisseo, ci appare evidente l’analogia che intercorre con l’opera di Edgar Lee Masters e quella di Fabrizio De André.

1.3. Incontri con i morti in Sardegna: La Réula e la musica contemporanea. Cercando di “forzare” un po’ qualche collegamento, sottolineiamo a questo punto delle analogie che accomunano il tema del presente lavoro e la figura di Fabrizio De Andrè ad una credenza popolare che emerge dal patrimonio narrativo dei pastori di Gallura: la Réula.59 La Réula racconta di una processione di anime penitenti che non potendo riposare tranquillamente nell’aldilà sono costrette ad affrontare delle “passeggiate” notturne per espiare le loro pene. Non di rado avviene che qualcuno possa incontrarle: anche qui dunque entrano in contatto il mondo dei vivi e quello dei morti, ed è questo che prima di tutto richiama la nostra attenzione, il primo punto comune con il nostro lavoro. Ci sembra interessante ricordare ‒ prima di concentrarci sulla Réula ‒ un tema iconografico del tardo-medioevo, che sembra avere con tale credenza diverse analogie: la Danza macabra, una danza tra uomini e scheletri (in cui questi ultimi 58

CESARE PAVESE, L’inconsolabile, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino, 1947, p. 97

59

QUINTINO MOSSA, La Réula. Fiabe di magia, racconti di paura, novelle bilingui di Gallura. Taphros, Olbia, 2001

27


sono personificazioni della morte); gli scheletri hanno la funzione di memento mori, sono dei “moniti figurati”, e hanno appunto la funzione di ricordare alle persone che li incontrano che prima o poi dovranno morire. Queste rappresentazioni sono importanti perché, diversamente da quanto avveniva in precedenza (ad esempio nelle rappresentazioni alto-medievali riguardanti il tema apocalittico del Giudizio Universale), esprimono una visione più individualistica della morte (visione correlata probabilmente alla contemporanea nascita dell’individuo moderno), ed allo stesso tempo una certa ironia nei confronti delle gerarchie sociali dell’epoca.

Figura 4: MICHAEL WOLGEMUT, Danza macabra (1493) da Liber chronicarum di HARTMANN SCHEDEL.

Un simile tema iconografico è presente anche nelle incisioni (attribuite in buona parte ad Albrecht Dürer) che illustrano il volume di Sebastian Brant dal titolo «Das narrenshiff», in italiano «La nave dei folli», (la prima edizione uscì a Basilea nel 1494) una sorta di “Bibbia laica”, di “satira divina” che ha alla base un esplicito 28


intento pedagogico, quello di denunciare la stoltezza e la “follia” degli uomini di ogni ceto e condizione: i folli sono infatti tutti coloro che danno estrema importanza alla vita terrena e ai beni materiali, ignorando il fatto che invece si tratta solo di una preparazione alla morte.60

Figura 5: La nave dei folli, incisione capitolo 85: “Del non prevedere la morte”

60

Cfr. SEBASTIAN BRANT, Das narrenshiff, La nave dei folli (Introduzione, traduzione e note di RAFFAELE DISANTO), Schena, Fasano, 1989

29


Nell’opera Brant raccoglie centododici satire brevi che apparentemente non hanno nessun collegamento l’una con l’altra, a parte il tema di base, “la follia”, che consente all’autore di far “salire” i suoi personaggi tutti sulla stessa nave.

Figura 6: La nave dei folli

Interessante notare come spesso, in questo tipo di iconografia, la morte continui ad ammiccare con i vivi attraverso l’utilizzo di strumenti musicali. La Danza macabra ‒ Totentanz in lingua tedesca ‒ è appunto una danza, una danza di comunione tra vivi e morti. Palesi sono le analogie con la Réula ed in generale con il nostro tema: c’è sempre un dialogo, un incontro tra il mondo dell’aldilà e quello dell’aldiquà ‒ anche se in circostanze ed ambienti diversi, ma comunque accomunati da questo venire a contatto ‒ scandito sempre dalla presenza della musica, che sembra rendere meno invalicabile il confine che li separa. Questa immagine del ballo tra vivi e morti si ripropone anche in un detto popolare in lingua sarda citato da Piero Marras (autore, cantante e musicista sardo) nella canzone: “Ballade e cantade bois”, in cui si racconta di un giovane che al rientro dalla festa del paese, quando ormai tutti erano nelle loro case e non c’erano che bottiglie e cartacce per terra, incontra un gruppo di anime che cantano e ballano e che

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con gentilezza lo invitano a prendere parte ai loro festeggiamenti. Il ragazzo, attratto ma consapevole del pericolo, avrebbe risposto alle anime:61 «Cantade e ballade bois / ca sos ballos un sos bostros / cand'ana a bennere sos nostros / amus a ballare nois (cantate e ballate voi adesso / che i balli sono i vostri / quando arriveranno i nostri / canteremo e balleremo noi)».62 In un’altra canzone dello stesso autore ‒ dal titolo: “L’hana mortu cantande” ‒ il tema della morte viene riproposto, ma questa volta da un punto di vista più intimo, da cui emerge la solitudine dell’anima del morto ‒ e di chi lo piange ‒ ed il suo estremo bisogno di comunicare con qualcuno: Cantava e l’hanno ucciso, col canto sulle labbra. E me l’hanno trovato nel sentiero di pietra, occhi al cielo, con il fiore della morte spalancato sulla fronte, era solo con il freddo e con la malasorte; col vento che gli mordeva i capelli e la luna in alto, testimone. Non li ha toccati neanche la pena i suoi assassini, la loro fuga, come ombra maligna, l’ha visti il fiume. E nelle sere di luna, quando le pietre dormono, si siede a raccontare in gran segreto, a stelle e nuvole, come l’hanno ucciso. E’ caduto senza sapere d’aver vissuto, senza sapere di morire. Cantava e l’hanno ucciso, col canto sulle labbra.63 In un mondo crepuscolare e omertoso come quello raccontato dal poeta che ha scritto questi versi,64 ciò che ci colpisce è appunto il fatto che la vittima ‒ quest’uomo ‒ continui a raccontare della sua morte, anche se non c’è nessuno ad ascoltarlo, o

61

http://www.youtube.com/watch?v=R5cqKMCUJ4U, (presentazione di PIERO MARRAS)

62

PIERO MARRAS, Cantade e ballade bois, Tumbu, Sassari, 1995

63

PIERO MARRAS, L’hana mortu cantande, Abbardente, Sassari, 1985 (testo tratto da una poesia di

PIETRO MURA). 64

http://www.youtube.com/watch?v=hsx3-Sig-Qw

31


meglio, nessuna persona: ci sono solo le stelle e le nuvole, le pietre che dormono, la luna ed il fiume. Eppure egli continua a raccontare, con l’instancabile desiderio di sopravvivere alla morte. Torniamo alla Réula: un altro motivo per cui crediamo sia importante parlare proprio di questa credenza e di questo luogo della Sardegna in particolare, è costituito dal fatto che Fabrizio De André, pur essendo genovese, ha scelto di vivere la Gallura, ed ha scelto di viverla davvero, non nei suoi aspetti più mondani, bensì inoltrandosi nei suoi territori più intimi e remoti, dove il silenzio da vita alle ombre della notte. Ha vissuto a stretto contatto con le persone del luogo, con i pastori ed i contadini che meglio di tutti conoscevano i segreti, le tradizioni e la cultura del posto, ed egli stesso ha vissuto come loro, allevando il bestiame e coltivando la terra che aveva acquistato, rimanendo sempre affascinato dal sapere antico della popolazione autoctona, dalla sua tradizione culinaria, e dal dialetto gallurese. Tanto è vero che la sua fascinazione per il popolo ed il territorio sardo ispirerà anche un suo album, dedicato interamente al parallelismo che egli vedeva tra la gente del posto, la loro cultura ed i pellerossa americani: l’album verrà chiamato da tutti “L’indiano” per l’immagine del pellerossa a cavallo riportata in copertina. Egli sostiene, attraverso le canzoni contenute nell’album ‒ occorre ricordare che si tratta di un album concept, ovvero un’opera discografica in cui tutte le canzoni, seppur raccontando storie diverse, trattano un unico tema guardato da diverse angolazioni ‒ che la Sardegna, come l’America, sia stata colonizzata dall’egemonia occidentale, e rivede nella magia dei paesaggi sardi l’atmosfera dell’America incontaminata prima della “riscoperta”, prima di tutti i massacri e gli stermini che i generali di turno hanno inflitto a questo popolo ‒ indiscriminatamente, donne e bambini compresi ‒ con una naturalezza disarmante. Come afferma in un’intervista Massimo Bubola, co-autore dell’album: «Nel guardare quell’intenso ritratto del guerriero pellerossa a cavallo col fucile di traverso, con dietro l’enorme luna piena sulla prateria verde-azzurra, ho riconosciuto il vento notturno e discendente che ci accompagnò per tutto il lavoro di scrittura dei testi e delle musiche […] di quel disco.»65

65

Fabrizio De André. L’opera completa, L’indiano, Gruppo editoriale L’Espresso, 2009, p. 19

32


Figura 7: FREDERIC REMINGTON, La sentinella, 1909 (olio su tela)

Sia i sardi che i pellerossa sono due popoli chiusi, fieri, trovatisi improvvisamente a contatto con culture diverse che in un modo o nell’altro li hanno assoggettati ed espropriati, almeno in parte, della loro libertà e autonomia. De André amava a tal punto la Sardegna da affermare: «La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattro mila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso.»66 Una terra dove, se si guarda con attenzione l’orizzonte con i suoi silenzi, ci si può aspettare da un momento all’altro che sbuchino da dietro una collina dei pellerossa a cavallo. Una terra che egli ha amato, che ha scelto ed ha “riscelto” anche dopo il rapimento di cui è stato vittima insieme a sua moglie Dori Ghezzi: imbavagliati e portati via dalla loro tenuta gallurese a l’Agnata, verranno tenuti prigionieri presso Oschiri e Pattada, in uno dei tanti luoghi in cui l’entroterra sardo diventa aspro e quasi preistorico, in 66

http://www.circolosardegna.brianzaest.it/FABRIZIO%20DE%20ANDRE%20LA%20SARDEGNA %20E'%20UN%20PARADISO2T.pdf

33


quel Supramonte che egli non tarderà a rendere più dolce attraverso il titolo ed il contenuto della canzone che ‒ sempre nello stesso album ‒ racconta il punto di vista più umano ed intimo dei giorni da loro trascorsi durante la prigionia: Hotel Supramonte E se vai all'Hotel Supramonte e guardi il cielo tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo e una lettera vera di notte falsa di giorno e poi scuse accuse e scuse senza ritorno. E ora viaggi ridi, vivi, o sei perduta col tuo ordine discreto dentro il cuore ma dove, dov'è il tuo amore ma dove è finito il tuo amore. Grazie al cielo ho una bocca per bere e non è facile grazie a te ho una barca da scrivere un treno da perdere e un invito all'Hotel Supramonte dove ho visto la neve sul tuo corpo così dolce di fame così dolce di sete. Passerà anche questa stazione senza far male passerà questa pioggia sottile come passa il dolore ma dove, dov'è il tuo amore ma dove è finito il tuo amore. E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano cosa importa se sono caduto se sono lontano. Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole ma dove, dov'e' il tuo amore

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ma dove e' finito il tuo cuore.67 Il sequestro avverrà nel 1979 e durerà quasi quattro mesi, eppure egli non esiterà un attimo a perdonare i loro “guardiani” ed a considerarli a loro volta vittime dei mandanti. Li ringrazierà anche per la cortesia e l’umanità con cui ‒ nei limiti consentiti dalla situazione ‒ sono stati trattati. Dal nostro punto di vista è importante sottolineare come nello stesso album, quasi a fare da contrappeso al racconto della propria prigionia, De André inserisca una canzone ‒ “Se ti tagliassero a pezzetti” ‒ che costituisce un inno alla libertà, ed in cui canta questi versi: Se ti tagliassero a pezzetti Se ti tagliassero a pezzetti il vento li raccoglierebbe il regno dei ragni cucirebbe la pelle e la luna tesserebbe i capelli e il viso e il polline di Dio, di Dio il sorriso. […] Persa per molto persa per poco presa sul serio presa per gioco non c'è stato molto da dire o da pensare la fortuna sorrideva come uno stagno a primavera spettinata da tutti i venti della sera. E adesso aspetterò domani per avere nostalgia signora libertà signorina fantasia così preziosa come il vino così gratis come la tristezza con la tua nuvola di dubbi e di bellezza […].68

67

FABRIZIO DE ANDRÉ, Hotel Supramonte, L’Indiano, Ricordi, Carimate, 1981; FABRIZIO DE ANDRÉ, Parole. I testi di tutte le canzoni., Ricordi (La repubblica – l’espresso), Milano, 2009, p. 139 68

FABRIZIO DE ANDRÉ, Se ti tagliassero a pezzetti, L’Indiano, Ricordi, Carimate, 1981; FABRIZIO DE ANDRÉ, Parole. I testi di tutte le canzoni., Ricordi (La repubblica – l’espresso), Milano, 2009, p. 1412

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De Andrè manifesterà ampiamente, attraverso il suo lavoro, l’amore che nutre per questa terra: per esempio all’interno dello stesso album inserirà un canto tradizionale sardo dal titolo: “Ave Maria”, (adattamento di Fabrizio De André e Albino Puddu), e nella prima canzone del medesimo metterà insieme «suoni e musiche statunitensi, soprattutto il forte richiamo al blues elettrico, con i rumori registrati durante una caccia al cinghiale in Gallura.»69 Utilizzerà anche la lingua gallurese in alcune sue canzoni, come in “Monti di Mola”,70 (la storia surreale di un ragazzo che s’innamora di un’asina, e che non può sposarla perché al momento del matrimonio i due scoprono di essere cugini di primo grado) e “Zirichiltaggia (Baddu tundu)”71 (che letteralmente significa: “lucertolaio”, e che parla di una lite tra pastori per questioni di eredità). Nell’album “Le Nuvole”, in cui l’autore ‒ traendo spunto dall’ omonima commedia di Aristofane ‒ utilizza queste ultime come metafora del potere che si frappone tra il popolo ed il cielo, impedendogli di vederlo, sceglie due donne dall’accento smaccatamente sardo (Lalla Pisano e Maria Mereu) per far loro recitare i versi iniziali, l’incipit dell’album; due voci autentiche, scelte da De André per rappresentare il legame con la madre terra.72 Ecco i versi dedicati alle nuvole: Vanno vengono ogni tanto si fermano e quando si fermano sono nere come il corvo sembra che ti guardano con malocchio. Certe volte sono bianche e corrono 69

Fabrizio De André. L’opera completa, L’indiano, Gruppo editoriale L’Espresso, 2009, p. 9

70

FABRIZIO DE ANDRÉ, Le Nuvole, Ricordi- Fonit Cetra, 1990

71

FABRIZIO DE ANDRÉ, Rimini, Ricordi, 1978

72

Cfr., ALFREDO FRANCHINI, Uomini e donne di Fabrizio De Andrè, Fratelli Frilli Editore, Genova, 2005

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e prendono la forma dell'airone o della pecora o di qualche altra bestia ma questo lo vedono meglio i bambini che giocano a corrergli dietro per tanti metri. Certe volte ti avvisano con rumore prima di arrivare e la terra si trema e gli animali si stanno zitti certe volte ti avvisano con rumore. Vengono vanno ritornano e magari si fermano tanti giorni che non vedi più il sole e le stelle e ti sembra di non conoscere più il posto dove stai. Vanno vengono per una vera mille sono finte e si mettono lì tra noi e il cielo, per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.73 “Le nuvole”74 è un album diviso in due parti: la prima parte è satirica e De André diventa interprete dei suoi personaggi, mentre la seconda è dedicata a favole e 73

FABRIZIO DE ANDRÉ, Le Nuvole, Le nuvole, Ricordi- Fonit Cetra, 1990; FABRIZIO DE ANDRÉ, Parole. I testi di tutte le canzoni., Ricordi (La repubblica – l’espresso), Milano, 2009, p. 163 74

Ibidem.

37


credenze antiche, raccontate magistralmente attraverso l’utilizzo del dialetto genovese e di quello gallurese che contribuiscono a creare un’atmosfera incantata. «La prima parte dell’album si chiude, così come s’era aperta, con il canto delle cicale: “con il coro di questo popolo”, dice Fabrizio […].»75 Ci vengono in mente le cicale di cui parla anche Platone nel “Fedro”,76 «le quali ‒ egli racconta ‒ in un tempo antichissimo erano uomini, che furono presi da un piacere così grande per il canto (che lenisce il dolore), da dimenticarsi, per cantare, del cibo e delle bevande. E così vennero a morte, per rinascere nel canto delle cicale.»77 Il suo prezioso ed amorevole contributo ci aiuta a conoscere un po’ meglio una terra come la Gallura (soprattutto la Gallura di qualche anno fa, quella preindustriale, premoderna, sempre uguale a se stessa),78 una terra dove i silenzi della natura sono profondi, in cui la solitudine alimenta la paura dei pastori (che spesso vivono negli “stazzi”, a contatto esclusivamente con le loro greggi), amplificando l’orrore per la morte ed il senso d’angoscia per l’ignoto. «L’isolamento accendeva la fantasia della gente e quando un fenomeno risultava incomprensibili, se ne attribuiva la causa al soprannaturale, per dominare il quale si ricorreva “a li paràuli” (alle parole: invocazioni, preghiere, scongiuri).»79 Una terra dove può attecchire perfettamente una credenza popolare come quella che racconta della Réula, perché non c’è niente che rispecchi la paura del soprannaturale e delle forze imperscrutabili meglio di quanto facciano le leggende che raccontano delle anime dei morti e del loro ritorno; a creare questo alone di terrore contribuisce anche l’educazione cristiana per la quale solo le anime dannate risalgono dall’inferno per nuocere ai vivi.80 «Soprattutto a coloro che ‒ per varie ragioni ‒ si trovavano fuori di casa durante le ore notturne, 75

ALFREDO FRANCHINI, Uomini e donne di Fabrizio De Andrè, cit., pp. 58-9

76

PLATONE, Fedro, Rizzoli (Bur), Milano, 2006

77

EMANUELE SEVERINO, La Follia dell’Angelo. Conversazioni intorno alla filosofia, Rizzoli, 1997 (a cura di INES TESTONI) 78

Cfr. NICOLINO CUCCIARI, Magia e superstizione tra i pastori della Bassa Gallura, Chiarella, Sassari, 1985 79

Ivi., p. 13

80

Cfr. QUINTINO MOSSA, op. cit.

38


poteva capitare di vivere terribili esperienze, visioni orrorifiche, sensazioni sconvolgenti e angosciose. Quando si udivano chiamar per nome non dovevano rispondere prima del terzo appello. Gravi conseguenze avrebbe subito chi non si fosse attenuto a questa raccomandazione, perché chi chiamava nel buio della notte era certo l’anima di un morto. Non si dovevano prendere appuntamenti notturni. […] Numerosi racconti testimoniano questi sciagurati incontri. Comuni quelli che narrano di pie donne che, sentendo suonar la campana, equivocano sull’ora e si recano in chiesa nottetempo pensando d’andare alla usuale funzione religiosa mattutina. Allorché poi, nel sacro edificio, si rendono conto che prete e fedeli sono scalzi, sentono raggelare il sangue nelle vene vedendo finalmente che i convenuti non sono altri che i morti della contrada.»81

Figura 8: Processione di spiriti, la Reula.

