Vulcano - n. 54

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Il mensile dell’Università degli studi di Milano numero 54, Estate 2010

Com’è lontana la scuola Il diritto allo studio nei campi nomadi

Appunti Partigiani intervista a Luigi Pestalozza


Sommario

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CORSIVO Filippo Bernasconi UNIVERSITÀ Matricole in P.A.R.I.

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INCHIESTA Lontano dagli occhi

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di Francesca M. Di Vaio e Andrea Fasani Laura Carli

La scuola del quasi obbligo Irene Nava

Visita al Campo di Rho Laura Carli e Irene Nava

10 ATTUALITÀ Il clima sta cambiando: il riscaldamento globale Elena Sangalli

12 Frammenti di anarchismo milanese Michela Giupponi e Tommaso de Brabant

15 Il gioco della guerra e l’educazione al pensiero libero intervista a Luigi Pestalozza, Laura Carli e Giuditta Grechi

19 A furia di sparar cazzate…

intervista a Dario Vergassola, Angelo Avelli e Alessandro Massone

21 CULTURA Novità dal mondo editoriale Danilo Aprigliano

23 Graffiti d’autore Matteo Nava

25 Valentina: i vestiti nuovi dell’Imperatrice Tommaso de Brabant

27 SATIRA Top ten delle teorie cospirative più assurde Elisa Costa

29 Non sono una signora, 5 a cura di Massimo Brugnone 30 COCCODRILLO: Niccolò Ghedini Filippo Bernasconi

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numero 54, Estate 2010 in copertina: foto di Irene Nava

Qualche anno fa le Iene avevano suscitato scandalo mostrando l’ignoranza caprina di molti dei nostri parlamentari, che davanti a domande elementari si esibivano in sviste madornali. Indimenticabile fu l’on. Fini (Giuseppe, di Forza Italia), che scambiò il Darfur con uno stile di vita frenetico, pensando forse al fast food. Oggi la situazione è radicalmente cambiata, però in peggio: venerdì 26 marzo a Torino, parlando alla platea dei sostenitori di Cota (d’accordo, probabilmente non degli squisiti intellettuali), il ministro Giulio Tremonti si è pavoneggiato assicurando che “noi siamo gente semplice, poche volte ci capita di leggere un libro...”. Ora, Tremonti non è affatto uno zotico, è stato professore universitario (per un breve periodo addirittura ad Oxford), e i libri non solo li legge, ma ne ha anche scritti una decina. Siamo al ribaltamento della situazione stigmatizzata dalle Iene: dall’ignorante che finge di conoscere cose che non sa, alla persona colta che simula di essere ignorante; dalla vergogna per l’ignoranza, alla vergogna per la cultura. Il politico in questo non ha colpe specifiche, in democrazia è fisiologico cercare il consenso. Il colpevole è quell’elettore che invece di votare cercando di ritrovare i propri pregi, sceglie chi lo accomuna nei suoi stessi vizi.

Filippo Bernasconi

Tremonti, una cultura sterminata.


Matricole in P.A.R.I.

UNIVERSITÀ

di Francesca M. Di Vaio e Andrea Fasani

P.A.R.I è un progetto della Facoltà di Lettere e Filosofia rivolto agli studenti delle scuole secondarie superiori interessati ai corsi di laurea triennali in Lettere, Filosofia, Storia, Scienze dei beni culturali, Scienze umane dell’ambiente del territorio e del paesaggio, nato in conseguenza alla riforma universitaria 3+2. Il progetto permette allo studente di auto valutare le proprie conoscenze per scegliere consapevolmente il Corso di Laurea e per un “inserimento proficuo nel mondo dell’università.” Il sito Ariel mette a disposizione una simulazione del test alla quale possono accedere tutti gli studenti che posseggono un account unimi, con domande volte a valutare un livello culturale che la struttura universitaria ritiene indispensabile.

Conoscere la risposta a domande come “Quanto dista Pechino da Berlino?” o “Qual è la città dei Beatles?” è davvero essenziale per intraprendere uno studio letterario, storico o filosofico?

In ogni caso l’esame è obbligatorio, almeno per una certa fascia di studenti, anche se il suo mancato superamento non preclude l’accesso all’università. Ogni studente potrà frequentare e dare esami normalmente. Gli interessati sono gli studenti che hanno conseguito una valutazione inferiore a 70/100 alla maturità e che non hanno “seguito nel proprio itinerario di studio discipline fondanti del Corso di Laurea”. Questo secondo i siti (cosp.unimi e pari.ariel.ctu.unimi) e i depliant distribuiti dalla Facoltà, ma le informazioni sono imprecise. Infatti, a smentire le indicazioni riportate, sono le e-mail e le lettere inviate alle matricole con l’obbligo di sostenere l’esame. Insomma, la confusione dilaga e le voci sbagliate girano: come sempre bisogna rivolgersi alla segreteria della Facoltà per avere spiegazioni e capire se si posseggono le credenziali sufficienti per il test auto valutativo. Ad aumentare gli interrogativi è anche la frase oscura riportata sul sito del COSP, sotto la voce “verifica di preparazioni”, nella sezione “future matricole”: “Nel nostro Ateneo, dall’ a.a. 2009-2010, sono state definite differenti modalità di verifica, attraverso test di autovalutazione o colloqui”. Dunque, a una prima lettura, anche un colloquio potrebbe sostituire il test. Ma ulteriori dettagli non sono indicati. Se il test non viene superato, è obbligatorio seguire due incontri di “recupero”, ciascuno della durata di quattro ore, organizzati dal COSP attraverso l’impiego di personale specializzato. Eppure, quando a dicembre, cioè in prossimità del test, abbiamo chiesto delucidazioni direttamente al COSP abbiamo ottenuto ancora una volta informazioni approssimative. Il contenuto del test prevede, per ogni Corso di Laurea, prove di cultura generale, Italiano, Storia e Filosofia (solo per la Facoltà di Filosofia), strutturate in test di verifica delle conoscenze, comprensione del testo e produzione del testo. foto Remì Carreiro

