Politiche sociali e sistemi di welfare in tempi di crisi economica e finanziaria

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A.D. MDLXII

U N I VE RS I T À D IPARTIMENTO

DI

D E G LI S TU DI D I S AS S A RI S CIENZE U MANISTICHE E S OCIALI ___________________________

CORSO DI LAUREA IN SERVIZIO SOCIALE AD INDIRIZZO EUROPEO (CLASSE 6)

POLITICHE SOCIALI E SISTEMI DI WELFARE IN TEMPI DI CRISI ECONOMICA E FINANZIARIA

Relatore: PROF. ANDREA VARGIU

Tesi di Laurea di: ELENA DEIANA

ANNO ACCADEMICO 2011/2012



INDICE

Introduzione

I. Crisi economica del Welfare State

p.3

p.10

1.1 Origini della crisi

13

1.2 Le tre fasi della crisi: boom, euforia e panico

18

1.3 " Il Modello di Minsky" per un'analisi dell'attuale crisi economica)

25

1.4 La crisi nel contesto italiano

27

II. Effetti sociali della crisi economica

p.30

2.1 Disuguaglianza sociale e nuove povertĂ

32

2.2 Disoccupazione e mercato del lavoro

38

2.3 Il suicidio al tempo della crisi

46

III. Politiche sociali e Sistemi di Welfare in tempi di crisi p.53 3.1 Che cos'è il welfare state? Nascita ed evoluzione dello stato sociale 56 3.2 Le policies nei sistemi di welfare

68

3.3 Le politiche sociali nel contesto italiano

71

3.4 Politiche sociali vs crisi economica

79

1


Conclusioni. Per una nuova specificitĂ delle politiche sociali p.87 Bibliografia delle opere citate e consultate p.91

2


INTRODUZIONE

"Le politiche sociali interessano tutti noi, le nostre famiglie, i nostri giovani, i nostri minori e i nostri anziani, e ci accorgiamo delle loro carenze o della loro assenza quando non si è in grado di far fronte da soli a bisogni e disagi in cui possiamo tutti incorrere1".

La citazione sopra letta, tratta da una riflessione avviata in un importante

portale

rivolto

ad

assistenti

sociali,

futuri

professionisti, studenti e chiunque sia interessanto ai problemi inerenti la società oggi, vuole essere un punto di partenza per la conclusione di un percorso di studio particolarmente sentito ed importante, che auspico possa un domani servire per contribuire a far fronte ai numerosi problemi e disagi in cui spesso le persone possono incorrere. Reputo questa tesi una possibilità per avviare una considerazione sul periodo di grande crisi economica, sociale e di identità che il nostro Paese sta attraverso da qualche anno a questa parte. In un periodo così drammatico come quello attuale, penso fermamente sia doveroso soffermarsi a riflettere su quanto sta accadendo non solo nel resto del mondo, ma anche e soprattutto nel nostro Paese. L'essere umano, per natura, crede di sentirsi onnipotente dinanzi agli eventi e ha la presuntuosa convinzione di agire secondo lo slogan "non toccherà a me". In realtà la drammaticità della crisi economica ha messo in discussione questo modo di pensare, dimostrando che nessuno (o solo pochi) può essere immune dalla crisi. 1 F.Dente, S.Tonon, G.Pieroni, Continuiamo a riflettere sulle politiche sociali e sul ruolo del servizio sociale, in www.serviziosociale.com, ultima consultazione 12-08-2012.

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L'idea di riflettere su una fase così critica che, secondo il mio profano parere, verrà inserita nelle pagine di futuri libri di storia per la sua drammaticità, nasce dall'esperienza di tirocinio formativo effettuata qualche mese addietro. Il percorso di tirocinio, tappa obbligatoria al fine della conclusione del percorso di studio in Servizio Sociale, è stato svolto presso il settore Politiche Sociali e Pari Opportunità del Comune di Sassari. Dunque ho avuto modo di conoscere, osservare e riflettere sulle numerose dinamiche che si manifestano in un contesto di tale delicatezza che ha a che fare quotidianamente anche con le povertà. Il periodo di profonda crisi che stiamo attraversando induce numerose persone che versano in situazioni economiche molto precarie, a rivolgersi sempre più spesso ai servizi sociali dislocati sul territorio; d'altra parte però la crisi mondiale che stiamo vivendo ha profonde ripercussioni sulla realtà operativa delle professioni sociali, le quali, a causa dei numerosi tagli imposti al nostro sistema di welfare, trovano sempre più difficoltà nel far fronte alle numerose richieste d'aiuto che pervengono dai cittadini. Il servizio sociale dunque si trova

a

dover affrontare

quotidianamente

situazioni

di

emergenza determinate dall'aumento delle condizioni di povertà e disagio di singole persone o famiglie intere, dal continuo arretramento dello Stato e dei servizi pubblici, con la conseguente perdita dei servizi rivolti alle persone. La crisi che sta attanagliando la società si ripercuote direttamente sulle reali possibilità operative e pratiche dei servizi, che non riescono a far fronte ad un disagio così consistente, lo stesso disagio che colpisce ampie fasce di popolazione fino a qualche tempo fa del tutto estranee a questo periodo di grande difficoltà economica. Tutto ciò ha profonde ripercussioni sui soggetti più deboli, i quali non trovano risposte adeguate ed efficienti ai propri 4


problemi. Fortunatamente il nostro è un sistema di welfare partecipato; i cambiamenti degli ultimi vent'anni hanno segnato il passaggio al welfare mix, a favore di forme comunitarie, territoriali, partecipative e relazionali. In questo contesto, il ruolo del terzo settore e della società civile è fondamentale in quanto molto spesso, riesce a colmare le carenze dello Stato. Secondo Colozzi, si potrebbe giungere alla conclusione che la presenza del terzo settore e di moltelici attori non sia considerabile come una forma di partecipazione alle politiche sociale, bensì la necessaria conseguenza alla contrazione della spesa pubblica2. Si tende dunque a far ricadere sul volontariato, sulle famiglie, sull'auto-mutuo aiuto e sul settore informale il peso delle risposte a bisogni sociali sempre più variegati e complessi, in particolare in una fase delicata come quella attuale. Per comprendere in che modo le politiche sociali si relazionano al periodo di profonda crisi che stiamo vivendo, mi pare opportuno però delineare nelle prossime pagine le caratteristiche principali della crisi mondiale e italiana, analizzando le fasi che ci hanno condotto alla situazione attuale. Il primo capitolo dunque sarà dedicato ad un breve excursus storico, volto a comprendere le caratteristiche della crisi attuale, prendendo però come spunto di analisi la crisi americana del '29. Infatti, molti dei fattori scatenanti la grande depressione, hanno dei punti in comune con il periodo di forte recessione che l'Europa e, anche l'Italia, sta attraversando. D'altra parte, la crisi economica e finanziaria attuale ha diverse particolarità, che comunque per alcuni aspetti la differenzia da quelle passate: in primo luogo l'ormai famoso debito pubblico dello Stato, il 2 M.Cocco, A.Merler, M.L.Piga, Il fare delle imprese solidali, in I.Colozzi (a cura di), Dal vecchio al nuovo welfare. Percorsi di una morfogenesi, Franco Angeli, Milano, 2012, p.74.

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rallentamento della crescita economica e un governo piuttosto instabile, che solo negli ultimi mesi, ha riacquistato la credibilità persa da tempo. Si analizzeranno tutti gli aspetti della crisi attuale, spiegando le tre fasi della stessa (boom, euforia e panico). La crisi economica partita dagli Stati Uniti e originatasi in seguito

alla

deregolamentazione

del

sistema

bancario

e

all'esplosione dei mutui subprime, in Italia si è manifestata con tutta la sua virulenza a partire dal 2008. Mentre nel 2010 si è registrata

una

leggera

ripresa

(probabilmente

data

più

dall'ottimismo diffuso dalla classe dirigente che dalla reale situazione del Paese), il 2011 ha segnato il ritorno all'instabilità finanziaria per tutta l'area euro, Italia compresa. Negli ultimi mesi si assiste ad un cambiamento nella psicologia collettiva del Paese e dello scenario politico, con un conseguente mutamento della politica economica e sociale. Inoltre non si possono tralasciare gli effetti che la crisi in atto ha prodotto a livello di popolazione, se pur in misura differente da paese a paese. Sono infatti i soggetti più deboli sotto il profilo economico e politico a risentire maggiormente del periodo di crisi che tutto il mondo sta attraversando. A mio avviso, solo analizzando i punti salienti di un periodo così critico è possibile riflettere sulle conseguenze che si manifestano nella società autentica, quella costituita dai lavoratori, singole persone, famiglie in difficoltà. Questa espressione rimanda al concetto di mondo della vita, particolarmente interessante nell'interpretazione fatta da Achille Ardigò. I mondi vitali quotidiani comprendono le relazioni intersoggettive caratterizzate da familiarità, amicizia, interazione continua, piena comprensione reciproca del senso dell'azione e

6


della

comunicazione3.

Nel

pensiero

di Ardigò

emerge

chiaramente una contrapposizione tra mondi vitali delle persone e sistemi sociali organizzati, riprendendo la dicotomizzazione concettuale di Habermas4. Secondo questo approccio, i due livelli

progrediscono

insieme

e

contemporaneamente,

influenzandosi vicendevolmente in un rapporto di ambivalenza, in cui per giungere ad una totale realizzazione, l'uno non può esistere senza l'altro. Quando i sistemi sociali invadono con la propria logica strumentale i mondi vitali, si verifica un processo di "colonizzazione" del mondo sociale, con la conseguente perdita di autonomia e consapevolezza. Si verifica una dipendenza dal sistema sociale che promuove una logica basata sull'assistenzialismo5. In un periodo così critico, la dipendenza dai sitemi di welfare non trova risposte adeguate perché, come già detto, i servizi non riescono a fronteggiare adeguatamente un numero di bisogni in continua crescita ed evoluzione. Nel secondo capitolo verranno affrontate le conseguenze della crisi da un punto di vista sociale oltre che economico. Tutto ciò è possibile partendo però da un'analisi concettuale sulla povertà: non è facile dare una definizione semplicistica del 3 A.Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna, 1980, p.15. 4 Habermas contrappone il sistema al mondo della vita. Con il termine sistema intende indicare gli aspetti sistemici, facendo riferimento alle norme giuridiche, all'organizzazione del mondo del lavoro o della società nel suo complesso, gli aspetti che regolano la vita sociale e strutturata: il sistema viene regolamentato dall'agire tecnico, strumentale e strategico, che trova i suoi elementi caratterizzanti nel denaro (sfera economica) e nel potere (sfera politica, burocratica e statale). Il mondo vitale è invece una dimensione caratterizzata dall'agire comunicativo, dai valori condivisi, dalle tradizioni. Con questo concetto identifica l'integrazione nella società degli aspetti soggettivi, ideali e culturali che caratterizzano la vita degli individui. Cfr. J.Habermas, Teoria dell'agire comunicativo, Il Mulino, Bologna, 1997. 5 G.Branca, A.Merler, L'ambivalenza svelata nelle politiche sociali. Il contributo critico di Achille Ardigò, in C.Cipolla, R.Cipriani, M.Colasanto, L.D'Alessandro (a cura di), Achille Ardigò e la sociologia, Franco Angeli, Milano, 2010, p.40.

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termine, in quanto, come si vedrà più avanti, a seconda del punto di vista preso in esame, si tratta di un concetto particolarmente complesso e variabile. La povertà non è una condizione statica ma si caratterizza per

il suo intrinseco dinamismo: essa può derivare dalla

combinazione

di

elementi

riconducibili

ad

esempio

all'insufficienza di reddito, alla mancata partecipazione al mercato del lavoro, ad una situazione di disagio familiare, all'inadeguatezza delle risorse personali e/o sociali. Dunque, le cause della povertà sono molteplici, ma in un periodo così critico si acuiscono maggiormente. Aumenta il numero dei nuovi poveri, persone che fino a qualche mese addietro erano in grado di

provvedere

almeno

in

minima

parte

alla

propria

sopravvivenza (perché in alcuni casi si tratta proprio di questo), così come si assiste ad una crescita del tasso di disoccupazione o dell'impiego precario. Tutto questo comporta

delle profonde

ripercussioni sul mercato del lavoro, innescando dinamiche che determinano una crescente dipendenza dai sistemi di welfare. Attraverso queste considerazioni sarà possibile comprendere in che modo le politiche sociali possono avere un ruolo attivo nell'ambito di una crisi economica che sta avendo effetti considerevoli non solo nella società, ma in particolare sulla vita di numerose persone, di cittadini onesti, lavoratori, intere famiglie che rischiano il collasso. Nononostante gli sforzi messi in atto dai servizi sociali, i tagli al quale il sistema di welfare italiano è sottoposto hanno effetti devastanti sulla popolazione. Dunque, lo scopo del terzo capitolo sarà quello di capire in che modo le politiche sociali ed economiche si pongono dinanzi alle criticità del periodo che stiamo vivendo, il tutto partendo da un'analisi dei sistemi di welfare, passati e presenti, tipici delle 8


moderne società capitalistiche. La crisi economica si intreccia alla profonda crisi dello stesso sistema di welfare, il tutto a scapito delle politiche sociali. Quest'ultime, come detto sopra, non riescono più a fronteggiare le numerose richieste ed esigenze dei cittadini; ciò che ne consegue è un clima di diffusa sfiducia verso le stesse istituzioni, incapaci di dare risposte adeguate. Attraverso questa lunga analisi, l'obiettivo è quello di comprendere non solo la dinamica degli eventi che hanno determinato l'attuale crisi economica, ma riflettere a posteriori sugli errori che sono stati fatti. Ecco che può tornare utile l'insegnamento ciceroniano sulla storia maestra di vita, per evitare di incorrere nuovamente in errori già fatti. Nonostante la criticità del periodo attuale, la speranza è sempre quella di un futuro migliore, non solo per le generazioni che verrano, ma anche per quelle attuali, che dovranno impegnarsi e lottare per risollevare un Paese che ha ancora tanto da dare. Credo sarebbe più utile domandarsi quali potrebbero essere i rimedi affinché la situazione non degeneri ulteriormente. Sarebbe conveniente iniziare a ragionare

meno

in

termini

economici

e

concentrarsi

maggiormente sulle cause e sulle conseguenze sociali della crisi, spesso offuscate dai dettagli economici e finanziari, che hanno lo scopo di distogliere e disorientare l'opinione pubblica dai problemi della popolazione.

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I Capitolo Crisi economica del Welfare State Il periodo che stiamo vivendo attualmente viene definito da numerosi economisti, politici, sociologi come la grande crisi, per sottolineare la gravità e la drammaticità di una fase della storia che sta avendo profonde ripercussioni non solo a livello economico ma anche sociale; ripercussioni che per intensità e durata hanno delle importanti analogie con la più grave crisi del XX secolo, la depressione del '29. Negli ultimi anni il mondo assiste ad un processo che ha cambiato profondamente il modo di vivere di numerose persone. Quella in atto è una crisi di portata globale che colpisce il lavoro, la produzione, influisce sui prezzi e, allo stesso tempo, rivoluziona l'assetto del mercato industriale. Dall'estate del 2007 il mondo è sconvolto dalla più grave crisi dal dopoguerra a oggi: le perdite si contano in migliaia di miliardi di dollari. Basti pensare che solo nel 2008 le borse hanno perso quasi 30 trilioni di dollari; questo calo ha avuto inizio a partire dalla metà del 2007, periodo preceduto da una fase di esplosione economica6. Dopo il terremoto finanziario che ha investito gli Stati Uniti, a causa della crisi dei mutui subprime e che, in ragione della mondializzazione dei mercati si è propagato in tutto il mondo, anche in Italia i segnali della crisi economica sono diventati conseguenze ormai tangibili. Gli stessi segnali sono stati avvertiti da numerosi economisti che, a differenza di altri, hanno sottovalutato l'approssimarsi del periodo di grande recessione che attualmente stiamo vivendo. Paolo Sylosos Labini, noto economista e in passato docente presso la Facoltà di Economia 6 G.Tabellini, Una cattiva politica dietro la crisi del mercato, in “Il Sole 24 ore”, 28-09-08.

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dell'Università di Sassari, in un articolo pubblicato nel 2003 nella rivista "Moneta e Credito", aveva espresso le sue preoccupazioni in merito agli sviluppi dell'economia americana, che, come sappiamo, condiziona l'economia di tutto il mondo, in particolare quella europea. Le preoccupazioni di Sylos Labini scaturivano dalle numerose analogie che individuava tra il periodo che l'America stava attraversando e la situazione che si era delineata nel Nuovo Continente alla fine degli anni '20, periodo che si concluse con la più grande depressione fino ad allora mai avventua

nella

storia

del

capitalismo

mondiale.

Le

preoccupazioni di Sylos Labini si focalizzavano in particolar modo sull'aumento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito e sulla crescita del debito, sia pubblico che privato (fenomeni di cui negli ultimi anni si sente sovente parlare)7. Luciano Gallino, agli inizi della crisi economica, individuava le cause della stessa sintettizzandole in un sistema "a piramide", in cui le fasi successive trovavano riscontro in quelle precedenti. I piani della piramide sono sostanzialmente quattro: a) Deregolamentazione del sistema finanziario, promossa dai governi e dunque dalla politica a partire dagli anni ’80; b) Sviluppo patologico del sistema finanziario mondiale, che ha comportato la trasformazione radicale delle funzioni e delle forme organizzative del sistema bancario, nuovi prodotti finanziari “complessi”, “strutturati” e “sintetici” spesso legati a nuovi modelli teorici di gestione del rischio; c) Debtonation, ossia la crisi scoppiata nell’estate del 2007 legata ai mutui subprime americani (di cui si parlerà ampiamente 7 P.Sylos Labini, Le prospettive dell'economia mondiale, in A.Roncaglia, Le origini culturali della crisi, in “Moneta e Credito”, vol. 63, n. 250, 2010, p.108.

11


nel paragrafo 1.1.a); d) Nuovo regime di produzione – il finanzcapitalismo – caratterizzato fra le altre cose da "una gigantesca redistribuzione di reddito dal basso verso l’alto, operata mediante tre strumenti: salari bassi e stagnanti; forte riduzione dell’imposizione fiscale effettiva sui redditi più alti; cospicua riduzione delle imposte effettivamente pagate dalle imprese"8. Il finanzcapitalismo, che ha contribuito ad indebolire in tutto il mondo un sistema di welfare piuttosto precario, viene definito da Gallino com una mega-macchina che è stata sviluppata negli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi9. Il finanzcapitalismo ha avuto come motore il sistema finanziaro, contrapponendosi dunque al precedente assetto o sistema industriale. I due generi di capitalismo differiscono sostanzialmente per il modo di accumulare capitale. Infatti mentre il sistema industriale, giunto all'apice nella prima metà del '900 si caratterizzava per la formula marxiana D1-M-D2 (denaro-produzione merci-denaro), la mega-macchina persegue l'accumulazione di capitale saltando la fase intermedia; il denaro dunque viene impiegato, investito e fatto circolare sui mercati finanziari allo scopo di produrre immediatamente una maggior quantità di denaro. La formula applicata si evolve in D1-D210. A causa di questa rivoluzione nella produzione e acquisizione del denaro si è giunti progressivamente ad una duplice conseguenza: da un lato l'espansione del sistema finanziario, 8 L.Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011. 9 Ibidem. 10 Ivi p.7.

