Vulcano - numero 56

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Il mensile dell’Università degli Studi di Milano numero 56, Marzo 2011

Terremoto Spa

Aggiornamenti dal capoluogo abruzzese

Piombo umanitario

Fare la guerra per fare la pace

Urban Explorer Consonno

Fotografare la cittĂ fantasma della Brianza


Sommario Vulcano numero 56, Marzo 2011 Il mensile della Statale di Milano 3

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UNIVERSITÀ “Siamo tutti indisponibili” La protesta dei ricercatori

a cura di Gemma Ghiglia e Denis Trivellato

ATTUALITÀ Piombo umanitario di Alessandro Massone

Interrogare le rovine. Urban exploring a Consonno di Laura Carli

12 Perché i sacchi della spazzatura non sono trasparenti: un anno a impatto zero Danila Bruno

14 Siamo quello che scartiamo Francesca Di Vaio

15 Cambiare orientamento sessuale Andrea Fasani

18 L’Aquila. Estate 2010. Alice Manti

19 Terremoti Spa

Francesca Gabbiadini

21 Si va in scena (…forse) Daniele Colombi

23 CULTURA Il fascino indiscreto di Salvador Dalì Irene Nava

25 Quale design? Davide Contu

27 La cultura in gara Elena Sangalli

29 RUBRICHE Le città di carta — A. Lowell, cioè a casa. Alessandro Manca

31 Cruciverba Filippo Bernasconi 32 Editoriale Gregorio Romeo

“Siamo tutti indisp

la protesta dei ricercatori, a cur


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l 14 Dicembre, dopo il voto di fiducia al Governo, il DDL Gelmini è legge. Fino al 2008 solo il 3% (la percentuale più bassa d’Europa) del PIL veniva destinato alla ricerca, ora l’investimento è stato drasticamente ridotto allo 0,9%. Ma la riforma porta con sé anche altri problemi. Con l’ideazione, ad esempio, della figura di un “super-rettore” che ha il potere di nominare i membri del Consiglio di Amministrazione, la rappresentanza dei ricercatori scompare in favore di privati e baroni. La lotta al baronato è stato il cavallo di battaglia del ministro Gelmini. Peccato che, nel concreto, con l’istituzione del super-rettore, con l’autovalutazione interna alle Facoltà e con il blocco del turn over, l’elitarismo accademico non faccia altro che acuirsi. Un punto in particolare riguarda poi anche noi studenti. Molti infatti avranno pensato a un futuro nell’Università e nella ricerca ma, con questa riforma, appare difficilmente realizzabile: se già prima il 90% della progressione di carriera dipendeva dalle conoscenze e non dal merito, ora i nuovi ricercatori avranno un contratto a tempo determinato di tre anni, prorogabile a cinque che, senza le giuste conoscenze, difficilmente verrà rinnovato. Davanti a questa situazione non stupisce la decisione dei ricercatori di far fronte comune, insieme a precari e studenti, contro questo decreto. In molti si sono dichiarati indisponibili e hanno deciso di operare un blocco della didattica che va dal non tenere lezione, compito che peraltro non è previsto dal loro contratto (per stessa definizione un ricercatore si occupa di ricerca), all’occupazione di alcune Facoltà come Fisica e Scienze Politiche alla Statale di Milano e Ingegneria alla Sapienza di Roma. Anche alcuni dei più significativi monumenti italiani, come la Mole Antonelliana, la Torre di Pisa e il Colosseo sono stati occupati per diverse ore da gruppi di studenti. Vulcano ha intervistato Piero Graglia, ricercatore del Dipartimento di Storia della Società e delle Istituzioni della Facoltà di Scienze Politiche della Statale di Milano, e membro della Rete29Aprile. Lei fa parte della Rete29Aprile. Può spiegare brevemente cos’è e di cosa si occupa questo movimento? Rete29Aprile è un raggruppamento spontaneo nato per organizzare la protesta dei ricercatori indisponibili e di tutti coloro che si sono detti contrari al disegno Gelmini.

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ponibili!”

ra di Gemma Ghiglia e Denis Trivellato

foto Mirko Isaia per officine Corsare

UNIVERSITÀ 3


Quali sono i punti del DDL Gelmini che colpiscono maggiormente l’Università e la ricerca in particolare? Innanzi tutto l’attività di ricerca scompare e così viene emarginato il sapere più originale e innovativo. È gravissimo anche il “fondo ad esaurimento” dei ricercatori, che con i contratti a 3 più 3 vengono usati per fare didattica, perché è certo più economico assumere a tempo determinato che creare posti fissi. È un’Università fondata sul lavoro dei precari. Un altro punto a cui sono fortemente contrario è l’autovalutazione d’Ateneo. Altro che lotta al baronato! Una valutazione seria deve essere effettuata per dipartimento e da una fonte esterna, altrimenti non serve a niente, si riduce a un atto autocelebrativo. Cosa ritiene positivo di questa riforma? L’unica cosa salvabile del DDL è l’incentivo salariale per chi ha svolto un lavoro degno di nota ma non condivido il metodo con cui viene stabilito. Sono anche favorevole all’accorpamento dei dipartimenti, con circa 45 docenti per ognuno. Uno dei punti più controversi della riforma sembra riguardare la meritocrazia. Qual è la sua opinione? L’unico modo per dare onore al merito è un lavoro di valutazione a tappeto su ricercatori, associati e ordinari eseguito da soggetti esterni all’Università. Per quanto possano essere state enfatizzate meritocrazia e lotta al baronato, questo DDL, di fatto, protegge i baroni. Contestano le leggi ad personam e poi aumentano esponenzialmente il potere dei rettori. Siamo ben lontani dall’idea di Università aperta e meritocratica che questo decreto vorrebbe propinare. Quali sono le cose che dovrebbero e che concretamente possono essere cambiate nel nostro Ateneo? Questo Ateneo funziona abbastanza bene ma c’è poca partecipazione, soprattutto nei Consigli di Facoltà. Da noi viene fatta la “seduta ristretta”, che prevede solo associati ed ordinari. Permettere la partecipazione di tutti sarebbe una piccola ma significativa concessione alla trasparenza e alla democrazia. Noi ricercatori svolgiamo lo stesso lavoro e abbiamo le stesse responsabilità di associati e ordinari, e dovrebbe esserci riconosciuto. È anche per questo che, con Rete29Aprile, abbiamo proposto il ruolo unico del professore universitario. Gemma Ghiglia

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La protesta in Bicocca

Intervista ai portavoce del Coordinamento dei Ricercatori di Milano-Bicocca Qual è la situazione odierna dell’Università degli Studi Milano-Bicocca? Milano-Bicocca è un Ateneo giovane con grandi potenzialità e ottime prospettive, ed è ancora nella fase di sviluppo. Il taglio dei fondi all’università e il blocco del turn over mettono il nostro Ateneo nelle condizioni di non potersi sviluppare nel migliore dei modi e continuare a garantire un’offerta formativa di elevata qualità per un numero di iscritti costantemente in crescita. Inoltre, essendo un Ateneo non ancora maturo, ha dovuto far fronte alle varie riforme dell’Università e in particolare al passaggio al 3+2 appoggiandosi molto sulla didattica volontaria dei ricercatori. Quali sono le mansioni dei ricercatori in Bicocca? I ricercatori fanno primariamente ricerca, se ci riescono, con partecipazione a congressi scientifici e stesura di articoli. In molti settori inoltre i ricercatori si occupano di seguire le attività di stage e di tesi degli studenti, oppure svolgono altre forme di didattica integrativa. In aggiunta a tutto ciò spesso svolgono il ruolo di supplenti per uno o più corsi frontali, e quindi preparano lezioni, rispondono alle domande degli studenti, svolgono esami. Insomma, di solito hanno delle giornate piuttosto impegnative.

foto Mirko Isaia per officine Corsare

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Quali sono le vostre posizioni? Il DDL Gelmini ci trova praticamente tutti contrari perché svilisce il nostro ruolo all’interno dell’Università, non cambia il nostro stato giuridico ma al contempo ci sostituisce con una figura con obblighi didattici così pesanti che potrà fare ricerca forse per sei mesi l’anno. La ricerca non è un lavoro part-time: occupa tempo ed energie, e non è sempre compatibile con altri tipi di impegni.