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Ariel propone una serie di indicazioni bibliografiche per prepararsi in modo efficace, ma allora qual è la sua utilità se uno studente si prepara anticipatamente a ciò che gli verrà richiesto? Risulta anche strana la tipologia della maggior parte dei testi proposti, più adatti a un corso specifico che alla preparazione base di una matricola (es. Elementi di linguistica italiana, Manuale di retorica). Progetti simili sono nati parallelamente anche in altre Facoltà, come TEC per la Facoltà di Scienze politiche e VERJUS per Giurisprudenza. Prendendo l’esempio dal test di Giurisprudenza, alla data dell’ultimo Consiglio di Facoltà di marzo nell’anno accademico 2009/2010, gli studenti interessati sono stati 510 di cui solo 291 si sono presentati a sostenere la prova. I bocciati invece risultano pochi: soltanto 25 con carenze prevalentemente di cultura generale (“Il primo lungometraggio di animazione prodotto dalla Walt Disney è stato...?”). Oltre ad aver notato un’organizzazione più dettagliata delle notizie riguardo al test di Giurisprudenza, una domanda nasce spontanea e ci incuriosisce: i rimanenti 219?.

Questo ha posto un problema poiché il test è obbligatorio, ma non è possibile erogare sanzioni a chi non lo sostiene. Così si è deciso di riportare la mancata presentazione al test sul certificato della carriera accademica dello studente, senza però nessun risvolto pratico.

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foto Mark Grapengater

A questo punto, secondo i dati che siamo riusciti ad ottenere, sembra che i progetti di autovalutazione dell’Ateneo abbiano fallito il loro compito, non riuscendo a coinvolgere gli studenti interessati e mettendo a disposizione di chiunque voglia parteciparvi dettagli poco chiari. Contestabile anche il fatto che ad uno studente che non ha dimostrato conoscenze adeguate siano imposte otto ore di incontri, in cui dovrebbe imparare ciò che non ha appreso in cinque anni di superiori.

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INCHIESTA

Lontano dagli occhi Due anni di “Emergenza rom”, l’opinione di Opera Nomadi a cura di Laura Carli e Irene Nava

Maggio 2010. Sono passati due anni esatti da quando il ministro Maroni ha dichiarato l’“emergenza nomadi”. In seguito ai roghi di Ponticelli, il ministro aveva infatti stanziato un milione di euro per fronteggiare una “situazione di estrema criticità causata dalla presenza di numerosi extracomunitari irregolari e nomadi”. Sono seguiti i censimenti, proposte discutibili come la possibilità di rilevare le impronte digitali ai minori e gli sgomberi. Numerosissimi e reiterati, tanto che nella sola città di Milano i nomadi coinvolti sono stati centinaia. Recentemente, la cronaca si è concentrata in particolare sull’insediamento in via Triboniano, per i recenti scontri con le forze dell’ordine. “L’insediamento di via Triboniano è un pugno nello stomaco” Commenta Maurizio Pagani, vice presidente dell’associazione Opera Nomadi. “È un grande ghetto sociale, abitato da circa settecento persone. Il grosso sbaglio è far passare l’ idea che tutti i campi siano così per giustificare una nuova modalità d’approccio, non più basata sul riconoscimento dei campi come sedi di dimore, ma come una sistemazione temporanea”. L’ottica in cui si inserisce tale atteggiamento è la stessa che guida gli sgomberi degli insediamenti abusivi, così come i preparativi per la chiusura di quattro campi milanesi autorizzati. Sono passi verso l’eliminazione di tutti e dodici i campi comunali, alcuni presenti a Milano da decenni, in vista del make-over cittadino pre-Expo.

Entro la fine del 2010 quasi mille persone saranno i soggetti di un trasloco forzato. Resta da chiarire la meta.

“Fino a tre, quattro anni fa” Continua Pagani: “Sulla stampa i dati sull’entità degli insediamenti zingari apparivano decisamente gonfiati, per far percepire la situazione come una vera emergenza”.

foto Francesco Paraggio

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Ora invece è in corso il fenomeno opposto, si tende a minimizzare, a diminuire il numero degli insediamenti, così che le risorse vengano indirizzate ai pochi che il comune riconosce. Gli altri vengono come “cancellati”. Si sta diffondendo una moda bipartisan: chiudere i campi nomadi. L’idea reclamizzata è chiudere i “ghetti” per offrire sistemazioni migliori, che offrano anche una migliore integrazione. “In realtà si tratta di una campagna di carattere demagogico” Osserva Pagani. Al di là delle motivazioni di carattere sociologico e culturale e quelle più banalmente veniali, il vicepresidente dell’associazione pone anche delle perplessità di carattere pratico: “Anche dove la popolazione rom si è stabilita in regolari abitazioni sussistono gravi fenomeni di emarginazione, si pensi per esempio alla zona del porto di Genova o a via Padova qui a Milano. Non è tanto il tetto che hai sulla testa, quanto la qualità della vita.” Maurizio parla anche della gestione autoritaria con cui viene trattata la cosiddetta emergenza. Partendo dal presupposto che far rispettare un regolamento è un punto di partenza fondamentale, pone l’accento sulle modalità, in particolare sulle pratiche, a volte molto violente, che accompagnano gli sgomberi. “Spesso lo sgombero vero e proprio viene preannunciato dall’arrivo della polizia, che attua una serie di pratiche intimidatorie, tra cui la minaccia di togliere i bambini alle famiglie”. E il rischio di sottrazione dei bambini, per motivi più o meno validi, è in effetti elevatissimo. Infatti la questione minori è uno degli aspetti che desta maggiore preoccupazione. Alla domanda se il diritto allo studio dei bambini viene in qualche modo considerato quando si prende la decisione di sgomberare un campo Maurizio Pagani rispondo in modo deciso: “Assolutamente no”.

Laura Carli

La scuola del quasi obbligo Quando l’istruzione è un diritto difficile da conquistare.