«I galluresi […], con ogni sorta di pratiche

e di scongiuri, cercano di evitare

l’incontro con li vuglietti (le anime dei morti spesso incarnate in qualche animale),

81

QUINTINO MOSSA, cit., p.. 12

39


con gli animi bulattighi (i bambini morti senza battesimo) e con le panas, ma si guardano soprattutto dalla réula cioè dalla schiera dei morti […].»82 Vari sono gli scongiuri utilizzati per difendersi dalla visione di queste anime, tra cui il simbolo apotropaico fondamentale, ovvero il segno della croce.83 Oppure nel caso della Réula, la persona che incontrava queste anime doveva recitare dodici scongiuri, che avevano un ordine ed una forma rigidissima e servivano per allontanare l’influenza nefasta determinata dall’incontro. Ecco che il potere esorcizzante del ritmo delle parole ritorna anche qui, nell’ultima, ma non meno importante analogia che si può riscontrare tra le opere che costituiscono l’oggetto delle nostro lavoro e questa credenza. «La Reula: Processione di anime penitenti. Le anime dei morti escono dai loro sepolcri e vagano nella oscura notte, senza requie, per scontare in penitenza la dannazione pei loro peccati. La credenza popolare riteneva che ognuna di loro indossasse una lunga camicia bianca (forse l’abitu per avvolgere le membra del morto). Nell’attraversare le deserte notturne vie dei paesi, tenevano una candela accesa in mano. Non potevano lasciare le loro tombe prima di mezzanotte e dovevano assolutamente rientrarvi prima del terzo canto del gallo. L’anima talvolta meravigliosamente usciva dal corpo inerte di chi, per destino, era vicino alla morte; si univa ai cortei delle anime penitenti e vagava con loro per tutta la notte; all’alba rientrava nelle sue spoglie mortali e l’individuo, ricostituito di anima e corpo, riprendeva vita, senza che avesse coscienza di quanto gli era accaduto. Chi aveva la ventura di vedere una di queste anime, prossime all’estremo passo, sapeva che il suo possessore sarebbe morto entro l’anno se vista arrancare lungo una salita; avrebbe invece solo patito una grave malattia se vista discendere un’erta. Così, se si fosse data la ventura di riconoscere tra le anime quella di un parente stretto o di un compare di battesimo, non si sarebbe dovuta temere offesa, anzi, talora lo stesso spirito riconosciuto avrebbe avvertito il parente o il compare 82

MARIO ATZORI, MARIA MARGHERITA SATTA, Credenze e riti magici in Sardegna. Dalla religione alla magia. Chiarella, Sassari, p. 127 83

Ibidem.

40


dell’arrivo in famiglia di qualche evento luttuoso o sfortunato, che si sarebbe potuto evitare con una generosa donazione alla chiesetta della contrada o ai poveri. Il più malvagio tra i penitenti era zoppo e arrancava ultimo nella fila, stizzito per paura di non poter completare la sua parte di penitenza e perciò non poter rientrare al sepolcro prima del terzo canto del gallo. Perché la Réula non provocasse danni a chi aveva la sfortuna d’incontrarla (il minimo che poteva succedere al malcapitato che la incontrava, per quanto bene gli potesse andare, era ricevere una “passatina” di ruvide botte: e i lividi conseguenti erano detti “i pizzichi dei morti”), questi, come ben poteva consigliargli l’anima del parente o del compare presente nella triste fila, doveva mettersi al lato della strada, possibilmente sul margine superiore, e tenersi sopravvento per non sentire il fetore cadaverico. Solo con tali accorgimenti i morti avrebbero potuto non avvedersi della presenza di un vivente. Allora il viandante doveva inginocchiarsi, fare il segno della croce e cominciare a recitare le liberatrici formule magiche sottovoce (le dodici parole), ben attento a non invertire o sbagliare numeri di strofe e parole, poiché l’errore, oltre a rendere inefficaci le frasi, avrebbe maggiormente suscitato la collera dello zoppo. Così ad ogni sbaglio si doveva ricominciare da capo. Per alcuni la Réula era composta da dodici spiriti maligni che vagavano nottetempo creando guai a chi li incontrava. Al termine della notte si trasformavano in animali: cani, gatti, mucche, maiali.»84 Ecco “li dodici parauli”, le parole capaci di scacciare la morte e l’influenza nefasta delle anime, riportate in dialetto gallurese dall’autore: «In nòmmu di lu Babbu, di lu Fiddhólu e di lu Spiritu Santu, amèn. Óra Lu ch’è drèntu no è fóra. SANTU MALTINU (di paraula bònu): M’aéti di dì cantu séti? LU DIMÒNIU (rispondi): Unu SANTU MALTINU: Unu è Déu e supra Iddhu non v’è nisciunu. Candu falèsi Gjesù Cristu, a pèdi, pal mari e pal terra a gjerusalè, in nommu di lu Babbu… óra lu c’è drèntu no è fóra. M’aéti di dì cantu sèti? DIMÒNIU: Dui 84

QUINTINO MOSSA,cit., p. 18-9

41


SANTU MALTINU: Dui so li dui tauli di Mosè; unu è Déu… Candu falési Gjes§ Cristu… In nòmmu di lu babbu… M’aèti di dì cantu séti? DIMÒNIU: Tre SANTU MALTINU: Tre so li tre Marii Dui so li tauli di Mosè… DIMÒNIU: Cattru SANTU MALTINU: Cattru so li cattru evangelisti… DIMÒNIU: Cincu SANTU MALTINU: Cincu so li cincu piai… DIMÒNIU: Séi SANTU MALTINU: Séi, so li candéli allutti di l’altari… DIMÒNIU: Sètti SANTU MALTINU: Sètti, so li sètti dulóri… DIMÒNIU: Òttu SANTU MALTINU: Òttu, so l’òttu dòni… DIMÒNIU: Nói SANTU MALTINU: Nói, so li nói còri di l’agnuli… DIMÒNIU: Déci SANTU MALTINU: Déci, so li déci cumandamènti… DIMÒNIU: Undici SANTU MALTINU: Undici, so l’undici ‘iglini… DIMONIU: Dódici SANTU MALTINU: Dódici,, so li dódici apòstoli… DIMÒNIU: Trédici SANTU MALTINU: Trédici, lu trédici no è lè; trédici passi di tarra fóra da me In nòmmu di lu Babbu di lu Fiddhólu e di lu Spiritu Santu, Amèn»85 Questi sono i «Racconti del Focolare», un materiale importante per l’antropologia culturale di questa regione, che racconta l’inconscio e l’immaginario collettivo delle 85

QUINTINO MOSSA, cit., p. 19-20

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genti che abitano queste terre; bisogna entrare in “simpatia” con il mondo aspro e selvaggio dei pastori galluresi per comprendere a fondo queste credenze.86 Di seguito viene riportato un racconto di Maria Antonietta Pirrigheddu, una scrittrice sarda che racconta la Réula, ma da un altro punto di vista; e cioè guardandola attraverso la solitudine e gli occhi dell’anima di un morto: «Talvolta succede. Qualcuno, distratto, talvolta mi vede. Solo un'ombra, un istante, come un bianco di fumo... Sono stanco. Mortalmente stanco. E non sopporto più la luce, mi graffia gli occhi... Gli occhi? Quel che ne resta, dovrei dire. Il ricordo mi resta, soltanto il ricordo. Gli altri se ne sono andati. Tutti. Da quanto, non saprei dirlo. Sono rimasto io solo, quasi fosse il custode di questa chiesa. Ma non è così. Io sono davvero legato a queste mura: non per affetto o chissà quale vincolo di cuore. No, sono proprio catene quelle che mi tengono qui, in questa chiesupola di quattro mattoni e due statue, costruita sulle mie ossa, là dove caddi sotto i colpi di Misorro. Io non posso andare via. Devo aspettare: aspettare il momento in cui non sarà rimasta più una pietra sull'altra, una scheggia d'altare, un moccolo di candela. Solo allora sarò libero. Fra quanto? Quanti secoli ancora? O millenni? Eppure c'è stato un tempo in cui questa prigionia non mi pesava. Eravamo in tanti, allora, ad abitare qui; e altri ne arrivavano, quasi ogni sera, attraversando i cunicoli sotterranei da San Pietro, Santa Croce, il Pilare. Altri venivano dai paesi vicini, da Aggius, da Luras, e ci incontravamo qui, nella piazza, quando ancora era libera dai negozi, dalle auto, dai rumori. “La Reula”, ci chiamavano. Passavamo correndo, ballando, vociando; e ogni notte era un nuovo percorso, una nuova avventura, a caccia di quegli insensati ancora per via, di chi si era perso in campagna, di chi era costretto ad uscire nelle ore più scure. Non tutti riuscivano a vederci, ma in tanti avvertivano la nostra presenza, la intuivano. C'era chi ci scansava con un segno di croce, chi farfugliava scongiuri, chi sentiva mancargli le gambe e poi si ammalava - di solo terrore. Alcuni di noi segnavano il tempo: si mostravano a chi, poco dopo, avrebbe raggiunto il confine, saltato quella linea inesistente che separa il nostro mondo da quello dei vivi. Ma altri fra noi, e non pochi, davvero recavano danno. Inseguivano le mandrie, azzoppavano i cavalli, riempivano d'incubi il sonno delle donne. 86

Cfr. NICOLINO CUCCIARI, op. cit.

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Sapevamo ‒ eccome, se lo sapevamo! ‒ che non ci era concesso fare del male, e chi trasgrediva sarebbe stato punito, condannato a vagare per un numero d'anni infinito; ma la tentazione era forte: di causare malori, di sconvolgere menti, di stringere gli uomini in cerchi di danza spettrale. La Reula: e al nostro passaggio serravano le porte, si chiudevano in casa borbottando preghiere, appendevano amuleti al di sopra dei letti, ci sbarravano gli usci rovesciando forconi. Sciocchi! Non erano quei denti da contare a fermarci. C'era invece qualcosa di cui davvero avevamo paura: parole. Antiche, potenti, a volte incomprensibili, c'erano parole che squarciavano l'aria e strappavano i nostri lenzuoli. Colpivano forse il punto più inquieto dell'anima nostra, privandoci di forze, togliendoci il gusto di molestare, travolgere, spaventare. Si scioglieva la nostra boria in un attimo, e per quella notte la scorribanda era finita. Ma poi, poco a poco, qualcosa cambiò. Si chiusero gli occhi dei vivi, si spense la loro visione, e pochi mantennero il dono di scorgere il nostro universo. Rimase, la nostra memoria, soltanto nei libri, o in immagini oscure sepolte dentro vecchie credenze. Inutile andare per strade e per fossi di notte, gridando, a portare scompiglio, seminare timori. Più nessuno ebbe il tempo di ascoltarci, di conoscere, di capire. Così, l'uno dopo l'altro, i miei compagni se ne andarono: gli spiriti lasciarono la terra di Gallura. Non so per quali angoli di mondo, né se abbiano trovato davvero altri luoghi in cui sopravvivere. Sono rimasto io solo, aggrappato a questi muri, qui dov'entra la gente a pregare al ritorno dal cimitero. «Il Purgatorio», lo chiamano. Costruito dal nobile Misorro dove avvenne la strage, dove uccise venti uomini tendendo un'imboscata. Io non posso andarmene: è ancora lontana la fine della mia condanna. Perché non solo gli assassini sono colpevoli, ma a volte anche gli uccisi; e quando lui mi colpì, pesavano gli errori anche sopra le mie spalle. Fu questa la sentenza: restare vincolato alla chiesa che segna il luogo della mia morte. Ora vivo in silenzio, fuggendo lo spiraglio di luce che percorre il pavimento; e mi danno fastidio le voci, i passi, i bisbigli, questa donna che viene la sera e raccoglie le offerte e la cera. Da anni non varco la soglia. Sto chiuso qua dentro, in attesa. Talvolta succede. Qualcuno, distratto, talvolta mi vede. Solo un'ombra, un istante, come un bianco di fumo, e un pensiero più freddo degli altri che scivola in mente. Poi tutto dissolve. E ogni volta m'illudo: m'illudo di esistere ancora, di avere ancora

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uno spazio, e un nome, o una forma, nei giorni di questo paese che non vuol più sapere di me. Ma sempre mi sbaglio. Adesso nient'altro mi resta da fare, se non aspettare. Aspettare il momento in cui di questa chiesa non sarà più rimasta una pietra sull'altra, una scheggia d'altare, un moccolo di candela. Allora sarò libero.»87

Figura 9: TOMMASO PIRRIGHEDDU, La Reula

87

http://www.lunadivetro.it/scoperte/lareula/la_reula.htm, ( racconto di MARIA ANTONIETTA

PIRRIGHEDDU, racconto vincitore della prima ed. del concorso “Momenti di vita e cultura gallurese”)

45


1.4 La cultura della morte: cenni antropologici e filosofici Già a metà degli anni cinquanta, Ernesto de Martino, in uno studio relativo ai lamenti funebri di tradizione millenaria praticati dalle contadine lucane,88 ha posto in evidenza la sostanziale diversità di comportamento che intercorre tra le culture antiche e le società moderne nei confronti della morte: in questo senso «le manifestazioni del cordoglio di cui si fanno tragico carico le lamentatrici dei villaggi lucani appaiono […] come comportamenti antitetici a quei modelli di interiorizzazione e privatizzazione del dolore […] dominanti nella nostra società.»89 Tali manifestazioni possono essere considerate come «drammatizzazioni a soggetto» che ubbidiscono a canoni rigidamente codificati, e che sembrano esternare una sofferenza incommensurabile rispetto alle forme di “elaborazione” dei contesti moderni. In passato il lamento funebre era molto diffuso in tutto il mediterraneo, ad esempio nell’antichità classica esisteva la figura della “prefica” (dal latino praefica), una pratica conosciuta e citata anche da Omero. Le prefiche erano donne che venivano pagate appositamente per “piangere” durante i funerali: i loro lamenti venivano spesso accompagnati da strumenti musicali, e durante il loro canto, con una gestualità esasperata, spesso si strappavano ciocche di capelli e si graffiavano il volto. Delle analogie esistono anche tra queste pratiche e le nenie della Roma antica, ovvero dei canti tristi e monotoni intonati durante le cerimonie funebri ed accompagnati dal flauto. Questo tipo di “lamentazione”, veniva praticato anche in Corsica (in cui veniva chiamato “vocero”), e in tutto il mezzogiorno d’Italia, dove è sopravvissuto fino a pochi decenni fa, e in cui ‒ in alcune zone ‒ molto probabilmente resiste ancora. In Sardegna, ad esempio, il lamento funebre prendeva il nome di “attittu”, e la sua presenza è documentata ‒ tra le altre zone ‒ in Barbagia, in Gallura, e nel sassarese: per quanto concerne quest’ultima parte del nord Sardegna, sono tutt’oggi famose le 88

ERNESTO DE MARTINO, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (introduzione di CLARA GALLINI), Bollati Borighieri, Torino, 1975 89

Ivi., p. X

46


“lamentatrici” di Nulvi, sia per la loro spiccata vena poetica, che per le loro “messe in scena” (anche queste ultime, come le prefiche, arrivano a strapparsi ciocche di capelli, a graffiarsi la faccia e a gettarsi la cenere sulla testa). Va detto che non sempre si trattava di persone legate realmente al morto da un punto di vista emotivo, ovvero di parenti strette, spesso, anzi, si trattava di donne chiamate appositamente per “piangerlo”: anche questa era dunque una forma di partecipazione collettiva al lutto, una «manifestazione culturale per la risoluzione del dolore»90 che «ha la sua espressione formale […] nel canto rituale strutturato, secondo ritornelli emotivi»;91 tale pratica è stata sradicata dall’intervento del Cristianesimo, tanto è vero che, come viene raccontato, l’attittu cessava all’arrivo del sacerdote.92 Riportiamo qui di seguito il bellissimo “attittidu” di Ossi”93, un altro paese del sassarese, che forse può aiutarci a comprendere meglio l’andatura “cantilenante” di tali lamenti funebri: E fizu e fizu meu cherzo a tinde pesare sa prenda valorosa e fizu e fizu meu e su dolore tou movet su coro duru e fizu e fizu meu no b'andes a sa losa chi inie b'at iscuru

90

MARIO ATZORI, MARIA MARGHERITA SATTA, Credenze e riti magici in Sardegna. Dalla religione alla magia. Chiarella, Sassari, p. 202 91

Ibidem.

92

http://www.gentedisardegna.it/pop_printer_friendly.asp?TOPIC_ID=13434

93

Ibidem.

47


e fizu e fizu meu beni a bolu columba no b'andes a sa tumba mihi ! chi mama non cheret.94 Il lamento funebre ha sempre costituito per la Chiesa un grosso problema, in virtù del fatto che ‒ come scrive nel già citato studio anche de Martino ‒ nel Vangelo di Giovanni (19.25-27), Maria, madre di Gesù, viene descritta come una spettatrice muta di fronte alla croce, e «l’evangelista non pone sulla sua bocca nessuna espressione di dolore […]. Seguendo quindi, una immagine del dolore raccolto, immobile e muto, la Chiesa iniziò i divieti contro i rituali e il pianto funebre.»95 Completamente diversa è la descrizione che Jacopone da Todi, nella Lauda “Donna de Paradiso”, tratteggia riguardo alla sofferenza di Maria; in quest’opera ‒ che è una sorta di ballata sacra, una Lauda drammatica in cui l’attenzione viene concentrata proprio sulla sofferenza della Madonna piuttosto che su quella di Gesù ‒ Jacopone mette in scena una sorta di Passione della Vergine. Attraverso un’interpretazione coerente con la tradizione della lauda perugina, orientata più all’umanizzazione dei temi religiosi che ad una loro interpretazione ascetica o mistica, la Vergine appare come una figura profondamente umana, come madre disperata «ignara delle implicazioni teologiche della sofferenza del figlio».96 Interessante notare come anche Fabrizio De André nell’album “La buona novella”97 ‒ album tratto dai “Vangeli apocrifi”, in particolar modo dal “Protovangelo di Giacomo” e dal “Vangelo Arabo dell’infanzia” (anche questi sono testi che raccontano la vita di Gesù da una prospettiva differente e molto più “umana” rispetto ai Vangeli canonici, e per questo motivo censurati dalla chiesa) ‒ ritragga Maria piangente accanto alle madri dei due ladroni Tito e Dimaco crocifissi accanto a suo Figlio. 94

http://www.gentedisardegna.it/pop_printer_friendly.asp?TOPIC_ID=13434

95

MARIO ATZORI, MARIA MARGHERITA SATTA, Credenze e riti magici in Sardegna. Dalla religione alla magia. Cit., p. 201 96

http://balbruno.altervista.org/index-1109.html

97

FABRIZIO DE ANDRÉ, La buona novella, Produttori Associati, Milano, 1970

48


Nella canzone Tre Madri infatti, queste ultime sentendola piangere le dicono: «Con troppe lacrime piangi, Maria, solo l'immagine d'un'agonia, sai che alla vita, nel terzo giorno, il figlio tuo farà ritorno, lascia noi piangere, un po' più forte, chi non risorgerà più dalla morte».98 E Maria stessa dice a Gesù, mentre lo guarda morire: «Per me sei figlio, vita morente, ti portò cieco questo mio ventre, come nel grembo, e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce. Non fossi stato figlio di Dio t'avrei ancora per figlio mio.»99 Ecco tratteggiata dunque l’immagine di Maria come donna, come madre, che inevitabilmente piange suo figlio allo stesso modo delle altre due madri che le stanno accanto. Dopo questa breve ma suggestiva digressione, riprendiamo il discorso sui lamenti funebri: il primo documento che in Sardegna vieta tali rituali appartiene ai decreti di Ploaghe del 1553, un documento con il quale Salvatore Alepus, vescovo di Sassari, metteva in pratica le disposizioni del concilio di Trento.100 In questo tipo di documenti «il divieto principale che troviamo è quello di piangere il morto, sia a casa che nelle vie e nelle chiese, con lamenti, grida scomposte, ululati, 98

FABRIZIO DE ANDRÉ, Tre Madri, La buona novella, Produttori Associati, Milano, 1970; FABRIZIO DE ANDRÉ, Parole. I testi di tutte le canzoni., Ricordi (La repubblica – l’espresso), Milano, 2009, p. 58 99

Ibidem.