La ricerca sarà la grande vittima di questa riforma, e con essa la qualità della didattica universitaria, che da sempre trae la sua fonte proprio da essa. Siamo preoccupati perché non vediamo come l’università potrà mantenere alti standard formativi

e ci viene promesso che avremo la possibilità di far carriera: ma cosa farà un associato in una università declassata, sotto finanziata e senza prospettive? E cosa farà chi rimarrà ricercatore senza poter accedere a fondi di ricerca? Ci stanno forse dicendo che dovremmo accontentarci di prendere uno stipendio… ma di cosa dovrebbero accontentarsi gli studenti? Cosa siete disposti a rischiare? In realtà siamo in una posizione privilegiata, ed è qualcosa che ci viene spesso rinfacciato: noi almeno abbiamo un lavoro. Cosa rischiamo? Che alcuni dei corsi che faticosamente abbiamo contribuito a creare vengano disattivati, che i nostri superiori ci etichettino come piantagrane, o peggio, che le nostre Facoltà o atenei subiscano dei danni per la nostra indisponibilità. Tuttavia riteniamo che sia il momento anche per le nostre università di farsi carico degli eventi: la riforma non sarà indolore per nessuno, e i danni che ne deriveranno fanno apparire ridicoli i rischi che potremmo creare noi. Qual è la vostra proposta? Ci sono tante proposte sul tappeto proprio perché i problemi di cui ci stiamo occupando sono diversi e complessi. Un’ottima base di partenza sono le proposte avanzate dalla Rete29Aprile, che raccoglie i ricercatori che protestano contro il disegno di legge, rintracciabili a questo indirizzo: http://www. rete29aprile.it/FILES_UPPATI/R29A%20e%20VII%20commissione%20camera_finale.pdf. Quello che noi chiediamo in questo momento è che la legge sia costruita ascoltando tutte le voci che lavorano e vivono dentro l’università, cosa che finora non è avvenuta. Denis Trivellato

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foto Gabriele Pasceri


Piombo umanitario ••

Fare la guerra, per fare la pace. di Alessandro Massone

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allo Statuto delle Nazioni Unite, Preambolo: “NOI, POPOLI DELLE NAZIONI UNITE, DECISI (…) ad assicurare, mediante l’accettazione di principi e l’istituzione di sistemi, che la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune,” Capitolo I, art. 1.2: “Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale;” Lo scorso Agosto, sessantacinque anni dopo, Edward Luck, Consulente speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato all’Assemblea Generale: “Non possiamo aspettare cattive notizie, se le opzioni sono limitate e di cattivo auspicio, e il costo in vite umane in aumento, per produrre una risposta effettiva. Come ricorderete, il Segretario Generale si è già espresso a favore di un ‘intervento rapido e flessibile, su misura per ogni singola circostanza.’ Dovremo intervenire e studiare ogni situazione tempestivamente.” “Oggi, il cuore del mio messaggio è semplice: dobbiamo evitare approcci meccanicisti, semplicistici e basati su precedenti comportamenti, a favore di allerta tempestivi, organizzazioni e azioni rapide”.1 Cos’è successo? È successo R2P. Responsibility to Protect è una pericolosa filosofia, una violenta norma, che autorizza l’uso della forza da parte di potenze “buone” in caso di “mancata buonezza” da parte di forze meno influenti. Responsibility to Protect è basata su tre pilastri: 1. Ogni Stato ha il dovere di difendere la propria popolazione; 2. Se uno Stato fallisce nel proteggere la propria popolazione, la comunità internazionale ha il dovere di assisterlo; 3. Se uno Stato si dimostra incapace di proteggere la propria popolazione, la comunità internazionale ha il dovere di intervenire prima diplomaticamente, poi con l’uso della forza. Avvolta in lucida carta umanitaria, R2P è una proposta per un colonialismo del ventunesimo secolo. Sono svariate le organizzazioni

1. fonte, in inglese: http://j.mp/eyfjcU

ATTUALITÀ 7


che dentro e fuori l’ONU lavorano perché Responsibility to Protect diventi una norma accettata e praticata.2 In maniera molto conveniente vengono presentati numerosi case study che dimostrano come R2P avrebbe risparmiato vite, avrebbe risparmiato guerre. Probabilmente è anche vero. Ma qual è il prezzo? E, a prescindere, è giusto che un’organizzazione si arroghi il diritto di liberare un popolo straniero dal proprio tiranno? In Italia, sessant’anni fa, è caduto un tiranno. Indubbiamente con l’aiuto degli Stati Uniti, indubbiamente per mano degli italiani. È il vecchio adagio dell’autodeterminazione dei popoli, quello così importante da essere immediatamente ricordato nel Preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite. L’ONU non è mai stato un organismo di pace semplice, e per l’articolo 43.1 tutti gli Stati membri sono tenuti a fornire le proprie forze armate all’agenda dell’organizzazione. Ma lo Statuto è datato, figlio di un periodo storico che aveva appena affrontato la più grande guerra di sempre. Per il 1945, che esistesse un’ente forte, internazionale e internazionalista, dedicato al conseguimento della “Pace universale” era un sogno. Una chimera realizzata. Ma la guerra è la più efficace delle politiche estere, la pietra angolare dell’economia della più grande potenza mondiale. Quando una guerra non c’è, si trova qualcosa che si possa chiamare guerra. Conclusa la seconda Guerra mondiale fu il turno della Guerra fredda, uno scontro di pubbliche relazioni, minacce, marchette e missili durato decenni. Solo pochi anni di fiato, perché scoppiasse la Guerra al Terrore, un’intelligente brand per due invasioni, la prima motivata da interessi politici, la seconda da fini economici personali. La Pace universale suona bene, ma il mondo non gira in tempo di pace. L’ONU si sta adattando. L’ONU, grazie al diritto di veto dei P5, non è un’organizzazione in grado di prendere decisioni rapide o sconsiderate. L’adozione della filosofia Responsibility to Protect e la lenta transizione da ente per la pace a ente militare internazionale non può cambiarne la natura rigorosa e non–interventista. Per ora. Non è possibile prevedere quanto sarà profonda la trasformazione che attende le Nazioni Unite, così auspicata da Kofi Annan e lentamente in corso di realizzazione con Ban Ki–Moon. Non è chiaro se questa trasformazione sia frutto di una più reale realpolitik o sia figlia di una seconda, segreta, agenda. Non sembrano nefaste le intenzioni dei sostenitori della Responsabilità di Proteggere. Ma “protezione, democrazia, libertà” sono il fondamento della retorica dei conquistatori. si ringrazia per il supporto e la consulenza Danila Stella Bruno e Jose H. Fischel De Andrade 2. L’International Coalition for the Responsibility to Protect (http://j.mp/7Xynpd), La Stanley Foundation (http://j.mp/esm8k6) e il Global Centre for the Responsibility to Protect (http://j.mp/hMpvoY) sono le più attive.

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foto Rogier Chang


Interrogare le rovine •••

L’urban exploring e il paese dei balocchi di Laura Carli

“Le idee che le rovine destano in me sono grandi. Tutto si annienta, tutto perisce, tutto passa. Il mondo soltanto resta. Il tempo soltanto dura”. Denis Diderot

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Sepolcri di Foscolo si chiudono sull’immagine di un vecchio mendicante cieco (Omero) che si aggira per le rovine di Troia e le interroga, per conoscerne la storia. Non è nuova l’idea che i ruderi possano trattenere la testimonianza delle azioni trascorse e delle epoche passate. In particolare i luoghi dell’abbandono, quegli edifici che hanno perso la gara contro il tempo e non hanno saputo riconvertirsi nella modernità, conservano un fascino profondo. Tra le crepe dei muri si coglie un dialogo con il passato, la prova della caducità, il fascino malinconico della decadenza, o più semplicemente la testimonianza dell’incuria e del degrado. È la voce eloquente degli ex-luoghi contro il brusio dei non-luoghi della contemporaneità, “un viaggio dall’altra parte dello specchio delle nostre società industriali”, come spiega Sylvain Margaine, autore del libro fotografico “Luoghi dell’abbandono. Esplorazione insolita di un patrimonio dimenticato”, legato al sito forbidden-places.net, database internazionale di esplorazioni urbane. L’urban exploring (cioè visitare e fotografare aree dismesse) è un fenomeno ormai diffusissimo proprio grazie a internet, che permette agli appassionati di scambiarsi informazioni e rintracciare facilmente i luoghi più interessanti per i propri scatti.

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Il primo esploratore urbano è considerato il francese Philibert Aspairt, che nel 1793 si perse mentre perlustrava l’intricato dedalo delle catacombe di Parigi. Il suo corpo fu ritrovato solo undici anni più tardi. Altro illustre antenato è lo scrittore Walt Whitman, che lavorò per il Brooklyn Standard ad alcuni articoli sul tunnel abbandonato di Atlantic Avenue a New York, celebrato una ventina d’anni prima come il primo tunnel sotterraneo realizzato.