In Italia solo il 30% dei bambini rom va a scuola, pur essendoci l’obbligo di scolarizzazione. Questo dato è strettamente connesso con quello riguardante la stabilità abitativa, le condizioni economiche e il contesto sociale: quando i genitori vivono ai margini della società e percepiscono un alto livello di ostilità

Opera Nomadi è una “associazione con finalità di solidarietà sociale e di tutela dei diritti”, nata a Bolzano nel 1963 e divenuta poi nazionale. Da allora si occupa di sottrarre all’emarginazione e inserire nella collettività gruppi di Rom e Sinti, promuovendo la loro partecipazione attiva alla vita politica, sociale e culturale tramite vari progetti, tra i quali un corso di sartoria e uno di cucina e la presenza di educatori e mediatori culturali nelle scuole per seguire l’educazione dei minori. Contatti: www.operanomadimilano.org

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foto Irene Nava


nei loro confronti è più difficile che abbiano lo stimolo e anche i mezzi economici e pratici per mandare i propri figli a scuola. I bambini sono iscritti principalmente alla scuola primaria, alla scuola media si registra già un calo e pochissimi ragazzi proseguono oltre nella loro istruzione. Ciò che è più grave, tuttavia, è il fatto che durante il loro percorso questi bambini incontrano molte difficoltà e poche persone e strutture disposte realmente ad aiutarli: spesso vengono abbandonati a loro stessi o inseriti in programmi di studio diversi da quelli del resto della classe, così che capita che in quarta o quinta elementare non abbiano ancora imparato a leggere e scrivere, o comunque si trovino ad uscire dalla scuola con una preparazione inferiore a quella dei loro compagni. Alla base della loro difficoltà sta una differenza culturale di fondo: mentre la nostra cultura si basa su una tradizione prevalentemente scritta e ciò si riflette nelle modalità di apprendimento, la cultura rom è orale, come anche la lingua che li identifica come gruppo etnico, il romanes o romanì. Gli studi linguistici fanno derivare questo idioma dalle varianti popolari del sanscrito e riscontrano analogie con i dialetti oggi parlati nell’India del Nord Ovest. In seguito, nel tragitto che ha portato le popolazioni rom verso l’Europa nell’ VIII/XII secolo, essa ha subito numerose variazioni e ancora oggi è molto diversificata al suo interno. In Italia non è considerata una minoranza linguistica, ed ha subito moltissimo l’influsso dei nostri dialetti. La tendenza generale è però quella di acquisire la lingua del paese di adozione, come è accaduto per i rom della Romania. Ancora oggi non sono stati compiuti studi esaustivi su questa lingua, e non esiste una grammatica o una versione standard: la mancanza di una codificazione va naturalmente collegata alla base unicamente orale e alla forte varietà interna. Il sistema scolastico però non si è approcciato in modo consono a questa difficoltà di metodo: a fronte della evidente necessità di fornire un sostegno linguistico ai bambini qualcuno ha invece ritenuto che la diversità fosse da considerarsi un deficit da “sanare” e a Pavia alcuni insegnanti sostengono che sarebbe necessario un intervento di neuropsichiatria infantile. Ci sono dei fondi statali per il supporto educativo dei bambini rom nelle scuole, ma in generale la strategia è sempre stata quella di istituire dei laboratori a parte per colmare le loro lacune. In pratica, oltre a non fornire un livello di istruzione adeguato, questo strumento ha finito per portare a un’ulteriore esclusione dei bambini, che passano più tempo fuori dalla classe che insieme ai loro compagni, e svolgono attività separate.

foto Anthony M.

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Quello che manca, dice Maurizio Pagani di Opera Nomadi, è “un intervento di mediazione sociale. L’associazionismo cattolico sminuisce la centralità di questa opzione e la sostituisce con un imprinting culturale che categorizza l’altro come qualcuno che ha solo deficit.” Invece è necessario un rapporto di incontro culturale, anche con le famiglie: “Quanto meno si interagisce tanto meno l’educazione riesce. Dove si è sperimentato un intervento più ampio anche coinvolgendo i genitori in attività lavorative si sono riscontrati risultati migliori.” Nel campo di Rho, dove è attiva l’associazione, tutti i bambini vanno a scuola e con un progetto di recupero anche alcune madri hanno conseguito il diploma di scuola media. L’associazione paga il viaggio e i libri. “La mancanza di un’esperienza positiva acquisita – spiega Pagani – impedisce l’innescarsi di un processo di emulazione”: anche per questo la situazione scolastica in molti altri campi è di tutt’altro genere. Resta il fatto che il principale impedimento alla scolarizzazione sono le possibilità economiche e il problema dell’abitazione, soprattutto quando la pratica degli sgomberi interrompe forzatamente il percorso di istruzione dei minori, oltre che un contesto sociale violento e problematico.

Irene Nava

Visita al campo di Rho

Il campo di Rho è uno di quegli esempi di insediamenti nomadi che poco hanno a che vedere con il concetto di “ghetto” descritto negli ultimi tempi dalla cronaca. Si presenta come un’area circondata da zone agricole e complessi industriali sorti di recente che hanno, nel tempo, sottratto sempre più spazio all’area abitativa. La zona è prevalentemente verde e alterna spazi curati ad altri lasciati incolti. I complessi abitativi, tra roulotte e container, sono rimasti pochi e molte sono le aree lasciate vuote in seguito agli sgomberi. Inizialmente gli attuali abitanti erano insediati nei terreni agricoli circostanti, da loro acquistati circa quindici anni fa, dove però, in quanto terreni coltivabili, non era legittima la costruzione di alcun tipo di edificio. Poi, tre anni, fa la giunta comunale ha concesso il permesso per l’apertura del campo. Il progetto originario prevedeva delle baite, ma prevalse la più economica scelta dei container. Da circa un anno è in corso un graduale processo di svuotamento del campo attraverso la revoca del permesso di occupazione della piazzola, spesso in seguito a motivazioni pretestuose e attraverso metodi intimidatori. Al momento la popolazione è composta da circa trentacinque persone, tra cui quindici bambini, tutti regolarmente iscritti a scuola. In tutto si possono contare un paio di roulotte e circa cinque prefabbricati dalle porte in lamiera. All’interno le abitazioni si presentano in modo diversificato a seconda delle possibilità delle famiglie, un dettaglio comune a tutte però è l’angolino votivo, con foto della madonna, candele e fiori: una sorta di piccolo altarino domestico. Il richiamo religioso, più mistico-rituale che propriamente cristiano, ritorna anche all’esterno, con una piccola cappella di forma piramidale, edificata dagli abitanti del campo, di confessione ortodossa, per “ingraziarsi il clero locale” e decorata su tutta la superficie con immagini sacre di santi e di papi.