100

MARIO ATZORI, MARIA MARGHERITA SATTA, Op. cit., p. 201

49


clamori, graffiandosi il viso e strappandosi i capelli. In questi casi la chiesa sosteneva che si ostacolava persino il rito cristiano, impedendo i canti ecclesiastici e la celebrazione della stessa messa […].»101 Ecco dunque, che per una serie di congiunture economiche, culturali e di altra natura, arriviamo fino alla situazione attuale, in cui, secondo molti studiosi, si assiste ad un atteggiamento diametralmente opposto, ad una crisi del cordoglio, sempre più sospeso in un vuoto di referenti, in cui il morto viene liquidato sbrigativamente dal punto di vista interiore, attraverso le più svariate tecniche che consentono all’individuo di evitare contatti col dolore, di isolarlo; tecniche che lo rendono apparentemente indifferente alla sofferenza, anche se in realtà, gli esiti più segreti di questo processo di occultamento rimangono pur sempre disturbanti.102 Psicoterapeuti e psichiatri riscontrano sempre più spesso l’emergere della problematica della morte nella vita del nevrotico, sia all’interno della sua dimensione onirica, che relativamente ai suoi pensieri e alle sue fantasie.103 Oggi, nella società dei consumi, si tenta di rimuovere il pensiero della morte, ed il risultato è che quest’ultima ha perso la sua dimensione pubblica, divenendo un fatto da nascondere:104 «L’ideologia della società industriale è quella del piacere e dell’efficienza, ma la morte è lo scacco di ogni efficientismo ed edonismo […].»105 Il risultato è che, non essendo possibile per l’individuo escludere la morte, egli si trova a doverla affrontare da solo non essendo più supportato dal sostegno della collettività. Vengono a mancare i punti di riferimento costituiti dalle dinamiche ritualizzate che nelle comunità antiche “guidavano” il processo di elaborazione del lutto: alla figura del sacerdote viene sostituita quella del medico, chiamato al momento del trapasso per tentare di rendere la morte più dolce e più buona. Questo è il definitivo segnale dell’avvenuto processo di desacralizzazione del fenomeno, in 101

MARIO ATZORI, MARIA MARGHERITA SATTA, Op. cit., p. 202

102

Cfr., GIOVANNI DE VINCENTIIS, GABRIELLA VALACCA, La cultura della morte nella mentalità occidentale contemporanea con riferimento a modelli culturali del passato (introduzione di BRUNO CALLIERI), Bulzoni, Roma, 1981 103

Ibidem.

104

Ibidem.

105

Ivi., p. 8

50


cui la fiducia e la fantasia di un significato ultraterreno vengono a mancare, e in cui il sacerdote interviene solo per consuetudine e per evitare che la famiglia del morto venga tacciata di indifferenza.106 Questo cambiamento antropologico e sociologico, questa «cultura laica della morte, priva della simbologia ascensionale dell’angelismo […]»107 sembra ripercorre, da un punto di vista filosofico, la via epicurea dell’atarassia, con la conseguenza che all’interno del contemporaneo regime tecnologico «la necessità di conferire un significato al cadavere è in qualche modo soddisfatta dalla medicalizzazione e burocratizzazione della morte ad opera dei tanatotecnici.»108 «Il cadavere acquista così valenze significative che non oltrepassano il momento contingente del morire, né può dar luogo ad alternative mitiche o di fede od anche alla metastoria ripetitiva del culto.»109 Nonostante questi sviluppi, ed i progressi in ambito medico e scientifico che sembrano condurci verso un processo di continua «desenescenza»110, la nostra angoscia nei confronti della morte rimane sempre la medesima, anche se cambiano decisamente i modi in cui ci rapportiamo ad essa. In origine erano il mito e la tragedia Attica ‒ forma insieme teatrale e letteraria ‒ a conferire un senso ed un ordine agli eventi: sublimata dall’opera di Nietzsche,111 la tragedia sarebbe ‒ secondo l’autore ‒ l’unione, la fusione dell’elemento apollineo e di quello dionisiaco. Apollo e Dioniso sono divinità opposte, che rappresentano il primo la luce, il giorno, il raziocinio, ed il secondo il buio, la notte, la liberazione degli istinti primordiali e la sfrenatezza, ma costituiscono anche i veri impulsi artistici, dalla cui unione scaturisce la vera opera d’arte, la tragedia. « L'arte apollinea per eccellenza è la scultura, quella dionisiaca la musica (almeno nelle sue forme più

106

Cfr., GIOVANNI DE VINCENTIIS, GABRIELLA VALACCA, op. cit.

107

Ivi., p. 38

108

Ivi., p. 39

109

Ivi., p. 37

110

EDGAR MORIN, L’uomo e la morte. Cit., p. 14

111

FRIEDRICH NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1972

51


elevate). La tragedia è il classico esempio di perfetta sintesi dei due impulsi.»112 La dimensione apollinea rappresenta anche il sogno, in cui il mondo viene plasmato dal soggetto (infatti, come detto, apollinea è l’arte plastica per eccellenza, la scultura), mentre quella dionisiaca trova espressione nell’ebbrezza, in cui è il soggetto che viene plasmato dalla natura (e ripetiamo anche questo: dionisiaca è l’arte non plastica, non figurativa della musica). «E questi strumenti non sono proiezioni di miraggi futuri, sono l’ebbrezza e il sogno, compagni mandati all’uomo dalla natura, dalla primavera e dalla notte.»113 L’opera nietzschiana s’insinua come un bisbiglio negli spiriti intorpiditi, e restituisce un brivido agli speranzosi, spingendo costoro a svincolarsi dalle catene della realtà, attraverso la vera vita: il sogno, l’ebbrezza.114 In realtà però, Apollo e Dioniso non dispongono soltanto di questi due strumenti per arrivare alla liberazione, ma «prima d’ogni altra cosa, e in comune, possiedono l’uomo con la follia.»115 Questo perfetto connubio tra i due opposti istinti e ispirazioni viene interrotto, secondo l’autore, prima da Euripide, che eliminando la musica dalla tragedia ne elimina tutta la dimensione dionisiaca, e poi da Socrate, che si unisce a quest’ultimo e si spinge anche oltre, creando il mito dell’uomo teoretico, figlio della scienza e della ragione, ma completamente incapace di convivere con la consapevolezza delle atrocità generate dall’esistenza, con cui solo la tragedia riusciva a convivere, attraverso «quel mondo artistico intermedio degli dei olimpici».116 «Anche se il mito è vissuto, nell’esistenza da esso guidata, come un lasciar parlare le cose, agli occhi della filosofia il mito appare invece come un “produrre” (e cioè come “poesia”, giacché la parola greca póiesis significa, insieme, “produzione” e “poesia” che impone alle cose un senso loro estraneo, [inconsueto] e che quindi svia chi, guardando tale senso, pensa di poter ottenere ciò che egli si prefigge. La

112

http://ospitiweb.indire.it/~copc0001/dioniso/nascita.htm

113

FRIEDRICH NIETZSCHE, La nascita della tragedia (nota introduttiva di GIORGIO COLLI), Adelphi, Milano, 2011, p. XII 114

Ibidem.

115

Ivi., p. XIII

116

http://www.filosofico.net/nie8.htm

52


“produzione” mitica (“poetica”) del senso del mondo impedisce la produzione reale.»117 Dopo Socrate ‒ che mette Aristofane alla stregua di un Alcibiade della poesia,118 e, di contro, quest’ultimo considera il filosofo come «il primo e supremo sofista, come lo specchio e il compendio di tutte le aspirazioni sofistiche»119 ‒ spetta dunque alla filosofia il compito di determinare un fondamento assoluto, di costituirsi come previsione suprema che consenta di dominare il mondo e di scovare un rimedio contro l’imprevedibilità del divenire, di «mettersi nella condizione di sopportare il dolore e di liberarsi dall’angoscia che esso produce»120. E l’angoscia dalla quale la filosofia vuole liberarsi è quella estrema, ovvero quella relativa alla morte: «Per la filosofia […] nulla è più imprevedibile e quindi più angosciante di ciò che esce dal niente. E se la morte compendia in sé ogni dolore, il dolore della morte diventa a sua volta estremo quando la morte è pensata come il cadere nel niente […].»121 Forse il processo di spettacolarizzazione che la morte al giorno d’oggi subisce, attraverso le immagini dei film e dei telegiornali, non è altro che un tentativo di “addomesticamento”, un tentativo, seppur paradossale, di rendere questo evento inoffensivo, e di alleggerirne ad un tempo il peso ed il senso.122 Ed una perdita di senso avverrebbe, secondo Baudrillard, anche a causa dell’ospedalizzazione della morte, che viene ormai consumata fuori dalle mura domestiche e dal contesto familiare: secondo l’autore infatti «prete ed estrema unzione erano ancora una traccia della comunità di parola intorno alla morte.»123 All’interno di queste linee di coerenza, ed a seguito della direzione che la filosofia contemporanea (soprattutto buona parte della fenomenologia francese) sembra aver 117

EMANUELE SEVERINO, La filosofia, dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, Milano, Bur, 2010, p. 37 118

Cfr., FRIEDRICH NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1972

119

Ivi., p. 89

120

EMANUELE SEVERINO, La filosofia, dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale. Op. cit., p. 38 121

Ivi., p. 41

122

MICHELLE VOVELLE, op. cit.

123

JEAN BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 203

53


imboccato ‒ ovvero la volontaria rinuncia a qualsiasi rimando, a qualsiasi causa precedente, a qualsiasi senso ulteriore, ed a qualsiasi fondamento trascendente rispetto all’evento stesso ‒ che possiamo inserire una citazione di Vladimir Jankélévitch. Egli, ritiene che la morte costituisca «un avvenimento assolutamente estraneo a tutte le circostanze della vita e privo di qualsiasi relazione con essa»124, e che possa essere considerata come «la gaffe suprema […], come il gaffeur di genio che nell’indecenza del suo trapasso smantella tutte le combinazioni, fa a pezzi ogni fatto, incide ogni ascesso, liquida tutti i malintesi, non chiarendoli, ma passando oltre.»125 Avviene così, secondo l’autore, che la morte, «il non senso […] dà un senso alla vita negando questo senso.»126 Sarebbe proprio attraverso questa formula paradossale che il suo senso potrebbe emergere ed essere recuperato. Teniamo a precisare che il tema di questo lavoro non è la morte come “anticipazione”, come essere per la morte heideggeriano, come possibilità più propria dell’esserci127 ‒ che chiudendone la progettualità e toccandolo nella sua stessa essenza di progetto, rende provvisorie tutte le possibilità concrete che si incontrano nella vita128 ‒ ; non stiamo guardando alla morte da questa angolazione. Il tema centrale è certamente la morte, ma la morte che incontra le parole e la loro capacità di comunicare ai posteri, la morte nel suo disperato ‒ e per questo autentico ‒ tentativo di resistere all’oblio, all’eterno silenzio. Riguarda la morte avvenuta, la morte biologica a cui forse è ancora possibile sopravvivere attraverso il ricorso alla parola poetica, che ci consente di accedere ad un mondo comune dove vivi e morti convivono, ed in cui «la soglia tra la terra e l’aldilà è poco chiara e comunque valicabile nei due sensi. […] “una soglia incerta”.»129 Come sembra dire il poeta senegalese Birago Diop: 124

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, Pensare la morte? (introduzione di ENRICA LISCIANI-PETRINI, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 8 125

Ivi., pp. 8-9

126

Ivi., p. 16

127

FRANCESCA OCCHIPINTI, Logos 3”. Dalla crisi del positivismo ai dibattiti attuali, Einaudi, torino, 2005, p. 716 128

Ibidem.

129

MARCO AIME, Il primo libro di antropologia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, p. 69

54


I morti esistono, non sono mai partiti, sono nell’ombra che si illumina, e nell’ombra che scende nella profonda oscurità. Sono nell’albero minaccioso e nel bosco che geme, sono nell’acqua che scorre, sono nell’acqua stagnante, sono nelle capanne, sono nelle piroghe i morti non sono morti.130 Questa possibilità appare dunque legata ad un atto di fede estremo, seppur svincolato da qualsiasi atteggiamento religioso e mistico: una fede atea, una fede forse un po’ fantasiosa e ingenua ‒ si potrebbe dire sognante ‒ nei confronti del potere e della bellezza delle parole. La fede indissolubile ‒ come abbiamo sostenuto in precedenza, (1.2), citando il sonetto di Rilke: “Baudelaire” ‒ nella poesia-musica di cui Orfeo costituisce l’emblema, la fede nella figura del poeta e nel potere dei suoi versi che sopravvivono al crollo di tutte le altre fedi, e che possono, solo loro, perfino riuscire ad uccidere la morte. Il sentimento estetico nasce spesso dal folklore e da credenze preistoriche, ma sopravvive anche quando le credenze divengono ormai morte, emergendo come forza autonoma.131 «La sua capacità di accogliere e trasmettere emozioni si esprime al massimo grado nella poesia ‒ vale a dire in quel linguaggio nativo, incantatore, magico, sacro, sempre e ovunque caratterizzato dalla metafora, dall’assonanza, dal ritmo ‒ […] che erompe dalle pieghe inconsce dell’ “ispirazione”. […] Attraverso la magia […] dello stile, la creazione poetica attinge all’intera concezione […] magica del mondo; in tal modo essa risveglia le forze assopite dello spirito, ritrovando i miti dimenticati …»132 130

MARCO AIME, Il primo libro di antropologia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2008, pp. 68-9

131

Cfr., EDGAR MORIN, op. cit.

132

Ivi., pp. 176-7

55


1.5 Fabrizio De André e la morte. La morte La morte verrà all'improvviso avrà le tue labbra e i tuoi occhi ti coprirà di un velo bianco addormentandosi al tuo fianco. Nell'ozio nel sonno in battaglia verrà senza darti avvisaglia la morte va a colpo sicuro non suona il corno né il tamburo. Madonna che in limpida fonte ristori le membra stupende la morte non ti vedrà in faccia avrà il tuo seno e le tue braccia. Prelati, notabili e conti sull'uscio piangeste ben forte chi bene condusse sua vita male sopporterà sua morte. Straccioni che senza vergogna portaste il cilicio o la gogna partirvene non fu fatica perché la morte vi fu amica. Guerriero che in punta di lancia dal suolo d'Oriente alla Francia di strage menasti gran vanto 56


e fra i nemici il lutto e il pianto Di fronte all'estrema nemica non vale coraggio o fatica non serve colpirla nel cuore perché la morte mai non muore. Non serve colpirla nel cuore Perché la morte mai non muore.133 La prima cosa che balza agli occhi, nella lettura del testo, è la citazione della poesia di Cesare Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.134 La morte, in realtà, è la rilettura di una canzone di Georges Brassens del 1960 ‒ «Le Verger du Roi Louis» (tratta a sua volta da una poesia di Théodore de Banville, poesia scritta e pubblicata nel 1866 nella raccolta «Gringoire»).135 De André considerava Brassens, non “semplicemente” un cantautore, ma un maître à penser (un maestro di pensiero, una guida). Egli rielabora la versione originale di Brassens, riuscendo a conservarne intatta l’atmosfera cupa ma anche solenne.136 «Anzi, tale atmosfera viene rimarcata da un lugubre e leggero tamburo che preannuncia l'inevitabilità e l'arrivo del comune destino [...]; il concetto principale è l'imminenza costante della morte, che in qualsiasi momento, silenziosa e implacabile, potrebbe piombarci addosso e rapirci.»137 La morte arriva per tutti, sembra dire la canzone: per la giovane ragazza che la porta già con se insieme alla sua bellezza, per i ricchi prelati, i notabili e i conti che dovranno abbandonare i loro agi; arriverà, più dolce, per liberare gli

133

FABRIZIO DE ANDRÉ, La morte, Volume I, Bluebell Records, Milano, 1966; FABRIZIO DE ANDRÉ, Parole. I testi di tutte le canzoni., Ricordi (La repubblica – l’espresso), Milano, 2009, p. 21 134

CESARE PAVESE, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Einaudi, Torino, 1951

135

http://utenti.multimania.it/Guctrad/poefr.html

136

Cfr. MATTEO BORSANI, LUCA MACIACCHINI, Anima salva, Tre Lune, Mantova, 1990

137

Ivi., p. 36-7

57


straccioni dalle loro sofferenze, e arriverà per i guerrieri, che del lutto altrui fecero vanto: a loro più non servirà il loro coraggio.138 Un memento mori che ci fa tornare alla mente ‒ d’un tratto ‒ sia le incisioni di Dürer che illustrano il già citato testo di Brant “La nave dei folli”139, sia la Danza macabra: l’arrangiamento della canzone ci regala dei suoni che hanno un richiamo medievale, un atmosfera antica in cui pare davvero di veder danzare la morte, di vederle strizzare l’occhio alle anime che incontra sulla sua strada, o che forse va a cercare. La tematica della morte ricorre spesso nell’opera di Fabrizio De André; egli la canta in tutte le sue svariate vesti: dalla morte per il suo amico e collega Luigi Tenco, morto suicida,140 alla morte più “umana” di Gesù Cristo;141 dalla morte dell’anima e del cuore delle persone più emarginate, sfortunate ed impaurite,142 alla morte di «chi viaggia in direzione ostinata e contraria»143 e perciò viene ucciso dalla dittatura della maggioranza. Egli è riuscito ‒ forse ‒ a restituire loro, e alla loro morte, «una goccia di splendore, di umanità, di verità.»144 Essendo consapevoli del fatto che non è possibile trattare in maniera esauriente questa tematica ‒ perlomeno in questa sede ‒ abbiamo scelto una canzone in particolare, che ci consenta di sottolineare la straordinaria capacità del cantautore di raccontare la morte e di sottolinearne i suoi lati più dolci, anche laddove sarebbe difficile scorgerne qualcuno. È una canzone sentita, risentita, che ha avuto la fortuna di essere interpretata anche da Mina, e di avere al suo interno parole come «bella», «stella», che ‒ come amava dire anche De Andrè ‒ avevano la capacità di entrare subito nelle orecchie del grande 138

Cfr. MATTEO BORSANI, LUCA MACIACCHINI, Anima salva, Tre Lune, Mantova, 1990

139

SEBASTIAN BRANT, op. cit.