Oggi ogni parte del globo ha le sue zone di culto per gli esploratori. Gli urban explorer (in gergo anche creepers), in Australia subiscono il fascino dei labirinti delle condotte di scolo nei sottosuoli cittadini; negli Stati Uniti preferiscono i grandi alberghi dismessi dagli anni della crisi economica mentre in Russia le vie sotterranee a più livelli, predisposte durante l’epoca della Guerra fredda, richiamano ogni anno centinaia di “visitatori”. E ancora, istallazioni militari, fabbriche, mattatoi, teatri, ospedali e manicomi. In Italia i riferimenti principali sono il castello siracusano di Portopalo di Capo Passero, il manicomio di Volterra e le miniere abbandonate della Sardegna. Il mito della città fantasma attraversata da balle di fieno sospinte dal vento è molto diffuso anche grazie agli stereotipi hollywoodiani. Una tipica ghost town degli Usa è Bodie in California: una di quelle cittadine sorte rapidamente durante la corsa all’oro e abbandonata con altrettanta velocità. Ma casi analoghi si ritrovano un po’ in tutto il mondo: da Prypiat, nei pressi di Chernobyl a Ochate in Spagna. Lo scrittore Davide Morrell, autore del romanzo Paragon hotel, ispirato al mondo dei creepers, offre una chiave di lettura filosofica del fenomeno, che va oltre l’interesse per l’archeologia industriale o il fascino per l’antico: “Forse il significato dell’esplorazione urbana – scrive – sta tutto qui. L’ossessione per il passato è un altro modo di sperare che qualcosa di noi si trattenga, che negli anni a venire qualcuno possa esplorare i luoghi in cui abbiamo vissuto e avvertire che lì indugia la nostra presenza”. Che questa interpretazione sia affidabile o meno, l’intento è comunque quello di raccontare i luoghi. Dalle dimore nobiliari agli ambienti operai: immortalare fabbriche, abitazioni e architetture trionfali abbandonate al tempo e alla natura, tra il fascino della decadenza e il valore della testimonianza. Consonno, città fantasma della Brianza. La vicenda di Consonno, frazione di Olginate in provincia di Lecco, non è una storia di ordinaria speculazione, ma una storia extra-ordinaria, che a posteriori ha quasi il valore dell’apologo. Nel primo novecento Consonno era un antico borgo della Brianza, con una discreta economia locale sostenuta principalmente dalle castagne e dal sedano, il vero prodotto tipico del paesino. Un centinaio di abitanti, un gruppo di case, la chiesa, l’osteria, il Comune, un’unica bottega e il cimitero. Negli anni ‘60


l’intero borgo fu acquistato per 22 milioni e 500 mila lire dal Conte Mario Bagno, un vero “cattivo” da film Disney: imprenditore visionario e un po’ folle, il cui intento era trasformare il paese in una città dei divertimenti, una Las Vegas italiana. Sorgono, per fare onore al buon gusto dell’originale del Nevada, gli edifici più disparati: minareti, pagode, armigeri medioevali. Chi ha visitato Consonno negli anni ‘70 ricorda persino un saloon: di quelli tipici dei film western. Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 il prodotto della fantasia del conte-imprenditore ha preso vita e il sonnacchioso borgo si è trasformato in una Las Vegas di provincia, con le mille luci sempre accese. “Una Disneyland per innamorati”, la definisce Daniela, 54 anni, che abita tutt’ora nelle vicinanze del borgo. Il successo di Consonno dura solo pochi anni, e l’interesse per la novità inizia a declinare. Il colpo di grazia viene dato però dalla Provvidenza che, con gusto squisitamente manzoniano, decide di punire l’ambizione del Conte. Nel 1976 una frana crolla sulla strada d’accesso al paese, rendendola impraticabile. Da allora si sono susseguiti alcuni timidi tentativi di riqualificazione che non hanno di fatto sottratto il borgo al suo nuovo destino di città fantasma, meta di rave party e urban explorer. La città che visse tre volte: Consonno oggi. Il borgo è raggiungibile da Olginate solo a piedi, lungo una strada in salita costeggiata dal bosco. Il primo edificio che si incontra, forse un tempo adibito ad ingresso, è imponente e coperto di murales, e anticipa di alcune centinaia di metri il paese. Lungo la strada si incontrano grandi striscioni metallici dagli slogan iperbolici come: “Chi vive a Consonno campa di più” o “A Consonno è sempre festa”. Il contrasto tra il contenuto dei cartelli e il loro stato di conservazione è di per sé l’emblema della contraddizione che costituisce il fascino del luogo. L’edificio principale è l’improbabile minareto, che si innalza al di sopra di una galleria di negozi in stile arabeggiante. Il borgo non è completamente deserto: oltre a noi una coppia di curiosi, due fotografe e l’immancabile creeper dalle velleità canore, che dichiara entusiasta di aver trovato la location per il suo primo video musicale. Esiste anche una fauna locale: una famiglia di cani che scorrazzano indisturbati per le vie, padroni indiscussi del luogo. Gli unici edifici rimasti in buono stato sono la chiesa di San Maurizio e la casa del cappellano, anche se nelle vicinanze si scorge qualche traccia di vita recente: un manifesto pubblicizzante un evento commemorativo della Associazione Nazionale Alpini. Ma non è l’unico segnale di un possibile risveglio del paese. Di recente è stato stilato dal Comune di Olginate il nuovo Progetto di conservazione ambientale, ennesimo tentativo di riqualificazione che prevede l’abbattimento di tutti gli edifici fatiscenti. Lungo il primo tratto di strada è già aperto il cantiere per l’asfaltatura. Con i lavori sono iniziate anche le polemiche di chi teme una nuova speculazione edilizia. C’è da sperare che la terza vita di Consonno conservi tracce dell’identità poliedrica e della storia che ha caratterizzato questo luogo e che ha reso le sue rovine così interessanti da interrogare. Laura Carli

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Perché i sacchi d non sono traspar

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Un anno a impatto zero: l’esperie utti parlano della crisi ambientale. Gli effetti e le catastrofi derivanti dal depauperamento che infliggiamo quotidianamente all’ecosistema si palesano atrocemente sotto i nostri occhi. Guardare ciò che non si vuole vedere è però troppo faticoso, così continuiamo a commettere l’errore di credere che lamentarci sia sufficiente a renderci di colpo più virtuosi. Insistiamo nell’evidenziare come nessuno faccia abbastanza per salvarci dal disastro che noi stessi giorno dopo giorno continuiamo ad incrementare, ma non andiamo oltre la parola. Evitiamo semplicemente di assumerci le nostre responsabilità per continuare a cullarci nel nostro immobilismo. Un anno a impatto zero è un libro che alza il sipario, che ci mostra la vita in tutta la sua feroce contraddittorietà, e che può aiutarci a salvare, prima che l’ ambiente, noi stessi. “Con la spazzatura tutta raccolta e nascosta nei sacchi neri, mi resi conto che c’era un motivo se non volevo vederla (..) ecco perché i sacchi per l’ immondizia non sono di plastica trasparente (..) succede perché, se dovessimo guardare la nostra spazzatura ogni giorno, dovremmo affrontare domande difficili circa il modo in cui viviamo”. Inizia così l’avventura di Colin Beavan, dall’analisi di tutti i rifiuti che in un solo giorno lui e la sua famiglia erano riusciti a produrre. Le scorie che noi generiamo sono il segno che lasciamo della nostra presenza su questo pianeta. Sono ciò che rimane del nostro tempo vissuto. Così sacco dopo sacco, l’autore non analizza solo gli scarti, ma il suo intero stile vita. La domanda è: cosa può innescare la reazione, efferata ma necessaria, che ci dà la forza di aprire il sacco e guardarci dentro? Colin Beavan non è un ingegnere ambientale e neppure un esperto di ecologia o qualcosa di simile, è uno scrittore di libri di storia. Poi un giorno di metà Gennaio, uscendo dal suo appartamento di New York, vede tutti in magliettina e shorts e inizia a riflettere. Una temperatura di 22°C in inverno lascia perplesso chiunque abbia voglia e tempo di soffermarsi a pensare e Colin Beavan decide di fermarsi: “in quel giorno estivo in pieno inverno, mi sembrò di aver toccato il fondo”. Decide di non aspettare che qualcuno

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della spazzatura renti ••

enza di Colin Beavan

risolva per lui il problema ambientale, ma di sperimentare in prima persona cosa può voler dire impegnarsi per ridurre l’impatto ambientale. Anzi, ridurlo non è sufficiente, bisogna azzerarlo. È così che per un anno porterà avanti un percorso che vede la progressiva eliminazione di tutto ciò che non è eco-sostenibile. Dal cibo d’asporto all’elettricità, dalla macchina alla carta igienica. Ciò che sorprende è come l’autore conduca il suo esperimento, continuando a vivere nella Grande Mela travolgendo anche la moglie Michelle, ossessionata da tv e shopping; Isabelle, la figlioletta di un anno con ancora il pannolino e il cane Frankie. Perché questa è la sfida: vivere in maniera ecosostenibile ovunque ti trovi e senza far impazzire i tuoi cari. La cronistoria di questa progressiva riduzione sembrerebbe un elenco di negazioni e privazioni: no televisione, no shopping, no caffè, no taxi, no ascensore....e invece il lettore scopre e riscopre con l’autore quanto eliminare alcuni aspetti dalla nostra vita non significhi ascetismo ma solo più movimento, più salute, più risparmio e momenti liberi in cui coltivare passioni e rapporti umani veri. Quanto eliminare possa significare liberarsi. Un’esperienza coraggiosa che insegna come perseverare nel consumismo sia dannoso per le conseguenze ambientali in un futuro non troppo lontano, ma soprattutto quanto riacquisire il perduto contatto con la natura possa essere realmente gratificante in termini di benessere. “Sprecare meno risorse, significa sprecare meno la nostra vita”. Un anno a impatto zero è il racconto di un esperimento audace, esasperante, estremo ma che non è solo una provocazione, è una storia di vita che obbliga il lettore a meditare. “Inutile ricercare le cause del disastro ambientale intorno a noi, se queste sono in noi.” Non possiamo aspettare inerti che il sistema cambi, perché il sistema siamo noi. Danila Bruno

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Siamo quello che scartiamo Il design sistemico. Creare con lo scarto.