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foto Irene Nava


L’attenzione per gli oggetti di decorazione è presente in tutto il campo: in ogni abitazione mensole e nicchie ospitano ninnoli di vario genere, di carattere più o meno sacro. Quasi un oggetto di culto appare in particolare il modellino di una villa, che troneggia appoggiato sull’armadio in casa di Angelina. Si tratta dell’abitazione che la sua famiglia stava costruendo a Belgrado, una villa grande ed elaborata dall’architettura un po’ orientale, che suo marito ha voluto riprodurre in scala ed esporre in bella vista. Andrea invece vive con i suoi sei fratelli in un’abitazione più modesta. Ha dodici anni e frequenta la prima media, non sa però se riuscirà a terminare con regolare frequenza l’anno scolastico perché il furgoncino con cui i volontari di Opera Nomadi accompagnavano i bambini a scuola è fermo per problemi burocratici di non imminente risoluzione. Alla domanda se sarà o meno promosso quest’anno, risponde incerto che non lo sa, che ha recuperato l’insufficienza in fisica ma non quella in matematica. Sulle sue aspirazioni future ha le idee più chiare: vorrebbe fare “quello che cura i bambini” o il calciatore. Anche Andrea è vittima del cliché italiano del mito della carriera calcistica, mentre parla gioca a P.E.S e racconta del suo goal da centrocampo e dei suoi allenamenti, curati da una volontaria, ex calciatrice del Milan. Giuliana invece finirà le medie quest’anno ed è una dei pochi ragazzi che ha intenzione di proseguire negli studi: frequenterà una scuola professionale per parrucchieri a Milano. E’ una ragazza estroversa, dall’aspetto molto curato, dimostra più dei suoi quattordici anni. Nel tardo pomeriggio l’atmosfera si vivacizza improvvisamente per il ritorno dei bambini da scuola. E’ più tardi del solito perché, con il pulmino inutilizzabile, i ragazzi sono dovuti tornare a piedi. Una volta a casa, confrontano quaderni e calligrafie, fanno a gara a chi scrive meglio e un paio di bambini mostrano orgogliosi la foto di classe; uno in particolare, affascinato dall’aspetto meta-fotografico, non vuole essere immortalato senza. Dopo i primi minuti, passati a discutere della scuola e dei compagni, l’aspetto del gioco puro ha il sopravvento e i ragazzi si concentrano sui loro svaghi abituali. La giornata di scuola è conclusa ma, con il pulmino fermo, i giorni dalla fine di maggio alla conclusione dell’anno scolastico restano incerti. La frequenza sarà sporadica e per lo più basata su mezzi di fortuna. Lo stesso obbligo di scolarizzazione, sancito a livello nazionale, nel caso dei ragazzi dei campi nomadi è affidato alla discrezione personale e all’arte di arrangiarsi, all’iniziativa individuale e al lavoro dei volontari. Da parte delle istituzioni, nonostante l’ “emergenza nomadi” dichiarata due anni fa, che prevedeva anche proposte riguardo ai giovani e all’istruzione, sembra regnare il completo disinteresse.

Laura Carli e Irene Nava

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Il clima sta cambiando: il riscaldamento globale

Secondo il quarto rapporto di valutazione del Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), redatto nel 2007, la temperatura del pianeta è aumentata in media di 0,76 gradi rispetto ai livelli preindustriali e la tendenza è in continua accelerazione. L’atmosfera si sta surriscaldando, ma perché? Il clima sta cambiando per il forte aumento delle emissioni dei gas a effetto serra. Questi gas (anidride carbonica, metano e vapore acqueo) sono in realtà essenziali per la vita sul nostro pianeta, infatti lasciano filtrare la luce solare e trattengono parte dei raggi infrarossi che, riflessi dalla superficie, riscaldando il pianeta. Senza l’effetto serra la temperatura al suolo sarebbe di -18 gradi. I gas serra quindi vengono prodotti in natura, ma dall’inizio della rivoluzione industriale anche la società umana li immette nell’atmosfera. Questo avviene soprattutto con l’anidride carbonica, che viene liberata bruciando i combustibili fossili come carbone, petrolio e metano. In 150 anni, in particolare negli ultimi trenta, abbiamo bruciato gran parte di questi combustibili e rilasciato i loro gas nell’atmosfera in un brevissimo lasso di tempo, se paragonato alla vita del nostro pianeta. Ma dov’è il problema? Alzi la mano chi non ha sentito ripetere all’infinito a scuola la storia della fotosintesi clorofilliana: gli alberi assorbono l’anidride carbonica e immettono nell’atmosfera ossigeno. Un po’ meno risaputo è che il mare assorbe quantità industriali di questo gas.

La terra ha dei meccanismi efficienti per mantenere l’equilibrio dei gas nell’ atmosfera. Peccato che non bastino più. Complice la deforestazione, meno della metà dell’anidride carbonica attualmente prodotta viene riassorbita.

I rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) dicono che se la temperatura cresce più di due gradi rispetto ai livelli preindustriali il cambiamento climatico sarebbe pericolosissimo e irreversibile. Ci sarebbe uno scenario quasi apocalittico: ondate di caldo, ondate di freddo, siccità, tifoni, uragani, alluvioni e aumento delle malattie (soprattutto quelle trasmesse dagli insetti come la malaria). A causa dello scioglimento delle calotte polari il livello del mare si sta alzando velocemente. Se ci fosse il famoso aumento di due gradi la pianura padano-veneta verrebbe sommersa; questo poi non sarebbe niente a confronto con la nuova era glaciale, ipotizzata da alcuni scienziati, che, a causa dello scioglimento dei ghiacci della Groenlandia, renderebbe gelida la corrente del Golfo, tanto importante per il nostro ecosistema. Se non si prenderanno provvedimenti per ridurre le emissioni, nel prossimo futuro la temperatura, nel migliore dei casi, aumenterà ancora di 1,8 gradi e nel peggiore di 6,4 rispetto all’era preindustriale. Considerando che già è aumentata di 0,76 gradi queste stime non si possono ignorare. Che fare per restare entro la soglia dei due gradi?