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dall'altro la fragilità del sistema stesso. Nel primo caso si è assistito ad un aumento dell'attività delle banche e all'espansione del credito, fattori che hanno determinato un ampliamento della disponibilità di finanziamento per l'economia; tutto ciò ha innescato un processo che ha portato ad un indebolimento del sistema finanziario, il quale ha contribuito gradualmente alla crescita sempre più dirompente e incontrollabile della crisi economica, divenuta negli ultimi anni crisi societeria e crisi di civiltà.

1.1.

Origini della crisi

La crisi economica e finanziaria che il mondo sta attraversando dall'estate

del

2007,

potrebbe

essere

definita

molto

semplicisticamente come un insieme di eventi che hanno colpito e continuano a colpire quotidianamente in modi assai diversi centinaia di milioni di persone, con effetti devastanti sulla società e sulla quotidianità. In questa categoria vi rientrano coloro che hanno perso il lavoro poiché le loro aziende hanno fallito o chiuso, chi ha perso la casa perché insolvente nelle rate del mutuo, chi ha perso la vita perché travolto da una situazione sempre più drammatica. Prendendo spunto dalle parole di Gallino, c'è da domandarsi quali siano le origini e le cause della crisi. Noti economisti, sociologi e politologi hanno tentato di fornire una risposta a questa domanda, limitandola solamente a fattori economici. È possibile ricondurre le molteplici posizioni in merito in pochi punti che, per quanto possibile, forniscono un quadro più chiaro di quelli che sono stati i fattori scatenanti della crisi in atto: 13


- Una delle cause della crisi va ricercata nella carente o addiritura assente regolazione dei mercati finanziari e dei loro principali attori. La crisi ha avuto le sue radici culturali in un'impostazione teorica che ha favorito il laissez-fair non regolamentato. In parole povere questo principio si basa sull'assunto che meno regole portano ad un buon funzionamento dei mercati11. - La crisi è stata alimentata dalla fragilità sistemica dell'economia; essa infatti non è stata un ostacolo nella crescita del finanzcapitalismo o capitalismo dei mercati finanziari, piuttosto è risultata una conseguenza delle dinamiche interne dello stesso finanzcapitalismo12. - Lo sviluppo patologico della finanza mondiale, a partire dai primi anni '90, ha contribuito all'emergere accanto al tradizionale sistema bancocentrico, di uno spropositato sistema che prende il nome di "finanza-ombra", sottratto a ogni forma di tracciabilità e sorveglianza. Negli Stati Uniti la dimensione della finanza-ombra ha ormai superato quella del settore bancario regolato, nonostante la crisi finanziaria ha raggiunto nel 2011 i 15.000 miliardi di dollari. Nell'Unione Europea la dimensione della finanza-ombra è cresciuta nel periodo 2005- 2007 ad un tasso annuo del 20%, mentre le banche regolate crescevano ad un ritmo medio del 13%. Arrivata la crisi, la crescita del settore ombra ha rallentato; ma al 2011 le sue dimensioni sono di quasi 11.000 miliardi di euro. La finanza-ombra rappresenta oggi negli Stati Uniti il 53% del totale dell'intermediazione bancaria e finanziaria, mentre in Europa la sua quota è arrivata al 28%. Gli 11 L.Gallino, Op.Cit. p.12. 12 Ibidem.

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effetti della finanza-ombra si ripercuotono direttamente sulle politiche economiche provocando inefficacia ed incertezza nel meccanismo di trasmissione della politica monetaria, nonché nella regolamentazione e vigilanza, con effetti che si propagano da un sistema finanziario all'altro13. - La crisi è dovuta ad un'eccessiva concessione di mutui per la casa, in particolare in USA, a famiglie che in realtà non erano in grado di far fronte al debito contratto. Di conseguenza, l'insolvenza di milioni di proprietari, ha messo in ginocchio un numero sempre più cospicuo di banche ed enti finanziari, come società che assicuravano i creditori dal rischio di insolvenza dei debitori; grazie alla concessione dei mutui subprime, anche coloro che in passato non avrebbero mai potuto avere accesso al credito, in queste condizioni avrebbero potuto ottenerlo. Inizialmente la crisi è nata come finanziaria e, precisamente, ha iniziato col colpire il mercato del credito e dei subprime. Infatti negli anni precedenti allo scoppio della bolla immobiliare è stato concesso credito a tassi molto bassi a soggetti che di fatto non potevano assicurare nessuna garanzia nella restituzione del debito.

Tale crisi finanziaria è stata innescata in particolare

dall'inadeguatezza di un particolare tipo di mutui immobiliari ipotecari, concessi ai clienti al di sotto (sub) degli standard dei clienti prime (coloro i cui redditi sono abbastanza elevati da rendere del tutto normale il pagamento della rata). Tutto ciò ha avuto il suo epicentro negli Stati Uniti, i quali vantavano da circa 15-20 anni una crescita economica molto 13 D.Masciandaro, in La finanza-ombra e i suoi fantasmi, in “Il Sole 24 ore”, 12 maggio 2012, in www.ilsole24ore.com, ultima consultazione 22-09-12.

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veloce. Gli Stati Uniti erano caratterizzati da una domanda di beni di consumo sempre crescente; le famiglie americane consumavano più di quanto producevano e questo è stato favorito sia dalla globalizzazione che permetteva l’indebitamento presso altri Stati, ma anche dalla politica monetaria della Federal Reserve System (Banca Centrale Americana), che ha tenuto i tassi di interesse molto bassi. Così l’indebitamento delle famiglie americane ha superato il reddito disponibile al punto che nel 2007 arrivò a toccare il 140% del PIL. Pertanto, allo scoppio della bolla speculativa nel mercato azionario del 2001, gli Stati Uniti si sono trovati in una fase di recessione, al punto che la Fed decise di abbassare il tasso di interesse, per dare un impulso alla ripresa dell’economia. Così in America si avviò un altro periodo prosperoso caratterizzato però allo stesso tempo dal crescere delle tre grandi bolle speculative: quella delle azioni (in particolare tecnologiche), quella delle fusioni e acquisizioni e quella delle case. Si inizia a parlare dunque di Debtonation, parola usata dalla nota economista inglese Ann Pettifor14 per indicare i drammatici eventi che si sono susseguiti a partire dall'estate 2007, periodo che come ribadito più volte, coincide con l'inizio della crisi tutt'oggi in corso.

1.1.a Dai mutui subprime alla crisi economica E' possibile spiegare l'evolversi della strategia governativa e bancaria a favore dei mutui subprime che poi ha portato allo scoppio della crisi economica in poche ma significative righe. Tali mutui, definiti anche prestiti immobiliari concessi a 14 A.Pettifor, Debtonation: How Globalisation www.opendemocracy.net, ultima consultazione 25-11-2012.

Dies,

in

16


soggetti a grave rischio di insolvenza, sono stati la causa del tracollo del sistema finanziario mondiale. Ben presto, attraverso la tecnica della titolarizzazione o cartolizzazione15, si iniziò a trasformare il credito concesso da una banca ad una famiglia o ad una impresa in titolo commerciabile. Il boom dei prestiti, in particolare di quelli immobiliari coincise dunque con una svolta radicale nel modus operandi delle banche, a partire dalle grandi banche americane16. Questa svolta radicale ben presto portò allo scoppio della bolla immobiliare creata dalle banche statunitensi e che nel giro di poco tempo, travolse le banche di tutto il mondo. Attraverso la tecnica della cartolarizzazione, con i titoli delle banche venduti e acquistati nelle borse, le banche stesse potevano rifinanziare a nuovi debitori un nuovo prestito utile per la concessione di altri mutui subprime. Gradualmente si innesca un vero e proprio circolo vizioso. La crisi finanziaria si traduce in crisi dell'economia reale, reale poiché ad essere colpiti sono in particolar modo famiglie, imprese, società e banche che hanno creduto e investito in un sistema solido solo all'apparenza. E poiché l'economia americana influisce e condiziona quella mondiale, in poco tempo a risentirne è stato il sistema economico e finanziario europeo. Infatti, l'ondata di perdite partita dagli Stati Uniti, si è diffusa rapidamente anche nei paesi dell'UE, in cui a risentirne sono stati in particolare Inghilterra, Francia, Svizzera e Germania; negli ultimi anni Spagna, Italia, Grecia e Portogallo. 15 La cartolarizzazione, dall'inglese securitization, è una operazione finanziaria che consiste nella cessione di attività o beni di società o aziende, attraverso l'emissione di titoli azionari. Questi beni sono generalmente crediti. I crediti vengono ceduti a terzi (cosiddette società veicolo) che emettono titoli negoziabili sul mercato dei capitali. In Italia, la titolarizzazione dei crediti è stata disciplinata dalla legge n.130/99 dal titolo “Disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti”. 16 M.Onado, I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Laterza, Bari, 2009.

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In poco più di un anno dall'inizio della crisi, la distribuzione del valore indotta dalla “crisi dei subprime” è arrivata a superare i 25 trilioni di dollari, quasi la metà del PIL mondiale del 200717.

1.2. Le tre fasi della crisi: boom, euforia e panico La crisi in corso, denominata anche crisi dell'economia capitalistica, non è un evento unico o raro. Nel corso della storia sono stati molteplici i periodi di collasso finanziario che hanno colpito in modo più o meno significativo numerosi paesi del mondo. In particolare a partire dalla prima metà dell'Ottocento, le crisi dell'economia capitalistica sono diventate piuttosto frequenti, seguendo talvolta un corso ciclico. Inoltre, da questa epoca in poi, le crisi che si sono susseguite nel corso del IX e XX secolo sono state diverse rispetto a quelle generatesi nelle economie precapitalistiche. Mentre nelle società antiche si manifestavano sotto forma di carestie, spesso provocate da eventi naturali o epidemie -con effetti deleteri sullo sviluppo demografico-, le crisi attuali, al contrario, sono alimentate dall'abbondanza e dall'eccesso di produzione, che non trova luogo nel mercato, generando dunque un surplus di merci invendute. Comunemente per crisi economica si intende un periodo di tempo in cui si verifica una brusca e prolungata caduta dei livelli di attività economica. Spesso si parla di “durata della crisi”, espressione con cui si intende un periodo intervallato dalla sequenzialità delle fasi che compongono un ciclo economico. Queste fasi contraddistinguono quasi tutte le crisi che si sono susseguite nel corso della storia, ponendole a confronto l'una con 17 L.Gallino, Op.Cit. p.12.

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l'altra. È compito degli economisti studiare e analizzare i processi e le fasi di una crisi e gli elementi che caratterizzano i cicli economici. Nella prima fase, quella dell'espansione, il PIL cresce rapidamente fino ad un periodo di boom, in cui si assiste ad un incremento dei prezzi, delle attività economiche e degli investimenti, che si traducono in una crescita proporzionale del reddito. La domanda dei beni aumenta, le imprese realizzano maggiori profitti, la disoccupazione diminuisce. Tutto ciò determina un aumento della produzione, che ha come conseguenza la crescita dell’offerta e quindi della domanda, secondo la logica che la produzione distribuisce reddito. In questa fase, quindi, la produzione tenderebbe ad aumentare sempre di più perché aumenta anche la domanda di beni. Questo andamento però non continua all’infinito. Nella seconda fase, quella della recessione, si interrompe il movimento ascensionale e di crescita. La situazione può essere ulteriormente aggravata dalla concomitanza di una recessione a livello mondiale. Solitamente durante un periodo di recessione si rilevano bassi livelli di attività produttiva, un aumento della disoccupazione, una diminuzione del tasso di interesse in seguito alla riduzione della domanda e del credito da parte delle imprese. In questa fase si registra un rallentamento del tasso di inflazione, causato dalla diminuzione della domanda di beni e servizi da parte dei consumatori, una riduzione della domanda di credito da parte delle imprese18. La recessione può indurre o scivolare nella depressione. La domanda che aveva alimentato la fase di espansione tende a contrarsi generando una diminuzione degli investimenti come conseguenza della contrazione della domanda 18 Si parla di recessione tecnica quando il PIL del paese diminuisce per almeno due trimestri consecutivi.

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e dei maggiori interessi richiesti dalle banche per concedere finanziamenti.

Ma anche la depressione, con la conseguente

contrazione dell'attività economica, non può durare all'infinito. Con la ripresa il PIL inizia a crescere, gli imprenditori si accorgono che la produzione è scesa sotto la possibilità di assorbimento della domanda e nel sistema inizia a diffondersi un segnale

di

ottimismo.

La

politica

monetaria

espansiva,

eventualmente adottata dalla classe dirigente, favorisce la ripresa. Nella realtà i cicli economici non presentano un andamento lineare come quello descritto. Può accadere che durante una fase di depressione vi sia un parziale recupero, il quale però non determina un'inversione di tendenza così come può accadere che durante una fase di espansione vi siano delle cadute seguite da un rapido recupero. Questi quattro momenti possono coincidere sostanzialmente con le tre fasi definite da Charles P. Kindleberger: boom, euforia e panico19. In questa sede, discutere della periodicità e dei cicli della crisi comporterebbe perdere di vista l'oggetto dell'analisi, ossia cercare di analizzare le fasi di una crisi per applicarle a quella attuale. Ma in breve, prendendo spunto dal saggio Euforia e Panico, si può affermare che la ciclicità di una crisi non segue un andamento costante, in quanto si parla di cicli di trentanove mesi o di setteotto anni. Più in generale gli studiosi sono giunti alla conclusione che le crisi sopraggiunte nella prima metà del XIX secolo sono intervallate da un periodo pari ad una decade (1816, 1826, 1837, 1847, 1857, 1866), per assumere successivamente un andamento più irregolare20. 19 C.P.Kindleberger, Euforia e Panico. Storia delle crisi finanziarie, Laterza, Bari, 1981. 20 Ivi p.14.

20


Tra un ciclo e l’altro si verificano mutamenti che modificano in profondità la struttura economica di un paese; tali mutamenti, talvolta di grande portata, si verificano proprio nel corso di una crisi. Di conseguenza, quando l'economia, passando da un ciclo all’altro, si trova ad un livello superiore di occupazione, produzione e reddito, l’andamento crescente viene rappresentato da una linea di tendenza, quella che tecnicamente gli economisti chiamano “trend”. Questa è la fase dell'euforia, caratterizzata dalla ripresa economica di un paese. Molto semplicisticamente si può affermare che durante il periodo di ripresa, occupazione, produzione, prezzi e reddito crescono fino a raggiungere un punto di massima nella fase di espansione, mentre durante la fase di recessione, al contrario, queste diminuiscono fino a raggiungere il livello minimo nella depressione. Dopo questa fase, di solito, comincia una nuova ripresa. Ovviamente non tutti i cicli economici si ripetono con la medesima regolarità e, di conseguenza le fasi che compongono un ciclo non sono sempre del tutto lineari. Ma la fase dell'euforia, non potrebbe aver luogo senza un fattore scatenante, un evento i cui effetti determinano il susseguirsi dei cicli economici. Per analizzare la variabilità delle fasi, Kindleberger utilizza come chiave interpretativa la teoria di Minsky, -noto economica statunitense-,

il

cui

modello

si

presta

efficacemente

all'interpretazione della crisi economica e finanziaria. Secondo Minsky, gli eventi che conducono ad una crisi iniziano con uno “spostamento”,

ossia

una

forza

esterna

al

sistema

macroeconomico, la cui natura varia da un “boom” all'altro. Questo evento esterno può essere lo scoppio o la fine di una guerra,

un'invenzione

con

effetti

rivoluzionari

(ferrovie,

automobile, TV o internet), un avvenimento politico o un 21


successo finanziario, la cessione di crediti a basso tasso di interesse. Qualunque sia la sua origine, tale spostamento, purché ampio e pervasivo, altererà le prospettive economiche di un paese, facendo variare o riducendo le opportunità di profitto in almeno un settore importante dell'economia21. Ci troviamo nella fase del cosiddetto boom. È importante sottolineare che nel modello di Minsky, il boom è alimentato da un'espansione del credito bancario (aspetto che rende facilmente applicabile il modello in esame all'attuale crisi in corso), espandendo l'offerta totale di moneta22. Nelle fasi espansive le aspettative degli imprenditori sono più ottimistiche, dunque si diffonde la tendenza a fare ricorso al credito per finanziare gli investimenti. Al contempo, aumenta la propensione a concedere prestiti, giacché aumenta la fiducia dei creditori che tendono a rivedere al ribasso il rischio di insolvenza.

Questa

dinamica

si

inverte

nei

periodi

di

rallentamento dell'economia. Nell'ottica di Minsky, questo andamento ciclico costituisce un elemento di fragilità dei mercati finanziari, dunque aumenta la possibilità che si verifichino crisi economiche. Nelle economie moderne, questo può comportare 21 C.P.Kindleberger, Op.Cit., p.20. 22 Il modello di Minsky, pur considerando la diversità dei fattori che hanno generato la crisi attuale, rappresenta un valido contributo dell'analisi delle cause che hanno portato allo scoppio dell'attuale crisi economica e finanziaria. Nella crisi in atto, i riferimenti alla teoria di Minsky si sono moltiplicati. Si può discutere se la crisi abbia seguito esattamente il percorso indicato da tale teoria, Minsky concentrava l’attenzione su una catena di nessi di causa ed effetto che collega il settore finanziario a quello industriale. Quel che è certo è che la teoria di Minsky fornisce elementi fondamentali per comprendere la situazione attuale e intervenire su di essa. L’idea di una fragilità finanziaria che tende a crescere nei periodi “normali” e che esplode in crisi sempre più violente man mano che in base all’esperienza precedente; gli operatori si persuadono che lo Stato interverrà a salvare la situazione; l’idea della necessità di una regolamentazione dei mercati finanziari per impedire la crescita continua della fragilità finanziaria; l’idea che la politica economica debba prestare molta attenzione non solo all’andamento del reddito e dell’inflazione ma anche ai prezzi. A.Roncaglia, Hyman, Minsky e la Crisi, in www.temi.repubblica.it, ultima consultazione 25-11-2012.

22


-come avvenne per esempio negli anni '20 del secolo scorso- la nascita di nuove banche; tutto ciò può determinare un incremento dei sistemi creditizi o la diffusione di nuovi strumenti finanziari. Questa dinamica può stimolare un clima di “euforia” che alimenta le attività speculative e dunque, la possibilità che si vengano a creare bolle di diversa natura (immobiliari, finanziarie, ecc)23. Secondo

l'economista

statunitense

però,

i

problemi

fondamentali di politica economica riguardano i metodi per controllare i vari canali dell'espansione monetaria, in quanto è su questo versante che si realizza una spinta alle speculazioni, le quali potrebbero tradursi in aumento della domanda di beni e attività finanziarie. In questa fase i prezzi aumentano, dando luogo a nuove opportunità di profitti e attraendo imprese e investitori. Si sviluppa un effetto che Minsky definisce come retroattivo-positivo, un periodo di “euforia”, coincidente con la fase della ripresa-espansione del ciclo economico, una fase di prosperità in cui aumenta il tasso di attività e produzione. In un momento come questo, subentra la speculazione sugli aumenti dei prezzi e sugli investimenti per la produzione e la vendita. Questi comportamenti, che solitamente si sviluppano in un solo paese (è il caso degli Stati Uniti) tendono con il tempo a propagarsi da uno stato all'altro. Con il procedere del boom speculativo, saggi di interesse e prezzi continuano ad aumentare, generando gradualmente una contrazione dell'apparato produttivo, nonché una diminuzione degli investimenti. Tutto ciò determina pertanto un calo della produzione, dell'occupazione e dei redditi, determinando un periodo di “disagio finanziario”, che da luogo alla fase del panico 23 A.Vargiu, La ricerca sociologica tra valutazione e impegno civico, Franco Angeli, Milano, 2012.