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l degrado dell’ambiente è la conseguenza diretta del degrado sociale, dell’incapacità della comunità di capire che la sua forza deriva dai rapporti positivi che si instaurano vicendevolmente e non dall’effimera prevaricazione sugli altri”. (Luigi Bistagnino, Design Sistemico). Attualmente le normative considerano gli scarti industriali come un problema da risolvere velocemente, gettando via ogni minimo scarto del prodotto. E se invece proprio gli scarti fossero considerati una risorsa? Nell’approccio sistemico, gli output (scarti) di un sistema diventano input (risorse) per un altro; possono nascere così attività economiche completamente nuove considerando gli avanzi come materia prima. Base dell’approccio del Design Sistemico e di tutto il Corso di Studi in Design del Politecnico di Torino ha come slogan “Uomo al centro del Progetto”, perché non bisogna dimenticare come l’uomo si trovi al centro di un contesto ambientale, sociale culturale ed etico, dove ogni sistema è in armonia con gli altri. Ma tutto ciò porta anche ad un maggior profitto per le imprese, mettendo in moto un nuovo flusso economico e creando nuovi posti di lavoro. Ma passiamo a qualcosa di più concreto: i fondi di caffè. Prendendo un espresso in un qualsiasi bar possiamo notare come il fondo del preparato venga sbattuto in un cassetto, e buttato via in un secondo momento. Questo contiene lipidi, azoto e polifenoli. Parlando in cifre, in cento grammi di miscela si hanno quindici grammi di lipidi, due grammi di azoto e nove grammi di polifenoli. Questi, estratti, possono essere riutilizzati per medicinali e cosmetici, con un valore di 152 euro al chilo, e considerate le quantità di caffè che vengono ogni giorno consumate, dovremmo cominciare a renderci conto di cosa stiamo gettando nell’immondizia. Con la collaborazione di Lavazza e di un gruppo di giovani designer, presso le serre della Città dei Ragazzi di Torino, sono stati realizzati circa tre chili di substrato di coltivazione, composto da 0,4 chili di fondi di caffè con 2,5 chili di paglia e 0,1 chilo di gesso, mescolati con il micelio. Fatta essiccare, ogni balletta ha prodotto 1,5 chili di funghi freschi commestibili. Terminata la prova, il substrato esausto è stato poi riutilizzato come fertilizzante. Tutto ciò a dimostrare la fattibilità di un approccio sistemico. Francesca Di Vaio

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foto thom b./minifig


Cambiare orientamento sessuale •••

Atto di fede o guarigione?

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ell’edizione di San Remo del 2009 è stata presentata una canzone che ha suscitato scalpore per il tema del testo. La canzone, “Luca era gay” di Povia, riguarda il cambiamento dell’orientamento sessuale. Più volte il testo si riferisce a due linee di pensiero all’interno della psicologia e del senso comune. Da una parte l’omosessualità è vista come una realtà naturale della sessualità umana, come sostengono le associazioni di psicologi e psichiatri americane, l’Ordine Nazionale degli Psicologi Italiani e le associazioni impegnate per l’affermazione dei diritti degli omosessuali come l’Arcigay. Dall’altra l’omosessualità è vista come qualcosa di sbagliato o una deviazione della sessualità del soggetto dovuta a diverse cause, e quindi da curare. La cura per questo disturbo è la terapia riparativa, che permetterebbe il cambiamento dell’orientamento sessuale. Non è nuova, ma vanta una tradizione fatta di pregiudizi e persecuzione. Da diversi anni la terapia è riproposta con un approccio e dei mezzi meno violenti. Joseph Nicolosi è uno dei più importanti psicologi sostenitori del cambiamento di orientamento sessuale, nonché Presidente della NARTH, Associazione Nazionale per la Ricerca e la Terapia dell’Omosessualità. Nei suoi lavori l’omosessualità è una deviazione. Quindi ogni persona nascerebbe eterosessuale, ma lo sviluppo della sessualità naturale verrebbe deviato o impedito. Le cause sarebbero da ricercare principalmente nel nucleo familiare: l’assenza o la prevalenza di una delle due figure genitoriali. Fino ad ora queste ricerche sulla conversione non hanno

dipinto digitale jbuck

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condotto a risultati definitivi, e ad esse sono rivolte le critiche delle associazioni della sanità americana, dal momento che alimentano un “clima negativo” verso omosessuali e bisessuali e rischiano di danneggiare l’equilibrio psichico dei pazienti. Infatti non esistono prove scientifiche della validità di tali teorie né prove effettive del funzionamento della terapia, cosa che non giova alla credibilità del trattamento. In continuità con il lavoro di Nicolosi ma con un approccio differente è il programma “Living Waters”, sviluppato dal pastore Andy Comiskey negli anni ‘80. Questi offrirebbe gli strumenti per una guarigione della persona sotto la guida spirituale degli insegnamenti biblici.

“Quando la nostra identità è confusa, anche la nostra capacità di amare gli altri secondo la volontà di Dio è compromessa. Con insegnamenti pratici, Living Waters fornisce a ciascuno la possibilità di capire l’origine delle proprie ferite e, tramite la preghiera, di sperimentare la guarigione di Gesù, fonte di acqua vivente”.

Tale identità si rispecchierebbe nelle due identità di genere maschio e femmina, come descritte dalle parole della Bibbia. Si possono ricevere i “benefici” del suo corso alloggiando nell’hotel “Villa Ricci”, a Chianciano Terme, per cinque giorni. Tramite un training non solo si può guarire dai vari problemi personali, ma anche apprendere i metodi per aiutare altre persone in difficoltà. Lo scopo è, chiaramente, diffondere il programma attraverso le persone curate o semplicemente istruite al riguardo, portandolo nelle varie cappelle e associazioni private. Ad aderire al progetto, ormai diffuso in più di venti Stati diversi, sono anche associazioni italiane di diverso tipo. Per informarsi basta cercare link correlati nel sito ufficiale italiano di “Living Waters” (lwitalia.com), come quelli facenti riferimento a “Obiettivo-chaire” e al “Gruppo Lot Regina della Pace”. Le associazioni si ripropongono di accogliere chiunque voglia seguire spontaneamente il corso e forniscono appoggio medico, psicologico e spirituale, qualora richiesto dall’interessato. In questi incontri si ricercano le cause delle ferite emotive della persona. Parallelamente si offre aiuto a genitori, educatori ed insegnanti “al fine di prevenire l’insorgere di confusione d’identità di genere” nei giovani. Le parole sono selezionate ed accurate per garantire un metodo rigoroso e “un’informazione seria e documentata”. Ad accomunare le dichiarazioni delle associazioni ed i singoli interventi degli “esperti” in merito, sono le esperienze riportate come esempio . Si tratta sempre di gay con una storia familiare pesante, segnata dal divorzio, amori vissuti male o tragedie, ma descritte sempre come passioni legate al sesso ed all’espressione di un disagio profondo. L’amore vero e proprio sembra escluso. Esiste solo l’impulso scatenato principalmente dalle fattezze attraenti del partner. Così come vengono descritti Luca e la sua storia nella canzone. Anche Frank Worthen, nel suo libro This way out, traccia un ritratto simile ed aggiunge un metodo per resistere alle tentazioni. Quando il pensiero di 16 una tentazione ci


coglie non dobbiamo prendercela con noi stessi, perché non possiamo controllarla. Ma siamo condannabili quando accettiamo tali desideri come nostri e li assecondiamo. Infatti questi sono prodotti di Satana, quindi esterni a noi. Così dobbiamo accoglierli e liquidarli, come un prodotto di un’altra entità. Il consiglio dunque è questo: relegare parte della propria personalità a semplice prodotto esterno e malvagio. La crisi che tale strategia può causare non è evidentemente un problema di poco conto, come sottolineano gli psicologi. Sulla questione il Consiglio dell’Ordine degli Psicologi dichiara: “le cosiddette ‘terapie riparative’, rivolte a clienti aventi un orientamento omosessuale, rischiano, violando il codice deontologico della professione, di forzare i propri pazienti nella direzione di ‘cambiare’ o reprimere il proprio orientamento sessuale, invece di analizzare la complessità di fattori che lo determinano e favorire la piena accettazione di se stessi.” Sulla stessa linea Aurelio Mancuso, Presidente dell’Arcigay: “Sono pratiche che finiscono poi con il peggiorare le cose. La non accettazione della propria sessualità può portare ad avere degli atteggiamenti forzatamente eterosessuali, ma prima o poi l’omosessualità riappare”.