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Anche se smettessimo subito di emettere anidride carbonica il pianeta ci metterebbe 200 anni a smaltirla.

La temperatura aumenterebbe lo stesso ancora per un bel po’. Dato che tornare indietro non si può, l’aumento attuale dobbiamo tenercelo. Però se vogliamo mantenere l’innalzamento della temperatura al di sotto della fatidica soglia dei due gradi si devono quantomeno stabilizzare le emissioni globali dei gas serra entro il 2020, per poi ridurle del 50% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050. Chi emette tutta questa anidride carbonica? Il primo premio va al settore energetico per la produzione di energia elettrica, a partire dalla combustione di riserve fossili (immette circa il 40% dei gas serra prodotti dall’uomo), ma anche le industrie manifatturiere, il traffico stradale e aereo, e il riscaldamento urbano fanno la loro parte.

Solo il 30% della popolazione terrestre, quella dei paesi industrializzati, consuma il 70% dell’energia richiesta. In queste condizioni come si fa a convincere i paesi in via di sviluppo che le emissioni dei gas serra vanno diminuite?

Le innovazioni tecnologiche costano e possono essere introdotte solo con politiche ambientali forti, coerenti e durature. Anche i paesi più avanzati fanno fatica ad adeguarsi, nonostante le spinte della società civile. La strada è però obbligatoria per tutti. Cosa possiamo fare noi per ridurre le emissioni dei gas serra? Cosa sta facendo l’Unione Europea?

(continua nel prossimo numero)

foto Benjamin Gettinger

Elena Sangalli

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Frammenti di anarchismo milanese Così preziosa come il vino così gratis come la tristezza con la tua nuvola di dubbi e di bellezza Fabrizio de André Milano. Una di quelle giornate piovose tipicamente lombarde: un dato climatico costante nella stesura di questo reportage sull’anarchismo milanese. Un universo frammentario di realtà difficili da categorizzare. Tante gocce che con diverse modalità perseguono “un ideale fondato sull’autonomia e la libertà individuale in un’ottica socialmente egualitaria.” Mondo eterogeneo dunque, che non segue una linea univoca. Uno scenario mobile su cui si muovono in un dialogo continuo generazioni differenti. Prima tappa della nostra esplorazione: la libreria Utopia. All’angolo di via della Moscova e Largo la Foppa, di fronte all’uscita della metropolitana, le sue vetrine affacciate sulla strada ci ricordano in un’iterazione continua che si tratta di Utopia. Grande sense of humor, per rammentarci la consapevole irrealizzabilità di certe scelte (almeno nella macrosocietà), e nonostante tutto la volontà di non rinunciarci. Fondata da Fausta Bizzozzero (oggi direttrice responsabile di A/rivista anarchica) nel 1977, la libreria nasce con una dichiarata impronta militante anarchica che la fa divenire da subito uno dei punti di riferimento libertari della città. Durante gli anni l’aspetto della distribuzione libraria ha prevalso sulla funzione aggregatrice, pur senza minarne l’orientamento originario, evidente nelle pubblicazioni esposte. Espositori più o meno agibili si trovano anche nella sede milanese della F.A.I, che propone, orgogliosamente stipate, numerose opere del pensiero anarchico. Seconda tappa dunque la Federazione Anarchica Italiana, situata presso l’Ateneo Libertario di Viale Monza, in un caseggiato disfatto al civico 255. Passerebbe inosservata

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foto Hamed Masoumi


allo sguardo del visitatore distratto se non fosse per le locandine esposte all’esterno per pubblicizzare la “festa di primavera per i novant’anni di Umanità Nova”. Occasione dell’appuntamento i festeggiamenti dello storico periodico anarchico a cui collaborò, tra gli altri, Errico Malatesta. Nella sala adibita all’evento ci sono poche persone irregolarmente sparse nello spazio. Sta terminando un incontro e parla un giovane operaio emiliano, che lamenta le difficoltà in cui si imbatte il movimento nell’affermarsi all’interno della fabbrica.

Parla di lotta, di padroni, di giornali borghesi, conflitti, complotti e attacchi. Attivismo politico esplicativo di quella varietà di forme e modalità che caratterizzano l’anarchismo, in persistente dialogo tra dinamismo e propaganda.

Qualche minuto e la parola passa ai membri della redazione “Bel Lavoro” e ad alcuni dei componenti del Collettivo redazionale nazionale di Umanità Nova. Nessuna presentazione: è tutto molto informale, quasi si conoscessero tutti tra loro. Tema dell’incontro: “Comunicazione e conflitto sociale”. Emerge fin da subito la diffidenza nell’utilizzo del Web per promuovere la rivista. Reticenza sostanzialmente rintracciabile in due aspetti imprescindibili: la capacità della carta di creare relazioni, attraverso il passaggio fisico dell’oggetto, e la necessità di nuovi abbonati (è bene ricordare che si tratta di periodici che si autofinanziano, quindi le quote associative sono essenziali). Sono tutti però consapevoli del ruolo fondamentale di internet nel permettere al movimento di uscire dalla nicchia “rivoluzionaria” nella quale si trova. Improvvisamente la conversazione vira verso questioni più pratiche, quasi condominiali, e diventa difficile seguire. Dall’uggia milanese a quella bergamasca, dove abbiamo appuntamento con il professor Persio Tincani. Docente di filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Bergamo, “di idee radicali nel senso anglosassone del termine, considera qualsiasi potere politico un ingiusto arbitrio. Intende, laddove dovesse avere discendenza maschile, di chiamare il di lui figlio Gaetano Bresci Tincani” (per usare parole rubate alla sua biografia). Se gli chiediamo: “Quale è oggi il ruolo degli Anarchici?” Risponde: “Nessuno.” Nessun incanto, molta praticità e un po’ di provocazione. Viene a galla un multiforme panorama periodico, da Umanità Nova (già citata) settimanale, movimentista e attenta all’attività locale, passando per A/rivista Anarchica, mensile che vanta tra i suoi collaboratori importanti nomi del panorama intellettuale internazionale (Carlo Oliva ha una rubrica fissa), letta e sostenuta da Fabrizio De André, fino a Libertaria, trimestrale, nata nel 1999 dall’esperienza della rivista Volontà, più scientifica e specifica. Tanti consigli di lettura e divagazioni dopo, veniamo traghettati verso il Centro Studi Pinelli di via Rovetta 27. Nuovamente a Milano, nuovamente pioggia. Al Centro Studi la presenza di Rossella è rassicurante. Parla del ruolo che svolge il Centro e la casa editrice, Eleuthéra, che ha sede nello stesso ambiente. “Propagandare l’azione libertaria e la cultura anarchica, dando un contesto significativo e di riflessione, alle esperienze, non finalizzata a un’univoca interpretazione, questo è l’obiettivo che ci proponiamo”, spiega. Diversità come valore, perché ci sono verità altre, in tutti i saperi, disgiunte dall’informazio ne ufficiale. Occhio critico e indagatore dunque, che non si accontenta di osservare la superficie, ma Estate 2010 — Vulcano 54