23


o della recessione e depressione. Il termine “disagio” ha pertanto una duplice accezione: uno indicante il malessere e ricollegabile al disagio commerciale più che finanziario, caratterizzato da una brusca diminuzione dei prezzi e dell'attività economica, con il conseguente fallimento di imprese industriali e commerciali. Il secondo significato si riferisce al pericolo e in questo caso fa riferimento al disagio finanziario, il quale comporta una diminuzione nella capacità di guadagno delle imprese, tale da rendere concreta la probabilità di insolvenza nel pagamento del debito contratto24. Questo termine, quando si parla di crisi finanziarie, viene adoperato per descrivere l'intervallo tra la fine della fase di euforia e il sorgere di quello che Kindleberger definisce “crollo” o “panico”; la durata della fase di malessere (altra espressione gergale utilizzata dagli economisti per indicare il disagio) è variabile. E' importante precisare che può esserci disagio senza panico o disagio con conseguente crollo. In quest'ultimo caso, il lasso di tempo che separa i due periodi può variare da crisi a crisi, in quanto si potrebbe prospettare un intervallo di tempo di settimane o persino di anni. Allo stesso modo, nel corso di una crisi finanziaria, può subentrare l'uno o l'altro o entrambi, in qualsiasi ordine. Questo è ciò che accadde nel 1929 alla borsa di New York25. Purtroppo, quando la crisi sfocia nella depressione, la drastica contrazione dell’apparato produttivo determina in seguito un’insufficienza di offerta rispetto alla domanda. La mancata restituzione dei prestiti innesca la crisi, che viene aggravata da un aumento dei tassi d’interesse e dell’avversione al rischio degli 24 Minsky H., Can it happen again? Essays on instability and finance, Sharpe, New York, 1982. 25 C.P.Kindleberger, Op.Cit., p.20.

24


operatori. In una situazione in cui sono diffuse le posizioni speculative, il fallimento di poche unità trascina le altre nella crisi finanziaria. A quest’ultima fase segue la deflazione da debiti e la depressione economica26. Gradualmente, l’eccesso di domanda sull’offerta provoca, come detto prima, un aumento dei prezzi, un accrescimento del tasso di attività e un aumento dei margini di profitto. Il miglioramento delle aspettative degli imprenditori, insieme ad una crescita del profitto, porta ad un incremento degli investimenti. Inizia quindi una nuova ripresa e il ciclo economico riprende il suo corso secondo la modalità già descritta sopra. Ovviamente un ciclo economico può differenziarsi da un altro per numerose variabili, quali per esempio il credito, i mercati finanziari e le tipologie di mercato, elementi che influenzano la variabilità della crisi in corso.

1.3

“Modello di Minsky” per un'analisi dell'attuale crisi

economica Il modello di Minsky utilizzato nel paragrafo precedente, può fornire un utile spunto nell'interpretazione e nell'analisi della crisi economica in corso, cercando di comprendere i problemi che possono ostacolarne il superamento o dar luogo ad ulteriori difficoltà. La teoria dell'economista statunitense potrebbe essere definita una teoria della fragilità finanziaria, delle crisi, dell'evoluzione del capitalismo. Si possono applicare queste tre definizioni all'attuale crisi in corso. 26 D.B.Silipo, Minsky e la crisi finanziaria, www.ecostat.unical.it, ultima consultazione 10-08-12.

25


La teoria della fragilità finanziaria si basa sulla distinzione tra diversi tipi di posizioni di bilancio. Da un lato infatti le persone o le famiglie si indebitano con le banche per acquisire un'attività, reale o finanziaria, ma il reddito atteso è superiore alle rate di restituzione del debito (ammortamento). Il flusso di reddito risulta insufficiente per pagare le rate dell'ammortamento del debito, il quale potrà essere estinto in seguito ponendo a garanzia le attività acquisite attraverso il prestito -generando però una sorta

di speculazione-. D'altra

parte

l'attività

acquistata

indebitandosi non genera reddito o lo genera in misura sufficiente a coprire gli interessi sul debito. Dunque l'attività acquistata viene venduta, ma se il prezzo della vendita calasse, il venditore incontrerebbe problemi di liquidità e solvibilità. Inoltre, per fronteggiare la mancata restituzione del credito alle banche ed evitare il fallimento, le banche centrali intervengono attivando un sistema di protezione. Questo è quanto accaduto in America con i mutui subprime, che, come spiegato nel paragrafo 1.1.a, furono concessi dalle banche a tassi bassissimi di interesse ad investitori ad elevato rischio di insolvenza. Si fa riferimento ad una teoria della crisi per indicare un clima economico piuttosto negativo, il quale subentra dopo un periodo positivo. In questo caso la crisi può esplodere con violenza inattesa, attraverso un'ondata di fallimenti che colpiscono chi aveva assunto un rischio più elevato di liquidità. Secondo Minsky, l'origine dell'ondata di fallimenti può essere costituita da un rialzo dei tassi di interesse reso inevitabile dall'inflazione; di fronte ad una crisi finanziaria, le autorità di politica economica intervengono per contenerne gli effetti, evitando fenomeni di contagio27. 27 A.Roncaglia, Le regole del gioco, l'instabilità e le crisi, in “Moneta e Credito”, vol.62 nn.245-248, 2009, p.7.

26


Quando si parla di evoluzione del capitalismo, Minsky fa riferimento al passaggio da un capitalismo imprenditoriale -in cui i protagonisti dell'attività economica sono stati sostanzialmente gli imprenditori- ad un capitalismo dei gestori del mercato monetario, in cui i manager pongono l'attenzione sull'evoluzione e l'andamento dei mercati. Si verifica quel fenomeno che porta alla cosiddetta finanziarizzazione dell'economia, un processo che ha subito un notevole incremento nel corso dell'ultimo trentennio. La fragilità del sistema economico-finanziario su scala globale è certamente acuita dall'enorme crescita delle attività finanziarie rispetto alle dimensioni dell'economia reale. Le origini dell'attuale crisi, non sono esclusivamente di natura economica, ma risiedono in scelte politiche generatesi anche in seguito ad uno stretto intreccio tra interessi economico-finanziari e potere politico. Tutto ciò a dato avvio ad un processo di deregolamentazione, il quale è avvenuto in parallelo con l'aumento delle disuguaglianze economiche.

1.4

La crisi nel contesto italiano Il terremoto finanziario verificatosi negli Stati Uniti a causa

della crisi dei mutui subprime, per effetto della mondializzazione dei mercati, si è propagato in tutto il mondo, con gravi ripercusioni anche in Italia. Quelli che fino al 2008 erano sono segnali, oggi sono conseguenze che attraversano tutto il paese, da nord a sud. Non si tratta di un fatto nuovo in quanto è ormai da alcuni decenni che il nostro Paese attraversa una congiuntura economica 27


piuttosto difficile, scaturita principalmente dell'enorme debito pubblico accumulato a partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Tuttavia, attualmente la situazione sembra essersi aggravata. Le stime preliminari della crescita del PIL del quarto trimestre 2011 certificavano che l'economia europea era entrata in una fase di recessione; l’Italia, con il -0,7% nel dicembre dello stesso anno28 presentò il dato peggiore di tutti i paesi, escludendo il caso della Grecia destinata insieme al Portogallo ad essere uno dei paesi con una crescita più bassa di tutto il Vecchio Continente. Fondamentalmente, alcune delle cause che contraddistinguono la crisi economica italiana sono: –

i debiti dello Stato;

il ristagno dell'economia;

la scarsa credibilità dei governanti. Tutto ciò ha avuto e sta avendo delle profonde ripercussioni

sulla popolazione, aspetto che verrà approfondito nei prossimi capitoli. Anche i dati e i numeri che valideranno la mia analisi, serviranno per comprendere meglio la drammaticità della crisi in atto, che dagli Stati Uniti, nel giro di pochi anni si è diffusa nel resto del mondo, in particolare piegando l'economia dell'Europa e degli Stati più fragili che la compongono. Nonostante si profili un'uscita dalla crisi intorno al 2014, è stato stimato che i suoi effetti negativi, in termini di livelli della disoccupazione, abbassamento degli standard di protezione sociale e altri parametri, dureranno per parecchi anni, probabilmente fino al 2018-2020. 28 Eurostat, Rapporto Eurostat, febbraio 2012.

28


Ciò che personalmente mi preoccupa è che sono i soggetti più deboli sotto il profilo economico e politico e risentire maggiormente della crisi in corso. La domanda ricorrente è se si poteva evitare di giungere ad un punto così critico, una fase quasi senza ritorno. Se forse la precedente classe dirigente non avesse incantato parte della popolazione e dell'opinione pubblica con un falso ottimismo e false speranze, le cose sarebbero potute andare diversamente? La speranza che alcuni si sentono di condividere è che la crisi economica che sta mettendo in ginocchio l'Italia possa rappresentare un'opportunità per rifondare la nostra economia, non dimenticando gli errori che sono stati commessi in passato.

29


II Capitolo Effetti sociali della crisi economica

A quattro anni dall'inizio della crisi economica, le conseguenze

sono devastanti e gli effetti molteplici. Per

comprenderne la gravità, è importante analizzarli sia dal punto di vista economico, ma anche e soprattutto sotto il profilo sociale, culturale e morale. Da quanto si evince nel capitolo precedente, il bilancio della crisi -economicamente parlando- è disastroso: il debito privato delle famiglie americane ha portato ad un sovra-indebitamento del settore bancario. Le banche, dunque, sono state "salvate" dagli Stati e la conseguenza è stata la crescita del debito pubblico che non ha risparmiato nessun paese del continente europeo, Italia compresa. Secondo le stime di un rapporto del Fondo Monetario Internazionale (FMI) del settembre 2011, l'ammontare complessivo dei fondi pubblici trasferiti alle banche per evitare il tracollo finanziario si aggira a più di 200 miliardi di euro. Tale importo, in parte, consente di comprendere l'entità della crescita della "spesa pubblica". Dal punto di vista economico, tutto ciò ha determinato

un

processo

di

crescente

finanziarizzazione

dell'economia, derivata dalla deregolazione dei movimenti di capitali all'interno degli Stati29. La crisi dunque ha generato due particolari conseguenze sociali negative: da un lato l'aumento dei costi della finanza pubblica e delle misure a sostegno del sistema creditizio che hanno distorto le priorità di spesa riducendo le risorse a sostegno dei sistemi di welfare, dall'altro ha determinato un rallentamento dell'attività

economica

producendo

pesanti

conseguenze

29 A.Martinelli, Crisi economica: cause e conseguenze sociali, www.mpssolidarieta.ch, ultima consultazione 21-10-12.

30


occupazionali, come la perdita di posti di lavoro esistenti o la mancata creazione di nuovi. Si potrebbe definire la crisi in corso -come del resto tutte le crisi economiche che si sono susseguite nel corso della storiacome poco democratica, nel senso che essa non colpisce egualmente ricchi e poveri, ma porta ad un accrescimento delle differenze e ad un allargamento dell’area del disagio economico e della povertà. Infatti sono i gruppi sociali appartenenti ai ceti medi o bassi che stanno pagando e pagheranno le conseguenze della crisi, sia pure in misura diversa da un paese all'altro. Sono, in generale, i soggetti più deboli sotto il profilo economico e politico. Ossia i lavoratori aventi qualifiche professionali medie e basse, disoccupati di lunga durata, lavoratori precari, giovani, donne, anziani, poveri30. Parte di queste problematiche verranno affrontate nei paragrafi successivi. Naturalmente l'ampiezza e la complessità della tematica non mi consentiranno di analizzare ogni singola conseguenza sociale derivante dalla crisi in atto. Mi pare opportuno partire dal concetto di povertà, in quanto la crisi ha determinato un aumento nel livello di indigenza, non solo negli Stati Uniti, ma più in generale in tutti i paesi dell'Unione Europea, Italia compresa. La crisi economica ha avuto e sta avendo

profonde

ripercussioni

sull'occupazione

e

disoccupazione, con gravissime conseguenze sul mercato del lavoro, ormai suscettibile di numerosi cambiamenti.

30 L.Gallino, Op.Cit., p.12.

31


2.1

Disuguaglianza sociale e nuove povertà Esistono dei fenomeni sociali particolarmente complessi e

difficilmente contenibili in categorie descrittive standardizzate. La povertà è uno di questi. Sono numerose le persone vittime della povertà generata dalla crisi economica e finanziaria a partire dal 2008. Tale crisi ha modificato profondamente l'assetto della nostra società, determinando una modificazione delle classi sociali. Prima di analizzare gli effetti prodotti dalla crisi, è importante soffermarsi sul significato del termine povertà, per anni oggetto di studi da parte di sociologi, politologi ed economisti, i quali hanno studiato la natura multidimensionale e fattoriale di un fenomeno così complesso. Definire la povertà è un compito tutt'altro che semplice. Nel linguaggio

comune

questo

termine

viene

utilizzato,

apparentemente in modo univoco, per indicare una condizione di scarsità di risorse; ma ad una riflessione più attenta risulta evidente come il fenomeno si presta a differenti interpretazioni. Proprio per la sua complessità, l'analisi della povertà ha da sempre incontrato delle difficoltà sia nella definizione del concetto, sia nella scelta dei criteri da impiegare per la sua rilevazione31. Per quanto il termine povertà venga usato in modi differenti, vi sono dei tratti che vincolano la natura stessa del concetto; si può trattare la questione sia da un punto di vista descrittivo, sia in termini di politiche sociali. Per quanto riguarda il primo aspetto, l'identificazione della povertà consiste nel riconoscere l'esistenza della stessa e delle sue dimensioni. Come affermato dal premio nobel indiano per l'economia Amartya K. Sen, in primo luogo si 31 M. Dal Pra Ponticelli, Dizionario di servizio sociale, Carocci Faber, Roma, 2007.

32


tratta di decidere chi è davvero deprivato, sulla base dei criteri descrittivi e di giudizio prevalenti nella società. Nel secondo caso la povertà si identifica con una raccomandazione di politica pubblica, ossia con l'identificazione dell'obiettivo dell'azione pubblica32. In altre parole, il primo passo consiste nell'identificare la deprivazione per poi stabilire quali scelte dovrebbero essere adottate in termini di politica pubblica se si disponesse dei mezzi adeguati. Sempre più spesso si rimarca la natura multidimensionale e complessa di questo fenomeno sociale ed economico. Sul fronte concettuale, sono diverse le dicotomie presenti nella letteratura. Si parla di povertà assoluta e relativa, oggettiva e soggettiva, statica e dinamica, quantitativa e qualitativa, ecc; tutte queste accezioni non solo arricchiscono la letteratura in merito, ma aiutano a comprendere la vastità e complessità del fenomeno. Quando si parla di povertà assoluta, si fa riferimento ad un concetto di deprivazione inerente la sfera dei bisogni primari, il cui mancato soddisfacimento rischia di pregiudicare la stessa efficienza fisica dell'individuo. In questa prospettiva, povero è chi non è in grado di garantirsi un fabbisogno nutrizionale minimo, chi non ha di che coprirsi, chi non dispone di un'abitazione. Quando invece si fa riferimento al concetto di povertà relativa, si adotta uno schema di analisi in cui la deprivazione è vista come un fenomeno sociale, strettamente connesso ad un preciso momento storico, geografico e culturale. Dunque, il problema della povertà relativa si intreccia con quello fondamentale della disuguaglianza sociale. In entrambi i casi, i principali fattori della deprivazione vanno ricercati nell'ambito dell'organizzazione sociale, in quanto sono l'effetto diretto di una ineguaglianza

sociale

che

trae

origine

dalla

diseguale

32 A.K.Sen, La disuguaglianza, Il Mulino, Bologna, 2010, pp.151-152.

33


distribuzione, non solo delle risorse, ma anche delle opportunità. Ecco

che

l'intensità

della

povertà,

così

come

le

sue

caratteristiche, saranno diverse a seconda del momento storico e del contesto specifico preso in esame33. Questa premessa ci porta ad una ulteriore differenziazione in quanto l'analisi sulla deprivazione non può essere indipendente dalla società in cui essa viene esaminata. Sen afferma che quel che si intende per terribile deprivazione varia da società a società, ma dal punto di vista dello studioso di fatti sociali, queste variazioni richiedono una certa oggettività34. Possiamo dunque individuare un altro importante approccio, quello sulla povertà oggettiva e soggettiva. Secondo Giancarlo Rovati, si deve partire dal presupposto logico che difficilmente si è in grado di giudicare la condizione di vita delle persone così come potrebbero fare i diretti interessati: dunque è povero chi si sente povero, in base ai propri giudizi di valore. 35 Attraverso questo approccio non si fissa a priori la soglia della povertà, ma si cerca di dedurre le condizioni di deprivazione sulla base della percezione soggettiva degli interessati. Dunque si possono sottoporre dei quesiti agli stessi, così da giungere ad una maggiore comprensione di quella che è la povertà assoluta o relativa, agli occhi e sulla pelle di chi la vive. Per quanto riguarda il primo aspetto, si fa riferimento ai bisogni essenziali, alla disponibilità di un'abitazione, alle condizioni igieniche e alle possibilità di accesso ai servizi sanitari e all'istruzione; al contrario, quando si parla di overall poverty ci si focalizza su 33 G.Rovati, Le dimensioni della povertà, Carocci, Roma, 2006. 34 A.K.Sen, Op.Cit. p.33. 35 G.Rovati, Op.Cit., p.34, p.47. Ovviamente nella rilevazione della condizione di deprivazione da parte dei diretti interessati, si presume l'utilizzo di un criterio oggettivo. La diversa percezione che gli individui possono avere in merito al loro stato, agli aspetti emozionali, psicologici e sociali, le discrepanze tra situazione vissuta e aspirazioni personali sono alcuni dei problemi che questo tipo di impostazione deve affrontare, in relazione anche alla società in cui viene effettuata la rilevazione.

34


quei bisogni definiti da Maslow come secondari: vivere in un ambiente sicuro, partecipare alla vita sociale, affermarsi nel proprio lavoro, accedere a diverse opportunità, ecc. Come si può notare, questa seconda definizione, rimanda a quella di povertà relativa

proprio

per

la

tipologia

di

bisogni

presi

in

considerazione, i quali non possono prescindere dal contesto sociale di riferimento 36. Ovviamente, l'impostazione oggettiva e soggettiva della povertà, così come l'esistenza di variazioni sociali, non esclude una concezione univoca del termine. Tutti i vari significati che si attribuiscono al fenomeno povertà, non hanno modificato la centralità del concetto di deprivazione come tratto caratterizzante la condizione di disagio economico. E' l'inaccessibilità alle risorse necessarie per la soddisfazione dei bisogni, da quelli essenziali per la stessa sopravvivenza a quelli relazionali e ricreativi, a fare di alcuni individui dei poveri. Dunque la povertà altro non è che mancanza di possibilità economiche e di status, le quali determinano condizioni penalizzanti e di svantaggio permanenti o temporanee per certe categorie o gruppi di persone37. Come ormai si è potuto capire, il concetto di povertà appare segmentato al suo interno, tanto da comprendere deprivazioni stabili nel tempo e condizioni più fluide; infatti alla povertà di lungo periodo si affianca una povertà breve come esperienza di vita, che coinvolge famiglie solo in limitati periodi di tempo, una 36 Nel 2000 la Banca Mondiale, in occasione del rapporto annuale sulla povertà, il World Developement Report, si è avvalsa sia dell'approccio oggettivo che soggettivo. Al tradizionale rapporto ne ha affiancato un secondo, Voices of the Poor, in cui sono state riportate le voci di oltre 60.000 persone appartenenti a varie parti del mondo, le quali raccontano la propria esperienza, il proprio punto di vista sulle priorità di intervento e sulle capacità di emporwerment. Il quadro emerso è piuttosto complesso, ma utile per una maggiore comprensione del problema. 37 M.Zurru, Fenomeni di Povertà, processi, stati, spazi, politiche, Cuec, Cagliari, 2007.