Nonostante gli studi autorevoli e l’impostazione psicanalitica, il programma di conversione proposto rimane sempre dominato dalla sfera religiosa. Parte principale del corso consiste in discussioni sui testi sacri e nel favorire l’astensione dalle tentazioni con l’aiuto delle preghiere. Sull’omosessualità il giudizio di queste associazioni è unanime: è fondamentale il rispetto per la persona e la sua tendenza omosessuale. È condannata invece “l’inclinazione”, ovvero una presa di posizione in favore dello stile di vita omosessuale. Posizione ostinata e contro la verità. La verità sarebbe infatti una: noi possiamo scegliere. Questa presa di posizione non è però unanime: “Obiettivo-chaire” è molto sensibile al problema delle persone che difendono la propria inclinazione omosessuale, abbracciando lo “stile di vita gay”. Tali persone, definite genericamente come “attivisti gay”, vorrebbero vedersi riconosciuti come coppie di fatto, e sostengono proposte di leggi che condannino la discriminazione. Inoltre vorrebbero far passare attraverso i media un’immagine dell’omosessualità positiva, poiché far conoscere la propria realtà come qualcosa di normale può alleggerire il clima di discriminazione. A sostegno di questa tesi il pensiero diffuso tra gli attivisti per cui un atteggiamento di rifiuto o omofobo sarebbe poco cristiano. Queste richieste sono però da condannare per i sostenitori della “guarigione”: infatti non è per colpa della discriminazione se gli omosessuali sono infelici, ma perché la religione dice chiaramente che l’omosessualità “è abominio”(Levitico 18.22). Tolleranza sì, ma solo con le persone che rifiutano la propria componente omosessuale. Ma l’Ordine Nazionale degli Psicologi Italiani impone nel codice deontologico l’astensione dalle terapie riparative, e l’Ordine Mondiale della Sanità lascia all’individuo la libertà di autodeterminare il proprio orientamento: la libertà individuale e il rispetto delle scelte nella vita privata dei singoli non possono, per lo Stato, essere legati a una fede religiosa o essere circoscritti a chi accondiscende a talune condizioni.

Andrea Fasani

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L’Aquila. Estate 2010. •••

Frammenti di vita e tentativi di normalità

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l 28 Luglio scorso Paganica, ormai nota località de L’Aquila, si è riempita di bambini, accorsi per la Giornata dello Sport. Le varie attività si svolgono in un parco e in una piccola piazza circondata da recinzioni e macerie. La collocazione lascia quantomeno perplessi, e forse non sono la sola a pensarlo, tant’è che nel pomeriggio un campo da pallavolo viene spostato più lontano. I servizi per i bambini sono molteplici: a Coppito, per esempio, c’è a disposizione il Parco Murata Gigotti, dove i bambini possono giocare con l’assistenza e la guida di alcuni volontari. In un angolo del parco qualcuno ha dimenticato legni secchi e lana di vetro in balle. Qualcun altro invece contribuisce a badare alle “piccole aquile”, come Fabiola, quindici anni, di Coppito, che ci racconta di volontari che “nell’emergenza hanno dato la vita, messo tutti loro stessi”, e mostra un po’ di insofferenza verso alcuni aquilani che invece “al tempo del terremoto si lamentavano pur avendo quattro primi, tre secondi, dolce e frutta… non è normale, perché io dico: ti stanno dando l’anima, e tu ti lamenti. Nessuno ha la bacchetta magica”. Diverso atteggiamento è riscontrabile in molte delle persone che raccontano la loro vita dopo il terremoto. Peter Civisca, barista di Paganica, lavora in un container di quindici metri quadrati, di fianco ad un edificio classe E che un tempo era il suo bar-ristorante. Come ha fatto a ripartire con l’attività? “Io ho ricevuto, per ora, 800€ al mese ad aprile, Maggio e Giugno 2009. Ho fatto domanda per avere risarcimenti di merci e per il fatturato degli anni passati, ma finora non ne ho avuti”. E la ricostruzione? Un giro per Pettino, zona L’Aquila Ovest, consente di notare diversi container, che ospitano banche, uffici postali e molte scuole. L’ospedale è stato in parte ristrutturato, ed hanno riaperto alcuni negozi di un centro commerciale. Alla sede Caritas la mamma di due bambini, venuta ad

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foto Adele Sarno


informarsi per un posto di lavoro, racconta di esser rientrata nella sua casa più di un anno dopo il terremoto, perché i lavori di ristrutturazione non procedevano. Nel frattempo, è stata con la famiglia in un albergo. È spontaneo chiedersi nuovamente, come un anno fa, se gli aquilani terranno tosto. Certamente: non si può – o meglio, non si deve – fare altrimenti. Il 7 Novembre 2010 Peter ci ha aggiornato sulla sua situazione: “Per me non è cambiato nulla, e sono sempre in attesa di quelle domande che ho fatto al comune, le quali, se andranno a buon fine, rimborseranno solo in percentuale il fatturato dell’anno precedente il sisma”. Alice Manti

Terremoti Spa Il business della ricostruzione in Italia, dal 1908 ai giorni nostri

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n Italia la speculazione edilizia sembra quasi un marchio di fabbrica. Dal 1931 ad oggi il Vesuvio ha brontolato 42 volte (in media ogni 8 anni), eppure si è continuato a costruire sul fianco del cratere. Ma non si tratta di un caso isolato: dopo il terremoto del 1980 venne varato un “Piano Napoli” che consentì la realizzazione di 20 mila alloggi nella zona rossa, come ricorda Marco Di Lello, ex assessore regionale. Per quanto riguarda il recente terremoto aquilano invece, sono previste sentenze per aver costruito senza rispettare le norme di sicurezza e 22 milioni di euro di risarcimento da parte della Protezione Civile, accusata di non aver preso misure adeguate per evitare la tragedia. Dal 1996 al 2008 sono state varate ben quattro norme sull’edilizia antisismica. Perché non sono servite a limitare i danni? Il problema risiede anche nel controllo della qualità delle costruzioni: sono crollati infatti anche edifici vecchi al massimo di 40 anni, come l’ospedale o la casa dello studente. La maxi-inchiesta sui crolli, avviata dalla Procura della Re-

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pubblica dell’Aquila, ha messo in luce 22 mila edifici irregolari. Il problema però non riguarda il solo Abruzzo: secondo le ultime stime, in Italia ci sono ben 75-80 mila edifici pubblici da consolidare. Secondo Franco Barberi, Presidente della commissione grandi rischi, oggi indagato per mancato allarme, un sisma come quello abruzzese, in Usa non avrebbe fatto nemmeno un morto. In Giappone, dove ogni anno avvengono 400 terremoti, si verificano periodiche esercitazioni antisismiche e sono attive segreterie telefoniche per far comunicare le famiglie eventualmente divise dal sisma. Inoltre, come già specificato, non mancano solo adeguate norme, ma anche e soprattutto i controlli. Nel nostro Bel Paese inoltre, calamità naturale fa rima con business. Dopo l’iniziale entusiasmo per la solidarietà portata da vigili del fuoco e volontari, emerge quella che è solo la punta dell’iceberg del giro d’affari che i grandi terremoti italiani mettono in moto. Secondo una stima approssimativa, dal sisma del Belice nel 1968 ad oggi, il giro di denaro ammonterebbe a circa 140 miliardi di euro. Ciò senza considerare il terremoto dell’Aquila, che il direttore del commissariato per la ricostruzione Gaetano Fontana stima attorno a 10 miliardi di euro per il solo capoluogo di provincia. La domanda sorge spontanea: perché si continuano a versare soldi per tamponare i danni delle catastrofi quando invece, non solo si dovrebbe, ma sarebbe possibile intervenire preventivamente? E dove finisce il denaro investito per la ricostruzione e il rilancio economico delle zone colpite? Solo l’esemplarità dei soccorsi e delle ricostruzioni dopo il sisma del Friuli (1976) ci indica come debba realmente essere gestita una calamità. L’allora Presidente del Friuli-Venezia Giulia, Antonio Comelli, decise che per ricostruire in fretta bisognava affidare la gestione degli aiuti europei e statali agli enti locali, accompagnati da severi controlli. L’altra faccia della medaglia è costituita invece dal sisma del Belice, modello di appalti truccati, imprese fantasma, ritardi, sprechi e promesse non mantenute. Un esempio su tutti: i numerosi cantieri fantasma aperti da alcuni residenti per intascare i fondi e costruirsi villette al mare. Finì che l’inchiesta sul “sacco di Belice”, avviata nel 1978 dal procuratore di Trapani Giangiacomo Ciaccio Montalto (ammazzato dalla mafia il 25 Gennaio 1983), si concluse solo nel 1990 con l’assoluzione di tutti gli imputati. E il terremoto che colpì Messina nel 1908? Troppo indietro? Tutt’altro. Secondo il censimento di Legambiente, nel 2009 le baracche risultavano ancora 3.336 con 3.100 famiglie abitanti, nonostante le autorità ne dichiarassero non più di mille. Mentre nell’Agosto 2010 l’assessore del Risanamento Giuseppe Rao ha inviato una lettera al Presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, per sollecitare i finanziamenti, a più di cent’anni dalla catastrofe generazioni di persone hanno vissuto in baracche, con tutto ciò che ne consegue. Francesca Gabbiadini

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foto diri.gibile


Si va in scena (…forse) ••

La lunga notte del teatro indipendente.