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ne va al di là. Cultura e conoscenza, le due parole chiave. L’ultima tappa è il Circolo dei Malfattori di via Torricelli. Oggi minacciato di sfratto dal Comune, il locale fu occupato nel 1976. Nasce come centro sociale anarchico e aggrega intorno a se un crogiolo di persone di età differenti e non necessariamente libertarie. Alla base dell’esperienza la condivisione di uno spazio comune, attraverso l’organizzazione di eventi, incontri e serate. Approccio concreto, volto a mostrare come quella anarchica sia una realtà di fatto e non solo intellettuale. Gaia, prezioso cicerone, racconta il lavoro svolto e il funzionamento del circolo, in continua evoluzione, grazie a proposte nuove ed interessanti. Basta ricordare le giornate dedicate alla riflessione teorica che coinvolgono gruppi e individui eterogenei. Pochi frammenti di un universo variegato. Sovversione quotidiana, che ha per protagonista l’individuo nel suo vivere sociale, attraverso la ricerca di spazi di anarchismo nella società così com’è. “La rivoluzione - ci ricorda Rossella - è nel cambiamento radicale a livello individuale.”

Michela Giupponi e Tommaso de Brabant

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Il gioco della guerra e l’educazione al pensiero libero Intervista al partigiano Luigi Pestalozza, di Laura Carli e Giuditta Grechi

Luigi Pestalozza ha partecipato giovanissimo alla Resistenza, militando a 16 anni nelle Brigate Giustizia e Libertà. Ha aderito al PCI nel 1956, dopo la destalinizzazione, per poi lavorare presso la Sezione culturale della Direzione del Partito. Esperto di Costituzione e appassionato di musica, ha insegnato Storia della musica presso l’Accademia di Belle Arti di Brera ed è stato critico musicale per il settimanale Rinascita. All’attività di storico della musica, alterna quella di giornalista e pubblicista. Come inviato di Rinascita e dell’Unità ha viaggiato lungo l’Africa, seguendo da vicino la Rivoluzione somala. Tra i suoi libri pubblicati: Il processo Muti, Il cittadino, Lezioni di educazione civica, Somalia, cronaca di una rivoluzione. È attualmente Vicepresidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (A.N.P.I) Nella lunga chiacchierata che ci ha concesso, spazia dall’analisi economica e politica dell’Italia attuale a citazioni legate alla sua vastissima cultura musicale. Ma i racconti che lo vedono più coinvolto sono i ricordi della sua esperienza di partigiano.

foto Anthony Hevron

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Ricorda con nostalgia la Compagna Bianchina, “ragazza coraggiosissima”, che trasportava le armi sulla sua bicicletta e della quale, dopo il suo arresto, non si è saputo più niente. E ricorda con simpatia la maitresse del casino, che nascondeva le armi per i partigiani, che per recuperarle dovevano fingersi clienti. Partiamo dalla tua esperienza di partigiano. Cosa ti ha spinto a entrare nella Resistenza a 16 anni? Su questo ho scritto addirittura un libro, si chiama Il gioco della guerra. Mi ha spinto la mia vita in famiglia. Appartenevo a una famiglia miliardaria ma di un antifascismo assoluto. Nel ’38 mio padre è stato processato, condannato e siamo stati anche ridotti in povertà. E così all’8 settembre mi sono subito dato da fare per entrare nella Resistenza. Sono entrato esattamente il 20 febbraio 1944, qui a Milano, nel giorno in cui compivo 16 anni. Non vi colpisca la cosa perché eravamo tantissimi così giovani. Occorre pensare che chi aveva 16 anni nel ‘44 aveva dietro di sé quattro anni di guerra, di case bombardate -compresa la nostra-, di morti -il fidanzato di mia sorella maggiore era morto in Albania. Avendo 16 anni non mi hanno mandato in montagna, ma mi hanno tenuto a Milano.

La cosa più straordinaria in proposito è che a Milano eravamo 720 partigiani a fronte di 11000 tra tedeschi e fascisti. Però chi dominava la città eravamo noi,

foto Biplab Narendra

e loro non riuscivano mai a sapere dove noi facessimo un disarmo, o un comizio davanti a una fabbrica all’ora del pasto.