140

FABRIZIO DE ANDRÉ, Preghiera in gennaio, Volume I, Bluebell Records, Milano, 1966

141

FABRIZIO DE ANDRÉ, Si chiamava Gesù, Volume I, Bluebell Records, Milano, 1966; FABRIZIO DE ANDRÉ, La buona novella, Produttori Associati, Milano, 1970 142

FABRIZIO DE ANDRÉ, Tutti morimmo a stento, Bluebell Records, Milano, 1967

143

FABRIZIO DE ANDRÉ, Smisurata preghiera, Anime salve, BMG Ricordi, 1996; (tratta dal libro di poesie di ÀLVARO MUTIS, Summa di Maqroll il gabbiere. Antologia poetica 1948-1988, Torino, Einaudi, 1993) 144

Ibidem.

58


pubblico. Una canzone sentita e risentita, ma sempre in maniera un po’ superficiale e distratta, e mai davvero ascoltata nel suo reale significato, nel suo disperato tentativo di “addolcire” un po’ la morte di chi ormai, la vita, non poteva più averla restituita. È per questo che l’abbiamo scelta, perché la riteniamo emblematica rispetto a tutto il percorso che fin d’ora abbiamo compiuto; ed è per lo stesso motivo che la lasciamo introdurre a De André stesso: «Marinella nacque dalla storia vera di una ragazza, figlia di contadini, che a sedici anni rimase orfana e senza casa, sottrattale da parenti predoni. Fu quindi costretta al marciapiede. Due anni dopo un cliente la scippò, la uccise e la gettò nel Tanaro. Quando lessi questa storia su un giornale […] ebbi l’impulso di fare qualcosa per lei nell’unico modo che potevo: con una canzone. Visto che non potevo più cambiarle la vita, decisi di cambiarle la morte, e scrissi questo testo come una sorta di riscatto, come una fiaba.»145 La canzone di Marinella Questa di Marinella è la storia vera che scivolò nel fiume a primavera ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra una stella. Sola senza il ricordo di un dolore vivevi senza il sogno di un amore ma un Re senza corona e senza scorta bussò tre volte un giorno alla tua porta. Bianco come la luna il suo cappello come l'amore rosso il suo mantello tu lo seguisti senza una ragione come un ragazzo segue un aquilone.

145

FABRIZIO DE ANDRÉ, L’Opera Completa, La musica di Repubblica – L’Espresso, Roma, 2009, p. 21 (RICCARDO BOZZI, “La storia di Marinella”, Vivimilano 09/12/92)

59


E c'era il sole e avevi gli occhi belli lui ti baciò le labbra ed i capelli c'era la luna e avevi gli occhi stanchi lui pose le sue mani suoi tuoi fianchi. Furono baci e furono sorrisi poi furono soltanto i fiordalisi che videro con gli occhi delle stelle fremere al vento e ai baci la tua pelle. Dicono poi che mentre ritornavi nel fiume chissà come scivolavi e lui che non ti volle creder morta bussò cent'anni ancora alla tua porta. Questa è la tua canzone Marinella che sei volata in cielo su una stella e come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno, come le rose E come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno, come le rose.146 Una straordinaria immagine poetica, cantata con dolcezza unica: una morte brutale che diventa un incidente, un assassino stupratore che si trasfigura in un re, senza corona, è vero, ma con un cappello bianco come la luna ed un mantello rosso ‒ come l’amore che Marinella prova per lui ‒, un re che non vuole arrendersi a quella morte, e ancora dopo cent’anni continua a bussare alla sua porta. Forse Fabrizio De André ha restituito anche a lui un po’ di speranza, forse. 146

FABRIZIO DE ANDRÉ, La canzone di Marinella, Volume III, Bluebell Records, Milano, 1968; FABRIZIO DE ANDRÉ, Parole. I testi di tutte le canzoni., Ricordi (La repubblica – l’espresso), Milano, 2009, p. 39

60


È da questa straordinaria dolcezza che ci faremo “traghettare”, fin nel cimitero che costeggia le sponde del fiume Spoon, attraverso un percorso da fare “a piedi”147 all’interno di un luogo magico, perfino mitologico.

147

http://www.youtube.com/watch?v=bTkzY0a294I

61


Capitolo Secondo: L’ANTOLOGIA DI SPOON RIVER e NON AL DENARO NON ALL’AMORE NÉ AL CIELO.

2.1 L’Antologia di Spoon River. Molti giovani lettori, all’epoca della pubblicazione del libro in Italia (che risale al 9 marzo 1943),148 scrissero delle lettere all’editore Einaudi per chiedere se La collina ‒ nome con il quale veniva chiamato il cimitero di Spoon River ‒ esistesse davvero; questo a conferma dell’alone mitologico che si era andato creando intorno a quest’opera ed ai luoghi in cui riposavano le anime raccontate da Lee Masters.149 L’opera viene scoperta da Cesare Pavese ‒ che la riceve tramite corrispondenza da un suo amico, un italo-americano che vive negli Stati Uniti e che gli spedisce i testi più in voga della letteratura del continente ‒, e viene pubblicata in Italia ‒ come già detto ‒ nel ’43, tradotta da Fernanda Pivano. La Pivano racconta che il libro gli era stato regalato dallo stesso Pavese ‒ suo maestro ‒ un giorno in cui lei gli chiese quale fosse la differenza tra la letteratura inglese e quella americana, e che quando quest’ultimo, alcuni giorni dopo, “scoprì” in un cassetto le sue traduzioni, le portò subito da Einaudi riuscendo a farle pubblicare con il nome abbreviato di Antologia di S. River. La seconda guerra mondiale era cominciata da un po’ e per eludere la censura di quel tempo ‒ restia alla pubblicazione di qualsiasi opera filoamericana ‒ Pavese dovette ricorrere a questo espediente: e «all’antologia di questo nuovo santo il permesso venne accordato.»150

148

EDGAR LEE MASTERS, op. cit.

149

Ibidem.

150

IVI., P. VII

62


L’ Antologia è una raccolta di epitaffi pubblicati per la prima volta ‒ in America ‒ tra il 1914 ed il 1915, all’interno di un giornale, il Mirror di St. Luis, in una sorta di pubblicazione a puntate ‒. Nel 1915 esce la prima raccolta, che conta duecentotredici epigrafi, diventate poi duecentoquarantaquattro nell’edizione definitiva del 1916. Attraverso quest’opera l’autore riporta le storie di altrettanti personaggi che raccontano la loro vita e la loro morte in prima persona.

Figura 10: EDGAR LEE MASTERS, Spoon River Anthology (copertina della prima edizione).

Lee Masters era un avvocato: esercitava la professione nello studio del padre ‒ anche se fin da ragazzo nutriva una passione ed una vocazione letteraria ‒, ed è proprio all’interno del tribunale del suo paese che raccoglie le storie reali che fanno da base alla sua Antologia. Un opera cruda, brutale per la sua schiettezza e sincerità, in cui queste anime raccontano i loro rimpianti, le loro infelicità, la loro semplice e a volte misera esistenza con un distacco ed una freddezza tali da creare scalpore in un’America perbenista e borghese come quella del primo ‘900. Un’opera che scende in fondo nell’intimità di questi personaggi, che dopo essere morti possono “lasciarsi andare” una volta per tutte e dire finalmente ciò che pensano, senza freni né ipocrisie. Un’opera dal contenuto sconvolgente ‒ a tal punto che alcuni la

63


definiscono “pornografica” ‒ ma che allo stesso tempo costituisce una galleria di vizi e di virtù dai quali emerge una straordinaria compassione per l’umanità.151 Lee Masters nasce a Petersburg, nella contea di Menard, una cittadina di tremila abitanti attraversata dal fiume Sagamon; poi, adolescente, si trasferisce a Lewistown, una trentina di miglia a nord di Petersburg. Lewistown era il capoluogo della contea di Fulton, contava più o meno lo stesso numero di abitanti di Petersburg ed era bagnata dal fiume Spoon.152

Figura 11: Una mappa di Spoon River.

151

Cfr., EDGAR LEE MASTERS, op. cit.

152

Ibidem.

64


Figura 12: Panoramica di Spoon River, foto di William Willinghton

«In realtà furono Petersburg e il fiume Sangamon a ispirare il nucleo fondamentale dell’antologia: i personaggi che dettarono gli epitaffi famosi sono per la maggior parte sepolti nel cimitero di Petersburg, che si chiama Oakland o Oak Hills. Ma la forma esterna della collina, col lento degradare e i prati molli e gli alberi sereni che aleggiano nelle poesie, è piuttosto quella del cimitero di Lewistown […] e poiché Masters scelse questo nome anziché quello del Sangamon per la sua raccolta di epitaffi, è Lewistown a venir definita sulle guide come patria di Masters.»153 Dopo dieci anni trascorsi in questa cittadina, l’autore abbandona la professione di avvocato ‒ mai particolarmente amata ‒ e si trasferisce a Chicago per cercare di seguire la sua vocazione, non senza difficoltà: proprio lì si rende conto che «se la vita della campagna era molto diversa da quella di città, non cambiavano invece granché gli esseri umani […]. Così gli venne in mente di raccontare la storia del suo villaggio, che era poi la storia della “città” un po’ rimpicciolita»;154 Edgar Lee Masters raccontò dunque la storia degli esseri umani ‒ o almeno, di molti di loro ‒ 153

EDGAR LEE MASTERS, op. cit., p. XIII

154

Ivi., p. XII

65


attraverso le vite vissute dalle persone della sua cittadina, una storia che riusciva a comprendere quasi tutte le professioni e le categorie lavorative e sociali. Ne venne fuori un’opera cruda ‒ come dicevamo ‒ di una sincerità disarmante, a tal punto che, quando divenne famosa in tutti gli stati uniti, i due villaggi raccontati dal poeta ne rimasero indignati e bandirono in esilio l’autore.155 L’idea di servirsi della forma degli epitaffi gli venne in mente leggendo l’Antologia Palatina,156 «la raccolta di epigrammi e epitaffi greci tanto rivelativi di intimità e passioni.»157 «Masters scrisse che l’antologia greca gli aveva suggerito qualcosa che era “meno del verso ma più della prosa”; e volle superare “una ripetizione degli epigrammi greci, ironici e teneri, satirici e partecipi, come esperimenti di temi sconosciuti” per giungere a una “rappresentazione epica della vita moderna”». 158 L’autore era affascinato dalla bellezza della letteratura greca, e soprattutto da Omero, a cui ha dedicato anche i versi finali di un suo epitaffio, che riportiamo qui di seguito: Jack il cieco Avevo strimpellato tutto il giorno alla fiera. Ma «Butch» Weldy e Jack McGuire nel ritorno, ubriachi fradici, vollero che ancora suonassi Susie Skinner, frustando i cavalli, finché questi ci presero la mano. Cieco com’ero cercai di saltare Mentre la carrozza cadeva nel fosso, e fui schiacciato fra le ruote e ucciso.

155

Cfr., EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River, (traduzione a cura di FERNANDA PIVANO, con tre scritti di CESARE PAVESE), Einaudi, torino, 1943. 156

CONCA F., MARZI M., ZANETTO G., (a cura di), Antologia Palatina, UTET, Torino, 2005

157

EDGAR LEE MASTERS, op. cit., p. XII

158

Ivi., p. XXIII

66


C’è qui un cieco dalla fronte grande e bianca come una nuvola. E tutti noi suonatori, dal più grande al più umile, scrittori di musica e narratori di storie, sediamo ai suoi piedi, e lo ascoltiamo cantare della caduta di Troia.159 Come ha scritto Cesare Pavese in un suo saggio dedicato all’Antologia: «Un libro che comincia con un’elegia sul cimitero e va avanti con mariti scontenti, mogli adultere, scapoli scontrosi e bambini nati morti, e dove pressoché tutti si lamentano di aver mancata la vita, potrebbe anche parere, a sfogliarlo, una rassegna di casi clinici. La differenza sta soltanto nell’occhio del poeta che guarda i suoi morti, non con compiacenza malsana, o polemica […] ma con una consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti.»160 Lee Masters è un poeta libertario e anarchico, profondamente antimilitarista, anticapitalista e fortemente anticonformista, che si schiera apertamente contro alcuni aspetti della sua società, contro le sovrastrutture e le convenzioni sociali (anche per questo piace a Fabrizio De André).161 Un poeta che canta la morte, ma che attraverso i suoi versi riesce a far risplendere l’amore che le anime sepolte provano nei confronti della vita. «Come i morti di Dante, che sono più vivi che in vita, i morti di Spoon River prolungano in una forma sepolcrale tutti i loro malcontenti, le loro passioni. Ma il parallelo si ferma qui, poiché i morti di Dante hanno uno schema universale in cui rientrano e nessun dannato si sogna di criticare la propria destinazione, mentre quelli di Spoon River nemmeno da morti han trovato una risposta, e meno di tutti quelli che lo dicono. È il poema essenzialmente moderno,

159

EDGAR LEE MASTERS, Jack il cieco, op. cit., p. XXIII

160

CESARE PAVESE, Polemica antipuritana con ardore puritano, l’ Antologia di Spoon River, saggio pubblicato su «La Cultura», novembre 1931; riportato anche all’interno di : EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River (traduzione a cura di FERNANDA PIVANO, con tre scritti di CESARE PAVESE), Einaudi, Torino, 1993, p. XXVIII-IX 161

Cfr., EDGAR LEE MASTERS, op. cit.

67


questo, della ricerca, dell’insufficienza d’ogni schema, del bisogno insieme individuale e collettivo.»162 L’Antologia traccia un percorso da fare a piedi, di tomba in tomba, di epigrafe in epigrafe: un percorso in cui le storie e le anime che si raccontano appaiono più nitide delle fotografie che ritraggono i loro volti, come se il sole riuscisse a sbiadire la loro immagine ma non potesse far niente contro il potere eterno dei loro versi, che continuano a resistere e a rimbombare nell’aria come lamenti disperati. Riportiamo di seguito un altro epitaffio, non per un intento preciso, ma per la bellezza disarmante che attraversa le sue parole, e per cercare di trasmettere a chi legge l’eternità che fuoriesce dalle righe di queste poesie, che certamente raccontano la morte, ma che allo stesso tempo portano in superficie la vitalità e la passione di questi personaggi, che risultano essere più vivi di quando in realtà ‒ da un punto di vista biologico ‒ lo erano davvero: Pauline Barret Quasi il guscio di una donna dopo il coltello del chirurgo! e quasi un anno per trascinarmi ancora in forze, finché l’alba del decennale del nostro matrimonio mi trovò che somigliavo a quella d’una volta. Passeggiammo insieme nella foresta, per un sentiero d’erba e di muschio silenzioso. Ma non potevo guardarti negli occhi, e tu non potevi guardare nei miei, perché era tanta la nostra pena ‒ un principio di grigio nei tuoi capelli, ed io, non più che un guscio di me stessa. Di che cosa parlammo? ‒ del cielo, dell’acqua, di tutto, quasi, per nascondere i nostri pensieri. 162

CESARE PAVESE, Polemica antipuritana con ardore puritano, l’ Antologia di Spoon River, saggio pubblicato su «La Cultura», novembre 1931; pubblicato anche all’interno di : EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River (traduzione a cura di FERNANDA PIVANO, con tre scritti di CESARE PAVESE), Einaudi, Torino, 1993, p. XXIX

68


E poi il tuo dono di rose di selva, poste sul tavolo a dar grazia al nostro pranzo. Povero amore, con quanto coraggio hai lottato Per immaginare e rivivere un’estasi del ricordo! Poi, mi si accasciò il cuore al calar della notte, e tu mi lasciasti nella mia camera, per un momento, come facevi quand’ero sposa, povero amore. Io guardai nello specchio e qualcosa disse: «Uno dovrebbe essere tutto morto quando è morto a metà ‒ e non fingere la vita, non ingannare l’amore». E allora, quel gesto, guardando là nello specchio ‒ Amore, hai mai compreso?163

2.2 Fernanda Pivano “intervista” Edgar Lee Masters. Forse niente di più può essere detto rispetto a quest’opera, lo si può soltanto leggere attraverso le righe del testo, oppure lo si può lasciar dire allo stesso autore: espediente quest’ultimo, utilizzato dalla stessa Fernanda Pivano, che scrive il testo di una pseudo intervista ad Edgar Lee Masters attraverso vari articoli autobiografici pubblicati dall’autore stesso in alcuni giornali. L’intervista è stata scritta appositamente ‒ nell’ottobre del 1971 ‒ per l’uscita dell’album di Fabrizio De André Non al denaro non all’amore né al cielo, all’interno del quale è stata inserita. Ne riportiamo di seguito il testo: Pivano. Come ti è venuto in mente di scrivere l'antologia di Spoon River?

163

EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River (traduzione a cura di FERNANDA PIVANO, con tre scritti di CESARE PAVESE), Einaudi, Torino, 1993, p. XXXV-VI

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Masters. Mentre facevo l'avvocato a Chicago e mi aggiravo nei tribunali e frequentavo la cosiddetta società... giunsi alla conclusione che il banchiere, l'avvocato, il predicatore, le antitesi del bene e del male non erano diverse nella città e nel villaggio... Cominciai a sognare di scrivere un libro su una città di campagna che avesse tanti fili e tanti tessuti connettivi da diventare la storia del mondo intero. P. Qual è il villaggio che hai ritratto, Lewistown o Petersburg? M. Ho trascorso più o meno lo stesso numero di anni nei due villaggi. Ma a Lewistown ho visto la gente con occhi maturi e in circostanze che avevano acuito la mia osservazione. Petersburg era soltanto una fiera di campagna con molta gente; Lewistown era un microcosmo organizzato... È stato il fiume Sangamon, non lo Spoon a fornirmi lo spunto per l'Antologia. Però 53 poesie sono ispirate a nomi delle regioni di Petersburg, 66 a nomi della regione del fiume Spoon... Le tombe che ho descritto sono di Petersburg, ma la collina è di Lewistown. P. Quanti personaggi hai descritto nel libro? M. Duecentoquarantaquattro. Ci sono diciannove storie sviluppate in ritratti intrecciati. Ho trattato tutte le occupazioni umane consuete, tranne quelle del barbiere, del mugnaio, dello stradino, dei sarto e del garagista (che sarebbe stato un anacronismo). P. Quando hai cominciato a scriverlo, questo Spoon River? M. Il 10 maggio 1914 mia madre venne a trovarmi a Chicago... Chiacchierando riandammo al passato di Lewistown e di Petersburg, rievocando personaggi e avvenimenti che mi erano sfuggiti di mente... Una domenica, dopo averla accompagnata al treno, mentre suonava la campana della chiesa e la primavera era nell'aria, scrissi La Collina e i ritratti di Fletcher MeGee e Hod Putt... Mi venne quasi subito l'idea: perché non fare così il libro che avevo immaginato nel 1906, in cui volevo rappresentare il macrocosmo descrivendo il microcosmo? 70


P. Quando e dove uscirono queste prime poesie? M. Sulla rivista di William Marion Reedy, il " Mirror " di St. Louis. Uscirono il 29 maggio 1914, sotto lo pseudonimo di Webster Ford. P. E le poesie successive? M. Dal 20 maggio 1914 al 5 gennaio 1915 inondai di epitaffi il " Mirror "... nell'estate erano già citati e parodiati in tutta l'America ed erano già arrivati in Inghilterra... Scrivevo quando potevo, il sabato pomeriggio e la domenica. Gli argomenti, i personaggi, i drammi mi venivano in mente più in fretta di quanto li potessi scrivere. Così presi l'abitudine di annotarmi le idee, o magari scrivere le poesie, sui rovesci delle buste, sui margini dei giornali. quando ero in tram o in tribunale o al ristorante. P. Fino a quando hai conservato l'incognito? M. Reedy pubblicò il mio vero nome nel numero del "Mirror" del 20 novembre. P. E quando è uscito il volume? M. Nell'aprile 1915. P. Come l'hanno preso quelli che hanno ispirato le poesie? M. Come un rozzo attacco di un figlio sleale della comunità e cominciarono subito a identificare nei vari epitaffi persone viventi o che avevano vissuti lì attorno... A mia madre non piacque, a mio padre piacque moltissimo... John Cowper Powys fece una conferenza a Chicago e ciò che disse mi atterrì, perché mi attribuì una responsabilità che non potevo sopportare.