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l Teatro Libero di via Savona è un ottimo osservatorio teatrale, attento alle novità e alle nuove idee, capace di presentare spettacoli differenti dai classici cartelloni di teatri più famosi. La direzione artistica è in mano a Corrado d’Elia, a cui si deve questa programmazione stuzzicante e piacevole. Un’altra caratteristica del teatro è la particolare posizione dell’edificio: costruita all’interno di una ex fabbrica alimentare, la sala è sospesa in cima allo stabile di via Savona 10 ed è raggiungibile tramite ascensori o una particolare scala che fiancheggia le abitazioni private. L’idea della sistemazione è del 1993, quando il capannone dello stabile viene adattato per il nuovo uso, dando vita così al primo spettacolo della fondazione del Teatro Libero – Fiori d’acciaio, per la regia di Alberto Ferrari. Il teatro fa ora parte del circuito Teatri Possibili, progetto artistico di produzione, formazione e diffusione del teatro creato a Milano nel 1996 dallo stesso d’Elia. Una realtà teatrale molto interessante per una città come Milano, in cui la fama della Scala e del Teatro Piccolo può fare ombra a tutto il panorama dello spettacolo. I problemi però non derivano soltanto da una concorrenza spietata. Durante l’estate appena trascorsa, il teatro ha infatti affrontato i lavori di ristrutturazione della sala per migliorarla dal punto di vista dell’agibilità e delle comodità, andando incontro a una notevole spesa. Il giorno 29 Settembre la Commissione Comunale di Vigilanza, chiamata appositamente dallo stesso teatro per confermare la regolarità dei lavori compiuti, nega e rinvia l’apertura a causa della presenza di ponteggi nel cortile che renderebbero difficoltosa l’uscita in un eventuale caso di emergenza.Oltre al danno, la beffa: al Teatro Libero sono stati imposti altri lavori per un totale di 50.000 euro, una cifra che incide molto sul bilancio di una piccola realtà teatrale. C’è da chiedersi come sarebbero andate le cose se i lavori di ristrutturazione fossero stati destinati a sale più

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prestigiose e con un nome più conosciuto. La fondazione Teatro Libero però non è rimasta a piangersi addosso: ha contattato in pochi giorni i proprietari dello stabile, i quali sono venuti incontro alle richieste, rimuovendo in parte i ponteggi. Un buon segnale di collaborazione che non è bastato a convincere la Commissione Comunale alla riapertura. La stagione teatrale intanto è iniziata, e il primo spettacolo – Le notti bianche, per la regia di Corrado d’Elia –, il cui debutto era previsto il 29 Settembre, è stato ospitato dalla sala del Teatro Litta, in Corso Magenta. In molti si sono mossi per aiutare il teatro inviando lettere e e-mail di solidarietà o di protesta contro il comune che, dopo circa un mese di silenzio, si fa sentire a metà Novembre, con una lettera di Antonio Calvi (Direttore del Settore Spettacolo del Comune di Milano), che propone alcune sale teatrali per un cambiamento sede. Inizia la commedia: l’elenco delle sale risulta essere un agglomerato di teatri con una stagione già avviata e un programma definito, di sale parrocchiali, di biblioteche smesse, di stanze senza collegamenti tra camerini e palcoscenico, di sale che pretendono un affitto esorbitante. Un’ulteriore sconfitta e un duro colpo al morale, perché “quando lotti con tutte le tue forze per una realtà a cui credi e a cui hai dedicato la vita, risposte fasulle e nulle come queste fanno cadere le braccia”, ha commentato d’Elia durante una conferenza stampa organizzata il 16 Novembre per ripercorrere le mirabolanti vicende che hanno portato alla chiusura della sala, conferenza alla quale né Massimiliano Finazzer Flory (Assessore alla cultura per il Comune di Milano) né Calvi si sono presentati. Una nota importante: il Teatro Libero non ha mai chiuso i suoi bilanci in negativo, ovviamente prima di dover abbandonare la sala. È una piccola realtà, ma i numeri sono tutti a suo favore: 12 stagioni teatrali con 400.000 spettatori totali, 150 compagnie passate per il palcoscenico, 200 spettacoli di cui 34 nuove produzioni del Circuito Teatri Possibili. E ancora, il dato più rilevante: l’indice del pubblico, ovvero la percentuale delle persone presenti ad ogni spettacolo rispetto ai posti in sala. Il Teatro Libero è in prima posizione nella classifica dei teatri milanesi, che viaggiano su una percentuale bassissima. Alla conferenza del 16 Novembre era presente anche il professore della Statale Paolo Bosisio, che rilancia una proposta: presentare un referto al Comune in cui vengono indicate i gestori delle sale milanesi e, soprattutto, quante e quali sale posseggono. In aggiunta inserire i dati dell’indice del pubblico e chiedere una nuova sala per il teatro Libero, che se la meriterebbe davvero. Daniele Colombi

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Il fascino indiscreto di Salvador Dalì ••

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al 22 Settembre al 30 Gennaio Palazzo Reale ha ospitato la mostra che chiude il percorso iniziato con Magritte e Hopper: quella dedicata a Salvador Dalì. Non è la prima volta che le opere del visionario surrealista trovano posto qui: nel 1954 fu allestita una personale nella Sala delle Cariatidi. L’allestimento dell’architetto Oscar Tusquets Blanca, amico del pittore e suo collaboratore per la realizzazione della sala Mae West alla casa-museo di Figueres, dovrebbe costituire una sorta di catarsi che immerga il visitatore nel mondo popolato di simboli dell’artista, proprio come egli cercò di immergersi nella psiche umana. Affascinato da Freud, egli mise a punto un metodo paranoico-critico per esplorare il subconscio, molto apprezzato dal movimento dei surrealisti, di cui fece parte per un periodo e con i quali, in particolar modo Breton, ebbe difficili rapporti, oscillanti tra ammirazione e dissenso, fino al totale rifiuto da parte di questi. Ciò che indisponeva il gruppo di artisti era la sua personalità sempre imprevedibile e contraddittoria, la sua indefinita posizione politica, alternata tra un estremo e l’altro per puro spirito provocatorio, e il fatto che la sua arte fosse divenuta commercializzata, anche grazie al suo eclettismo e alla sua sempre crescente fama. Sta di fatto che quando fu allontanato dai surrealisti, egli ebbe ad affermare: “Il surrealismo sono io.” Il filo conduttore delle opere esposte, molte provenienti da un’ala in restauro del museo Boymansvan Beuningen di Rotterdam, è il rapporto tra Dalì e il paesaggio: infatti CULTURA 23


era sua convinzione che il miglior modo per dipingere l’inconscio fosse inserirlo in un ambiente. Si passa quindi da quelli ispirati all’arte antica a quelli diretti alla ricerca del sé, verso luoghi sempre più vuoti e silenziosi, fino all’astrattismo dell’ultimo olio dipinto prima della morte, Il rapimento di Europa. Tra questi ultimi quadri, dove lo scenario sembra guadagnare sempre più spazio rispetto all’uomo, vi è una sorta di trittico, scoperto in tempi recenti e appena finito di restaurare: Paesaggio con fanciulla che salta la corda. Qui una ragazza occupa una piccola zona centrale, proiettando l’ombra sottile della sua anima, e a fianco si intravedono altre due figure (forse il pittore?). Il resto è uno sconfinato deserto, non più luogo umanizzato come nella variante della pietà di Michelangelo trasposta nelle rocce, a ricordo del promontorio dove da bambino aveva imparato dai pescatori a dare un nome alle pietre come ad esseri viventi. I grandi maestri del passato sono per lui fonte di ispirazione quanto le più recenti avanguardie (cubismo, dadaismo): a Velàzquez sono ispirati un crocifisso e, non da ultimo, i baffi divenuti il suo tratto caratteristico. L’arte classica mancava però, a suo parere, di un aspetto fondamentale: Freud. Di qui la Venere con cassetti, che unisce alla perfezione esteriore della grecità la possibilità di aprire una finestrella sull’inconscio. L’interiorità emerge però nelle sue opere soprattutto grazie ai simboli, ovunque rintracciabili ma non sempre di univoca interpretazione. Tra i più ricorrenti l’uovo, sormontante anche la sua casa-museo, rappresentazione del morbido attorniato dal duro: egli infatti aveva una personalità al limite della schizofrenia, ossessionata dall’idea del putrefatto, del doppio e della morte, anche in seguito alla convinzione trasmessagli dai genitori di essere la reincarnazione del fratello Salvador Dalì, morto nove mesi e dieci giorni prima della sua nascita. Nella sua esasperata fragilità sentiva il bisogno di appoggiarsi a una personalità dura e forte, quale fu quella della moglie Gala, un’espatriata russa ex moglie del poeta Paul Eluard. Fu lei, insieme al suo amico e mecenate, il collezionista Edward James, a incoraggiarlo nella sua arte e a contribuire al suo successo. La sua fama fu incredibile e, anche grazie ai continui scandali successivi ad azioni provocatorie, lasciò una profonda impressione anche in America, dove visse per un periodo. La sua influenza si ritrova in moltissime arti, poiché lui stesso si dedicò non solo alla pittura, ma anche alla scultura, alla moda, al cinema, alle scenografie per il balletto, all’arredamento. Celebre è il divano a forma di labbra ispirato all’attrice Mae West, il cui volto è il risultato finale dell’arredo di una stanza nella casa di Figueres, per la prima volta qui riprodotta. Meno conosciuto è il cortometraggio Destino, visibile alla fine dell’esposizione insieme a una serie di bellissimi disegni preparatori, progettato insieme a Walt Disney e con le musiche del compositore messicano Armando Dominiguez. Interrotto per problemi finanziari, fu poi realizzato da Roy, il figlio di Disney, nel 2003. Sebbene disprezzato e odiato, chiamato, con un anagramma, “Avida Dollars” da Breton e “un disgustoso essere umano” da Orwell, Dalì segnò sempre le tracce del suo passaggio in modo indelebile, e per quanto scomoda, la sua presenza ci ricorda ancora oggi attraverso i quadri parti misteriose e nascoste della realtà e di noi stessi che vorremmo poter chiudere in un cassetto, dimenticandoci che ogni cassetto prima o poi viene aperto, magari da un simbolo che lo dischiude. 24

Irene Nava


Quale design?