35


condizione economica occasionale e oscillante tra disagio e reddito38. Questo è ciò che sta accadendo nella società attuale: la crisi in corso, come detto sopra, ha modificato e ridisegnato significativamente la stratificazione sociale, determinando una variazione dei redditi medi e il conseguente slittamento di quelli bassi. Così, se fino a quattro o cinque anni fa alcune categorie di individui erano al “riparo” dal rischio di sviluppare una qualche forma di deprivazione, oggi, la possibilità di cadere vittime della crisi economica è sempre più alta. Si tende sovente a identificare la disuguaglianza economica con quella da reddito; entrambi i concetti sono riconducibili alla nozione di povertà, considerata, come affermato da Chiara Saraceno “la forma più o meno accettabile della disuguaglianza economica”(Saraceno 2011, p.39). Essa si traduce

in una

difficoltà o impossibilità a soddisfare in modo adeguato i propri bisogni nella società in cui si vive e a condurre la propria vita secondo le proprie aspirazioni e capacità. Dunque è bene chiederci:

dove

poniamo

la

soglia

oltre

la

quale

la

disuguaglianza economica diventa povertà?39 Rispondere ad un quesito di questo tipo è tutt'altro che semplice, proprio per la variabilità del concetto preso in esame. Occorre predisporre un processo di valutazione, il quale deve esaminare sia la pluralità degli spazi in cui la disuguaglianza viene contestualizzata, sia la diversità delle persone. Anche nei paesi capitalisti di welfare, il grado di deprivazione economica e sociale negli ultimi anni di crisi ha subito un notevole incremento. Ecco che, a partire da qualche anno a questa parte, si sente parlare di nuovi poveri, categoria definita da Pierluigi Dovis -direttore della Caritas diocesana di 38 P.Alcock, R.Siza, La povertà oscillante, Franco Angeli, Milano, 2005. 39 P.Dovis, C.Saraceno, I nuovi poveri, politiche per la disuguaglianza, Codice Editori, Torino, 2011, p.41.

36


Torino- povertà grigie. Questo concetto rimanda a quello di vulnerabilità sociale, con il quale si intende l'esposizione concreta e reale di singole persone o interi nuclei familiari al rischio di povertà in un determinato contesto di vita. La povertà è caratterizzata da un duplice aspetto: può evolversi verso forme di uscita dalla condizione di disadattamento con il recupero delle criticità, ma può dar luogo a carriere conclamate di deprivazione, come appunto forme di povertà estreme o assolute 40. Le povertà grigie rappresentano una grave conseguenza della crisi del 2008. Si tratta dei cosiddetti “quasi poveri”, una fascia in continua evoluzione di cui è difficile identificare in maniera assoluta i tratti distintivi. Negli ultimi tempi, i confini tra poveri e non sono diventati sempre più labili e precari; l'esperienza degli ultimi anni, i fatti di cronaca e gli studi sociologici ed economici, dimostrano che chi ha sperimentato una condizione di deprivazione economica in determinati periodi della vita, può raggiungere condizioni sufficienti o, al contrario, scivolare in una povertà ancora più grave. Così, cresce maggiormente il numero delle povertà occasionali, espressione di una precarietà diffusa, di un'instabilità economica che sfocia nella stessa deprivazione sociale perché, come ormai si può dedurre, una realtà non può prescindere dall'altra. La

crescente

precarietà

richiede

una

certa

contestualizzazione, in quanto ha degli effetti molto diversi su gruppi sociali differenti. Ciò significa che gli effetti sulla vita delle persone sono molto diversi: per alcune di esse questa condizione costituisce un destino di insicurezza, per altri amplia le opportunità di mobilità sociale. La precarietà, l'instabilità, la vulnerabilità, sono le caratteristiche più diffuse del mondo contemporaneo e elementi distintivi delle nuove forme di 40 Ivi, p.4.

37


povertà. Sono povertà determinatesi sulla base di fattori di cambiamento economico e sociale, generatesi in seguito alla precarietà lavorativa, forme di insicurezza sociale, determinate in parte dalla fragilità delle relazioni: tutti aspetti che la crisi in corso ha contribuito ad incrementare.

2.2 Disoccupazione e mercato del lavoro L'art.1 della nostra Costituzione, esordisce così: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Altro importante articolo che si ricollega a questo fondamentale principio, è l'art.4, che afferma: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il diritto di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Più che in passato, la crisi in corso sta mettendo in discussione gli stessi principi della Costituzione italiana. Nella società contemporanea, il diritto degli uomini ad un'occupazione è divenuto una utopia; il sogno di una società forte dal punto di vista occupazionale si è infranto negli scogli della crisi economica che, da quattro anni, sono radicati nel mare della società attuale. E gli individui, naufraghi degli eventi, si aggrappano alla speranza di un futuro migliore, di tempi più rosei

promessi dalle istituzioni, in attesa di non essere

sopraffatti dall'ultima ondata di disfattismo.

38


Come afferma Dovis, l'ultimo capitolo della storia ha comportato una drammatica evoluzione: da soggetti vulnerabili, le persone sono diventate vulnerate41. La prepotenza della crisi economica e finanziaria ha accelerato i tempi della discesa economica di singoli individui, nuclei familiari, intere classi sociali. Infatti, mentre in passato le carriere di povertà avevano tempi di sviluppo piuttosto dilatati nel tempo, oggi insorgono nel giro di pochi mesi, lasciando spiazzato e, particolarmente vulnerabile, chi ne è colpito. La crisi in corso ha comportato e sta comportando ancora oggi in tutto il mondo costi elevatissimi sotto il profilo occupazionale e delle condizioni di lavoro. Basti pensare che nel Bel Paese, in un solo mese -nel febbraio 2012- i disoccupati sono aumentati di 45.000 unità mentre i posti di lavoro persi sono stati 29.000 42. La disoccupazione

risulta

essere

inversamente

proporzionale

all’occupazione: se diminuisce quest’ultima, di conseguenza aumenta la disoccupazione. Il fatto che ci sia meno lavoro penalizza maggiormente proprio i giovani in cerca di prima occupazione ed a seguire troviamo quelli che in passato avevano il lavoro e che, purtroppo, lo hanno perso divenendo dunque veri e propri outsiders del mercato del lavoro. Al giorno d'oggi, in una società in cui il valore del denaro è nettamente preminente su tutto il resto, essere disoccupati non comporta solo la perdita materiale dell'occupazione, ma significa mancanza di prospettive per il futuro, sia per i giovani che dopo anni di studio sono pronti per entrare nel mondo del lavoro, sia per persone espulse dal labor market dopo anni di impiego. Secondo i dati Istat, nell'aprile 2012 il numero dei disoccupati in Italia era pari a 2.615.000 unità; in questo computo vengono 41 P.Dovis, C.Saraceno, Op.cit., pag.36. 42 Fonte Istat, Rapporto annuale 2012.

39


inclusi anche coloro che hanno smesso di cercare attivamente un lavoro -condizione che occorre dichiarare per poter essere tecnicamente

inseriti

nelle

rilevazioni

statistiche

sulla

disoccupazione-. L'inoccupazione costituisce un costo personale e sociale rilevante, ma la crisi tende a provocare un progressivo degrado delle condizioni in cui operano coloro che il lavoro, di qualunque tipo esso sia, lo hanno ancora. Il degrado delle condizioni di lavoro è riscontrabile in diversi ambiti: nello sviluppo irregolare;

dell'economia nell'aumento

e

dell'occupazione dei

lavoratori

informale

precari

e

o nel

peggioramento della qualità del lavoro; nell'aumento del numero dei lavoratori poveri43. Dunque, la crisi attuale ha determinato un incremento delle piaghe occupazionali sopra descritte, con effetti deleteri sul mercato del lavoro. Gallino, nell'opera Finanzcapitalismo, analizza i fenomeni di cambiamento sviluppatisi in seguito alla scoppio della bolla lavorativa; questi processi vengono intesi come una conseguenza della crisi stessa: •

Occupazione informale: si fa riferimento a situazioni in cui non è esiste o è carente un quadro giuridico volto a stabilire i limiti entro i quali si applica la definizione di occupato. Spesso questo concetto si sovrappone a quello di lavoro irregolare, laddove il quadro giuridico esiste ma l'occupazione si pone al di fuori di esso. I più importanti istituti statistici e non solo, ritengono che a causa della crisi, l'occupazione informale, così come il “lavoro nero”, sia aumentato in quasi tutti i paesi europei, Italia compresa.

43 L.Gallino, Op.Cit. p.12.

40


Lavoro precario: in un contesto così incerto, un'altra tipologia di impiego è rappresentata dai lavoratori a contratto atipico, meglio conosciuti come precari. Questa categoria rappresenta una via di mezzo tra l'occupazione informale e i contratti a tempo indeterminato. In questa fattispecie rientrano diverse categorie di lavoratori, appartenenti al pubblico impiego o al settore privato.

Occupazioni povere: in Italia questa definizione si riferisce ad una persona che, pur lavorando regolarmente, percepisce un reddito mensile prossimo o inferiore alla soglia della povertà relativa. Questa soglia, secondo la definizione dell'International Standard of Poverty Line, corrisponde alla spesa per consumi media pro capite riportati da una famiglia di due persone44.

Come si evince da quanto sopra detto, si assiste ad una crescente frammentazione del mercato del lavoro, il quale è sempre più caratterizzato sia da ambiti tecnologici avanzati che richiedono alti livelli di qualificazione, sia da una molteplicità di occupazioni in cui è richiesta una bassa qualificazione e oltretutto scarsamente retribuita. In questa seconda categoria si inseriscono i working poor, lavoratori con carriere lavorative povere, con redditi insufficienti e non adeguatamente tutelati45. Queste forme di povertà sono figlie di un mercato del lavoro sempre più incerto e instabile, in cui la precarietà sembra essere 44 L'Istat, nel Rapporto annuale 2012, riprende questo concetto in relazione all'incidenza della povertà relativa (la percentuale delle famiglie povere sul totale delle famiglie residenti). Questa viene calcolata sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà) che individua il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi: per una famiglia di due componenti la linea di povertà è pari alla spesa media pro capite nel Paese e, nel 2010, è risultata pari a 992,46 euro mensili. 45 P.Alcock, R.Siza, Op.Cit., p.36.

41


divenuta

la

caratteristica

preminente.

Questa

precarietà,

importante ai fini delle dinamiche di impoverimento, ha un carattere multidimensionale poiché coinvolge diversi ambiti della vita e incide drasticamente su chi è inserito nei segmenti più bassi del mercato del lavoro. Come afferma Remo Siza, la principale forma di tutela della precarietà è il lavoro. Ma, è la stessa mancanza di un lavoro che produce precarietà. Siamo qui dinanzi ad un continuum ciclico. Dunque, la crisi economica del 2007-2008, inizialmente caratterizzata

per

i

suoi

devastanti

effetti

finanziari,

repentinamente ha avuto notevoli ripercussioni sull'occupazione, conseguenze che inizialmente si profilavano come temporanee ma che, invece, hanno assunto un carattere sempre più strutturale. Se dalla seconda metà del 2010 il tasso di disoccupazione si era stabilizzato a un livello inferiore rispetto alla media europea e il clima di fiducia della popolazione stava migliorando, a partire dal terzo trimestre 2011 per poi proseguire nel 2012, si assiste ad una versione di tendenza46. A fronte di un leggero aumento dell'occupazione, che in termini di unità di lavoro standard47 è cresciuta dello 0,1% (23.000 unità di lavoro in più rispetto al 2010), nel 2012 si è registrato un rallentamento del

46 Secondo il Rapporto Istat 2012, rispetto a vent'anni fa non si registra un significativo calo della disoccupazione. Se nel 1993 il tasso complessivo era pari al 9,7%, negli anni successivi esso ha superato l'11%, per poi ridursi in misura notevole nel corso degli anni 2000. Negli anni della crisi si è registrato un notevole incremento. Nonostante l'aumento dell'offerta di lavoro (dilatazione avvenuta anche grazie ad una varietà di tipologie contrattuali rispetto al passato), nel 2011 la disoccupazione è stata pari a 8,4%, inferiore al valore medio europeo. 47 Secondo la definizione dell'Istat, l'unità di lavoro standard rappresenta la quantità di lavoro prestato nell'anno da un occupato a tempo pieno, oppure la quantità di lavoro equivalente prestata da lavoratori a tempo parziale e che svolgono un doppio lavoro.

42


-0,2%; come si può dedurre dunque, i flussi registrati nell'ambito del mercato del lavoro, appaiono piuttosto altalenanti.

2.2.a Disoccupazione giovanile e adulta Nel corso del 2011 l’Italia si è trovata ad affrontare nuovamente una grave crisi di carattere finanziario, la quale ha prodotto, e sta tuttora producendo, importanti effetti sul sistema economico e sulle condizioni di vita della popolazione. Ma le forme di disoccupazione che investono tutti i settori del mercato occupazionale -dal pubblico al privato, da quello a tempo determinato o meno- sono fondamentalmente di due tipi: disoccupazione giovanile e adulta.

Si tende pertanto ad

identificare questi due fenomeni, i quali, pur essendo facce della stessa medaglia, presentano caratteri differenti. Nella società contemporanea, i giovani vengono considerati veri e propri outsiders del mercato del lavoro. Le cause di questa condizione sono molteplici, legate non solo al periodo che stiamo vivendo, ma anche ad una diversa concezione del mercato del lavoro. Spesso i giovani si trovano a dover accettare offerte di impiego sempre più scarse e di minore di qualità, il più delle volte non coincidenti con i loro percorsi di studio, con retribuzioni sempre più basse caratterizzate da contratti che offrono pochissime garanzie per il futuro. Dunque, le ultime esternazioni del Ministro del Lavoro Fornero, la quale ha definito i giovani della società contemporanea choosy, ossia schizzinosi e difficili, appaiono in netto contrasto con la realtà attuale. Nonostante la versatilità sia una delle caratteristiche predominanti

dei

giovani

in

cerca

di

un'occupazione,

43


attualmente questo sembra non essere d'aiuto per entrare nel mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione dei giovani di età compresa tra i 18 e 29 anni, dopo una costante discesa tra il 2000 e il 2007, ha avuto un’impennata nel corso degli ultimi quattro anni raggiungendo, nel 2011 il 20,2%; nello stesso anno, il tasso di occupazione è sceso al 41%. Andamenti di questo tipo si evidenziano in tutte le aree territoriali del Paese, ma nelle regioni

meridionali

i

giovani

registrano

più

difficoltà

nell'accesso al mercato del lavoro: nel Nord e nel Centro infatti, la probabilità di occupazione sono leggermente superiori. Proprio i dati Istat testimoniano, in modo inequivocabile, come siano proprio i giovani lavoratori ad aver subito più di altri gli effetti della crisi economica: in quattro anni quasi 1,2 milioni di occupati tra i 15 e i 34 anni hanno perso il loro posto di lavoro. Al settembre 2012, la disoccupazione giovanile è del 31,4%48. Fig. 2.2.a: Variazione annuale del numero di occupati per età.

48 Fonte Istat, Rapporto Annuale 2012.

44


Come si evince dal grafico, fino al 2011, a differenza di quanto accade per i giovani, il numero dei lavoratori adulti è cresciuto di 928.000 unità49. Rimane il fatto che quello della disoccupazione adulta è un altro drammatico fenomeno sociale in continua crescita, che coinvolge appunto milioni di persone. Il mercato del lavoro preclude ai disoccupati adulti nuove opportunità di inserimento lavorativo, talvolta discriminandoli per motivi anagrafici; rientrano infatti in questa categoria coloro che sono al di sopra di trentacinque anni. Questa forma di deprivazione si abbatte sulla popolazione provocando un totale annichilimento, facendo precipitare le persone e le famiglie in una spirale di povertà, anticamera di un'emarginazione ed esclusione sociale dalle quali non ci può essere ritorno50. Purtroppo sono molti i disoccupati che, per mancanza di adeguati ammortizzatori sociali, rischiano di appartenere alla categoria ancora più drammatica dei clochard. Il problema della disoccupazione, dunque, è una grave piaga della società contemporanea, che affligge l'Italia e gli altri Paesi Europei. È importante cercare di comprendere in che modo i governi affrontano questo drammatico fenomeno, come le politiche sociali si pongono al servizio dei cittadini aiutandoli a non sprofondare in un baratro ancora più profondo.

49 P.Bernocco, La crisi economica nei dati su occupazione e disoccupazione, www.lastampa.it, ultima consultazione 02-11-2012. 50 L.Galli, La disoccupazione adulta, www.nuovasocieta.it, ultima consultazione 02-11-2012.

45


2.3 Il suicidio al tempo della crisi 02/01/2012: Bari,74 anni, pensionato si getta dal balcone Inps chiedeva rimborso. 09/01/2012: Bari 64 e 69 anni, pensionati si suicidano in coppia. 12/01/2012: Arzachena, 39 anni commerciante tenta di asfissiarsi,viene salvato. 22/02/2012: Trento, 44 anni per i troppi debiti si getta sotto ad un treno. è salvo. 25/02/2012: San Remo, 47 anni, elettricista si spara. 26/02/2012: Firenze, 65 anni, imprenditore si impicca. 02/03/2012: Ragusa, commerciante tenta di darsi fuoco. 02/03/2012: Pordenone, 46 anni, magazziniere si suicida. 9/03/2012: Genova, 45 anni disoccupato, sale su un traliccio della corrente. 9/03/2012: Taranto, 60 anni, commerciante trovato impiccato. 10/03/2012: Torino, 59 anni, muratore si da fuoco. 14/03/2012: Trieste, 40 anni, appena disoccupato si da fuoco. 15/03/2012: Lucca, 37 anni, infermiera ingerisce acido. 21/03/2012: Lecce, 29 anni, artigiano si impicca. 21/03/2012: Cosenza, 47 anni, disoccupato si spara. 23/03/2012: Pescara, 44 anni, imprenditore si impicca. 27/03/2012: Trani: 49 anni, imbianchino disoccupato si getta dalla finestra. 28/03/2012: Bologna: 58 anni, si da fuoco davanti all’Agenzia delle entrate. 29/03/2012: Verona, 27 anni, operaio si da fuoco. 01/04/2012: Sondrio: 57 anni, perde lavoro, cammina sui binari, salvato in tempo. 02/04/2012: Roma: 57 anni, corniciaio, si impicca. 03/04/2012: Catania, 58 anni, imprenditore si spara. 03/04/2012: Gela,78 anni pensionata si getta dalla finestra, riduzione della pensione. 03/04/2012: Roma, 59 anni, imprenditore, si spara con un fucile. 04/04/2012: Milano, 51 anni, disoccupato si impicca. 04/04/2012: Roma Imprenditore si spara al petto. 19/08/2012: Torino,operaio di 48 anni si suicida dandosi fuoco in strada51.