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P. In realtà qual'era la sua intenzione? M. Di ridestare quella visione americana, quell'amore della libertà che gli uomini migliori della Repubblica si sono sforzati di conquistare per noi e di tramandare nel tempo. 164

Figura 13: Edgar Lee Masters

2.3. Non al denaro non all’amore né al cielo. Fabrizio De André si innamora dell’opera e dei versi di Lee Masters, che nella loro scarna e folgorante semplicità raccontano senza reticenze né remore la vita di questi personaggi che, una volta morti, possono dire «semplicemente la verità, su loro stessi, sulle trame di relazione da cui sono stati avvinti, sui temi dell’esistenza, svelando ipocrisie, dolori, passioni, ingiustizie, svelando infine il senso ultimo del destino di ogni individuo. La tecnica dell’esposizione diretta, quasi teatrale, delle storie raccontate dai defunti in prima persona, conferisce alle poesie una forte carica emotiva, e anche una musicalità implicita» che non sfugge al cantautore genovese.165 164

http://maso.altervista.org/percorsi_incrociati/spoonriver/pseudointervista.php

165

FABRIZIO DE ANDRÉ, L’opera completa, Non al denaro non all’amore né al cielo, La musica di Repubblica – L’Espresso, Roma, 2009, (articolo di GINO CASTALDO ed ERNESTO ASSANTE), pp. 3-4

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De André rilegge il libro nel 1970 ‒ lo aveva già letto quando aveva diciotto anni ‒ se ne innamora per la seconda volta e decide di trasformarlo in un concept-album: così l’Antologia di Spoon River diventa Non al denaro non all’amore né al cielo, traendo il suo nome da uno dei versi finali della poesia «La collina» in cui Lee Masters menziona il vecchio suonatore Jones, una figura utopica, forse l’unica che ha vissuto in maniera autentica la propria vita, senza rivolgere mai un pensiero all’amore né al successo economico, e senza mai curarsi delle convenzioni stabilite dalla sua società e delle regole da quest’ultima imposte in virtù del raggiungimento di un esistenza post-terrena. «L’Antologia di Spoon River fu la giusta ispirazione, ma per venirne a capo chiese aiuto allo scrittore Giuseppe Bentivoglio (col quale aveva già lavorato ai tempi di Tutti morimmo a stento) e soprattutto, prima di mettere mano ai versi di Masters chiese l’avvallo della donna che li aveva tradotti e divulgati nel nostro paese: Fernanda Pivano. […] La Pivano è per vocazione antiaccademica, un’intellettuale del tutto speciale, maestra di molti proprio nella passione e nel coinvolgimento diretto coi quali ha studiato e diffuso la conoscenza dei suoi amati scrittori americani, una donna libertaria, coraggiosa, pacifista militante. Laddove, soprattutto a quei tempi, altri studiosi avrebbero risposto con diffidenza alle richieste di De André (canzoni? Ma cosa c’entra con Masters?) la Pivano aderì con dedizione ed entusiasmo, felice all’idea che quelle poesie di mezzo secolo prima potessero diventare canzoni a uso e consumo delle nuove generazioni. A cose fatte, la Pivano arrivò a sostenere che i versi di De André erano addirittura migliori degli originali.»166 Per quanto riguarda la composizione delle musiche il cantautore si rivolge ad un musicista giovanissimo, appena uscito dal conservatorio: Nicola Piovani.167 A posteriori questa scelta risulta essere perfettamente azzeccata, dato che «il disco è per consenso pressoché unanime uno dei massimi capolavori realizzati da De André, ancora oggi rivisitato con passione […] e soprattutto ancora attuale nella sua

166

FABRIZIO DE ANDRÉ, L’opera completa, Non al denaro non all’amore né al cielo, La musica di Repubblica – L’Espresso, Roma, 2009, (articolo di GINO CASTALDO ed ERNESTO ASSANTE), pp. 5-6 167

Ibidem.

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visionaria e lirica attitudine alla descrizione di un gruppo umano, scelto come campione di una umanità dolente.»168

Figura 14: Copertina originale dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo.

168

FABRIZIO DE ANDRÉ, L’opera completa, Non al denaro non all’amore né al cielo, cit., p. 9

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Figura 15: Un’immagine del lato posteriore della copertina.

Riportiamo qui di seguito i testi delle nove canzoni che compongono l’album, preceduti dalle corrispettive poesie di Lee Masters che le hanno ispirate, e da alcune brevi spiegazioni introduttive. Si parte con «La collina», che costituisce l’incipit, l’ouverture sia del libro che dell’album, un prologo che ci conduce all’interno del cimitero di Spoon River, e che con il suo incedere strumentale “disegna” in maniera esemplare la cornice cimiteriale che fa da sfondo allo spaccato di vite umane che si intrecciano all’interno delle due opere. Incontriamo tantissimi personaggi, qualcuno morto in prigione, qualcuno in miniera, qualcuno cadendo da un ponte mentre lavorava per i suoi cari; incontriamo una donna uccisa in un bordello delle «carezze di un animale», e poi Lizzie che ha 75


inseguito la sua vita anche nella lontana Inghilterra, ma che alla fine è stata riportata lì, nello stesso «palmo di terra» in cui riposano tutti gli altri personaggi. Incontreremo anche i soldati partiti in guerra per un’ideale, o per una truffa, o addirittura per un amore finito male, ed anche i generali che nelle battaglie si sono fregiati “con cimiteri di croci sul petto” e che sono ritornati a casa avvolti dalle bandiere, legate strette perché le loro spoglie sembrassero intere; tutti questi personaggi sono legati dallo stesso destino e dalla stessa fine, anche se, forse, non si tratta di una fine vera e propria: perché «tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina», ma tutti si svegliano dolcemente e pian piano riprendono vita nel racconto dei due poeti. La collina Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, l'abulico, l'atletico, il buffone, l'ubriacone, il rissoso? Tutti, tutti, dormono sulla collina. Uno trapassò in una febbre, uno fu arso nella miniera, uno fu ucciso in rissa, uno morì in prigione, uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari ‒ tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina. Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie, la tenera, la semplice, la vociona, l'orgogliosa, la felice? Tutte, tutte, dormono sulla collina. Una morì di un parto illecito, una di amore contrastato, una sotto le mani di un bruto in un bordello, una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale, una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi, ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con Kate, con Magtutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina. 76


Dove sono lo zio Isaac e la zia Emily, e il vecchio Towny Kincaid e Sevigne Houghton, e il maggiore Walker che aveva conosciuto uomini venerabili della rivoluzione? Tutti, tutti, dormono sulla collina. Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra, e figlie infrante dalla vita, e i loro bimbi orfani, piangentitutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina. Dov'è quel vecchio suonatore Jones Che giocò con la vita per tutti i novant'anni, fronteggiando il nevischio a petto nudo, bevendo, facendo chiasso, non pensando né a moglie né a parenti, né al denaro, né all'amore, né al cielo? Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa, delle corse di tanti anni fa nel boschetto di Clary, di ciò che Abe Lincoln disse una volta a Springfield.169

La collina Dove se n'è andato Elmer che di febbre si lasciò morire dov'è Herman bruciato in miniera. Dove sono Bert e Tom, il primo ucciso in una rissa e l'altro che uscì già morto di galera. E cosa ne sarà di Charley che cadde mentre lavorava e dal ponte volò e volò sulla strada. 169

EDGAR LEE MASTERS, La collina, op. cit., p. 3

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Dormono, dormono sulla collina. Dormono, dormono sulla collina. Dove sono Ella e Kate morte entrambe per errore, una d'aborto, l'altra d'amore. E Maggie uccisa in un bordello dalle carezze di un animale e Edith consumata da uno strano male. E Lizzie che inseguì la vita lontano, e dall'Inghilterra fu riportata in questo palmo di terra. Dormono, dormono sulla collina. Dormono, dormono sulla collina. Dove sono i generali che si fregiarono nelle battaglie con cimiteri di croci sul petto. Dove i figli della guerra partiti per un ideale per una truffa, per un amore finito male. Hanno rimandato a casa le loro spoglie nelle bandiere legate strette perché sembrassero intere. Dormono, dormono sulla collina Dormono, dormono sulla collina. Dov'è Jones il suonatore che fu sorpreso dai suoi novant'anni e con la vita avrebbe ancora giocato. Lui che offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all'amore né al cielo. Lui sì sembra di sentirlo cianciare ancora delle porcate 78


mangiate in strada nelle ore sbagliate. Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore "tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?".170 Segue «Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio)», in cui De André riprende la figura di «Frank Drummer», un giovane che è incapace di esprimere ciò che si agita dentro il suo cuore, e che impazzisce mentre ‒ nell’intento di stupire un po’ gli altri ‒ cerca di imparare a memoria l’enciclopedia britannica (che all’interno della canzone diventa la Treccani). Il cantautore, attraverso l’emblematico sottotitolo, evidenzia il bisogno, comune a qualsiasi villaggio, di avere a portata di mano uno scemo da deridere e attraverso cui poter affermare la propria “normalità”. Frank Drummer Da una cella a questo luogo oscuro ‒ la morte a venticinque anni! La mia lingua non poteva esprimere ciò che mi si agitava dentro, e il villaggio mi prese per scemo. Eppure all'inizio c'era una visione chiara, un proposito alto e pressante, nella mia anima, che mi spinse a cercar di imparare a memoria l'Enciclopedia Britannica!171

Un matto (dietro ogni scemo c'è un villaggio) Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole,

170

FABRIZIO DE ANDRÉ, La collina, op. cit., p. 65

171

EDGAR LEE MASTERS, Frank Drummer, op. cit., p. 59

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e la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa, e neppure la notte ti lascia da solo: gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro. E sì, anche tu andresti a cercare le parole sicure per farti ascoltare: per stupire mezz'ora basta un libro di storia, io cercai d'imparare la Treccani a memoria, e dopo maiale, Majakowsky e malfatto, continuarono gli altri fino a leggermi matto. E senza sapere a chi dovessi la vita in un manicomio io l'ho restituita: qui sulla collina dormo malvolentieri eppure c'è luce ormai nei miei pensieri, qui nella penombra ora invento parole ma rimpiango una luce, la luce del sole. Le mie ossa regalano ancora alla vita: le regalano ancora erba fiorita. Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina; di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia una morte pietosa lo strappò alla pazzia..172 Il racconto continua con «Un giudice”», che riprende la poesia «Il giudice Selah Lively»: un uomo che, per senso di rivalsa nei confronti di chi lo schernisce a causa della sua altezza ‒ o meglio, della sua bassezza ‒, studia giorno e notte, riuscendo così a diventare giudice, e ad incutere il terrore nei confronti delle stesse persone che prima lo deridevano, e che ora, trovandosi di fronte alla sua sbarra, devono sottoporsi al suo giudizio. Nella canzone, il finale è aggiunto dal cantautore, che con ironia sottolinea il fatto che lo stesso giudice si troverà a sua volta messo «alla sbarra», di fronte ad un dio di cui non conosce affatto la statura. Interessante notare come De 172

FABRIZIO DE ANDRÉ, Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio), op. cit., p. 66

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André trasformi sempre l’articolo delle poesie di Lee Masters ‒ in questa come nelle poesie che seguono ‒ da determinativo ad indeterminativo, per sottolineare la genericità e l’estendibilità di questi testi a tutti i rappresentanti delle categorie menzionate. Il giudice Selah Lively Immaginate di essere alto cinque piedi e due pollici e di aver cominciato come garzone droghiere finché, studiando legge di notte, siete riuscito a diventar procuratore. E immaginate che, a forza di zelo e di frequenza in chiesa, siate diventato l'uomo di Thomas Rhodes, quello che raccoglieva obbligazioni e ipoteche e rappresentava le vedove davanti alla Corte. E che nessuno smettesse di burlarsi della vostra statura, e deridervi per gli abiti e gli stivali lucidi. Infine voi diventate il Giudice. Ora Jefferson Howard e Kinsey Keene e Harmon Whitney e tutti i pezzi grossi che vi avevano schernito, sono costretti a stare in piedi davanti alla sbarra e pronunciare «Vostro Onore»Be' non vi par naturale Che gliel'abbia fatta pagare?173

Un giudice

173

EDGAR LEE MASTERS, Il giudice Selah Lively, op. cit., p. 191

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Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura, ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente, o la curiosità di una ragazza irriverente che si avvicina solo per un suo dubbio impertinente: vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani, che siano i più forniti della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente. Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti; la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore toppo, troppo vicino al buco del culo. Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami. diventai procuratore per imboccar la strada che dalle panche d'una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d'un tribunale, 82


giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male. E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva Vostro Onore, e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell'ora dell'addio non conoscendo affatto la statura di Dio.174 La terza canzone dell’album è «Un blasfemo (dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato)»; il testo è tratto dalla poesia «Wendell P. Bloyd», poesia che parla di un uomo che viene ucciso a forza di botte da un infermiere cattolico, perché considerato blasfemo. Egli, difatti, sosteneva che la cacciata dell’uomo dal giardino dell’Eden fosse un gesto che dimostrava l’invidia di Dio nei confronti di Adamo, e dell’uomo in generale. De André nella sua canzone sembra parlarci anche di una trasposizione del potere, che attraverso il simbolo della mela passa dalle mani di Dio alle mani degli uomini che lo

detengono

e che vogliono conservarlo per loro.

Wendell P. Bloyd Cominciarono ad accusarmi di libertinaggio, non essendoci leggi antiblasfeme. Poi mi rinchiusero per pazzo, e qui un infermiere cattolico mi uccise di botte. La mia colpa fu questa: dissi che Dio mentì ad Adamo, e gli assegnò di condurre una vita da scemo, 174

FABRIZIO DE ANDRÉ, Un giudice, op. cit., p. 67

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d'ignorare che al mondo c'è il bene e c'è il male. E quando Adamo imbrogliò Dio mangiando la mela e si rese conto della menzogna, Dio lo scacciò dall'Eden per impedirgli di cogliere Il frutto della vita immortale. Santo cielo, voi gente assennata, ecco ciò che Dio stesso ne dice nel Genesi: «E il Signore Iddio disse: Ecco che l'uomo è diventato come uno di noi» (un po' d'invidia, vedete) «a conoscere il bene e il male» (la menzogna che tutto sia bene!); «e allora, perché non allungasse la mano a prendere anche dell'albero della vita e mangiarne, e non vivesse eterno; per questo il Signore Iddio lo scacciò dal giardino dell'Eden». (La ragione per cui io credo che Dio crocifiggesse suo figlio, per uscire da quel brutto pasticcio, è che ciò è proprio degno di Lui).175

Un blasfemo (dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato) Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore, più non arrossii nel rubare l'amore dal momento che Inverno mi convinse che Dio non sarebbe arrossito rubandomi il io. Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino, non avevano leggi per punire un blasfemo, non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte, mi cercarono l'anima a forza di botte. Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo, lo costrinse a viaggiare una vita da scemo, nel giardino incantato lo costrinse a sognare, a ignorare che al mondo c'è il bene e c'è il male. 175

EDGAR LEE MASTERS, Wendell P. Bloyd, op. Cit., p. 161

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Quando vide che l'uomo allungava le dita a rubargli il mistero d'una mela proibita per paura che ormai non avesse padroni lo fermò con la morte, inventò le stagioni. E se furon due guardie a fermarmi la vita, è proprio qui sulla terra la mela proibita, e non Dio, ma qualcuno che per noi l'ha inventato, ci costringe a sognare in un giardino incantato, ci costringe a sognare in un giardino incantato.176 La quinta figura che viene tratteggiata nell’album è quella di «Francis Turner», un ragazzo dal cuore malato a causa della scarlattina, che fin da bambino non ha potuto correre né giocare, né bere il vino tutto d’un fiato insieme agli altri ragazzi; ha rinunciato a tutto questo, con gran sofferenza, ma non ha potuto tirarsi indietro di fronte al suo amore per una ragazza (Mary nella poesia di Masters), davanti al desiderio ‒ troppo grande per essere ignorato ‒ di baciarla: e dunque muore così, mentre la bacia, perché il suo cuore non regge all’emozione. Muore lasciando il suo cuore e la sua anima sulle labbra della sua amata. Nella canzone corrispettiva di De André, «Un malato di cuore», il ragazzo dalla sua tomba continua a domandarsi se le «cosce color madreperla» di Mary siano rimaste «incolte» come un fiore; l’unica certezza di cui è consapevole è che la sua anima ha preso il volo proprio in quell’attimo così dolce. Francis Turner Io non potevo correre né giocare quand'ero ragazzo. Quando fui uomo, potei solo sorseggiare alla coppa, non bereperché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato. Eppure giaccio qui 176

FABRIZIO DE ANDRÉ, Un blasfemo (dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato), op. cit., p. 68

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blandito da un segreto che solo Mary conosce: c'è un giardino di acacie, di catalpe e di pergole addolcite da vitilà, in quel pomeriggio di giugno al fianco di Marymentre la baciavo con l'anima sulle labbra, l'anima d'improvviso mi fuggì.177

Un malato di cuore ‒ Cominciai a sognare anch'io insieme a loro poi l'anima d'improvviso prese il volo. ‒ Da ragazzo spiare i ragazzi giocare al ritmo balordo del tuo cuore malato e ti viene la voglia di uscire e provare che cosa ti manca per correre al prato, e ti tieni la voglia, e rimani a pensare come diavolo fanno a riprendere fiato. Da uomo avvertire il tempo sprecato a farti narrare la vita dagli occhi e mai poter bere alla coppa d'un fiato ma a piccoli sorsi interrotti, e mai poter bere alla coppa d'un fiato ma a piccoli sorsi interrotti. Eppure un sorriso io l'ho regalato e ancora ritorna in ogni sua estate quando io la guidai o fui forse guidato a contarle i capelli con le mani sudate. Non credo che chiesi promesse al suo sguardo, non mi sembra che scelsi il silenzio o la voce, 177

EDGAR LEE MASTERS, Francis Turner, op. cit., p. 163

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quando il cuore stordì e ora no non ricordo, da quale orizzonte sfumasse la luce. E fra lo spettacolo dolce dell'erba fra lunghe carezze finite sul volto, quelle sue cosce color madreperla rimasero forse un fiore non colto. Ma che la baciai questo sì lo ricordo col cuore ormai sulle labbra, ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo, e il mio cuore le restò sulle labbra. E l'anima d'improvviso prese il volo ma non mi sento di sognare con loro no non mi riesce di sognare con loro.178 La sesta canzone dell’album è «Un medico», ed è tratta da «Il dottor Siegfred Iseman», un medico che sceglie la professione per vocazione, per un amore sincero che lo accompagna da quando è bambino ‒ da quando decide di voler aiutare i ciliegi «rossi di frutti» a rifiorire, credendo che la salute li abbia lasciati insieme a «quei fiori di neve che avevan perduti» ‒, lo stesso amore che lo spinge ad aiutare anche i più poveri. Egli però, si rende ben presto conto che non è possibile “regalare la scienza alla gente”, ma lo fa troppo tardi, quando ormai il sistema lo ha preso per fame e sua moglie lo odia. Si vede così costretto ad inventare una pozione magica, quell’elisir di giovinezza che lo porterà ad essere condannato da un giudice che lo spedirà «a sfogliare i tramonti in prigione» e lo “bollerà” per sempre come truffatore. Il dottor Siegfried Iseman Dissi, quando mi consegnarono il diploma, dissi a me stesso che sarei stato buono e saggio e coraggioso e caritatevole col prossimo; dissi che avrei trasportato il Credo cristiano 178