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Sperimentavamo la solidarietà del popolo milanese, culminata a marzo, con lo sciopero generale di tre giorni. Scioperavano anche i mezzi di trasporto e noi pattugliavamo la città. Per quanto riguarda la mia brigata, Giustizia e Libertà, ci era stata affidata la vigilanza di corso XXII Marzo. Alla mattina i tram non andavano, e tenete conto che scioperare per i tramvieri non era poco perché dovevano starsene a casa, quindi ciascuno si fidava, sapeva che anche il compagno sarebbe stato a casa. Però verso le undici della mattina i tram cominciavano ad andare guidati dai fascisti, e noi gioivamo perché non saliva nessuno. Gridavano: “Salite, salite, tutto funziona!” e la gente continuava a camminare tranquilla, ignorandoli. Come vicepresidente dell’A.N.P.I, cosa pensi si debba fare per evitare che l’antifascismo sia percepito unicamente in un’ accezione commemorativa? È una delle cose che io cerco di fare inutilmente. Qui devo fare una critica in generale all’A.N.P.I, e non sono il solo. Ci battiamo perché l’A.N.P.I diventi trainante nel porre la questione dell’applicazione della Costituzione repubblicana ma nell’associazione prevale un’impostazione celebrativa. All’ultimo congresso abbiamo modificato lo statuto aprendo i ruoli dirigenti anche agli iscritti più giovani senza bisogno che per accedervi si abbia partecipato alla Resistenza. Ma non c’è niente da fare, l’A.N.P.I rimane l’organizzazione della memoria, e non del progetto. Ora vorremmo sfruttare anche la tua esperienza di musicologo... La mia esperienza di musicologo parte dal fatto che io non sia un musicologo, ma uno storico della musica. Il termine musicologo si porta dentro il positivismo ottocentesco, e cioè una concezione puramente oggettuale della musica, e non della musica come parte della storia. Musicologo è un termine selettivo, inserito in una concezione specialistica dei rapporti, per cui io so tutto della musica ma mi occupo solo della musica. Questa visione culmina nell’attenzione privilegiata alla cosiddetta “Grande Musica” e nella proposizione della categoria odiosa e che io ripudio del Genio, che è sempre di copertura al potere. Alla base di queste concezioni c’è sempre l’idea come di un’infusione divina che scinde l’unità tra ciò che si è e ciò che si fa e si dice. Musica quindi come parte irrinunciabile della cultura e della storia, ma ti chiediamo allora, che fine ha fatto il dibattito intellettuale-culturale? Negli anni ’60-’70 era molto fervido, dal Formalismo russo al Gruppo 63, alle infinite avanguardie critico-artistiche. Da un po’ di tempo invece sembra spento. È davvero così? O il dibattito esiste ma è sommerso o elitario? In realtà è scomparso perché dalla fine degli anni ’70, non soltanto in Italia, ma nel mondo, avviene l’affermazione del capitalismo finanziario su quello produttivo. Le contraddizioni mutano e in questo contesto irrompe un nuovo modello di cultura, che ha in Craxi il suo punto d’inizio nel nostro paese ed è oggi dominante. Io ho conosciuto Craxi anche personalmente e ho avuto a che fare con la politica culturale del PSI quando ero dirigente del settore musica del dipartimento cultura del PCI. Per esempio fui contattato da un dirigente craxiano che mi offrì qualsiasi cifra in cambio del mio impegno per garantire l’appoggio del nostro partito a un loro disegno di legge in materia musicale, per il quale eravamo e siamo rimasti contrari. In sostanza questo nuovo modo di concepire i rapporti in campo sociale, come in campo culturale, si caratterizza per la sua concezione di una funzionalità diretta all’interesse individuale o di un Estate 2010 — Vulcano 54

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gruppo privilegiato ricercata in modo spregiudicato, che finisce per vanificare la libertà del dibattito e negare la ricerca libera dagli interessi materiali dominanti. In questo clima avanza una cultura della neutralizzazione delle idee. Desidero citare un convegno della Confindustra del ’95 sul tema cultura e scuola il cui documento conclusivo sostiene che, nell’ottica dell’interconnessione tra sistema economico, cultura e formazione, il sistema scolastico debba essere interamente riconcepito e indirizzato alla formazione di “menti d’opera emancipate dal sapere critico”.

Questo è alla base di quanto sta avvenendo anche qui nell’università, dove sta prevalendo l’educazione al saper fare su quella al pensare.

Questo mi ricorda la politica scolastica del fascismo, che ho sperimentato direttamente, avendo frequentato le scuole del regime fino al ginnasio. Ricordo ancora le rabbiose reazioni repressive suscitate dai miei dubbi di bambino, come quando chiesi perché, con tutti i mari che esistono, i nostri temi vertevano solo sul Mare Nostrum (allora c’era la smania mussoliniana del Mediterraneo). L’insegnante chiamò addirittura i miei genitori a colloquio col direttore didattico per sapere chi mi avesse insegnato a dire certe cose… Effettivamente, appartenendo io a una famiglia di borghesia democratica, non liberale, ero abituato a pensare e comportarmi diversamente dai miei compagni. E io mi ricordo ancora il dito puntato verso di me della mia maestra che mi redarguiva davanti a tutti, dicendomi “tu sei qua per imparare non per pensare!” Mezzo secolo dopo abbiamo la Confindustria che dice esattamente la stessa cosa. In questo clima si è disfatto tutto il fermento culturale culminato negli anni ’60 e ’70. Nella tua biografia, anche politica, spicca molto la volontà di mantenere una forte indipendenza di idee. Qual è, secondo te, il ruolo della cultura nel mantenere un’autonomia di pensiero? Occorre a mio avviso riflettere a partire dall’autonomia della cultura, che significa anzitutto autonomia del sapere, venuta meno con il processo di privatizzazione iniziato all’epoca di Craxi e giunto oggi a maturazione. Perché si infierisce in maniera così diretta e implacabile sulla cultura, tagliando i fondi, riducendo l’intervento pubblico a intervento di supporto all’appropriazione privata delle attività culturali, nella totale assenza di un progetto? Perché la cultura, se autonoma, ti educa all’autonomia del pensare. Come ci ha insegnato Marx, ma prima di lui il vero Gesù Cristo, quello non falsato dal Concilio di Nicea, occorre mettere al centro l’Uomo, facendone il perno dell’azione e della trasformazione. È evidente come non si possa riuscire in questo in assenza di autonomia della cultura. Non a caso, le classi dominanti hanno sempre mirato a questo: negare autonomia alla cultura attraverso una politica dell’accesso al sapere come accesso alla formazione tecnica, non umanistica e quindi non in grado di cogliere e analizzare le contraddizioni che dividono gli uomini. Al termine dell’incontro Luigi Pestalozza, riflettendo sulla fortuna-sfortuna generazionale e paragonando la ricchezza di stimoli e di idee della sua adolescenza al panorama sociale attuale, ci lascia con un’affermazione comprensiva e solidale:

“Io ho avuto una vita difficile ma bellissima. Immagino che vita difficile dovete avere voi, circondata dal vuoto”.