51 C.A.Rodolfi, Crisi, disoccupazione, suicidi, ma lo stato dov'è?, www.giornalismo2012.wordpress.com, ultima consultazione 01-11-2012.

46


Quelli appena letti, sono solo alcuni dei tanti drammatici casi di suicidio verificatisi nel corso del 2012. In Italia, il numero delle persone che decidono di porre fine alla propria esistenza, diventa sempre più ampio. Molti di questi gesti, considerati così estremi, talvolta sono correlati alle difficoltà economiche conseguenti la crisi economica. Nel corso del 2012, si contano circa 134 suicidi il cui motivo è legato al periodo di recessione che colpisce sempre più duramente la nostra società; questi sono i dati certi, ma bisogna comunque considerare quei casi non rilevati, in quanto non resi noti o trascurati dalla stampa e dall'opinione pubblica. In base alle Fonti Istat, nel 2012 i suicidi nel nostro Paese sono stati 3048, in aumento rispetto al 2009: tre anni fa si contavano 187 suicidi con un movente economico, a fronte dei 198 casi registrati nel 2009, colpendo nel dettaglio 182 uomini e 5 donne. Nonostante questa lieve deflessione, la situazione appare comunque piuttosto allarmante. Da quanto accennato nel primo capitolo, le più importanti e devastanti crisi economiche che si sono susseguite dal '900 ad oggi sono essenzialmente tre: la grande depressione del '29, la crisi finanziaria degli anni '90 e, infine, quella attuale. Tutte queste crisi, così come documenta la storia, sono accomunate dall'incremento del tasso di suicidi, conseguenza dovuta alla crescita della disoccupazione e alla mancanza di una prospettiva per il futuro. A questo proposito, non si può non citare il sociologo francese Emile Durkheim, il quale ha dedicato un'intera opera al fenomeno del suicidio. Ne Il Suicidio, Durkheim sottolinea come la mancanza d’integrazione degli individui nella società sia una delle cause fondamentali del suicidio, evento che, da mero fatto individuale, diviene fatto sociale. Oggetto della 47


ricerca è il tasso di suicidi che si riscontra in una data società; egli sofferma la sua attenzione sui dati statistici, per diversi paesi e per diversi periodi, che esprimono la specifica tendenza al suicidio. Per il noto sociologo il suicidio è un fenomeno connesso a situazioni extra soggettive che riguardano la società, i suoi ambienti e i suoi gruppi, dove l’uomo si riscontra quotidianamente. Pur essendo stata scritta nel 1897, l'opera durkhemiana si rivela del tutto attuale rispetto al periodo di crisi economica e finanziaria. Si potrebbe definire l'attuale fenomeno suicidiario come suicidio anomico, La sua frequenza tende ad aumentare in periodi di crisi economica o, inaspettatamente, in fase di estrema prosperità, a causa della mancanza di riferimenti, norme e valori socialmente condivisi. Dal punto di vista psicologico, questo tipo di suicidio, è motivato generalmente dalle delusioni e dalle frustrazioni causate dai rapporti sociali. Ci troviamo dinanzi ad un tipo di suicidio differente dagli altri, in quanto è differente il ruolo della società, la cui peculiarità sta nel disciplinare l’individuo52. Durkheim dedica l'ultima parte della sua opera all'analisi dei possibili rimedi per contenere l'incremento patologico dei suicidi. Uno dei grandi problemi della modernità è la scomparsa dei gruppi intermedi tra l'individuo e lo Stato, con la conseguenza di privare ampi settori della vita sociale di orientamento

e

disciplina

morali.

52 E.Durkheim, Il Suicidio, BUR Biblioteca Univ.Rizzoli Editore, Milano, 2007. Durkheim, oltre a quello anomico, individua altre due categorie di suicidio: il suicidio egoistico e il suicidio altruistico. Nel primo caso il suicidio è motivato da un eccesso di individualismo: la persona si sente estranea al proprio gruppo sociale e il divario tra i propri desideri e la loro realizzazione diviene sempre più grande; l’io prevale sulla vita collettiva, di conseguenza il legame che unisce l’uomo alla vita si allenta proprio perché il legame che lo unisce alla società si è a sua volta allentato. Nel secondo caso, il suicidio diviene espressione di un eccesso di socializzazione della persona, l’io è completamente annullato; l’individuo appare soggiogato alla sua società che lo tiene troppo legato a sé, e preme per condurlo a distruggersi.

48


È dunque necessario che si creino di nuovo dei centri di solidarietà, così che tra gli uomini possano tornare a stabilirsi relazioni solide e durature. A tal fine Durkheim propone la rivitalizzazione delle antiche corporazioni professionali come personalità riconosciute e garantite dallo Stato. Le conseguenze della rinascita corporativa sarebbero di due tipi: una regolamentazione della vita professionale sensibile alla cultura e alle attività concrete di ciascun gruppo; un controllo continuo sulla formazione e sui comportamenti dell'individuo, così da assolvere a quella funzione di integrazione e di educazione morale un tempo assicurata in particolare dalla famiglia. In tal modo, secondo Durkheim , si potrebbe combattere sia il suicidio egoistico che il suicidio anomico, ossia quei fenomeni autodistruttivi più caratteristici della modernità, risultato l'uno della disgregazione e l'altro della indisciplina sociali53. Le proposte durkhemiane potrebbero essere prese in considerazione

alla luce del periodo di drammaticità che il

mondo intero, Italia compresa, sta vivendo anche dal punto di vista del fenomeno sopra descritto. Da tempo, in quanto si riscontra un'associazione tra crisi economiche e aumento dei suicidi, un gruppo di studiosi americani ha analizzato -con tecniche statistiche multivariate- la relazione tra variazioni del tasso di disoccupazione e variazioni dell’incidenza di alcune cause di morte in 26 paesi dell’Unione Europea, nel periodo 1970/200754. Nel 2007, la crisi economica non si era ancora manifestata in Europa, ma i periodi di difficoltà non sono mancati nel quarantennio osservato; i 53 R.Marra, Suicidio, in Enciclopedia Treccani delle Scienze Sociali, www.treccani.it, ultima consultazione 30-01-2013. 54 D.Stuckler, S.Basu, M.Surhcke, A.Coutt, M.McKee, The public health effect of economic crises and alternative policy responses in Europe: an empirical analysis, in “Lancet”, 8-7-2009, vol. 374, pp. 315-23, in M.L.Bacci, Il suicidio e il lato oscuro della crisi, www.neodemos.it, ultima consultazione 05/11/2012.

49


risultati possono essere un’utile guida per interpretare gli sviluppi dell’ultimo quadriennio. Dall'esito della ricerca è stato osservato un aumento del 1% del tasso di disoccupazione, il quale si associa ad una crescita dello 0,79% dei suicidi di persone di età inferiore ai 65 anni. Non c’è associazione, invece, tra disoccupazione e mortalità generale. Un altro interessante risultato è costituito dall’associazione diretta tra disoccupazione e morti legate all’abuso di alcol, sicuramente correlato a sua volta con l'instabilità e i disordini psicologici, fattori importanti del suicidio. Lo stesso gruppo di studiosi, raccogliendo dei dati in alcuni paesi europei, ha esaminato gli effetti della crisi, in relazione all'andamento dei suicidi, per l'anno 2009 (i dati non sono ancora disponibili per gli anni successivi e per tutti i paesi). Si tratta di 10 paesi dell’Unione Europea: Regno Unito, Romania, Olanda, Grecia, Ungheria, Repubblica Ceca, Austria, Finlandia, Lituania e Irlanda. Si desume comunque l’impennata della disoccupazione nel 2009 e l’aumento dei suicidi, con inversione

della

tendenza

alla

diminuzione

degli

anni

precedenti. In Italia, l’effetto della crisi, già evidente nel 2010, non sembra aver determinato forti alterazioni nel numero dei suicidi; attualmente non si hanno dati certi, ma è sicuramente nell’ultimo anno e mezzo che le conseguenze della crisi hanno cominciato a farsi sentire seriamente per una molteplicità di motivi: per l’ulteriore crescita della disoccupazione, l’acuita insicurezza rispetto alla durata della crisi, l’assottigliarsi dei risparmi delle famiglie. Quando questo ciclo recessivo si sarà finalmente riassorbito e si disporrà di dati aggiornati, allora se ne potranno verificare – con analisi statistiche accurate – le conseguenze più oscure55.

55 Ivi.

50


In Italia, i dati Istat consentono di ricostruire le serie storiche dei suicidi per cause economiche, e di confrontarle con le serie storiche dei suicidi totali (tenendo conto dei casi dei quali non si conosce il movente). La fonte è la rilevazione diretta compiuta dalle Forze dell’Ordine (i verbali della Polizia e dei Carabinieri). I dati Istat arrivano sino al 2010, ufficializzati a inizio Maggio. Il 2011 entrerà nelle statistiche ufficiali a Maggio 201356. Fig. 2.3: Suicidi per ragioni economiche rilevati dalle forze dell'ordine in Italia.

Fonte: Istat

Le cause che inducono una persona a mettere in atto un gesto così drastico e talvolta irreversibile sono molteplici e, come detto ampiamente fino a questo momento, la crisi economica e finanziaria che noi tutti stiamo vivendo, è una drammatica 56 N.Salerno, Suicidi per ragioni economiche: non c'è escalation, www.neodemos.it., ultima consultazione 05-11-2012.

51


conseguenza. La condotta suicida infatti è determinata da numerosi fattori, quali disturbi psichiatrici o di personalità, elementi genetici e familiari, disturbi dell'umore e fattori psicosociali e ambientali. Dunque, soggetti che sperimentano un evento di vita stressante, come la perdita del lavoro o un impiego precario, presentano un rischio piuttosto elevato di suicidio. Pertanto, anche se non è possibile stabilire un effettivo nesso causale tra suicidi e crisi economica, l'incremento del tasso di mortalità per condotte suicidarie dovrebbe essere costantemente monitorato, anche per individuare possibili categorie a rischio sui quali concentrare possibili interventi di prevenzione. Come detto prima, il numero dei suicidi in Italia per l'anno 2012 è temporaneamente fermo a 134. Sarebbe impossibile descrivere ogni singolo caso. Ma uno mi ha colpito particolarmente. È il caso di Carmine Cerbera, insegnate precario di 48 anni, ultimo caso di morte suicida di questo triste 2012. Dopo un'intera vita da lavoratore precario e una seconda laurea conseguita di recente, l'insegnante napoletano ha deciso di ricorrere a questo tragico gesto, dimostrando all'intero paese che, ancora una volta, il periodo che stiamo vivendo può prendere il sopravvento sulle vite delle persone. Il suicidio, all'epoca della crisi, è un fenomeno drammatico proprio per gli alti costi sociali che comporta. Purtroppo, solo quando saremo usciti dalla tremenda fase che stiamo attraversando,

ci

renderemo

effettivamente

conto

delle

conseguenze del fenomeno e capiremo che forse qualcosa in più poteva essere fatto.

52


III Capitolo Politiche sociali e sistemi di welfare in tempi di crisi

Il periodo di crisi economica-finanziaria, sociale, culturale e identitaria che stiamo vivendo ha avuto e sta avendo delle profonde ripercussioni sui sistemi di welfare di tutto il mondo, determinando cambiamenti significativi nelle politiche sociali, con conseguenze che incidono direttamente sulla vita degli individui e delle famiglie. Nei capitoli precedenti, si è discusso ampiamente sugli effetti della crisi dal punto di vista economico e sociale, focalizzando l'attenzione sui problemi delle persone, quali disuguaglianze e nuove povertà, modifica del mercato del lavoro, incremento del numero dei suicidi. Nelle prossime pagine, si analizzeranno gli effetti della crisi da una prospettiva differente, focalizzando l'attenzione sulla crisi dei sistemi di welfare e il cambiamento delle politiche sociali in ragione della crisi economica, un aspetto che, se pur collateralmente, ha inciso significativamente sulla vita di numerose persone. Mi pare opportuno precisare che la crisi che colpisce l'attuale sistema di welfare state non è un fatto conseguente la crisi economica e finanziaria, bensì l'esito di numerose dinamiche che hanno contribuito ad indebolire il moderno stato sociale, maggiormente impoverito e svigorito dal periodo che stiamo vivendo. Come afferma Donati, la sensazione che oggi si va diffondendo nei Paesi Occidentali, in particolare in Europa e nello specifico in Italia, è quella di un generale peggioramento delle condizioni di vita. L'impressione è che si vada verso una

53


situazione in cui il benessere (welfare) della popolazione sarà sempre più a rischio. Questa percezione, come si evince dal capitolo precedente, è confermata dai dati che si hanno a disposizione anche dall'ultimo rapporto Istat. Viene messo in discussione il benessere raggiunto alla fine del Novecento, attraverso una molteplicità di fattori che preannunciano grandi difficoltà per le generazioni future. A prescindere dalla carenza di lavoro e di risorse primarie, i sistemi assistenziali, sanitari, previdenziali e di sicurezza sociale creati nel secondo dopoguerra appaiono sempre più insostenibili nella forma in cui sono stati disegnati. Questi fattori hanno a che fare non solo con le ricorrenti crisi economiche, ma soprattutto con i cambiamenti demografici (il rapido invecchiamento della popolazione, la bassa natalità, la frammentazione della famiglia), che portano con sé una crisi radicale del vecchio sistema di welfare57. Prima di soffermarmi sugli attuali sistemi di welfare, sulle politiche sociali che ne derivano e sulla crisi dello stato sociale, mi pare opportuno analizzare nei prossimi paragrafi i modelli tipici di tali sistemi e i processi di evoluzione che ne sono conseguiti, per comprendere in che modo l'attuale crisi può aver causato lo sviluppo di determinate dinamiche e le conseguenze scaturite. La crisi internazionale, con le sue criticità, sembra aver accentuato la riflessione relativa ai fini delle politiche sociali (in vista di una migliore qualità della vita). Esplosa nell'agosto del 2007 negli Stati Uniti con il diffondersi dei mutui subprime, ha manifestato la sua incidenza sulle finanze mondiali nel settembre 2008 e si è protratta per tutto il corso del 2012 con l'acuirsi della disoccupazione, della 57 P.Donati, Il welfare in una società post-hobbesiana, in “Atlantide”, n.2, 2006, p.9.

54


precarizzazione del lavoro, della crisi di fiducia dei mercati, dell'instabilità sociale e del rischio default. Si tratta di una crisi che sta colpendo duramente interi stati, la stessa Europa della moneta unica con conseguenze catastrofiche per l'Unione Europea e per le diverse aree geopolitiche del globo58. Una crisi che, come ripetuto più volte, ha profonde ripercussioni sulla vita delle stesse persone. Come detto prima, la crisi ha accentuato i tratti caratteristici della crisi del welfare state, periodo che è stato definito da numerosi autori come il “secondo welfare”. Si tratta della crisi del welfare tradizionale, cioè di quel sistema di forme obbligatorie di protezione sociale che coprono i rischi fondamentali dell'esistenza nelle società modernizzate, vale a dire i rischi connessi alla salute, alla vecchiaia, agli infortuni sul lavoro, alla disoccupazione, alla disabilità, nonché alla prestazioni

e

i

servizi

considerati

essenziali

per

una

sopravvivenza decorosa e per un'adeguata integrazione nella comunità. Quando si parla di crisi dello stato sociale, si fa riferimento al fatto che in tutti i paesi che avevano realizzato questo sistema, gli stati non riescono più a coprire i costi connessi alle rapide trasformazioni della struttura demografica e dei bisogni sociali59. Tutto ciò ha determinato un processo di cambiamento dello stesso sistema di welfare consentendo il passaggio da un sistema tradizionale al cosiddetto welfare mix, il quale, pur essendo in costante evoluzione, sembra essere la risposta più idonea agli attuali cambiamenti di cui si è discusso. Solo attraverso una approfondita analisi dell'evoluzione dei sistemi di welfare, sarà possibile differenziare la crisi economica 58 I.Colozzi, Dal vecchio al nuovo welfare, percorso di una morfogenesi, Franco Angeli, Milano, 2012, p.94. 59 Ibidem.

55


e fiscale degli Stati contemporanei dalla crisi dello Stato sociale, due fenomeni distinti ma allo stesso tempo profondamente interrelati.

3.1 Che cos'è il welfare state? Nascita ed evoluzione dello stato sociale Quella sul welfare state è una delle analisi più controverse della letteratura sociologica e sociale degli ultimi quarant'anni. I dibattiti scaturiti sono molteplici e i contributi forniti da sociologi e politologi innumerevoli. Gli studi sul welfare state, i quali sono stati uno dei filoni più produttivi e significativi della ricerca sociale, hanno dato luogo ad un progresso conoscitivo davvero notevole, soprattutto per quanto riguarda l'insieme delle politiche sociali originatesi. Secondo Ferrera, i primi due autori che sono riusciti a fornire una chiarificazione del concetto in esame sono stati Flora e Heidenheimer. Entrambi hanno dimostrato come il welfare state possa essere definito solo evolutivamente, dal momento che i suoi confini si sono storicamente modificati e presentano rilevanti variazioni da paese a paese. Il welfare state va concettualizzato in riferimento al processo di modernizzazione, come una risposta alle molteplici domande (più sicurezza e più eguaglianza) che tale processo ha originato nell'ambito delle società europee a partire dalla seconda metà dell'Ottocento60. Dunque, in base a quanto teorizzato dai due autori, l'evoluzione dello stato del benessere deve essere parallelo allo sviluppo dello Stato nel quale esso nasce, così da poter dare una risposta il più efficace possibile alle continue esigenze e 60 M.Ferrera, Modelli di solidarietà. Politiche e riforme sociali nelle democrazie, Il Mulino, Bologna, 1993, p.47.

56


domande della popolazione. Il concetto di modernizzazione, che si ricollega all'insieme delle dinamiche che quest'ultimo comporta

(industrializzazione,

democratizzazione,

redistribuzione delle risorse, etc.), è stato ripreso e rielaborato da Jens Alber -noto sociologo del XX secolo- secondo il quale per welfare state si intende un insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria61.

Da questa definizione si evince come l'inclusione dei diritti sociali sia un elemento essenziale dello stato del benessere; gli stessi diritti si ricollegano alle dinamiche di modernizzazione e all'emergenza di nuovi assetti istituzionali, imperniati sui diritti sociali e sulle varie forme di assicurazione e sicurezza62. 61 Ivi p.47-49. 62 I tre concetti ai quali si riferisce Alber -assistenza, assicurazione e sicurezza sociale- connotano gli interventi pubblici di protezione sociale, appartenenti a tutti gli effetti allo stesso campo semantico del welfare state. L'assistenza comprende tutti quegli interventi volti a rispondere in modo mirato a specifici bisogni individuali o a categorie circoscritte di bisogni (un esempio classico di assistenzialismo era il sistema inglese delle Poor Laws: lo stato si impegnava a fornire un ricovero a tutti i poveri impossibilitati a provvedere a se stessi, a condizione che accettassero l'internamento e la disciplina lavorativa delle case di lavoro). Una forma di assistenza di questo tipo è andata progressivamente sparendo nel corso del XIX secolo; tuttavia l'assistenza rimane un settore fondamentale dello stato sociale. Il termine assicurazione sociale denota una forma di intervento pubblico imperniata sull'erogazione di prestazioni standardizzate, elargite sulla base di determinati diritti e doveri individuali, secondo modalità istituzionali altamente specializzate e centralizzate (questa forma di protezione sociale costituisce il nucleo del moderno welfare state, nel quale si cerca di rispondere ad una serie di rischi standard, quali la vecchiaia, l'invalidità, la disoccupazione, i carichi familiari, etc). Infine, il concetto di sicurezza sociale, facilmente confuso con quello di assicurazione sociale, ha subito una profonda evoluzione nel corso della storia, con significative variabilità da paese a paese. Oggi, per sicurezza sociale si intende uno schema di protezione obbligatoria caratterizzata da una copertura universale (ossia estesa a tutta la cittadinanza) e prestazioni uguali per tutti (senza differenziazioni di accesso in campo sanitario e

57


La tabella qui di seguito riassume i connotati essenziali dei tre concetti elaborati da Alber, assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, differenziati in base al tipo di copertura, alla struttura della prestazioni e alle modalitĂ di finanziamento63. Tab.3.1: Interventi pubblici rapportati alla copertura, prestazioni e finanziamenti erogati.