FABRIZIO DE ANDRÉ, Un malato di cuore, op. cit., p. 69

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nella pratica della medicina! Ma, non so come, il mondo e gli altri dottori subodorano ciò che si ha in cuore non appena si prende questa magnanima risoluzione. E il sistema è pigliarvi per fame. Da voi non verranno che i poveri. Voi vi accorgerete troppo tardi che fare il dottore non è che un modo di guadagnarsi la vita. E quando siete povero e dovete reggere il Credo cristiano e la moglie e i figli tutto sulla vostra schiena, è troppo! Ecco perché fabbricai l'Elisir di Giovinezza, che mi portò alla prigione di Peoria bollato come truffatore e imbroglione dall'integerrimo Giudice federale!179

Un medico Da bambino volevo guarire i ciliegi quando rossi di frutti li credevo feriti la salute per me li aveva lasciati coi fiori di neve che avevan perduti. Un sogno, fu un sogno ma non durò poco per questo giurai che avrei fatto il dottore e non per un Dio ma nemmeno per gioco: perché i ciliegi tornassero in fiore, perché i ciliegi tornassero in fiore. E quando dottore lo fui finalmente non volli tradire il bambino per l'uomo e vennero in tanti e si chiamavano gente 179

EDGAR LEE MASTERS, Il dottor Siegfried Iseman, op. cit., p. 101

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ciliegi malati in ogni stagione. E i colleghi d'accordo i colleghi contenti nel leggermi in cuore tanta voglia d'amare mi spedirono il meglio dei loro clienti con la diagnosi in faccia e per tutti era uguale: ammalato di fame incapace a pagare. E allora capii fui costretto a capire che fare il dottore è soltanto un mestiere che la scienza non puoi regalarla alla gente se non vuoi ammalarti dell'identico male, se non vuoi che il sistema ti pigli per fame. E il sistema sicuro è pigliarti per fame nei tuoi figli in tua moglie che ormai ti disprezza, perciò chiusi in bottiglia quei fiori di neve, l'etichetta diceva: elisir di giovinezza. E un giudice, un giudice con la faccia da uomo mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione inutile al mondo ed alle mie dita bollato per sempre truffatore imbroglione dottor professor truffatore imbroglione.180 Si passa a «Trainor, il farmacista», «Un chimico» in De André: uno scienziato che riesce ad amare soltanto ciò che può controllare con la sua ragione, con le sue leggi, e che reputa idioti coloro che muoiono d’amore. In realtà è un uomo che sente il richiamo della “primavera” ‒ una primavera dalle «labbra di carne» e dai «capelli di grano» ‒ ma che vi rinuncia per paura ‒ “per paura che arrivi e che lo prenda per mano, che lo porti lontano” ‒ non riuscendo però a scampare alla sua morte, che avviene fatalmente a causa di un esperimento sbagliato, proprio come quegli stessi idioti che sono morti d’amore; con una differenza però, rispetto a questi ultimi: egli non avrà con sé nemmeno «un volto di donna da dover ricordare».

180

FABRIZIO DE ANDRÉ, Un medico, op. cit., p. 70

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Trainor, il farmacista Soltanto un chimico può dire, e non sempre, che cosa uscirà dalla combinazione di fluidi o di solidi. E chi può dire come uomini e donne reagiranno fra loro, e quali bambini nasceranno? C'erano Benjamin Pantier e sua moglie, buoni in se stessi, ma cattivi l'un l'altro: ossigeno lui, lei idrogeno, il figlio un fuoco devastatore. Io, Trainor, il farmacista, mescolatore di elementi chimici, morto mentre facevo un esperimento, vissi senza sposarmi.181

Un chimico Solo la morte m'ha portato in collina un corpo fra i tanti a dar fosforo all'aria per bivacchi di fuochi che dicono fatui che non lasciano cenere, non sciolgon la brina. Da chimico un giorno avevo il potere di sposar gli elementi e farli reagire, ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l'amore. Affidando ad un gioco la gioia e il dolore. Guardate il sorriso guardate il colore come giocan sul viso di chi cerca l'amore: 181

EDGAR LEE MASTERS, Trainor, il farmacista, op. cit., p. 39

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ma lo stesso sorriso lo stesso colore dove sono sul viso di chi ha avuto l'amore. Dove sono sul viso di chi ha avuto l'amore. Che strano andarsene senza soffrire, senza un volto di donna da dover ricordare. Ma è forse diverso il vostro morire voi che uscite all'amore che cedete all'aprile. Cosa c'è di diverso nel vostro morire. Primavera non bussa lei entra sicura come il fumo lei penetra in ogni fessura ha le labbra di carne i capelli di grano che paura, che voglia che ti prenda per mano. Che paura, che voglia che ti porti lontano. Ma guardate l'idrogeno tacere nel mare guardate l'idrogeno al suo fianco dormire: soltanto una legge che io riesco a capire ha potuto sposarli senza farli scoppiare. Soltanto una legge che io riesco a capire. Fui chimico e, no, non mi volli sposare. Non sapevo con chi e chi avrei generato: son morto in un esperimento sbagliato proprio come gli idioti che muoion d'amore. E qualcuno dirà che c'è un modo migliore.182 «Dippold, l’ottico» viene raccontato da De Andrè attraverso la canzone «Un ottico»: è la storia di un uomo che decide di inventare delle lenti speciali per i propri clienti, affinché le loro «pupille abituate a copiare» possano inventare «i mondi sui quali guardare». L’ottico è una specie di spacciatore di hashish, o, meglio, una sorta di

182

FABRIZIO DE ANDRÉ, Un chimico, op. cit., p. 71

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Aldous Huxley.183 È un uomo che vuole trasformare la realtà in luce ed «il mondo in un giocattolo», e che, per confezionare questa splendida illusione, si serve dello sguardo dei propri pazienti. Dippold, l'ottico Che cosa vedete adesso? Globi di rosso, giallo, porpora. Un momento! E adesso? Mio padre e mia madre e le mie sorelle. Sì. E adesso? Cavalieri in armi. belle donne, visi gentili. Provate questa. Un campo di grano - una città. Benissimo! E adesso? Una donna giovane e angeli chini su di lei. Una lente più forte! E adesso? Molte donne dagli occhi vivi e labbra schiuse. Provate queste. Soltanto un bicchiere su un tavolo. Oh, capisco! Provate questa lente! Soltanto uno spazio vuoto - non vedo nulla in particolare. Bene, adesso! Pini, un lago, un cielo d'estate. Questa va meglio. E adesso? Un libro. Leggetemi una pagina. Non posso. Gli occhi mi sfuggono di là dalla pagina.

183

ALDOUS HUXLEY, Le porte della percezione, Mondadori, Segrate, 1980 (la prima edizione è del 1954); Huxley era un letterato britannico, umanista e pacifista; è stato autore di romanzi, saggi, libri di poesia, ed anche un convinto sostenitore e consumatore di allucinogeni.

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Provate questa lente. Abissi d'aria. Ottima! E adesso? Luce, soltanto luce che trasforma tutto il mondo in giocattolo. Benissimo, faremo gli occhiali così.184

Un ottico ‒

PRIMA PARTE

Daltonici presbiti, mendicanti di vista il mercante di luce, il vostro oculista, ora vuole soltanto clienti speciali che non sanno che farne di occhi normali. Non più ottico ma spacciatore di lenti per improvvisare occhi contenti, perché le pupille abituate a copiare inventino i mondi sui quali guardare. Seguite con me questi occhi sognare, fuggire dall'orbita e non voler ritornare. ‒

SECONDA PARTE

(1° cliente) Vedo che salgo a rubare il sole per non aver più notti, perché non cada in reti di tramonti, l'ho chiuso nei miei occhi, e chi avrà freddo lungo il mio sguardo si dovrà scaldare. (2° cliente) Vedo i fiumi dentro le mie vene, cercano il loro mare, 184

EDGAR LEE MASTERS, Dippold, l’ottico, op. cit., p. 359

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rompono gli argini, trovano cieli da fotografare. Sangue che scorre senza fantasia porta tumori di malinconia. (3° cliente) Vedo gendarmi pascolare donne chine sulla rugiada, rosse le lingue al polline dei fiori ma dov'è l'ape regina? Forse è volata ai nidi dell'aurora, forse è volata, forse più non vola. (4° cliente) Vedo gli amici ancora sulla strada, loro non hanno fretta, rubano ancora al sonno l'allegria all'alba un po' di notte: e poi la luce, luce che trasforma il mondo in un giocattolo. (ottico) Faremo gli occhiali così! Faremo gli occhiali così!185

Si arriva così alla canzone finale, «Il suonatore Jones», l’unica canzone che conserva il medesimo titolo della poesia originale di Lee Masters (o quantomeno della traduzione di Fernanda Pivano); l’unico personaggio che nel disco viene chiamato per nome, e l’unico che muore senza rimpianti. Jones si trasforma in un suonatore di flauto nel testo di De André, ma è solo un’esigenza dettata dalla metrica, perché in realtà la figura che viene tratteggiata dal cantautore rimane la stessa: Jones rinuncia alla ricchezza, ad una sposa ed anche al cielo per amore della sua vita e del suo 185

FABRIZIO DE ANDRÉ, Un ottico, op. cit., p. 72

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strumento. Eppure è talmente romantico da riuscire a vedere «in un vortice di polvere» ‒ dove le altre persone vedono solo «siccità» ‒ una gonna che gira, una ragazza che volteggia in un ballo. Questa canzone ‒ così come la poesia originale ‒ è un inno alla libertà, una libertà utopica che forse gli stessi autori sognavano e che non hanno mai potuto raggiungere del tutto. Jones è la figura che fa da contrappeso a tutti gli altri personaggi, perché si libera dalle invidie, dalle aspettative, e si accontenta della sua vita semplice, una vita vissuta in campagna dove col suo flauto può accompagnare i suoni che la natura gli regala e può morire felice, «con i campi alle ortiche», «un flauto spezzato»… ma «nemmeno un rimpianto». Alla fine della canzone arriva da lontano ‒ a colpirci ‒ una voce di donna senza tempo né spazio, che fa vibrare la terra con una melodia dolcissima e malinconica e che ci guida fuori da questo cimitero. È così che ‒ musicalmente parlando ‒ si ritorna al tema iniziale, come se l’incedere strumentale che ci ha accompagnati all’interno “della collina” e che ora ci accompagna all’uscita, fosse il cancello principale da attraversare per poter “entrare” in sintonia con queste anime, e l’ultima soglia da varcare per poter abbandonare questa dimensione sepolcrale e rientrare “nel nostro mondo”: un abbandono che però, ci lascia in bocca un sapore di eternità.

Il suonatore Jones La terra ti suscita Vibrazioni nel cuore: sei tu. E se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca, per tutta la vita. Che cosa vedi, una messe di trifoglio? O un largo prato tra te e il fiume? Nella meliga è il vento; ti freghi le mani perché i buoi saran pronti al mercato; o ti accade di udire un fruscio di gonnelle come al Boschetto quando ballano le ragazze. Per Cooney Potter una pila di polvere o un vortice di foglie volevan dire siccità; 95


a me pareva fosse Sammy Testa-rossa quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor. Come potevo coltivare le mie terre, -non parliamo di ingrandirlecon la ridda di corni, fagotti e ottavini che cornacchie e pettirossi mi muovevano in testa, e il cigolio di un molino a vento - solo questo? Mai una volta diedi mano all'aratro, che qualcuno non si fermasse nella strada e mi chiamasse per un ballo o una merenda. Finii con le stesse terre, finii con un violino spaccato ‒ e un ridere rauco e ricordi, e nemmeno un rimpianto.186

Il suonatore Jones In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità, a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa. Sentivo la mia terra vibrare di suoni era il mio cuor, e allora perché coltivarla ancora, come pensarla migliore. Libertà l'ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, 186

EDGAR LEE MASTERS, Il suonatore Jones, op. cit., p. 123

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a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. Libertà l'ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo per un compagno ubriaco. E poi la gente lo sa, e la gente lo sa che sai suonare, suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare. Finì con i campi alle ortiche finì con un flauto spezzato e un ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un rimpianto.187

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FABRIZIO DE ANDRÉ, Il suonatore Jones, op. cit., p. 73

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2.4 Fernanda Pivano intervista Fabrizio De André Riportiamo qui di seguito, il testo integrale di un’intervista a Fabrizio De André, registrata a Roma il 25 ottobre 1971 da Fernanda Pivano, che ci servirà per conoscere l’interpretazione del disco offerta dallo stesso autore: Pivano. Hai voglia di raccontarci come ti è venuto in mente di fare questo disco? Fabrizio. Spoon River l'ho letto da ragazzo, avrò avuto diciotto anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi si Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare. P. Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a "comunicare"? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani? F. Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri, e siccome nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, certo di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche agli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me), ho cercato di adattare questo Spoon River alla realtà in cui vivo io. Perché ho scelto Spoon River e non le ho addirittura inventate io, queste storie? Dal punto di vista creativo, visto che c'era stato questo Signor Lee Masters che era riuscito a penetrare così bene nell'animo umano, non vedo perché avrei dovuto riprovarci io.

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P. Sicché le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo? F. Sì. Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli alla piccola borghesia della piccola America del 1919 ed inserirli nel nostro tipo di vita sociale. Quando dico borghesia non dico babau, dico la classe che detiene il potere e ha bisogno di conservarselo, no? il suo potere. Ma anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa, abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti, uno scemo...) P. Dal libro hai preso nove poesie, scegliendole tra le più adatte a spiegare due temi che sembravano le più insistenti costanti della vita di provincia: l'invidia (come molla del potere esercitata sugli individui e come ignoranza nei confronti degli altri) e la scienza (come contrasto tra l'aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema). Perché proprio questi due temi? F. Per quanto riguarda l'invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia maggiormente il clima di competitività, il tentativo dell'uomo di misurarsi continuamente con gli altri, di imitarli o addirittura superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggano. Per quanto riguarda la scienza, perché la scienza è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l'invidia e, secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali. P. Chi ha fatto questa scelta dei temi e delle poesie? F. Dopo aver fatto la scelta ne ho parlato con Bentivoglio al quale ho proposto di aiutarmi in questo lavoro. Tra noi ci sono state molte discussioni, come è ovvio e come è giusto. Bentivoglio tendeva a fare un discorso politico e io volevo fare un discorso essenzialmente umano. Alla fine la fatica più dura è stata, mai rinunciando a esprimere dei contenuti, quella di accostarsi il più possibile alla poesia. Fatica a parte 99


devo dire che vorrei incontrare un centinaio di Bentivoglio nella vita: se vivessi cent'anni, un disco all'anno, sarei l'autore di canzoni più prolifico del mondo. P. Puoi spiegarmi meglio l'idea del malato di cuore come alternativa all'invidia? F. Se ci riuscissi. Gli altri personaggi si sono lasciati prendere dall'invidia e in qualche maniera l'hanno risolta, positivamente o negativamente (lo scemo che per invidia studia l'enciclopedia britannica a memoria e finisce in manicomio, il giudice che per invidia raggiunge abbastanza potere da umiliare chi l'ha umiliato, il blasfemo che è un esegeta dell'invidia e per salirne alle origini la va a cercare in Dio); invece il malato di cuore pur essendo nelle condizioni ideali per essere invidioso compie un gesto di coraggio e ... P. Possiamo dire che ha scavalcato l'invidia perché a spingerlo non è stata la molla del calcolo ma è stata la molla dell'amore? F. Ma sì, l'avrei detto io se non lo avessi detto tu. P. E allora possiamo concludere con la vecchia proposta di Masters, che a trionfare sulla vita è soltanto chi è capace di amore? F. Sì, a trionfare sono i "disponibili". P. Anche per il gruppo della scienza hai trovato un'alternativa, vero? Bentivoglio mi diceva che per rappresentare il tema della scienza hai scelto il medico che ha cercato di curare i malati gratis ma non c'è riuscito perché il sistema non glielo ha permesso, il chimico che per paura si rifugia nella legge e nell'ordine come fatto repressivo e l'ottico che vorrebbe trasformare la realtà in luce e nel quale hai visto una specie di spacciatore di hashish, una specie di Timothy Leary, di Aldous Huxley. In che modo il suonatore di violino è un'alternativa?