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“Quali cose siamo,” dalla Lettera 22 ai Gormiti.

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aratteristica della Triennale di Milano è il rimanere disorientati di fronte al dinamismo e all’ecletticità delle sue mostre. In concomitanza con il Week-end del Design, la celebre istituzione meneghina ha concesso l’ingresso gratuito ai milanesi, molti dei quali non conoscono la propria città e le sue eccellenze. Sarebbe infatti un peccato perdersi una delle neonate esposizioni che ospita il Palazzo dell’Arte: quella dedicata al design italiano. I suoi ambienti, ben visibili da parte dello spettatore grazie al ponte sospeso sulle scalinate, ospitano due collezioni permanenti e una mostra annuale che quest’anno è stata curata da Alessandro Mendini ed è intitolata “Quali cose siamo”. Appena entrati ad accogliere i visitatori si presentano subito alcuni oggetti

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bizzarri: una copia del David di Michelangelo, una replica del celebre sandalo di Ferragamo e un’Ape. Già da questi “indizi” si capisce subito che le nostre coordinate sono inadeguate per capire la dimensione in cui ci troviamo. Poco più in là, ad attendere, dentro una teca di plexiglass, ci sono i “Gormiti”. Prende qui forma il dubbio: come può un Gormita essere l’espressione del design italiano nel mondo? Tra i 796 oggetti reperiti in tutta Italia, disposti su enormi basamenti, si trovano inoltre delle protezioni “Dainese” vicine a una copia di un’armatura sabauda, porcellane antiche e vasi di terracotta prodotti con i medesimi processi di cinquecento anni fa, plastici curiosi come il “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, libri di celebri architetti e designer italiani. Ma sono presenti anche degli oggetti di design tradizionale, come la celebre “Lettera 22”, il primo prototipo della “Moka” Bialetti e la Panda della Bertone. Per il visitatore che, con in sottofondo un ticchettio martellante, cercasse di risolvere l’enigma legato alla logica della mostra, agli accostamenti e ai criteri di scelta degli oggetti, la chiave di lettura è a portata di mano: l’idea stessa di design. Silvana Annachiarico, direttore del Triennale Design Museum, definisce la “mission” del museo e della mostra: la base è un concetto di design dinamico, non monolitico, visibile da diversi punti di vista, dove gli oggetti si confondono. Alessandro Mendini riprende queste parole e afferma, nella videointervista finale, che non si è basato su una definizione istituzionale di design: il suo intento era trovarne una nuova. Tutti gli oggetti sono importanti, come chi li ha usati: egli è in qualche modo descritto da questi; i metodi produttivi sono fondamentali, perché conferiscono unicità al prodotto. Non è il tempo la dimensione principale della mostra, ma le situazioni e gli accostamenti che lo spettatore, mai passivo, è chiamato a creare, scegliendo secondo una propria concezione di design. C’è ora un nuovo polo che giuda la bussola del visitatore: il situazionismo, la valenza simbolica del prodotto e una nuova lettura inconscia. Credere che solo certi oggetti facciano parte del design solo perché belli o utili non è un errore, ma una lettura limitante, la base di tutti gli integralismi artistici. Tutta l’Italia è un grande museo e noi stessi siamo il metro con cui decidere se un “Gormita” può essere espressione del design. Ma forse fra trent’anni questo non sarà un problema per i “puristi” del design: allora il gusto comune li avrà accettati e riabilitati, come è successo per i vari Mazinga e Goldrake, dei “cult” contemporanei. Davide Contu

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La cultura in gara

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Le città europee si sfidano all’ultima mostra per il titolo di Capitale Europea della Cultura.

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écs in Ungheria, Essen in Germania, e Istanbul in Turchia sono le tre città che nel 2010 si sono aggiudicate il privilegio di poter diventare Capitali Europee della Cultura. Ogni anno alcune città d’Europa vengono investite di questo titolo, che si accompagna a un finanziamento destinato ai progetti culturali proposti. Occasione per valorizzare la ricchezza, le differenze e le caratteristiche unificanti delle diverse culture europee, strumento-ponte per accorciare le distanze fra le storie, le tradizioni e le innovazioni dei Paesi comunitari. L’iniziativa, sviluppatasi entro il quadro internazionale di promozione e circolazione della cultura, è stata approvata nel Giugno del 1985 dal Consiglio dell’Unione Europea, su iniziativa dell’allora ministro greco della cultura Melina Mercouri. Il progetto doveva fermarsi nel 2004, ma dato il suo grande successo, è stato prolungato fino al 2019. Proprio l’ultimo anno l’incarico spetta all’Italia e alla Bulgaria. Il nostro Paese può vantare ben tre precedenti: Firenze nel 1986, Bologna nel 2000 (anno in cui furono ben 9 le capitali europee) e Genova nel 2004. Quale città sarà quindi la capitale Europea del 2019? Si è aperta una vera e propria competizione per ottenere questo titolo. Fra le concorrenti più agguerrite c’è Ravenna, la sua candidatura è stata presentata a Bruxelles l’11 Novembre dal Presidente dell’Emilia Romagna Vasco Errani, dall’eurodeputato Salvatore Caronna, dal Sindaco di Ravenna Fabrizio Matteucci e dall’assessore alla Cultura della città romagnola, Alberto Cassani. Ottenere questo titolo è “Un progetto ambizioso cui Ravenna può legittimamente aspirare per le grandi qualità di un patrimonio storico-artistico che è una

La Capitale 2011, Tallinn

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risorsa dell’intero Paese, ma anche una preziosa opportunità per costruire una nuova esperienza culturale da cui tutti i cittadini dell’Emilia-Romagna potranno trarre beneficio. Un passo importante per un sistema della cultura che a Ravenna si connette con lo sviluppo, il turismo, la qualità della vita” ha commentato Vasco Errani. L’obbiettivo è inoltre quello di promuovere lo sviluppo dell’intero territorio con una futura crescita sociale ed economica che coinvolga anche tutte le principali città della Romagna, a partire da Rimini, Forlì e Cesena. Altra concorrente forte è Venezia, che si è candidata il con il progetto “Venezia con il Nord-Est”, in cui si propone tra l’altro di sviluppare la metropolitana della cultura: una rete di quattordici linee che connetteranno le principali città del Veneto, del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia. Le diverse linee saranno suddivise a seconda degli interessi, ad esempio la linea viola sarà per le arti visive, quella verde per il teatro e la danza, quella rosa per il cinema ecc. La metropolitana collegherà la basilica di San Marco a Venezia, le ville di Andrea Palladio a Vicenza, i reperti romani di Verona, la Cappella degli Scrovegni a Padova e l’architettura mitteleuropea di Trieste. Senza dimenticare i bellissimi paesaggi delle Dolomiti, dichiarate “Patrimonio Mondiale dell’Umanità” dall’Unesco. Mappa metropolitana alla mano, le persone potranno quindi decidere il proprio percorso culturale personalizzato cambiando linea nelle stazioni di coincidenza. L’unico interrogativo è se questo ambizioso progetto sia realizzabile entro il 2019. Anche L’Aquila si è messa in gioco. Il gruppo su facebook che sostiene la sua candidatura può già vantare più di 11.000 iscritti, che continuano a crescere. L’impegno di numerose istituzioni internazionali e Paesi stranieri – Germania, Spagna, Francia, Stati Uniti – nella ricostruzione, fanno dell’Aquila un prototipo di collaborazione, affermando la dimensione più che europea della città. Le risorse già stanziate, come sottolineato dal Presidente della Regione Gianni Chiodi, si trasformerebbero da un mero “contributo alla ricostruzione”, in un effettivo investimento di sviluppo, grazie all’effetto promozionale che un Grande Evento di questo tipo potrebbe generare. Ma ci sono ancora molte altre città italiane che vogliono candidarsi al riconoscimento europeo: Palermo, Bari, Brindisi, Catanzaro, Torino, Matera, Siena, Perugia e Assisi sono fra le papabili. Chi vincerà questa gara? È ancora presto per dirlo, il bando nazionale sarà pubblicato alla fine del 2012 e la città vincitrice sarà designata presumibilmente solo nel 2014. Nell’attesa potete partecipare anche voi alla selezione votando sul sito www.candidatecities.com la città che preferireste vedere Capitale Europea fra quelle dei Paesi cui è già stata assegnata la candidatura. Elena Sangalli 28