Assistenza

Assicurazione Sociale

Sicurezza Sociale

Copertura

Marginale (categorie di bisognosi)

Occupazionale (categorie di lavoratori)

Universale (tutti i cittadini)

Prestazioni

Ad hoc

Contributive/retributive

Omogenee/a somma fissa

Finanziamento

Fiscale

Contributivo

Fiscale

Un'adeguata definizione di welfare ci è stata fornita da Pierpaolo Donati, il quale, in numerosi scritti ha analizzato non solo le cause che hanno portato alla crisi dello stato sociale, ma ha fornito una definizione di welfare precisa ed esaustiva. Per Donati, welfare state, nell'accezione moderna, significa quella forma di Stato che garantisce in linea di principio a tutti i cittadini in quanto tali il godimento di una serie di diritti, non solo civili (diritto di opinione, di associazione, di proprietà privata, il diritto alla vita) e non solo politici (diritto di elettorato) ma anche sociali, quest'ultimi consistenti in una serie di risorse necessarie per far fronte ai bisogni vitali (e non solo di sussistenza), a prescindere dal contributo produttivo del singolo individuo alla collettività 64. pensionistico). 63 M.Ferrera, Op.Cit., p.56. 64 P.Donati, Risposte alla crisi dello stato sociale, Franco Angeli, Milano, 1984, p.186.

58


Ma per comprendere in che modo si è arrivati all'elaborazione di questa definizione e per capire il perché della crisi dello stato sociale, mi pare opportuno ripercorrere brevemente la storia che ha portato alla nascita del moderno stato del benessere. Il welfare state è un elemento centrale delle società europee, strettamente connesso allo sviluppo della democrazia di massa e del capitalismo industriale. Le ragioni che hanno portato alla nascita e successivamente allo sviluppo dello stato sociale sono molteplici: in primo luogo emergeva la necessità di garantire a tutti gli individui un livello minimo di sussistenza, in modo tale da sostenere i costi della riproduzione biologica, sociale e culturale; non meno importante, le istituzioni sentivano il bisogno di garantire maggiore equità sociale, attraverso una redistribuzione della ricchezza prodotta nella società in modo tale che tutti gli individui potessero disporre delle stesse possibilità di partenza. Il moderno stato del benessere è nato in Europa alla fine del XIX secolo, anche se il termine welfare state è stato coniato in Inghilterra poco prima dell'inizio della seconda guerra mondiale, per contrapporre allo Stato autoritario nazionalsocialista una tipologia di stato differente, libero, imperniato su maggiori diritti sociali65. Nonostante le origini del termine siano inglesi, il 65I presupposti storici dello Stato del benessere si trovano già nel XII secolo, quando furono create le condizioni preliminari per una forma sociale più differenziata, la cui dinamica interna determinò quei processi di modernizzazione e di razionalizzazione caratteristici dello sviluppo seguito dall'Europa. Inoltre, durante il Medioevo la Chiesa Romana aveva quasi ovunque la responsabilità dell'assistenza ai poveri e agli infermi, nonché nel campo dell'istruzione. In senso più stretto, tuttavia, la storia dello Stato del benessere comincia solo nel XVI secolo, in connessione con lo sviluppo del primo capitalismo e degli Stati territoriali. In seguito al dissolversi dei legami sociali tradizionali nella fase del primo capitalismo, in vaste zone dell'Europa si ebbe in questo periodo un forte aumento del vagabondaggio e della mendicità. Dalla povertà dell'epoca medievale si passò al pauperismo dell'epoca moderna, sentito come un problema di ordine pubblico e di disciplina nel lavoro. Fino al XIX secolo (periodo che coincide con lo sviluppo dei processi legati all'industrializzazione) questo problema dominò la prima fase storica del moderno Stato del benessere.

59


paese pioniere del moderno stato del benessere non è l'Inghilterra, bensì la Germania bismarckiana. I provvedimenti sociali attuati in questo periodo rappresentarono il punto di partenza dello Stato del benessere dei nostri giorni (gli interventi più significativi comportarono l'introduzione, tra il 1883 e il 1889, delle assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni, quelle per la vecchiaia, l'invalidità e la malattia). Le assicurazioni sociali rappresentarono una rottura rispetto alla secolare tradizione europea del diritto dei poveri; destinatari di questi provvedimenti legislativi non erano più solamente i poveri, bensì tutte quelle categorie a rischio di povertà, con particolare riguardo agli operai delle fabbriche. Le assicurazioni sociali divennero il nucleo centrale del moderno Stato del benessere, diffondendosi gradualmente in quasi tutti i paesi dell'Europa, colpita dai processi di industrializzazione 66. Ma la nascita del welfare state è strettamente connessa anche allo sviluppo dello Stato Nazionale: l'integrazione di strati più ampi della

popolazione

nel

sistema

politico,

la

maggiore

partecipazione delle masse alla vita politica, l'introduzione dei diritti politici e di diritti sociali sono alcune delle caratteristiche dello Stato Nazione. Ma il consolidamento del welfare state si ebbe a cavallo tra le due guerre. Fu in questo periodo che si assistette ad una evoluzione nel concetto e nella modalità di attuazione delle assicurazioni: non si parla più di assicurazione Tale problema fu affrontato in un primo tempo dalla Chiesa e poi dallo Stato, che rese obbligatori i contributi sociali a carico delle comunità, creando in tal modo i prodromi di un diritto all'assistenza pubblica. 66 La formazione dello Stato europeo del benessere, tuttavia, non può essere considerata esclusivamente come una reazione al problema della classe operaia dell'industria. La sua stretta connessione con lo sviluppo della democrazia di massa colloca infatti lo Stato del benessere in un contesto più ampio, in cui l'estensione dei diritti politici portò a una lotta democratica per una distribuzione più equa delle ricchezze materiali e del patrimonio culturale delle nazioni. In questa prospettiva lo Stato del benessere può essere inteso come compimento dello Stato nazionale, nella misura in cui i diritti civili e politici divennero un elemento essenziale delle opportunità di vita individuali e della legittimità politica.

60


dei lavoratori ma di assicurazione sociale. Un ruolo molto importante nello sviluppo dello stato del benessere va attribuito al presidente americano Roosveelt che, dopo la crisi del 1929, attuò un sistema di Social Security, con il quale vennero introdotte per la prima volta negli Stati Uniti l'assistenza sociale e le indennità di disoccupazione, malattia e vecchiaia. Tutto ciò rappresentò sia un’efficace risorsa di promozione sociale e cittadinanza, sia uno strumento di sviluppo. Successivamente, con il “Rapporto Beveridge” furono introdotti i concetti di sanità pubblica e pensione sociale per i cittadini: queste proposte furono accolte e attuate a partire dal 1945 in Inghilterra, per poi diffondersi nel resto dell'Europa67. Pertanto, l'evoluzione del welfare state non ha seguito un corso lineare, sia nel tempo che da paese a paese. Il suo decollo, così come il suo consolidarsi, è avvenuto gradualmente; solo dopo la seconda guerra mondiale, forse anche in risposta al clima di cambiamento che investiva il mondo intero, si assiste ad un vero e proprio sviluppo dello stato sociale. Da questo periodo in poi si avranno numerosi contributi sulla letteratura relativa ai modelli di welfare, le cui teorizzazioni ed analisi saranno fondamentali per l'attuazione di nuove politiche a favore della cittadinanza.

3.1.a Modelli di Welfare State I contributi scientifici e sociologici relativi alla letteratura sui diversi modelli di welfare sono molteplici; quasi tutti hanno risentito o sono stati condizionati dal periodo in cui sono stati teorizzati. 67 P.Flora, Lo Stato del Benessere, in “Enciclopedia Treccani delle Scienze Sociali”, www.treccani.it, ultima consultazione 27-12-2012.

61


Lo sviluppo dello stato del benessere, nel tempo e nei diversi paesi, è stato analizzato osservando il livello di protezione sociale che esso è in grado di offrire, con particolare riguardo ai destinatari degli interventi di welfare. Secondo Ferrera, la scelta di quest'ultimi, è stata storicamente preminente rispetto alla decisione in merito al come e quanto proteggere, determinando due tipologie di modelli (occupazionale e universale), che hanno orientato l'evoluzione istituzionale di ciascun welfare state, con importanti conseguenze ancora oggi68. Si posso individuare due modelli originari, sulla base dei quali si sono sviluppati ulteriori analisi di ricerca. Un primo modello è quello occupazionale o bismarckiano, caratterizzato dalla copertura frammentata dei bisogni; gli schemi di protezione sociale sono rivolti ai lavoratori che sono coperti da una pluralità di schemi occupazionali. Questo modello, adottato dalla maggioranza dei paesi europei, ha consentito una redistribuzione orizzontale per categorie (giovani verso anziani, occupati verso disoccupati, sani verso malati, etc). Nel modello universalistico o beveridgeano (tipico dei paesi scandinavi), gli schemi di protezione sociale coprono tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro posizione lavorativa; questo modello è imperniato su un insieme di principi egualitari dal punto di vista delle formule di prestazione, facilitando una redistribuzione verticale delle risorse tra le fasce di reddito della popolazione. Il modello universalistico teorizzato da Lord Beveridge e poi entrato nelle legislazioni di numerosi stati europei, consiste nell'evitare la selettività di accertamenti per reddito e nel fornire servizi sociali e assicurazioni essenziali pubbliche per tutti gli abitanti, secondo misure uniformi, che si 68 M.Ferrera, Le politiche sociali. L'Italia in prospettiva comparata, Il Mulino, Bologna, 2006.

62


traducono in diritti eguali per tutti. Lo Stato, con il gettito fiscale imposto in misure proporzionali o progressive ai cittadini, assicura a tutti il minimo necessario alla vita. L’universalismo delle prestazioni contro la selettività precedente dello stato assistenziale si basa su una definizione di povertà non riducibile alla carenza di un minimo reddito di sussistenza. La povertà non è una condizione assoluta, essa non richiede un trasferimento di reddito dalla collettività all’indigente, ma viene concepita come una condizione relativa, che chiama in causa l’insieme delle relazioni gerarchiche, di superiorità e di inferiorità nella società di riferimento; essa diviene uno stigma di inferiorità in tutte le relazioni sociali69. Tuttavia, i sistemi di protezione sociale dei paesi occidentali hanno storicamente registrato e ancora oggi registrano numerose differenze riguardanti la tipologia, le condizioni d'accesso alle prestazioni, l'ampiezza e le caratteristiche dei destinatari, le modalità di finanziamento e di amministrazione. Inoltre, come già detto nel paragrafo precedente, sono individuabili fasi distinte nello sviluppo del welfare state: dallo stato assistenziale sorto nel Settecento, allo stato di sicurezza sociale (caratteristico della legislazione bismarckiana del XIX secolo), all'attuale welfare state, originatosi in risposta alla grande depressione del '29 e in seguito agli sconvolgimenti sociali della seconda guerra mondiale70. I diversi modelli, coincidenti con delle fasi storiche, sono stati analizzati, studiati, teorizzati da numerosi sociologi che, con il loro sapere, hanno contributo ad implementare la letteratura delle scienze sociali.

69 A.Ardigò, Introduzione all'analisi sociologica del “welfare state” e delle sue trasformazioni, in M.La Rosa, E.Minardi, A.Montanari, I servizi sociali tra programmazione e partecipazione, Franco Angeli, Milano, 1981, p.49. 70 P.Donati, Op.Cit., p.58.

63


L'autore che per primo sviluppò una classificazione più complessa dei sistemi di welfare, ben più articolata rispetto al passato, è stato senza dubbio R.Titmuss71. Egli, in The Social Policy, pubblicato nel 1974,

ha individuato tre modelli di

welfare:

Modello residuale o residual welfare model, in cui lo

Stato si limita ad interventi temporanei in risposta ai bisogni individuali solo quando i due canali principali di risposta (mercato e famiglia) entrano in crisi. In altre parole, lo Stato assume una responsabilità minima nel soddisfare i bisogni sociali della popolazione e lo fa solo nel momento in cui i singoli individui, le famiglie e il mercato non sono più in grado di assolvere ai propri compiti. In questo caso, il ruolo delle agenzie pubbliche (volontariato, associazionismo, mutuo aiuto, etc.) è fondamentale e di primaria importanza, pur operando in un contesto normativo di tipo privatistico rispetto al quale lo Stato assume un atteggiamento neutrale e non di coinvolgimento diretto72. –

Modello remunerativo o meritocratico-occupazionale

(industrial

achievement-performance

model),

in

cui

i

programmi pubblici di welfare agiscono come complementi del sistema economico, fornendo livelli di protezione che riflettono i meriti e i rendimenti lavorativi. In questo caso, lo Stato ha un ruolo complementare al mercato, elargendo prestazioni soltanto a chi partecipa al mercato del lavoro, prestazioni proporzionali al reddito dei lavoratori73.

71 Una prima distinzione tra impostazione residuale e istituzionale fu sviluppata da Wilensky, 72 P.Donati, Op.Cit., p.58, p.187. 73 M.Ferrera, Op.Cit., p.62, p.64.

64


Modello

istituzionale

redistributivo

(institutional

redistributive model), in cui i programmi pubblici di welfare costituiscono una delle istituzioni cardine della società e forniscono

prestazioni

universali,

indipendentemente

dal

mercato e sulla base del bisogno espresso74. Dunque lo Stato ha un ruolo fondamentale in quanto garantisce direttamente la protezione sociale a tutti i cittadini, proponendo interventi di tipo universalistico. Pur rappresentando una delle pietre miliari degli studi sociologici, gradualmente, si assiste ad un superamento della tripartizione titmussiana. L'opera di Titmuss, Social Policy, pur essendo ancora oggi particolarmente importante sia sul piano teorico sia come ausilio nell'approccio allo studio del welfare state, per alcuni aspetti risente del contesto storico in cui è stata scritta. Dunque, la letteratura sociologica ha iniziato a servirsi della suddivisione sopra descritta per elaborare nuovi modelli, conformi alla realtà circostante, in continua evoluzione. In questa prospettiva, uno dei contributi più significativi è stato fornito da G.Esping-Andersen che, nel 1990, ha proposto una nuova classificazione dei sistemi di welfare. Il sociologo danese individua i tre mondi del capitalismo del benessere, the three worlds of welfare capitalism:

Welfare liberale, il cui scopo prioritario è la riduzione

della diffusione delle povertà estreme e dei fenomeni di emarginazione

sociale,

caratterizzato

dalla

presenza

di

programmi di assistenza sociale e sussidi, la cui erogazione è 74 Ivi, p.64.

65


subordinata esclusivamente alla verifica della condizione di bisogno

(means-test).

Questo

modello

dunque

si

contraddistingue per l'elaborazione di piani socio-assistenziali modesti, destinati a coloro che hanno redditi o possibilità di guadagno inferiori ad una certa soglia. Le modalità di finanziamento sono miste; infatti mentre la sanità è interamente fiscalizzata,

le

prestazioni

in

denaro

sono

finanziate

generalmente tramite contributi sociali. In questo modello -tipico di paesi quali Stati Uniti, Canada, Australia, Inghilterralo Stato incoraggia il mercato sia passivamente garantendo prestazioni minime, sia attivamente offrendo interventi privati, con la conseguente mercificazione dei serviti erogati75. –

Welfare conservatore-corporativo, caratteristico dei paesi

dell'Europa continentale, presenta uno stretto collegamento tra le prestazioni sociali e la posizione lavorativa degli individui. Questo modello, incentrato sulla protezione dei lavoratori e delle loro famiglie, richiama il sistema di welfare tipico dell'età bismarckiana, in cui si assisteva ad un contrattazione tra lavoro, potere politico ed economico. Il modello conservatorecorporativo privilegia sistemi e programmi di protezione molto frammentati e diversificati per categorie, talvolta finanziati tramite contributi sociali. Un ruolo fondamentale è svolto dalla famiglia, ritenuta l'entità più adatta a rispondere ai bisogni sociali dei suoi membri. Lo Stato interviene nel momento in cui quest'ultima non riesce ad assolvere alla funzione di protezione76. –

Welfare socialdemocratico, tipico dei paesi scandinavi

(Finlandia, Danimarca, Svezia), presenta livelli elevati di spesa per la protezione sociale, considerata un diritto di cittadinanza. 75 C.Borzaga, L.Fazzi, Manuale di politica sociale, Franco Angeli, Milano, 2005, p.127. 76 Ibidem.

66


Le prestazioni, che garantiscono una copertura universale, consistono in benefici in somma fissa, erogati nel momento di esposizione al rischio. Il welfare viene identificato con l'insieme delle spese destinate alla previdenza, alla sanità, all'assistenza, agli ammortizzatori sociali, all'istruzione, etc. In questo modello, l'intervento dello Stato si pone in sostituzione sia del mercato che della famiglia. Questi modelli si caratterizzano per alti livelli di tassazione, che risultano comunque compensati da adeguate misure di protezione sociale77. Nei modelli teorizzati da Esping-Andersen è presente un continuo riferimento a tre elementi fondamentali: lo Stato, la famiglia, il mercato, ciò che il egli definisce the three pillars, i tre pilastri del welfare. Il ruolo svolto da ogni singola istituzione, l'una in funzione reciproca con l'altra, caratterizzano la differente tipologia di welfare e la produzione di politiche sociali diversificate. La crisi dell'attuale sistema di welfare ha delle profonde ripercussioni sugli attori che vi operano (tra cui Stato, famiglia e mercato); essa è data in parte dall'incapacità delle istituzioni di assolvere al proprio ruolo. Come afferma Donati, da questa incapacità deriva la crisi delle politiche sociali ad individuare i loro specifici obiettivi e mezzi, nonché verificare i risultati raggiunti. In un periodo così critico come quello attuale, sia la crisi del welfare state, sia le conseguenti necessità di ridefinire le politiche sociali sollevano numerosi interrogativi sui rapporti tra Stato e famiglia, società civile e istituzioni pubbliche, mondi vitali e sistema sociale78. Come detto prima, dal momento che i sistemi di welfare risentono del contesto storico nel quale vengono teorizzati, 77 Ivi, p.128. 78 P.Donati, Op.Cit., p.58.

67


anche le politiche sociali sono influenzate dai continui cambiamenti a cui viene sottoposto lo stato sociale. Alla luce del periodo di crisi economica, è importante dunque cercare di comprendere lo stato delle politiche sociali, per capire in che modo lo Stato sociale tenta di fornire una risposta ai continui bisogni e problemi delle persone.