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F. Il suonatore di violino (che è diventato per ragioni metriche di flauto) è uno che i problemi esistenziali se li risolve, e se li risolve perché, ancora, è disponibile. E' disponibile perché il suo clima non è quello del tentativo di arricchirsi ma del tentativo di fare quello che gli piace: è uno che sceglie sempre il gioco, e per questo muore senza rimpianti. Non ti pare perché ha fatto una scelta? La scelta di non seppellire la libertà? P. Allora si può dire che è questo il messaggio che hai voluto trasmettere con questo disco? Perché siamo abituati a pensare che tutti i tuoi dischi hanno proposto un messaggio: quello libertario e non violento delle tue prime ballate, come nella Guerra di Piero, quello liberatorio della paura della morte come in Tutti morimmo a stento, quello demistificante dei personaggi del Vangelo, come nel Testamento di Tito. Qual è il messaggio di questo Spoon River? F. Direi, tutto sommato, che siamo usciti dall'atmosfera della morte per tentare un'indagine sulla natura umana, attraverso personaggi che esistono nella nostra realtà, anche se sono i personaggi di Masters. P. E' chiaro che le poesie le hai tutte rifatte. Per esempio, nella poesia del blasfemo, tu hai aggiunto un'idea che non era in Masters, quella della "mela proibita", cioè della possibilità di conoscenza, non più detenuta da Dio ma detenuta dal potere poliziesco del sistema. F. Non mi bastava il fatto traumatico che il blasfemo venisse ammazzato a botte: volevo anche dire che forse è stato il blasfemo a sbagliare, perché nel tentativo di contestare un determinato sistema, un determinato modo di vivere, forse doveva indirizzare il suo tipo di ribellione verso qualcosa di più consistente che non un'immagine così metafisica. P. Mi diceva Bentivoglio che se la "mela proibita" non è in mano a un Dio ma al potere poliziesco, è il potere poliziesco che ci costringe a sognare in un giardino

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incantato. Cioè, il giardino incantato non è più quello divino dove secondo Masters l'uomo non avrebbe dovuto sapere che oltre al bene esiste il male. F. Sì, in realtà per il blasfemo il giardino incantato non è stato creato da Dio ma è stato addirittura inventato dall'uomo e comunque la "mela proibita" è ancora sulla terra e noi non l'abbiamo ancora rubata. A questo punto hai capito che cosa voglio dire io per sognare: voglio dire pensare nel modo in cui si è costretti a pensare dopo che il sistema è intervenuto a staccarci decisamente dalla realtà. P. Mi pare che la tua aggiunta non sia una forzatura, perché anche nella denuncia della manipolazione del pensiero, del lavaggio mentale esercitato dal sistema, Masters è un precorritore dei nostri problemi. Cerca di dirmi in che modo, quando eri ragazzo, a un ragazzo della tua generazione Masters è sembrato un contestatore. F. Perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di fuori delle necessità pratiche. P. Cioè più che la sua contestazione politica ti ha interessato la sua contestazione umana? F. Sì, secondo me il difetto sostanziale sta nella natura umana. P. Ritornando alle tue manipolazioni del testo, possiamo dire che l'aggiunta di questo concetto della "mela proibita" non detenuta da Dio ma dal potere del sistema è la manipolazione più grossa. D'altronde è passato mezzo secolo da quando Masters ha scritto queste poesie, sicché se questa galleria di ritratti la potesse riscrivere adesso non c'è dubbio che la sua vena libertaria gli farebbe inserire elementi che si è limitato a sfiorare come precorritore. Questo vale anche per l'altra grossa manipolazione che hai fatto, quella dell'ottico visto come proposta di un'espansione della coscienza. Ma proprio dal punto di vista stilistico, perché hai sentito la necessità di cambiare la forma poetica di Masters? Bentivoglio mi diceva che il verso libero di queste poesie non ti serviva, avevi bisogno di ritmo e di rima, 102


questo è chiaro. Ma sembra quasi che tu abbia voluto divulgare, spiegare a tutti i costi. F. Sì. Mi pareva necessario spiegare queste poesie; poi c'era la necessità di farle diventare delle canzoni. Cioè delle storie e una storia non è un pretesto per esprimere un'idea, deve essere proprio la storia a comprendere in sé l'idea. P. Ma come spieghi per esempio il fatto di aver usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, per esempio nel verso della poesia del giudice "un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del c..." e di avere per esempio inserito immagini come "le cosce color madreperla" in poesie che pur essendo piene di sesso sono espresse per lo più in forma asettica, quasi asessuata? F. Perché anche il vocabolario al giorno d'oggi è un po' cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del giudice, questo è un personaggio che diventa carogna perché la gente lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente. P. Tutto sommato mi pare che queste siano state le manipolazioni più pesanti che hai fatto ai concetti e al testo di Masters; e d'altra parte quando il libro è uscito, ai suoi contemporanei è sembrato tutt'altro che asettico e asessuato: il gruppo dei NeoUmanisti lo aggredì come "iniziatore di una nuova scuola di pornografia e sordido realismo". F. Capirai. P. Comunque sono certa che non deluderai i tuoi ammiratori, perché le poesie le hai proprio scritte tu, con quella tua imprevedibile, patetica inventiva nelle rime e nelle assonanze, proprio come nelle poesie dell'antica tradizione popolare. Ma fino a che punto, per esempio, ti sei identificato col suonatore di violino (Jones, che nel '71 103


suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino. F. Non c'è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per pure divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt'altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un'alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio.

Figura 16: FERNANDA PIVANO e FABRIZIO DE ANDRÉ

F. Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: «chi è Fernanda Pivano?» Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt'altra tendenza. E' successo tra il '37 e il '41: quando questo ha significato coraggio. 188 188

http://maso.altervista.org/percorsi_incrociati/spoonriver/intervista_pivano_de_andre.php

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Appendice

Intervista inedita al maestro Nicola Piovani. Sassari, 17/ 02/ 2013. Incontro il maestro Nicola Piovani, per la prima volta, al Teatro Comunale di Sassari, pochi minuti prima dell’inizio del concerto che lo vede protagonista ‒ come autore delle musiche ed esecutore ‒ insieme al regista e autore Nanni Moretti. Lo incontro per chiedergli se può concedermi una breve intervista, spiegandogli di cosa si tratta, e lui, gentilmente, accetta. E, mentre ‒ indaffarato, e con un po’ di sana tensione preconcerto ‒ risponde alla domanda di un giornalista regionale, mi chiede di passare più tardi nel suo camerino. Alla fine dello spettacolo lo raggiungo, e lui, con sincera gentilezza, mi propone l’opportunità di incontraci nel suo albergo la mattina seguente, dato che l’intervista deve essere inserita all’interno di una tesi di laurea e vorrebbe dedicarmi qualche attenzione in più, cosa difficile in quel momento, per questioni di tempistica. Mi da appuntamento alle dieci e trenta del giorno dopo, ed a quell’ora, puntuale, arriva in portineria. Mi cerca con lo sguardo e mi raggiunge, stanco ma ben disposto. Ordina un caffè e me ne offre uno. Sono felicissimo di poter parlare con lui ‒ compositore straordinario, musicista, e co-autore delle musiche dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo, nonché arrangiatore e orchestratore delle stesse ‒ e lo ringrazio in anticipo per la sua estrema disponibilità. Il testo che riporto qui di seguito riguarda la trascrizione dell’intervista, testo che ho l’enorme piacere di inserire all’interno della mia tesi, sia per l’importanza dei suoi contenuti, che per l’interesse suscitato in me dalle risposte del maestro, che riempiono di prestigio il mio lavoro. Riporterò in corsivo la mia introduzione, le mie domande, ed eventuali miei interventi, per distinguerli ‒ anche visivamente ‒ dalle sue risposte. Ecco il testo, da me registrato il 18/ 02/ 2013: 105


«L’intento della mia tesi su “L’antologia di Spoon River” 189 e l’album di Fabrizio De André “Non al denaro non all’amore né al cielo”190 è quello di sottolineare il potere che, le parole e la musica hanno, di rompere il silenzio della morte e di sopravvivere all’oblio, rendendo in qualche modo immortali i personaggi di quest’opera. La musica e il ritmo dei versi sarebbero gli strumenti privilegiati attraverso cui poter comunicare e restituire la parola a chi altrimenti non avrebbe voce: come avviene negli epitaffi di Lee Masters (tradotti in Italia da Fernanda Pivano), riscritti poi da Fabrizio De Andrè nella forma che noi tutti conosciamo, e resi meravigliosi dalle sue musiche, dagli arrangiamenti e dalle sue orchestrazioni, che ci fanno vivere a fondo sia l’atmosfera cimiteriale del disco, sia l’intimità con la quale in alcuni tratti, queste anime, attraverso dolcissime ballate, cantano la loro morte e ricordano la loro vita: per creare tale atmosfera sono stati utilizzati (oltre alle chitarre, alla batteria, basso e pianoforte) alcuni strumenti come il cembalo e l’arghilofono (se non sbaglio), ma anche l’organo ed il violoncello. La scelta di questi strumenti è stata la sua?». «Beh, sono stati scelti anche i corni, i tromboni, tutta la sezione degli archi, i violini, le viole, i flauti, gli oboi, il flauto dolce … insomma: è un disco dal punto di vista timbrico, molto ritmico. Io ho composto una parte di quelle musiche e poi mi sono occupato degli arrangiamenti, e ovviamente dei colori. Ho fatto delle scelte che poi ho proposto a De André, e quindi sono scelte totalmente condivise». «Tra l’altro, a quanto ho capito, o almeno, a quanto è stato scritto, lei era giovanissimo, per cui all’inizio …» «Non è che lo hanno scritto, lo ero!».

189

EDGAR LEE MASTERS, op. cit.

190

FABRIZIO DE ANDRÉ, op. cit.

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«Intendevo dire che nonostante fosse giovanissimo, era già convinto delle sue idee, tanto è vero che inizialmente ci sono state delle incomprensioni, e, stando a quanto ho letto, sarebbe stato proprio De André a richiamarla». «Con De André non ci sono mai stati screzi, c’è stato un dato di incomprensione iniziale fra me e i produttori; e siccome io ero giovane e spericolato, ho abbandonato il disco. L’ho abbandonato dopo avere registrato il primo arrangiamento, “La collina”191, il primo brano dell’album, e siamo stati fermi, credo, due settimane. Poi De André mi ha richiamato e abbiamo ricominciato a lavorare, naturalmente accordandoci su alcune questioni, su un metodo di registrazione che, all’inizio, io non condividevo, perché preferivo fare tutto insieme, una traccia di registrazione unica, compresi gli archi: e invece mi hanno convinto ‒ relativamente ad alcuni brani ‒ a registrare prima la ritmica, poi a sovrapporre gli archi, di seguito i fiati e, da ultimo, la voce. Erano tempi in cui la tecnologia era molto arretrata rispetto ad adesso». «Ho letto anche questo. Ho letto che lei inizialmente non era d’accordo sul fatto di registrare su piste differenti …» «Non ero d’accordo perché ero partito in quel modo, a testa bassa. La mia formazione sinfonica non prevedeva le registrazioni separate. Poi, dopo, ho saputo che questa modalità di registrazione è stata utilizzata anche per alcuni dischi della Deutsche Grammophon192, credo addirittura di Karajan193, in cui sono stati registrati gli ottoni a parte, e poi sono stati sovrapposti».

191

FABRIZIO DE ANDRÉ, op. cit.

192

La Deutsche Grammofon è una etichetta discografica tedesca che appartiene al gruppo Universal, una tra le più prestigiose nel panorama della musica classica. Vanta all’interno del suo catalogo registrazioni della maggior parte dei più noti direttori d'orchestra dell'ultimo secolo, come CLAUDIO ABBADO, HERBERT VON KARAJAN, CARLOS KLEIBER, KARL BÖHM E LEONARD BERNSTEIN. 193

HERBERT VON KARAJAN è considerato uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, ed è ricordato come il direttore con il maggior numero di incisioni discografiche, in particolare con i Berliner Philharmoniker, che ha guidato per più di trent’anni. E’ stato un interprete sempre all’avanguardia, sia nei confronti del repertorio classico che di quello contemporaneo.

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«Quindi siete stati un po’ degli antesignani in questo senso …» «Fabrizio è stato diplomatico, e mi ha convinto ad accettare una tecnica nei confronti della quale io ero diffidente». «Oggi però possiamo dire che l’idea di De André sia stata corretta, visto il risultato finale. Almeno, personalmente la ritengo tale, e non credo sia un giudizio solamente personale». «Si, non c’è la controprova. Non sappiamo come sarebbe venuto il disco se lo avessimo registrato con un’altra tecnica; a sentirlo ora però, onestamente, mi sembra che meglio di così non potesse venire. «Le musiche, a mio parere (e non solo mio), danno un taglio molto cinematografico all’album. Non a caso lei è l’autore di alcune tra le più belle colonne sonore per film degli ultimi tempi. Oltre ad essere stato premiato per le musiche de “La vita è bella”194, ha collaborato con Nanni Moretti, con Monicelli, con Fellini, per cui ha composto “Il tema dell’oboista” per il film “La voce della luna”195. Ad esempio, “La collina”196, la prima canzone, che costituisce l’incipit dell’album, è accompagnata da un’introduzione musicale paragonabile ad una ripresa panoramica dall’alto, una panoramica sul cimitero di Spoon River, che poi lentamente passa al primo piano: in questo momento l’orchestrazione diventa più scarna e lascia spazio a ballate dolcissime che inquadrano una per una le lapidi dei personaggi, di queste anime sepolte che rinsaviscono per parlarci in prima persona della loro vita, lasciando trasparire, a tratti, anche le loro sfumature più intime. Cosa ne pensa di questa chiave di lettura, è stato un suo intento apposito?».

194

ROBERTO BENIGNI, La vita è bella, Cecchi Gori Group, Melampo, 1997

195

FEDERICO FELLINI, La voce della luna, Mario e Vittorio Cecchi Gori, Italia-Francia, 1990

196

FABRIZIO DE ANDRÉ, op. cit.

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«Si, più intuitivo che ragionato, a dire il vero; ma comunque si. La collina è un prologo, un prologo che descrive un teatro ‒ in questo caso un cimitero ‒ dove ci sono vari personaggi, che poi ad uno ad uno vengono raccontati singolarmente. Quindi, mi sembra che abbia una logica questa scelta». «Anche Lorenzo Jovanotti, in una suo articolo,197 paragona l’album ad un grande western all’italiana ‒ per quanto riguarda le musiche iniziali ‒ od anche ad un poliziesco. Io la vedo in maniera un po’ diversa […]» «Anch’io …» «[…] però è vero che è molto cinematografico come taglio». «Diciamo narrativo. E non è un album di canzoni singole». «Certo, si tratta di un concept album». «Si … ricordo che, quando per la prima volta ho sentito qualcuno ‒ negli anni novanta credo ‒ utilizzare questa definizione ‒ “concept album” appunto ‒ non sapevo cosa significasse, cosa fosse. È un termine americano, dopo me lo hanno spiegato. Non potevamo fare un concept album perché non sapevamo cosa significasse; forse, probabilmente, era un termine che non esisteva nella lingua italiana, non ne esisteva il corrispettivo. Era un disco unico, tematico, con un tema unico. La stessa cosa abbiamo poi fatto con “Storia di un impiegato”198». «E questa coerenza tematica, questo argomento comune, spesso, in opere del genere, viene sottolineato anche da una coerenza musicale, in cui i singoli brani hanno come minimo comun denominatore il fatto di essere nella stessa tonalità (seppure 197

FABRIZIO DE ANDRÉ, L’opera completa, Non al denaro non all’amore né al cielo, La musica di Repubblica – L’Espresso, Roma, 2009, p. 13 198

FABRIZIO DE ANDRÉ, Storia di un Impiegato, Produttori Associati, Roma, 1973 (arrangiamenti e direzione d’orchestra di NICOLA PIOVANI)

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quest’album presenti alcune variazioni in questo senso). Ciò è successo, ad esempio, in un album precedente di Fabrizio De André: “Tutti morimmo a stento”199». «“Tutti morimmo a stento” è un album al quale io non ho collaborato, ma si tratta certamente di un concept album». «Si ricorda qual è la prima canzone del disco per cui ha composto le musiche?». «Il medico, [“Un medico”]. Io ero a Genova, come arrangiatore ‒ dovevo fare solo l’arrangiatore inizialmente ‒ e Fabrizio, non aveva scritto ancora praticamente niente. Aveva un’idea, ma aveva scritto poco. Mi disse che c’erano dei testi, belli ma “immusicabili”, e uno di questi testi era quello del medico. Allora, lì a Genova, siccome lui dormiva fino a tardi ed io invece mi svegliavo presto […]» «Lo sappiamo anche dai racconti di Francesco De Gregori, che ha scritto a casa di Fabrizio De André l’album “Rimmel”200… » «[…] mi trovavo a casa sua, in questa casa grande, col pianoforte; mi son trovato davanti questo testo ed ho provato a musicarlo, così, per accademia. Gliel’ho fatto sentire e … era più o meno com’è finito poi sul disco: la traccia del pianoforte è rimasta la stessa, perché io l’avevo già registrata a casa. Quella è stata la prima. Poi, è stato lì che mi ha chiesto di lavorare a tutto, in diversi modi». «Dunque, da un punto di vista puramente “artigianale” rispetto alla costruzione dell’album, in questo caso il testo di un medico era già pronto». «Era già pronto. Erano tanti i testi pronti che lui aveva già “tradotto” e trasposto nella loro forma. Erano pronti, non definitivi, ma molti già c’erano». 199

FABRIZIO DE ANDRÉ, Tutti morimmo a stento, Bluebell Records, Roma, 1968 (collaborazione alle musiche, orchestrazione, direzione Orchestra Philarmonia di Roma e Coro Pietro Carapellucci: Gian Piero Reverberi). 200

FRANCESCO DE GREGORI, Rimmel, RCA Italiana, Roma, 1975

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«Quindi lei ha costruito i vestiti attorno a questi testi. Poi ovviamente ci sono state delle “cuciture” anche dal punto di vista metrico e testuale successive al suo lavoro». «Si … Fabrizio per scrivere i testi prendeva appunti con delle musiche molto semplicistiche, che gli servivano per trovare la scansione. Io poi, però, con quella metrica, modificavo la musica, in base a ciò che lui aveva scritto. E c’erano delle cose che poi sono rimaste uguali. La complessità strutturale è venuta dopo. Questa “prima canzone” era lunga: l’idea iniziale era quella di una ballata folk in stile americano, come una specie di omaggio a Woody Guthrie, invece, mano a mano che siamo andati avanti si è persa questa cifra, compreso il caso de “Il suonatore Jones”, che doveva essere proprio un finale alla “country song”». «Le faccio una domanda su “Un ottico”. Per De André è la canzone probabilmente più difficile da eseguire dal vivo, e credo che obbiettivamente sia così […]» «Si, non si può fare». «[…] tanto è vero che lui ha rinunciato ad eseguirla dal vivo. Per lei invece, c’è stata una canzone su tutte per cui è stato più difficile comporre le musiche?». «Beh … l’ottico ha una complessità di scrittura. Io ho preparato tutta la struttura dell’arrangiamento, ma non potevo fargliela sentire al pianoforte, per cui ho prima lavorato alla base orchestrale, prima ancora di convincerlo, prima di sapere se lui fosse d’accordo. Allora non era possibile fare certe cose, oggi sarebbe semplicissimo». «Per lei, forse si …» «Si … diciamo, per i mezzi tecnici che esistono. Ma allora, una parte è stata realizzata girando un nastro al rovescio. Per esempio il momento in cui si ritorna dal 111


sogno alla realtà ‒ sempre nella medesima canzone, “Un ottico”‒ , nel finale: è stata registrata quella parte, poi è stata trasferita su un nastro che è stato montato all’inverso, creando quell’effetto che, ascoltandolo, risulta essere strano. Oggi lo stesso effetto si crea facilmente, anche un ragazzo nello studiolo di casa sua potrebbe farlo, però allora era molto, molto faticoso; al tal punto che la registrazione di quella canzone, materialmente, richiese cinque sei giorni di sala, prima della voce». «Per cui anche per lei è stata “Un ottico” la canzone più difficile …» «Quella più laboriosa, non nella composizione però». «E quella per cui ha penato di più dal punto di vista compositivo?». «Non io da solo, ma tutti quanti insieme: “Il suonatore Jones”, perché è stata scritta tre, quattro volte differenti da Fabrizio, poi da me ricorretta, prima di tutto, verso un’altra direzione. Era quello che non convinceva. L’idea era di chiudere con una ballata all’americana, alla Woody Guthrie appunto. Quando siamo arrivati a scrivere la musica per “Il suonatore Jones” il resto era già registrato, ma l’idea iniziale non reggeva più, non si controbilanciavano più un inizio di quel tipo ed un finale in forma di ballata col giro armonico ripetitivo. E non si riusciva. Poi io gli ho chiesto quale ideologia ci obbligasse a fare questo finale all’americana. Ho chiesto per quale motivo, lo stesso effetto, non potevamo renderlo con un antico ritmo del sud d’Italia che si chiama “tempo alla siciliana”, che è una dizione presente anche nelle suites barocche: ovvero un tempo in sei ottavi con accento sul primo-terzo, quarto-sesto [lo canticchia gentilmente per farmi comprendere di cosa si tratta], lontanissimo da qualsiasi folk americano. Allora la mattina seguente ho scritto quella musica, il pomeriggio l’ho portata in sala e ci siamo tutti entusiasmati un po’: infatti abbiamo subito lavorato ad aggiustare il testo sulle note, e le note sul testo, e in quarantottore l’abbiamo registrata». «Quindi dobbiamo a lei la meraviglia di questa canzone».