Città di carta

A Lowell, cioè a casa ••

La città e la metropoli Jack Kerouac, 1950

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a città è Galloway. Il fiume Merrimac, largo e placido, scorre giù dalle colline del New Hampshire, verso Gallaway, per incresparsi alla cascata dove si spezzetta in schiuma contro la roccia, poi scorre spumeggiando sopra alcuni antichi pietroni verso un posto che lo vede improvvisamente girare in un grande e pacifico bacino. Ora il fiume continua a scorrere, fiancheggiando la cittadina verso posti conosciuti come Lawrence e Havrhill, attraverso una boscosa vallata, e avanti fin verso il mare a Plum Island, dove il fiume finisce per perdersi in un’infinità di acque. Da qualche parte molto al nord di Galloway, vicino al Canada, c’è il corso superiore del fiume continuamente nutrito e riempito da inesauribili fonti di inspiegabili origini”. Comincia così il primo lavoro pubblicato da Jack Kerouac (che qui si firma John). Era il 1950. Fu scritto secondo la tecnica di Thomas Wolfe e con uno stile meno crudelmente autobiografico rispetto alle sue opere future. Una lente focale lirica impasta gran parte di queste pagine. Il romanzo, come dice il titolo, è incentrato su due sedi: New York e Galloway, ovvero Lowell, una piccola città industriale del Massachusetts. Il personaggio principale, Peter Martin (uno degli alter ego dell’autore) viene da quest’ultima, e dovrà andare a New York per frequentare il college. Seguiamo allora il suo sguardo sulla città lasciandogli la parola: “Se di notte qualcuno va su tra i boschi che circondano Galloway, e si ferma su una collina, può vedere tutto ciò in un immenso panorama: il fiume con il lento corso ad arco, gli opifici con le lunghe file di finestre incandescenti, e le ciminiere delle fabbriche che s’innalzano tanto quanto le guglie della chiesa. Ma lui sa che questa non è la vera Galloway. Qualcosa nell’invisibile

foto Andrew Katz

RUBRICHE 29


suggestivo paesaggio che circonda la cittadina, qualcosa nelle stelle brillanti che annuiscono vicino al versante della collina dove il cimitero riposa, qualcosa nel soffice frusciare delle foglie sopra i campi e i muri di pietra racconta una storia differente”. Quando i Martin di Galloway arrivano nella grande metropoli, Kerouac mette in bocca alla madre del protagonista queste riflessioni: “«Santo Cielo», indicando gli alti grattacieli giù a Brooklin, «quegli edifici un giorno cadranno. Un bel terremoto e cadrà tutto»”. La città sembra sull’orlo di una catastrofe. Il sentimento di calore che accompagnava le riflessioni del giovane Peter sembra ora scomparso, avanza un sentire lugubre e cupo: “Al di là di questo mare di tettucci di macchine che luccicavano al sole sorgeva un grande lugubre edificio in mattoni rossi, che sembrava abbandonato, con centinaia di scure finestre polverose, ed edera arricciata di un pallido verde sbiadito. Una vasta parte del muro rosso, senza finestre, dispiegava una pubblicità, che mostrava un uomo con la testa fra le mani in segno di disperazione. Una scritta indistinta vicino a lui, macchiata e insudiciata dal tempo e dalla fuliggine, proclamava indispensabile una certa medicina”. Per New York quindi non è più valido: “l’intero vasto mondo dei grandi spazi, fatto di cieli, alberi, boschi, campi e del fiume erano là pronti ad essere usati” che si può leggere per quanto riguarda il paese natale, descritto invece con queste parole: “Fuori, sul pendio, il sole rosa s’intromette di sbieco attraverso foglie di olmi, una fresca brezza soffia attraverso la soffice erba, i ciottoli luccicano nella luce mattinale; c’è odore di terra grassa e erba ed è una gioia sapere che la vita è vita e che la morte è la morte”. Crescendo, Kerouac ha composto tutti i suoi capolavori sui temi che già qui affiorano, e in particolare uno: una certa alienazione data dalla ricerca della sua vera casa. Per alcuni aspetti questo libro mostra una sensibilità conservatrice o forse provinciale: la convinzione che i veri valori siano solo nelle piccole città. Il tutto è venato da uno stile sentimentale, spesso commovente, ma efficace. Secondo George Costantinides, un amico di Kerouac, Lowell “era una città industriale repressa, se si voleva diventare artisti o scrittori, l’unico modo era andarsene. Era noiosa, dalla mentalità ristretta, filistea, senza scambi tra le varie etnie e intensamente religiosa”. Lowell-Galloway era la città da rifiutare, eppure Jack ci rimase sempre emotivamente legato. Nel 1963 disse: «Faccio un sogno ricorrente nel quale cammino semplicemente per le strade deserte di Lowell al crepuscolo, nella nebbia, ansioso di girare ogni angolo, conosciuto o inventato. Un sogno molto spettrale e ossessivo, ma quando mi sveglio sono sempre felice». Alessandro Manca

30 foto Martin/ugod


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Orizzontali 1 – In parlamento, chi ce l’ha la chiede, ma chi non ce l’ha di solito non la dà. 8 – Discorso tenuto in pubblico di carattere solenne. 10 – Lo fa “la notizia” su Mediaset. 11 – Quello “Levante” indica l’Estremo Oriente. 12 – Mantra induista alternativo all’Om. 13 – Imperia. 15 – Reparto dei carabinieri che indaga specialmente sulle sofisticazioni alimentari. 17 – Soprannome del mafioso Badalamenti. 19 – Lo scrive l’ingegnere sul citofono. 20 – I Pink Floyd ne cantavano il “dark side”. 22 – Lo fa il “pensiero” nel presunto inno padano. 23 – Raramente lo risponde lo sposo Verticali 1 – Canta “C’è tempo”. 2 – Lo è un pelo ispido. 3 – Viene detto alla Clementine della nota canzoncina americana. 4 – Celebre pistola mitragliatrice dell’esercito israeliano. 5 – Autostrada dell’Appennino Tosco-emiliano. 6 – Per San Francesco lo è Frate Focu, oltre ad essere “robustoso e forte”. 7 – La vendette Robert Johnson al diavolo in cambio dell’abilità nel suonare. 9 – “Quella” in latino. 14 – Significa “adesso” in alcuni dialetti italiani. 18 – La variante spagnola di Anna. 20 – Lo dice chi dubita. 21 – Lo si preme per accendere.

Soluzioni del numero 55 Orizzontali 1 – Eredità. 8 – Felicità. 10 – Fatti. 11 – Av. 12 – Etoo. 13 – Sla. 14 – Rin. 15 – Uaar. 16 – An. 17 – Boni. 18 – Torre. 21 – Ta. 22 – Carta Verticali 1 – Efferato. 2 – Reatino. 3 – John. 4 – Dito. 5 – Ici. 6 – Ti. 7 – Atalanta. 9 – Avaria. 13 – Sao. 15 – Uber. 19 – Rc. 20 Ra

Registrato al Tribunale di Milano, n. 317, 4 Maggio 2004. Direttore responsabile: Laura Rio. Fondato da: Luca Gualtieri, Andrea Modigliani, Andrea Canevazzi. Stampato con il contributo dell’Università degli Studi di Milano, derivante dal fondo per le attività culturali e sociali, previsti per Legge del 3 Agosto 1985, n. 429


EDITORIALE Da una lettera di Nicola Brenna, amico di Eluana Englaro, inviata al quotidiano cattolico Avvenire: “mi sono detto: ma tu lo faresti veramente? E la risposta è stata: no. Io non riuscirei mai a fare questa cosa. Perché dentro, nel profondo di me stesso, sentivo che quella vita, anche ad un livello così minimo di coscienza, era comunque una vita, una cosa misteriosa che non mi sarei mai sentito di sopprimere”. Le polemiche sui casi Englaro e Welby si sono riaperte da quando Roberto Saviano, nel corso della trasmissione Vieni via con me, ha dedicato un monologo alle due storie. Nella sua lettera l’avvocato Brenna ha definito l’intervento dello scrittore fazioso ed anticlericale, a tratti brutale. Ma è davvero così disdicevole sostenere la libertà di scelta? È questo il banale interrogativo nel quale l’integralismo cattolico si incaglia. Eppure, nel corso del monologo di Roberto Saviano, delle parole brutali sono state pronunciate. Sono quelle del Vaticano, scritte subito dopo la morte di Piergiorgio Welby: “In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica”. Un rifiuto che, letto nella sua forma burocratica e profondamente irreligiosa, si rivela per ciò che è. Una piccola ma autentica offesa contro l’umanità. Gregorio Romeo

Direttore: Laura Carli Vicedirettori: Giuditta Grechi, Irene Nava Caporedattore: Filippo Bernasconi Impaginazione & Grafica: Alessandro Massone Vignette e fumetti: Andrea Mannino, Sogar Khaleghpoor Fotografie Originali: Laura Carli, Francesca Di Vaio, Irene Nava Redazione: Danilo Aprigliano, Denis Trivellato, Luisa Morra, Alice Manti, Elisa Costa, Michela Giupponi, Luca Ricci, Davide Contu, Massimo Brugnone, Gemma Ghiglia, Elena Sangalli, Daniele Colombi, Francesca Gabbiadini, Alessandro Manca, Francesca Di Vaio, Andrea Fasani,Valentina Meschia. Collaboratori: Beniamino Musto, Gregorio Romeo, Fabrizio Aurilia, Luca Ottolenghi, Flavia Marisi, Davide Zucchi, Marco Bettoni, Dario Augello,Virginia Fiume, Daniele Grasso, Alessio Arena. Responsabile BachecAlloggi: Giuditta Grechi—bachecalloggi@libero.it

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