3.2 Le policies nei sistemi di welfare Nel corso degli ultimi anni, come ribadito più volte nei paragrafi precedenti, la crisi economica e finanziaria ha contribuito ad alimentare l'instabilità del tradizionale sistema di welfare e la precarietà delle politiche sociali; queste sono state indebolite dalle continue trasformazioni avvenute negli ultimi decenni nell'organizzazione del lavoro, della vita familiare, nei rapporti intergenerazionali, dello stile di vita in generale. In passato, le politiche sociali sono state intese come una risposta dello Stato (dapprima moderno e poi contemporaneo) ai fenomeni di povertà e devianza, in tutte le loro forme, collegate e

generate

dal

modernizzazione79.

processo Pur

di

prendendo

industrializzazione

e

in

la

considerazione

definizione proposta da Donati, le politiche sociali sono qualcosa di ben più complesso ed articolato. Così come è stato difficile dare una definizione di welfare state, altrettanto complesso risulta chiarificare il concetto di politica sociale. Come ha affermato T.H.Marshall, la politica sociale non ha un significato esatto. Con tale termine si fa riferimento alla politica dei governi in relazione alle azioni che hanno un impatto diretto sul benessere dei cittadini, fornendo ad essi servizi e 79 P.Donati, Op.Cit, p.58.

68


prestazioni monetarie. Il nucleo centrale della politica sociale è costituito dalla previdenza, dalla sanità, dalla assistenza e dalle politiche abitative 80.

Con il termine policy si fa riferimento ad un insieme di politiche pubbliche aventi scopi ed effetti sociali variabili, che vanno da una più equa distribuzione societaria di risorse e opportunità, alla promozione di una migliore qualità della vita. Dunque studiare le politiche sociali significa in parte analizzare ciò che lo stato fa per il conseguimento del benessere dei cittadini81. Il problema sta nel fatto che, da qualche decennio a questa parte e anche in conseguenza della crisi economica, le politiche sociali non riescono più ad assolvere al loro compito primario. Il persistere della crisi economica e finanziaria, nonché la debolezza dei sistemi di welfare, considerata in ordine alla loro insufficienza di fornire risposte davanti alla crescente presenza di persone e gruppi a rischio di esclusione sociale, induce ad interrogarsi sull'interezza delle politiche sociali, ossia sul proprio

concretizzarsi

nella

realtà

legislativa,

politica,

amministrativa82. In altri termini, dobbiamo domandarci, anche in riferimento al periodo di profonda instabilità che l'Italia e il resto del mondo sta attraversando, quale sia la qualità delle politiche sociali e se e in quale modo riescono a far fronte ai numerosi bisogni dei cittadini. Le policies possono contribuire a produrre condizioni sociali più favorevoli allo sviluppo economico e sociale, a creare rapporti di collaborazione e fiducia tra le persone, un ambiente 80 R.Titmuss, Social Policy, George Allen and Unwin, Londra,1974, p.30. 81 M.Naldini, Le politiche sociali in Europa. Trasformazioni dei bisogni e risposte di policy, Carocci Editore, Roma, 2006. 82 A.Merler, M.L.Piga, A.Vargiu, L'interezza delle politiche sociali per una cittadinanza attiva: quale partecipazione?, in I.Colozzi, (a cura di), Dal vecchio al nuovo welfare. Percorsi di una morfogenesi, Franco Angeli, Milano, 2012, p.57.

69


di vita e una socialità che facilita l'attività delle istituzioni e costituisce un supporto e un vantaggio per un impresa privata o un terzo settore che intendono operare in quell'ambito territoriale83. Negli ultimi anni, le politiche sociali -comprese quelle italiane- sono state sottoposte a molteplici tagli economici che hanno ridotto drasticamente la possibilità di attuazione di numerosi interventi. Nel momento in cui lo Stato, da solo, non riesce ad arrivare, l'obiettivo di una politica sociale dovrebbe essere quello di costruire un sistema di protezione sociale di tipo promozionale, volto a favorire strategie di investimento sociale, favorendo l'incontro tra stato-mercato-società civile. Quando si parla di policies promozionali, si fa riferimento a delle politiche orientate a stimolare la partecipazione della comunità in generale e dei beneficiari nello specifico, attivando dei processi di empowerment. Per un welfare attivo e promozionale, in grado di creare opportunità ed esigibilità dei diritti, è necessario agire su due livelli: un livello micro, che tenga conto delle potenzialità

delle

persone

e

incoraggi

le

capacità

di

empowerment di ciascuno, un livello macro, caratterizzato dal contesto istituzionale con tutti i suoi vincoli, in cui si inseriscono le stesse politiche sociali84. Il problema principale sta nel comprendere l'importanza di una efficace sinergia tra le due dimensioni appena descritte, funzionale per l'attuazione di politiche sociali efficaci ed efficienti. A

questo

proposito,

secondo

R.Siza,

i

servizi

-e

personalmente aggiungerei anche le politiche sociali- “vengono 83 R.Siza, Le politiche sociali come equilibrio tra sfere di vita, in A,Merler (a cura di), Altri Scenari, Franco Angeli, Milano, 2010, p. 41. 84 I.Colozzi (a cura di), Op.Cit., p.69.

70


giudicati per la loro efficacia quando sono in grado di produrre ambienti coesi, ridurre o risolvere la conflittualità, costruire forme associative […] e sono capaci di predisporre progetti che promuovono

l'inclusione

sociale;

creano

una

comunità

territoriale accogliente, più attiva, capace di affrontare le criticità che emergono al suo interno, una comunità che si avvale di una rete di servizi orientata a costituire un supporto alla famiglia e ai suoi componenti, a conciliare le esigenze di lavoro con quelle personali e di vita, a sostenere l'impegno di cura nei confronti dei componenti che presentano maggiori difficoltà”.85 In questo contesto si collocano i mutamenti che lo stato del benessere e le politiche sociali italiane hanno subito nel corso degli ultimi dodici anni, con il passaggio dal welfare state tradizionale al welfare mix. Vedremo nei prossimi paragrafi in che modo è avvenuta questa trasformazione e come la crisi economica-finanziaria ha contribuito ad indebolire questo assetto.

3.3 Le politiche sociali nel contesto italiano Come detto ampiamente nei paragrafi precedenti, i welfare state europei stanno attraversando un periodo di profonda crisi e ristrutturazione ideologica. Anche l'Italia non sembra essere immune da questo processo. La crisi economica e finanziaria esplosa a livello internazionale, ha contribuito ad alimentare la precarietà del sistema di welfare, con importanti ripercussioni sull'impianto delle politiche sociali. Anche il clima di profonda instabilità politica che caratterizza il Bel Paese da qualche anno 85 Ibidem.

71


a questa parte, ha determinato un impasse istituzionale, economico e sociale senza precedenti negli ultimi dieci anni. Per

fronteggiare

l'ormai

noto

scenario

economico

internazionale, anche in Italia si è verificato quel processo comune a gran parte dei paesi europei, consistente nel drastico contenimento della spesa pubblica e della spesa sociale. È bene non dimenticare che l'Italia è una realtà piuttosto particolare, ricca di contraddizioni politiche e istituzionali, la cui storia è stata travagliata per tanti aspetti, ivi compreso quello dello stato sociale. Il sistema di welfare italiano si caratterizza per la sua frammentazione, in particolare, come affermano Moro e Bertin, una frammentazione di tipo istituzionale. Questo tratto tipico, ha origini ben lontane, risalenti già alla prima legge di settore nel nostro Paese, ossia la legge Crispi del 189086, la quale, allo scopo di riordinare il sistema delle Opere Pie, consentì il diffondersi su tutto il territorio nazionale di numerose istituzioni, le IPAB (Istituzioni Pubbliche di Beneficenza e Assistenza) le quali svolgevano la loro funzione socioassistenziale rivolgendosi a destinatari specifici e senza alcun coordinamento87. A quella istituzionale, si è affiancata nel corso del tempo una frammentazione

categoriale

(aspetto

che

tutt'oggi

contraddistingue lo stato sociale italiano), delineata in particolare dalle politiche sociali fasciste; queste avevano creato numerosi istituti preposti all'assistenza di specifici gruppi di 86 Con l'istituzione della legge n.6972/1890, Norme sulle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, al sistema delle IPAB furono affiancante gli enti comunali di assistenza -che avevano lo scopo di offrire una assistenza generica ai poveri presenti nelle città- e istituzioni volti alla custodia dei più deboli (es. i manicomi) gestite direttamente dallo Stato, con funzioni assimilabili al controllo sociale piuttosto che all'assistenza. 87 G.Moro, G,Bertin, I sistemi regionali di welfare in Italia, in I.Colozzi (a cura di), Op.Cit., p.68.

72


bisognosi (bambini, orfani, anziani, ciechi, etc.), molti dei quali sono sopravvissuti fino alla metà degli anni Settanta. Nel periodo a cavallo tra le due guerre, si ridefinirono le basi dell'assistenza assicurativa e pensionistica; con l'avvento del fascismo si assistette ad una maggiore frammentazione dei modelli assistenziali categoriali, attuando provvedimenti legati alle singole categorie lavorative (agevolandone alcune a scapito di altre). Pertanto gli enti e le istituzioni pre-repubblicane contribuirono a svolgere la loro attività di assistenza anche dopo l'approvazione della Costituzione88. Ma più in generale si potrebbe affermare che la storia della politica e delle politiche sociali dal dopoguerra alla seconda metà degli anni Settanta è stata piuttosto tormentata. Come afferma Ferrera, il ventennio precedente l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale viene ricordato come una continua successione di ambiziosi progetti di riforma, aspri conflitti e delicati compromessi. Come altri paesi europei, anche per l'Italia gli anni del dopoguerra furono particolarmente difficili ma, date le precarie condizioni dell'economia postbellica, i vincoli finanziari alla riforma del welfare state, nel nostro paese, erano particolarmente rigidi. In questi anni il governo italiano varò una serie di provvedimenti di emergenza, caratterizzati per la loro frammentarietà, i loro benefici erano infatti destinati a distinte categorie (pensionati, ma differenziati sulla base dello schema sociale di appartenenza; invalidi civili; vedove). Contemporaneamente, l'allora governo De Gasperi nominò due commissioni89 incaricate di costituire un nuovo 88 Ivi, p.37-39. 89 La prima commissione fu istituita nel luglio del '45 presso il Ministero della Costituente e, affidata ad Antonio Pesenti, aveva il compito di indagare sui problemi relativi al lavoro. La seconda commissione, istituita nel 1947 e facente capo al Ministero del Lavoro e presieduta dal socialista Ludovico D'Aragona, aveva il compito di studiare le diverse forme di previdenza, assistenza e assicurazioni sociali in vista di una nuova

73


riassetto del sistema previdenziale, le quali rivelarono ben presto delle criticità a causa del condizionamento subito da parte delle principali forze politiche e sociali. In particolare, la Commissione D'Aragona affrontò il problema relativo alla copertura previdenziale, ossia l'istituzione di un sistema universalistico -esteso a tutta la popolazione, compresi coloro che fossero in grado di provvedere direttamente a se stessi-. Questo progetto si rivelò fallimentare. Ma la criticità del contesto sociale italiano ispirò i soggetti istituzionali e le forze politiche coinvolte nell'ideazione di nuove politiche sociali90. Gli anni compresi tra il 1950 e il 1966 costituirono un periodo di massima espansione dal punto di vista delle riforme sociali e di consolidamento del welfare state italiano. Negli anni Sessanta e Settanta vennero introdotti importanti elementi di innovazione che fecero accostare il nostro sistema sociale ai modelli socialdemocratici e universalisti nord-europei. A questo proposito non si può non citare la Legge n.833/78, riguardante l'istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, al quale fanno capo una serie di funzioni, strutture, servizi e attività che lo Stato garantisce a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione, per il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica, nonché l'attuazione di sistemi di tutela della stessa. Per quanto riguarda le politiche sociali, il decentramento dei poteri alle regioni e agli enti locali si verificò con il D.P.R. n.616/77 “Attuazione della delega di cui all'art.1 della Legge del 22 luglio 1975, n.382”91. Teoricamente, la regionalizzazione delle politiche sociali avrebbe dovuto ridurre la frammentarietà riforma, che rispondesse alle esigenze di un ordinamento più semplice e uniforme. 90 M.Ferrera, Op.Cit., p.62. 91 Per una maggiore comprensione, il titolo della legge n.382/75 è “Norme sull'ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione”.

74


istituzionale, di fatto, le modalità con le quali si è attuato questo processo ha portato una radicalizzazione delle differenze territoriali, ancora oggi in buona parte riscontrabili92.

3.3.a Il cammino delle politiche sociali verso la legge quadro Dopo la tumultuosa esperienza degli anni Settanta e Ottanta, ancora caratterizzati per la frammentarietà e settorializzazione delle politiche sociali, l'ultimo decennio del XX secolo ha apportato significative novità, determinando in particolare nel campo delle politiche socio-assistenziali profondi mutamenti. Nello specifico, gli interventi più incisivi sono stati quelli relativi all'introduzione di una legislazione specifica per il terzo settore, lo sviluppo del dibattito sul federalismo -dal quale sono scaturite l'attribuzione di maggiori compiti agli enti locali e in particolari alle Regioni-, il riordino del Sistema Sanitario Nazionale93. Nella seconda metà degli anni Novanta, il sistema socioassistenziale italiano è stato caratterizzato da una fortissima differenziazione regionale, settorializzazione che nella sostanza ha comportato la disomogeneità del welfare, in cui non veniva riconosciuta una eguaglianza tra cittadini appartenenti ad ambiti regionali differenti. Con il D.Lgs. n.112/98, tutte le funzioni relative ai servizi sociali divengono di competenza delle regioni e dei Comuni, riservando allo Stato solo un numero ristretto di attribuzioni, quali: 92 I.Colozzi (a cura di), Op.Cit., p.69. 93 La normativa di riferimento è il D.Lgs. n.502/92 dal Titolo “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art.1 della legge 23 ottobre del 1992, n.421” e il D.Lgs. n.517/93 “Modificazioni al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.502, recante riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art.1 della legge 23 ottobre 1992, n.421”.

75


determinazione

dei

criteri

generali

per

la

programmazione della rete degli interventi di integrazione sociale da attuare a livello locale; –

determinazione dei principi e degli obiettivi di politica

sociale; –

criteri per la ripartizione del fondo nazionale per le

politiche sociali; –

determinazione degli standard dei servizi sociali da

ritenersi essenziali in funzione di adeguati livelli delle condizioni di vita; – profili

la fissazione dei requisiti per la determinazione dei professionali

degli

operatori

sociali

nonché

le

disposizioni generali concernenti i requisiti per l'accesso e la durata dei corsi di formazione professionale; –

compiti di assistenza tecnica, su richiesta degli enti locali

territoriali, nonché compiti di raccordo in materia di informazione e circolazione dei dati concernenti le politiche sociali, ai fini della valutazione e monitoraggio dell'efficacia della spesa per le politiche sociali94. In base a quanto stabilito dalla legge, la Regione viene individuata come istituzione programmatoria, a cui spetta il conferimento di funzioni e compiti amministrativi ai Comuni e agli altri enti locali in materie differenti: minori, anziani, famiglia, handicap, dipendenze, etc.95 94 Art.128, D.Lgs. n.112/98 “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n.59”. La suddetta legge ha ripreso le direttive della L.59/97 “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”. La cosiddetta Legge Bassanini, una delle leggi più importanti in tema di decentramento amministrativo, ha rappresentato il punto di svolta nel lungo processo di regionalizzazione conclusosi con la L.328/2000. 95 G.Rovati, Op.Cit., p.34.

76


Il lungo iter normativo degli anni Novanta ha portato alla realizzazione di una delle leggi più importanti nell'ambito delle politiche sociali italiane, la L.328/2000 “Legge quadro per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Per spiegare le linee guida della L.328, è opportuno citare l'art.1, esplicativo di quello che vuole rappresentare la legge nel contesto italiano. Il suddetto articolo, al comma 1 afferma che La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione.

Cui segue il comma 3 che recita: La programmazione e l'organizzazione del sistema ingrato di interventi e servizi sociali compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato ai sensi del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.112, e della presente legge, secondo i principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità,

omogeneità,

copertura

finanziaria

e

patrimoniale,

responsabilità ed unicità dell'amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali.

Come si evince dall'articolo sopra citato, una delle finalità che la legge quadro si propone di raggiungere è senza dubbio quella di assicurare uniformità nell'erogazione delle prestazioni, al fine di evitare differenziazioni particolari tra un contesto regionale o territoriale e l'altro. Ovviamente, nonostante uno degli obiettivi primari della legge fosse proprio questo, nella 77


realtà concreta ciò non sempre accade. Inoltre, a tredici anni dall'entrata in vigore della normativa, con una crisi economica che incombe su tutto il Paese, la legge quadro non trova un facile terreno di applicazione. L'obiettivo primario è comunque quello di disciplinare la realizzazione di un sistema universalistico e integrato di interventi e servizi sociali, sanitari e socio-sanitari, interventi che si rivolgono ad un ampio bacino di utenza, alle persone e alle famiglie per garantire una migliore qualità della vita, assicurare pari opportunità, rimuovere le discriminazioni, prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di bisogno e di disagio. Inoltre, nel testo della vengono indicati i principi generali e gli strumenti di programmazione integrata tra i differenti livelli di governo: il Piano Nazionale degli Interventi e dei Servizi Sociali, la programmazione triennale, i Piani Regionali e i cosiddetti Piani di Zona che riguardano strettamente l'ambito territoriale locale96. Ma la legge quadro ha avuto l'importante merito di apportare una significativa svolta nella cultura del welfare tradizionale italiano, sancendo il passaggio ad un welfare mix. Questa nuova strategia, che si esplica anche nell'ambito delle politiche sociali, vede la partecipazione dei soggetti del privato sociale e del mercato, per una completa gestione delle risorse della comunità. A testimonianza di ciò, l'art.1, al comma 4, afferma che Gli enti locali, le regioni e lo Stato, nell'ambito delle rispettive competenze, riconoscono e agevolano il ruolo degli organismi non lucrativi di utilità sociale, degli organismi della cooperazione, delle associazioni e degli enti di promozione sociale, delle fondazioni e degli enti di patronato, delle organizzazioni di volontariato, degli enti riconosciuti dalle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato 96 Art.18-19, L.328/2000.

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patti, accordi o intese operanti nel settore della programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

La legge 328/2000 si caratterizza per l'attribuzione ai soggetti del terzo settore di compiti e funzioni fino ad allora mai riconosciuti. Questo nuovo modello di welfare affronta il compito dell'elaborazione dei bisogni delle persone e delle comunità attraverso politiche di coinvolgimento di tutti gli attori, quelli istituzionali, del mercato, del privato sociale e delle reti informali. Tutto questo ha promosso una cultura della partecipazione prima di allora mai sperimentata. Si è passati da una dimensione assistenziale/categoriale a forme territoriali, partecipative e relazionali, in cui la persona viene posta al centro di ogni cosa e diviene l'obiettivo primario. In questo contesto, appare significativo il ruolo che il settore informale e le organizzazioni civiche hanno assunto nella promozione di cittadinanza attiva.