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«No, no, no, non solo a me, l’equipe era funzionalissima». «Però l’intuizione, quella forma estetica …» «L’intuizione? Adesso parliamo di intuizione, però a quel punto ne avevamo già fatte quindici di prove (ride) … ma questa andava bene!». «Ho letto che lei l’ha composta la mattina presto, entusiasta com’era ‒ da buon sognatore ‒ nei confronti del personaggio rappresento dal suonatore Jones, che, comunque, compie una scelta di libertà …» «Ma io, comunque, scrivo di mattina. La sera, dopo il tramonto, riesco al massimo ‒ se sono obbligato per lavoro ‒ a orchestrare o ad eseguire, ma non a scrivere. Le idee vanno a dormir col sole, quindi …» «Che rapporto ha con questo disco? Le capita mai di riascoltarlo? E, se c’è, qual è la canzone che ama più di tutte?» «Mi capita di risentirlo perché a un certo punto l’hanno scoperto miei figli e gli amici dei miei figli, che adesso son grandi. Io ho sempre evitato di far loro ascoltare le cose di papà, proprio perché non fossero le cose di papà, perché le scoprissero per conto loro; infatti ho avuto delle sorprese, con un cammino frastagliato. Adesso mio figlio ‒ che ha venticinque anni ‒ ha trovato una cantata sinfonica che io avevo scritto nel centenario della CGIL201, che naturalmente avevo evitato di fargli sentire; ma, in altro modo, lui l’ha sentita. Dunque sono stati loro che mi hanno riscoperto. Addirittura mio figlio ha scoperto l’album “Non al denaro non all’amore né al cielo” attraverso un calco che ne aveva fatto Morgan202; e siccome è rimasto molto affascinato da questo disco, l’ho avvisato che esisteva un’originale, che quello era un omaggio, di cui siamo grati, molto grati a Morgan, ma che comunque c’era un 201

NICOLA PIOVANI, VINCENZO CERAMI, La cantata dei cent’anni, 2006 (dedicata al centenario del sindacato CGIL, della Confederazione Italiana Generale del Lavoro). 202

MORGAN, Non al denaro non all’amore né al cielo, Columbia Records, 2005

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originale. Allora è andato a vederlo, e attraverso quello, ha scoperto “Storia di un impiegato”, e via così. Dunque li sento così, altrimenti non è che mi metto a risentire le cose fatte da me, perché mi piace farlo, ma con le orecchie degli altri. Mi piace molto sentire la musica con le orecchie degli altri. Adesso ho fatto un disco di canzoni ‒ che deve ancora uscire ‒ e non è che mi metto a risentirle; ma se capita che incontro un amico, mi piace farglielo ascoltare, e, diciamo, far rimbalzare su di me l’effetto che fa sugli altri, tanto per capire un po’ cosa funziona e cosa no». «Dato che lo ha citato lei, le faccio una domanda che non era in programma: che cosa pensa del rifacimento di Morgan?». «Beh … è una cosa che va detta sempre, ogni volta che qualcuno rielabora una musica. Per esempio, ci sono quelli che prendono le sinfonie di Beethoven, di Mozart e le trasformano in canzoni ballabili, le rivisitano in questo modo. La musica, a differenza delle arti figurative, si può rivisitare in tutti i modi possibili, tanto l’originale resta. Non è come andare a fare i baffi alla Gioconda sul quadro originale, si può benissimo fare». «Una domanda un po’ più personale ‒ se posso ‒ dato che siamo in tema di epitaffi: tra cento anni, quando probabilmente non ci sarà più, e neanche io […]» «Credo più che probabilmente …(ride)» «[…] se esistessero delle lapidi dotate di apparecchi che consentono ai visitatori di ascoltare una musica ‒ una sorta di epigrafe multimediale insomma ‒ con quale delle sue composizioni sceglierebbe di essere ricordato? Ce n’è una in particolare?». «Bella domanda». «La ringrazio …(sorrido)»

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«Non c’avevo mai pensato, forse perché non penso ancora alla morte; però, adesso che mi ha fatto questa domanda, ci dovrò pensare». «Beh … la mia tesi riguarda proprio la capacità delle parole di sopravvivere alla morte. È intitolata: “La Musica delle Morte Parole”, ed essendo uno studente di filosofia, mi trovo spesso a studiare autori che si confrontano con la tematica della morte, anche se spesso considerata in altro senso, da punti di vista differenti. La ricerca di sopravvivere alla morte è una ricerca che in qualche modo ognuno di noi fa; e chi meglio di lei ‒ che scrive e compone musica ‒ potrebbe riuscire in quest’intento?». «Ci penserò, ma probabilmente sarebbe una canzone, una canzone di quelle semplici, cantabili … se mi viene in mente glielo dico …(sorride) ». «Promesso?». «Si si, promesso, promesso. Mi lascia la sua mail, così dopo glielo dico». «Secondo lei, la musica, è più poesia o più matematica?». «Ah! … (ride) Bella domanda! La musica senza la matematica non esiste, la poesia è metrica, mè-tri-ca, metrica! La musica comincia con una chiave e subito dopo c’è una frazione. Su qualsiasi partitura moderna, non su quelle gregoriane che non si scrivono, ma su ogni partitura di musica moderna, si comincia con … tre quarti, quattro quarti. Fuori da questa metrica, non possiamo collocare la poesia. La poesia, insomma, l’endecasillabo, che costituisce il cinquanta per cento della poesia italiana, è fatto di regole. L’ accento tonico sulle sillabe dieci, undici, dodici …». «Però, comunque, c’è questa grande capacità creativa, che consente di utilizzare al meglio le regole e di poterle trascendere».

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«Certo! Però uno può avere l’idea più bella, ma se poi non conosce le regole matematiche casca, ed è finita la poesia». «Bisogna, dunque, avere gli strumenti necessari …». «Gli strumenti sono fondamentali. Conoscere l’armonia, conoscere … poi ci sono alcuni casi, di artisti molto minoritari, che nonostante non conoscessero la musica ed il solfeggio, hanno scritto delle belle canzoni. Questi casi autorizzano all’analfabetismo? Non è vero! Perché, intanto, sono dei casi minoritari, e poi, conoscere la musica e le sue regole aiuta la creatività; e poi, certo, bisogna immaginare. C’è stato un cantante romano che si chiamava Romolo Balzani, che ignorava le regole e fischiettava le canzoni. Ha scritto grandi canzoni, fischiettando; ma se magari avesse studiato la musica, avrebbe scritto “La sagra della primavera” pure lui».203 «Le faccio l’ultima domanda: la musica, per lei, è davvero una scelta di libertà, come lo è per il suonatore Jones, una figura utopica, che resta al di fuori di qualsiasi convenzione sociale facendo da contrappeso a tutti gli altri personaggi, e meritandosi in questo modo il privilegio di essere chiamato per nome ‒ dato che è l’unico a cui viene concesso questo privilegio ‒ ?». «Si, è l’unico che viene chiamato per nome. È proprio quello il senso del disco, ed anche la musica va in quella direzione e vuole sottolinearlo». «E lei riesce ancora a vivere la musica in questo senso? Per lei è ancora una scelta di libertà? Si sente un privilegiato?». «Si! Si, mi sento un privilegiato, e sento che senza la musica faticherei a trovare i miei spazi di libertà; perché poi, nella vita, trovo più difficoltà. Musicalmente invece, mi sento molto più libero; libero sia da pressioni ideologiche, sia da convenienze di

203

IGOR STRAVINSKIJ, La sagra della primavera (titolo originale “Le Sacre du printemps”), 1911-13

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mercato. Scrivere è un gesto di libertà. Quando invece si scrive per un’opera di qualcun’ altro, per un film, si è lì per aiutare la sua libertà». «Mi immagino che sia davvero felice quando scrive. La ringrazio maestro, non sa quanto sono felice di quest’incontro».

Figura 17: Il maestro NICOLA PIOVANI ed io, in una foto scattata dopo l’intervista.

Lui si alza in piedi e mi sorride, deve partire per Cagliari, dove quella sera ha la replica del concerto che si è tenuto la sera prima. Tutta la troupe è lì, aspettano solo lui per partire, e sono io il “colpevole” del suo (lieve) ritardo. Nonostante questo, accetta di farsi scattare una fotografia con me, e si ricorda di scrivermi su un foglio il suo indirizzo e-mail. Esco dall’albergo, passo accanto a Nanni Moretti, che con altrettanta gentilezza mi saluta. Spero di avere qualche altra occasione per incontrare il maestro Nicola Piovani, e, nel frattempo, lo ringrazio ufficialmente all’interno del presente lavoro.

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CONCLUSIONI

Sono poche le certezze che percorrono questo lavoro: forse l’unica cosa che possiamo affermare con la convinzione di non sbagliare è che si tratta di un viaggio, un viaggio in varie direzioni, che a partire da poche parole e da semplici idee iniziali si affastella attraverso un campionario di immagini e tematiche non previste né prevedibili. Un viaggio nella letteratura, nella poesia, nei versi dell’aldilà, conditi dalla musica di un cantautore speciale, purtroppo un po’ inflazionato e spesso non compreso fino in fondo. Un viaggio a volte temporale, a ritroso, alla scoperta di temi iconografici del passato, di credenze popolari quasi perdute, con tutti i loro significati; un viaggio alla costante ricerca di un filo magico imbastito “dalla parola”, quella parola che, sempre e comunque, costituisce l’unico mezzo per penetrare in un mondo intermedio in cui vivi e morti possono comunicare., un mondo in cui ‒ a volte ‒ ci è concesso di entrare, ed in cui le anime dimenticate riescono a sopravvivere alla morte biologica che li ha costretti alla loro esistenza sepolcrale. Un viaggio alla scoperta di versi epici che da millenni resistono allo scorrere del tempo, parole ancora vive che irrompono ed interrompono l’oblio, rompendo il silenzio che ricopre lo spazio sotterraneo che si fa custode della morte. Un percorso da fare a piedi ‒ in alcuni tratti ‒ in un cimitero speciale, quasi mitologico, che si erge «sulla collina» bagnata dal fiume Spoon: ovvero il cimitero di Spoon River, dove le anime che vi riposano riacquistano la voce e ci parlano delle loro passioni, delle loro sconfitte, delle loro tragedie personali e dei loro fugaci momenti di felicità, senza falsa ipocrisia, con la tagliente ironia che caratterizza questi epitaffi e che li ricopre di un sorriso dolceamaro. Versi meravigliosi, che ci arrivano ‒ se possibile ‒ in maniera ancora più dirompente attraverso l’opera di Fabrizio De André: il cantautore ci offre una sua rilettura delle poesie di Lee Masters, una rilettura contemporanea che non è semplicemente una trasposizione, ma una vera e propria riscrittura, veicolata dalle splendide musiche composte insieme all’allora giovanissimo Nicola Piovani e che sembrano proiettarci in un film di altri tempi; musiche accompagnate da una voce narrante ‒ quella di Fabrizio De André ‒ e da un tema musicale che si conclude con 118


un canto senza tempo e senza spazio, un canto che ci coglie d’improvviso, che ci arriva alle spalle, da nessun luogo ‒ come fa il vento ‒ per accompagnarci all’uscita. Solo questo possiamo affermare con certezza di questo lavoro, ovvero che si tratta di un viaggio: è questa l’unica cosa certa. Un viaggio all’interno di mondi lontani, sotterranei, che si nutrono della parola per sfuggire al silenzio che avvolge la morte; perché se è pur vero che prima o poi tutti dobbiamo morire, è altrettanto vero che alcune parole, se dette bene, diventano musica, musica eterna. Le parole, solo loro, possono resistere al consumarsi del tempo: non i nostri corpi, ma quelle parole, leggere come il vento, e che con il vento condividono la stessa disarmante capacità di sfuggire a qualsiasi presa, anche a quella della morte. È così che il vento delle parole continua a fuoriuscire dalle bare che racchiudono i corpi sepolti, e che sfrutta ogni spiraglio per cercare di respirare ancora. Sono parole sognanti quelle di cui parliamo, parole che forse nessuno sentirà mai, ma che continuano a soffiare in mulinelli di ricordi, nella speranza che qualcuno passi di lì e sia ancora capace di ascoltarle. Al poeta dunque, ed alla sua anima, capace di viaggiare senza meta e senza fine.

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Bibliografia.

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Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (introduzione di CLARA GALLINI), Bollati Borighieri, Torino, 1975 120


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Discografia, filmografia e opere teatrali.

Album e composizioni:

CERAMI V., PIOVANI N., La cantata dei cent’anni, 2006 DE ANDRÉ F., Anime salve, BMG Ricordi, 1996 122


DE ANDRÉ F., L’Indiano, Ricordi, Carimate, 1981 DE ANDRÉ F., La buona novella, Produttori Associati, Milano, 1970 DE ANDRÉ F., Le Nuvole, Ricordi- Fonit Cetra, 1990 DE ANDRÉ F., Non al denaro non all’amore né al cielo, Edizione Produttori Associati, 1971 DE ANDRÉ F., Rimini, Ricordi, 1978 DE ANDRÉ F., Storia di un Impiegato, Produttori Associati, Roma, 1973 DE ANDRÉ F., Tutti morimmo a stento, Bluebell Records, Milano, 1967 DE ANDRÉ F., Volume I, Bluebell Records, Milano, 1966 DE ANDRÉ F., Volume III, Bluebell Records, Milano, 1968 DE GREGORI F., Rimmel, RCA Italiana, Roma, 1975 MARRAS P., Abbardente, Sassari, 1985 MARRAS P., Tumbu, Sassari, 1995 MORGAN, Non al denaro non all’amore né al cielo, Columbia Records, 2005 STRAVINSKIJ I., La sagra della primavera (Le Sacre du printemps), 1911-13

Film:

BENIGNI R., La vita è bella, Cecchi Gori Group, Melampo, 1997 FELLINI F., La voce della luna, Mario e Vittorio Cecchi Gori, Italia-Francia, 1990

Opere teatrali:

COCTEAU J., Orphée, 1926

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Sitografia. http://balbruno.altervista.org/index-1109.html http://maso.altervista.org/percorsi_incrociati/spoonriver/intervista_pivano_de_andre. php http://maso.altervista.org/percorsi_incrociati/spoonriver/pseudointervista.php http://ospitiweb.indire.it/~copc0001/dioniso/nascita.htm http://utenti.multimania.it/Guctrad/poefr.html http://www.circolosardegna.brianzaest.it/FABRIZIO%20DE%20ANDRE%20LA%2 0SARDEGNA%20E'%20UN%20PARADISO2T.pdf http://www.drammaturgia.it/recensioni/recensione2.php?id=1454 http://www.edu.lascuola.it/edizionidigitali/DivinaCommedia/data/files/m5/viaggi_nell_aldila_prima_di_dante.pdf http://www.filosofico.net/nie8.htm http://www.gentedisardegna.it/pop_printer_friendly.asp?TOPIC_ID=13434 http://www.lunadivetro.it/scoperte/lareula/la_reula.htm http://www.treccani.it/enciclopedia/nekyia/ http://www.youtube.com/watch?v=bTkzY0a294I http://www.youtube.com/watch?v=hsx3-Sig-Qw http://www.youtube.com/watch?v=R5cqKMCUJ4U

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Ringraziamenti:

A mio padre, che mi ha portato sulle spalle, per lasciarmi vedere che il mondo è piccolo se mi sostiene. A mia madre ed al suo amore, che mi hanno insegnato ad accettare il sacrificio e ad affrontarlo con dignità. A Charlie, il mio fratellino biondo, ed ai suoi occhi, che sanno amare in silenzio. A loro tre, la mia famiglia, perché nonostante tutti i nostri difetti ci ameremo senza fine: ora ho voglia di voltarmi per vederli sorridere insieme. Ai miei due fratelli mancati e proprio per questo fratelli di cuore, Francesco e Magda; almeno qui voglio che stiamo di nuovo tutti e tre insieme, perché anche se siete lontani, solo voi sapete starmi così vicini. Al mio compagno di strada punk, Andrea, ti ringrazio per avermi camminato accanto durante tutto il percorso che mi ha portato fin qui, anche se in questo momento mi manca tanto non averti seduto vicino. A quella maschera piccola piccola, che ha colorato il mio mondo. A tutti i compagni e gli amici di un progetto amato e sofferto che ha cambiato la mia vita e mi ha insegnato a ritornare bambino: Daniele, Emanuela, Lella, Claudia, Antonella, Tigro, Noemi, Hafsa, Valeria, e a tutti voi. A Paul e a tutti i bambini che ho abbracciato e amato, e che mi hanno regalato la loro gioia e le loro emozioni: tengo in camera i vostri disegni e negli occhi i vostri sorrisi. Alla Maestra Cherchi, perché se amo tanto scrivere lo devo in buona parte a lei, che mi ha insegnato a farlo. Sono felice di essere ancora il suo alunnetto. Alla mia relatrice, la professoressa Gavina Cherchi, per il suo sostegno, i suoi consigli puntuali ed intelligenti, e per la passione che mi ha trasmesso con i suoi insegnamenti. A tutti i miei familiari, ed in particolare a zia Angela e zio Mauro, zia Speranzina e zio Peppino, zia Adelaide e zio Mariolino, Lina, Nonna Bastiana, nonna Elena, nonna Speranza, nonna Italina, nonno Pischedda e nonno Giuseppino. A Giuliano e Cristiano, cugini, ma soprattutto amici. 125


Ad Andrea, Daniela, Grazia e Lorenzo, e alla loro bellissima famiglia. A Gabriele, Carlo, Gianluca, Andrea, Giovanni, e a tutti gli amici di vecchia data. A Virgilio e Tiziana, Gavino, Carlotta, Irene, Silvia, Leonardo, Valeria e Federico, e a tutti quelli che mi hanno sostenuto, ed hanno condiviso con me questa parte della mia vita. A Chicca’ca e Gilby, a nonna Farora e Giammy , per l’affetto, i sorrisi, le cose buone che preparano, ma soprattutto per la loro figlia meravigliosa, anche se per questo non li ringrazierò mai abbastanza. A Oriano ed Annarita, che mi hanno sostenuto, anche se in un’altra lingua. Ad Antonio, Tino e a tutti gli amici d’infanzia con cui mi sono sbucciato le ginocchia. Ad Antonello e Giovanna, per l'affetto, e perché, anche se i cantautori muoiono, comunque le loro parole restano sempre qui. A Manuela, perché è una persona speciale e meravigliosa. Grazie di tutto. Ad Ale, Antonio e Davide. A Gianfranco, poeta di elementi e pittore di aquiloni che volteggiano tra i banchi di nuvole. Al maestro Nicola Piovani, alla sua straordinaria gentilezza che mi ha permesso di raccontare qualcosa di più su quest’opera, ed al suo genio musicale e compositivo che ha contribuito a farmela amare. A ciò che c’è dentro, e a ciò che inevitabilmente è rimasto fuori da questo lavoro, che brilla e mi affascina sempre di più. A domani mattina, e ad ogni giorno nuovo, che porta con sé il desiderio di scoperta. Ai difetti, e a chi è disposto ad amare i miei. Agli errori, quelli di cui, in fondo, non ci pentiamo. Agli incontri imprevisti e imprevedibili, di cui a poco a poco ci innamoriamo. Ai sogni, che ci rendono coraggiosi, e alla follia, che ci spinge ad inseguirli. Alle ispirazioni, scintille fuggenti che danzano nel nulla. A tutti coloro che arriveranno, e che sarò felice di ringraziare. A Fabrizio, ed al suo viaggio senza fine. A chi è sempre qui e riempie la mia vita.

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A Silvia, la persona che amo. Alle sue mani, ai suoi occhi, al suo corpo e a tutti i suoi gesti spontanei e distratti; ma soprattutto ai suoi sorrisi, che rendono meravigliosa la mia vita, la nostra vita.

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