3.4 Politiche sociali vs crisi economica Come detto piĂš volte nei paragrafi precedenti, l'attuale sistema di welfare state vive un periodo di profonda transizione, tra la consapevolezza dei limiti strutturali del sistema costruito negli anni passati, dei profondi mutamenti economici e sociali sopraggiunti, e allo stesso tempo, delle difficoltĂ volte ad individuare nuove strategie d'azione, a fronteggiare nuovi rischi e condizioni emergenti, a riprogettare servizi che manifestano la loro inefficacia, a razionalizzare costi e prestazioni97. 97 R.Siza, Le politiche sociali come equilibrio tra sfere di vita, in A.Merler (a cura di), Op.Cit., p.70.

79


La

crisi

economica

dall'eccessivo

e

indebitamento

finanziaria,

aggravata

pubblico,

ha

anche

determinato

l'emergere di nuove categorie a rischio collegate alle dinamiche demografiche (invecchiamento della popolazione) e sociali (crisi della

famiglia,

progressivo

innalzamento

dei

tassi

di

occupazione), l'impatto dei flussi migratori, i bassi livelli di crescita economica, hanno portato ad un profondo ripensamento del welfare state e delle politiche sociali -comprese quelle italiane-98. In questo contesto, mi pare opportuno ricordare che l'attuale crisi economica-finanziaria che da ormai cinque anni continua a colpire il nostro Paese, ha avuto -e tutt'oggi sta avendo- dei costi umani elevatissimi, ripercuotendosi sulle categorie socioeconomiche più esposte. Da un quadro così complesso, emerge chiaramente che le politiche di welfare non riescono a fronteggiare efficacemente i processi di impoverimento, né ridurre le disuguaglianze nonostante impegnino numerose risorse pubbliche. Sulla base delle criticità presentate dall'attuale sistema di welfare, nel corso dell'ultimo decennio, gran parte dei paesi europei hanno avanzato proposte di innovazione, con il triplice obiettivo di contenere la spesa sociale, far crescere in termini quantitativi e qualitativi l'offerta dei servizi nel campo socioassistenziale, allargare la possibilità di attivazione delle sfere private e di quelle informali in vista di un allargamento degli attori all'interno di nuovi modelli orientati alla governance sociale99. Malgrado queste premesse, la condizione dell'Italia appare sempre più critica. Nonostante i tentavi di gran parte della classe 98 L.Pesenti, Un welfare differenziato: sussidiarietà e servizi alla persona, in G.Rovati (a cura di), Op.Cit., p.34. 99 Ibidem.

80


politica di attuare meccanismi di convincimento volti a prospettare una situazione più rosea rispetto all'immediata fuoriuscita del paese dal tunnel della crisi economica, i dati che si hanno a disposizione non sono confortanti. Le stesse politiche sociali, con i continui tagli alle quali sono sottoposte, faticano a trovare applicazione nella realtà dei servizi, che non riescono più a soddisfare una domanda in continua crescita. La situazione emersa sia nel Rapporto Annuale pubblicato dall'Istat e relativo all'anno appena trascorso, sia nel Rapporto Annuale sull'occupazione e gli sviluppi sociali in Europa, pubblicato nel dicembre 2012, è sempre più allarmante. L'impatto della crisi sulla situazione sociale si presenta particolarmente pressante, determinando un maggiore divario e marcate diversità tra gli stati del Nord e Sud dell'area euro 100. Il rischio di cadere in condizioni di povertà o la possibilità di uscirne variano notevolmente tra gli Stati membri. L'Italia, come ben sappiamo, è tra quei paesi in cui il rischio di povertà è più elevato. Se si prende in considerazione quest'ultimo problema, da un punto di vista delle politiche sociali, i diversi sistemi nazionali diversificano la loro strategia di intervento a seconda delle loro dimensioni, ossia livelli analoghi di spesa sociale dei vari Stati membri si traducono in tassi diversi di riduzione della povertà. Inoltre i sistemi fiscali e previdenziali possono influire notevolmente sull'occupazione attraverso strumenti specifici come la disponibilità di servizi di custodia dei bambini, che è un 100ESDE- Employment and Social Developments in Europe Review, Rapporto Annuale sull'occupazione e gli sviluppi sociali in Europa, 2012. Dal rapporto è emerso chiaramente che il reddito lordo disponibile delle famiglie in termini reali è calato tra il 2009 e il 2011 in due terzi dei paesi dell'UE: le contrazioni maggiori si sono registrate in Grecia (17%), Spagna (8%), Cipro (7%), Estonia e Irlanda (entrambe con il 5%). questa evoluzione è in forte contrasto con la situazione osservata nei paesi nordici, in Germania, Polonia e Francia dove i sistemi di welfare e la migliore tenuta dei mercati del lavoro hanno consentito ai redditi globali di continuare a crescere durante la crisi.

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importante fattore per indurre le persone a rientrare nel mercato del lavoro, in particolare le donne101. In questi anni di crisi economica, i diversi stati dell'eurozona, Italia compresa, hanno cercato di limitare le conseguenze sociali e di adottare una serie di misure necessarie ad evitare il completo collasso economico oltre che civile. In particolare, è possibile identificare una serie di strategie che racchiudono l'insieme delle politiche pubbliche e sociali adottate come possibile soluzione alla crisi in atto: –

sostegno alla cura, svolta direttamente all'interno delle

famiglie o delle reti relazionali, attraverso l'introduzione di meccanismi innovativi

di finanziamento al care familiare

(assegni di cura, voucher). Questo genere di intervento riconosce l'importanza delle attività informali di assistenza svolta all'interno della rete familiare o parentale, non solo per contenere i costi legati all'istituzionalizzazione delle persone anziane o disabili, ma anche per l'insostituibile capacità delle reti familiari di produrre forme di capitale sociale e beni relazionali; –

misure preventive a sostegno dell'occupazione, intese a

mantenere il lavoro all'interno dello stesso labor market, per esempio sostenendo le imprese o favorendo un sostegno al reddito stesso dei lavoratori, iniziative volte a sostenere i lavoratori in caso di perdita del lavoro, misure mirate a creare occupazione, basate su strumenti che promuovono il passaggio dalla disoccupazione all'occupazione102;

101Per un maggiore approfondimento si rimanda al Comunicato Stampa del 8-01-13 della Commissione Europea, Occupazione e sviluppi sociali: crescono le divergenze e si fa più acuto il rischio di esclusione di lungo periodo. Il documento può essere reperito anche dal sito www.osservatorioinca.org, ultima consultazione 15-012-2013. 102Politiche sociali in tempi di crisi, in www.osservatorioinca.org, ultima consultazione 15-01.13.

82


politiche

di

conciliazione

famiglia-lavoro,

ossia

un'insieme di misure e strumenti di policy che facilitano l'ingresso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro anche qualora abbiano carichi di cura, le cosiddette family friendly policies. Con questo termine si fa riferimento a quell'insieme di politiche che dovrebbero essere promosse dalle aziende per rispondere ai bisogni di conciliazione dei propri dipendenti. L'emergere di un tema di questo tipo, va inquadrato in un più ampio contesto di profonde trasformazioni che hanno interessato sia la famiglia, sia il mercato del lavoro (in cui la partecipazione

delle

donne,

negli

ultimi

decenni,

è

incrementata). L'ingresso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro e le trasformazioni familiari e femminili, dovrebbero essere supportate da politiche sociali che siano maggiormente amiche della famiglia, in quanto, come ben sappiamo, la partecipazione femminile al mercato del lavoro condiziona il benessere dell'intera famiglia103. L'attuale sistema italiano di welfare state, come ben sappiamo, ha sperimentato e sta vivendo una fase di profonda instabiltà, accentuatà maggiormente dall'esplosione della crisi economica e finanziaria. In Italia si sono manifestate numerose problematiche che potevano essere preventivate attraverso una diversa azione delle 103M.Naldini, Op.Cit., p.69. Le family friendly policies, politiche amichevoli nei confronti delle famiglie, rientrano in quella categoria di politiche sociali volte a migliorare le misure aziendali di conciliazione famiglialavoro (anche con l'obiettivo di sostenere le donne, su cui grava gran parte del carico familiare). Nell'ambito di queste misure aziendali rientrano congedi (per maternità, paternità, genitoriali, familiari, per adozione), servizi di cura per l'infanzia (nidi aziendali, accordi con i servizi locali, soggiorni estivi, sostegno finanziario), orari di lavoro flessibile (part-time, flexitime, job-sharing), misure di sostegno e consulenza. In Italia, i sevizi aziendali per l'infanzia sono ancora poco diffusi; nel nostro Paese l'organizzazione dei tempi e degli orari di lavoro è meno amichevole verso chi ha responsabilità familiari.

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politiche pubbliche, ma che, al contrario, sono esplose con particolare intensità. Mi riferisco alla continua presenza del deficit e dei debiti pubblici, con le conseguenti e pressanti necessità di contenimento dei costi di protezione sociale; al marcato invecchiamento della popolazione, con le relative conseguenze in campo pensionistico e sanitario; al numero crescente di poveri, per i quali non sembrano trovarsi efficaci misure di contenimento dello stesso fenomeno. Secondo Ferrera, si possono prospettare diverse soluzioni in vista di un miglioramento delle politiche pubbliche e dello stesso sistema di welfare: –

uno snellimento dell'intero sistema pensionistico e

previdenziale, attraverso l'istituzione di una pensione di cittadinanza affiancata da regimi di previdenza integrativa occupazionale (ispirata al modello tipico olandese); –

l'istituzione di uno schema volto a garantire risorse e

prestazioni

sufficienti,

nonchè

efficaci

politiche

contro

l'esclusione sociale, in vista di un maggiore universalismo avente lo scopo di colmare i vuoti ancora presenti nella rete di protezione sociale; –

la definizione, in campo sanitario, di un nuovo mix tra

copertura pubblica (obbligatoria e universale) e copertura privata, volontaria e particolare104. Attualmente, appare fondamentale una rilettura complessiva del ruolo e delle funzioni non solo delle politiche sociali, ma dell'intero sistema che fa capo alla pubblica amministrazione, di cui sono ormai noti i limiti operativi e organizzativi. In questa prospettiva, il management pubblico rappresenta un insieme di 104M.Ferrera, Op.Cit., p.62.

84


metodi e tecniche di gestione organizzativa, mutuato dalle realtà aziendali, che oggi trova spazio e legittimazione in una visione della pubblica amministrazione sempre più improntata ai criteri manageriali

di

efficienza,

produttività

e,

soprattutto,

orientamento al cittadino, che diventa utente e cliente dei servizi erogati

dalle

amministrazioni

medesime.

Il

nuovo

managerialismo ha origine nei paesi anglosassoni come l'Inghilterra, la Nuova Zelanda e l'Australia, ma si è diffuso in gran parte dei paesi dell'Ocse. Il nuovo management pubblico è un modello orientato al cambiamento generalizzato, che si fa carico di tradurre le idee neoliberali sul piano amministrativo dei servizi pubblici: un mutamento che si articola secondo modalità differenti, a seconda dei diversi contesti regionali o nazionali, legati alla cultura amministrativa precendente, all'assetto istituzionale e alla tradizione normativa, nonchè alla natura e struttura dei rapporti tra decisori pubblici e dirigenti. La declinazione di queste idee riguardanti il ruolo dello Stato avviene tramite principi guida volti all'elaborazione di politiche di governo in diversi ambiti, economico, sociale, culturale, educativo, amministrativo, etc105. L'attuazione di nuove strategie di management potrebbe consentire l'integrazione di competenze manageriali differenti -economiche, giuridiche, sociologiche, statistiche- volte a conoscere i processi e le regole di funzionamento delle amministrazioni pubbliche, ragionare per progetti e per obiettivi, capire le esigenze delle aziende e in particolare dei cittadini. Nonostante l'insieme delle strategie attuate dai vari attori politici, appare necessaria una ridefinizione degli assetti di welfare in tutti i principali stati europei, ma in particolare in un Paese come il nostro, in cui la popolazione invecchia rapidamente, dove il 105A.Vargiu, Op.Cit., p.23.

85


welfare si basa sulla protezione e sui servizi offerti dalla famiglia, un sistema in cui la disoccupazione e la precarietĂ del mercato del lavoro hanno assunto dimensioni sempre piĂš grandi, determinando una insicurezza che si ripercuoterĂ nelle generazione future.

86


Conclusioni. Per una nuova specificità delle politiche sociali

L'attuale

crisi

economica

e

finanziaria

ha

messo

profondamente in discussione gli assetti politici, economici, sociali e culturali di gran parte dei Paesi del mondo, con effetti che si fanno e si faranno sentire nel lungo termine. Come afferma Saraceno, aleggia un precario equilibrio che può divenire squilibrio irrecuperabile per il prossimo futuro, determinando

un

rafforzamento

e

una

riproduzione

intergenerazionale della disuguaglianza e della povertà106. Fin dagli esordi, ho sempre considerato questo lavoro di tesi come una possibiltà per analizzare e riflettere sugli innumerevoli eventi che da qualche anno a questa parte scuotono il mondo intero, con profonde conseguenze e implicazioni sulla vita delle persone. Come detto nel paragrafo introduttivo, l'idea di meditare sul periodo attuale è scaturita in seguito al tirocinio formativo effettuato presso il settore Politiche Sociali e Pari Opportunità

del

Comune

di

Sassari.

Qui,

trovandomi

quotidianamente a contatto con la sofferenza delle persone, con le richieste d'aiuto che talvolta non potevano essere soddisfatte, dinanzi a bisogni sempre più impellenti, ho avuto modo di comprendere che gran parte delle problematiche che i servizi alla persona si trovano a dover affrontare sono una delle conseguenze del periodo di crisi economica che colpisce anche il nostro Paese. Occorre precisare che i problemi correlati alla povertà e alla crescita delle disuguaglianze sono sempre esistiti, ma, più che in passato, chi sperimenta un periodo di deprivazione

talvolta

considerato

temporaneo

-legato

ai

numerosi licenziamenti, alla perdita del lavoro o all'aumento 106C.Saraceno, Povertà, giustizia C.Saraceno, Op.Cit., p.36.

sociale,

democrazia,

in

P.Dovis,

87


delle spese- è più propenso a rivolgersi ai servizi dislocati nel territorio, considerati spesso come un'ultima possibilità. Se fino a qualche tempo fa si poteva contare maggiormente sul supporto delle reti informali -familiari, parentali o amicali-, attualmente ciò non sempre è possibile. Gli stessi servizi spesso non sono in grado di rispondere efficacemente alle esigenze di una popolazione ormai esausta dai continui problemi resi più acuti dalla crisi; ci troveremmo dinanzi ad un vicolo cieco se non fosse per l'importante intervento del terzo settore e della società civile, settori di grande importanza dai quali, alla luce della situazione attuale, non si può prescindere. Come rimarcato più volte e come affermato da Siza, le politiche sociali talvolta non sono sufficienti per contrastare realmente delle condizioni diffuse di povertà e di deprivazione sociale, dunque rischiano di avere un ruolo assistenzialistico e di mera riduzione del danno. In questa prospettiva, il lavoro sociale si configura come una azione per migliorare il benessere e la qualità della vita della comunità locale, valorizzando la partecipazione attiva dei cittadini e delle loro espressioni organizzative di base, promuovendo le azioni che hanno un impatto positivo sulle persone, producendo beni relazionali. Gli stessi sviluppi delle politiche sociali vanno in questa direzione, accentuando la dimensione integrativa delle azioni poste in essere, nella convinzione che accanto al sistema dei servizi alla persona esiste una pluralità di risorse che possono essere significativamente mobilitate per il benessere collettivo107 e fornire un importante supporto là dove lo Stato non riesce ad intervenire. La crisi economica-finanziaria, sopita durante tutto il 2009 e riacutizzatasi nel 2010, con effetti che si fanno sentire 107R.Siza, Le politiche sociali come equilibrio tra sfere di vita, in A.Merler (a cura di), Op.Cit., p.69.

88


pesantemente ancora oggi, ha comportato in particolare negli ultimi anni un grave peggioramento del bilancio pubblico in numerosi paesi dell'area euro, Italia compresa. Tra le conseguenze sociali della crisi vanno collocati in primo piano l'elevato tasso di disoccupazione, la riduzione dei salari reali, il peggioramento delle condizioni di lavoro, i tagli ai sistemi di protezione sociale, conseguenze che si sono verificate sia nei paesi sviluppati che in quelli emergenti. Nei paesi dell'Unione Europea, sono state le disuguaglianze da reddito a trasformare quella che è nata come crisi finanziaria in una crisi economica mondiale. Al tempo stesso la disoccupazione e sottooccupazione hanno alimentato l'insicurezza socio-economica, nonché la rabbia tra le masse lavoratrici108. In questo contesto lo stato sociale non riesce a perseguire il suo primario obiettivo, ossia la realizzazione del benessere collettivo, innescando quel processo che porta alla crisi del welfare state. Come dice Donati, tale crisi può essere ricondotta al fatto che il benessere risulta realizzato solo parzialmente rispetto alla globalità della popolazione e degli ambiti di vita. Se è vero che il welfare state non riesce ad assicurare universalmente il benessere che promette, per la persistenza di diseguaglianze orizzontali, verticali e territoriali, è tuttavia chiaro che esso è riuscito a stabilizzare i sistemi sociali e soddisfare una parte consistente di bisogni sociali109. Riprendendo il concetto di Donati, il quale attribuisce alla crisi del welfare una discontinuità culturale piuttosto che politica, economica e amministrativa, si potrebbe affermare che è la stessa qualità della vita ad aver subito un radicale mutamento. Dalla nascita del welfare state ad oggi, i bisogni delle persone hanno avuto una profonda evoluzione, innescando quel processo del "volere sempre di più", concetto 108L.Gallino, Op.Cit., p.12. 109P.Donati, Op.Cit., p.58.

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messo del tutto in discussione con lo scatenarsi della crisi economica ancora in corso. Siamo dinanzi all'ennesimo circolo vizioso, dato dal fatto che il welfare state non è in grado di soddisfare i bisogni del cittadino, bisogni legati alla richiesta di un livello superiore di benessere. Dunque l'obiettivo -ormai appartenente al passato- del mantenimento della popolazione sopra la linea di povertà, seppure relativa, appare a molti velleitario. Ecco che le politiche sociali, dinanzi ad un mutamento così profondo, devono trovare una nuova specificità ed essere ripensate anche alla luce del periodo di profonda instabilità economica, sociale, culturale e politica che il mondo intero, l'Europa e l'Italia stanno vivendo. Appare necessaria una ridefinizione degli assetti di welfare in tutti i paesi, ma è particolarmente urgente in un paese come il nostro, dove la popolazione invecchia rapidamente, il welfare ha funzionanto basandosi sulla protezione e sui servizi offerti dalla famiglia, le politiche a sostegno della cura e delle responsabilità familiari hanno una tradizione debole110. Lo stato sociale, all'interno del quale operano le stesse politiche, non dovrebbe essere inteso come un sistema il cui scopo è la risoluzione dei problemi inerenti la collettività, ma pittuosto come un sistema di azione societerio che tende a definire e assicurare determinate opportunità di vita a tutta la popolazione, regolandone i vari ambiti. Le politiche sociali dovrebbero avere lo scopo primario di garantire a tutti i cittadini le medesime possibilità di scelta, eguali opportunità di condurre una vita all'insegna della dignità, consentire ai servizi alla persona di svolgere efficacemente le loro funzioni, al fine di evitare che sia sempre il cittadino comune a risentire delle scelte di pochi. 110M.Naldini, Op.Cit., p.69.

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