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foto Elena Torre

A furia di sparar cazzate… Intervista a Dario Vergassola

“A furia di sparare cazzate tutte le sere al bar mi sono detto: perché non faccio cabaret?”

Dario Vergassola dice di avere cominciato così, quando ancora faceva il manovale marinaio all’Arsenale della Spezia. Quando inizia ad esibirsi a Zelig, il suo talento viene subito riconosciuto—ha trentacinque anni: è un esordiente anziano. Nel 1992 vince il Festival di San Scemo, e dal 1997 inizia a lavorare per il Costanzo Show. Saltimbanco dello spettacolo, Vergassola inizia facendo teatro—dove conosce David Riondino—e cabaret per Mediaset e Rai. Pubblica un secondo album, Lunga vita ai pelandroni, poi conduce Bulldozer mentre recita in Carabinieri. Dal 2006 conduce Parla con me, con Serena Dandini. Pur essendosi dimostrato capace in ruoli così diversi, Dario Vergassola non è l’artista carismatico seguito dalle folle. Probabilmente sarebbe più a suo agio se ci si riferisse a lui come a un artigiano—e la sua modestia si è resa particolarmente evidente quando ci ha allargato due enormi occhi tondi, mentre gli chiedevamo una breve intervista al termine della sua conferenza per la terza edizione di Lezioni d’artista. Cito una sua battuta, dice di sé “Verga sola, un cognome e un destino”... Bravi, bravi, uno pensa che chi va a scuola studi Nietzsche e invece si imparano le cazzate che dico io! Che diavolo di rapporto ha con le donne? Buono. Un po’ tormentato. C’è da dire che nel mondo dello spettacolo sono un’anomalia essendo sposato da ventisei anni con la stessa donna, non mi drogo, non bevo. Sto al bar, gioco a boccette. Spesso e volentieri nei tuoi monologhi ricorre il riferimento al bar. Ora non sono più frequentati come prima. Cosa rischiano di perdersi le nuove generazioni? Si perde, nella disgrazia o meno, l’apporto di un gruppo definito. È importante avere delle persone che ti prendono per il culo perché ti fai le spalle grosse, impari a stare in mezzo alla gente. Estate 2010 — Vulcano 54

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Gente che poi, quando devi far fronte a grandi lutti, ti aiuta e si mostra leale e solidale con te sinceramente. Il bar è un po’ una terapia di gruppo. Analisi vera. Trovi simili tuoi, con i quali stai bene che ti accompagnano lungo la vita. Poi per me, sono meglio le boccette di un videogame che ti isola. Ha sempre funzionato la dimensione del bar. Il fatto che si stia perdendo è un peccato. Lei dichiara di essere ansioso, ipocondriaco... Non c’è niente di più precario del lavoro dell’artista... No, guarda, non c’è niente di più precario della gente che lavora veramente, che viene messa in cassa integrazione. Milioni di persone che se ne rimangono a casa. E lì non scherzi. Chi fa l’artista quando è ragazzino lo fa per il fuoco sacro della passione, poi se lo fai in televisione ormai hai le spalle coperte. Fai una vita normale. Se ti accontenti di mille euro al mese e sei in televisione, solo un coglione non riesce a campare. Però devi stare al baretto, torni dove eri prima e stai sereno. Sei la spalla della Dandini o la Dandini è la tua spalla? No, veramente la Dandini ha messo su qualche chiletto e ora è più la coscia. Scherzi a parte, sono molto contento di lavorare con lei. Fare tante puntate con una che ha lavorato davvero con tutti, compreso quel genio assoluto che è Corrado Guzzanti, fa sempre un certo effetto. Il fatto che mi sopporti per me è già un bel traguardo. In una puntata di ‘Parla con Me’ ha letto un pezzo di Ennio Flaiano, secondo il quale gli italiani sarebbero specializzati nel complicarsi la vita. Quanto è difficile fare una cosa nel nostro paese... Quanto lo era prima? E quanto lo è adesso? È sempre stato difficile, soprattutto se i tuoi puliscono le scale. Sono contento tu mi abbia chiesto questa cose di Flaiano perché se andate su Youtube e cercate ‘Voci nel deserto’ c’è un ragazzo che si chiama Marco Melloni, un mio autore, che si è messo con altri quaranta scrittori a ripescare cose scritte da autori del passato, da Flaiano a Cicerone, che sono straordinariamente attuali. Andate a vederlo, è davvero una bella cosa! Ogni venerdì, si incontrano in un teatro dove danno vita ad una specie di reading musicale, un laboratorio per la memoria in cui i frammenti di storia vengono messi nel loro giusto contenitore. È un’operazione importante perché il senso della storia di questi tempi scarseggia. È significativo quello che prima ci ha detto nel suo intervento. Prima farle le cose. Poi pensare a come presentarle. Quello che ci sta dicendo è che se uno ci crede le strade le trova. Ora come ora devi sempre rompere i coglioni, se c’è uno che pensi ti possa dar una mano, lo devi sfinire, mandargli la roba, finché questo non ti dice mi hai rotto adesso basta... Perché poi alla fine basta che ti fai spazio e trovi i contatti per realizzare i tuoi progetti. È l’unico modo. Poi il così detto fattore C è decisivo. C’è anche da dire che ora ci sono i mezzi per realizzare progetti che poi puoi presentare più facilmente che in passato, a prezzi anche più contenuti. Secondo me dovete sfruttare queste potenzialità. Prima ci diceva che le battute sono intorno a noi, ci circondano. È come se ormai le battute le scappassero e non le riuscisse più a trattenere. Si, è vero. Però alla fine è un lavoro, con tutto il rispetto parlando per quelli che lavorano davvero. Solo grazie ad un team di autori capaci riesci a ottimizzare quello che dici. Un conto è stare al bar a sparar cazzate, un’altra cosa invece è fare il comico seriamente.

Angelo Avelli e Alessandro Massone

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CULTURA

Due libri in un sorso

Novità dal mondo editoriale

Curzio Maltese, La bolla Feltrinelli

Irresponsabilità e semplificazione. Una vicenda politica, quella berlusconiana, ai limiti della realtà ma basata, in fondo, sul trucco più vecchio del mondo: la promessa di ricchezza facile. Bernie Madoff, il noto speculatore che ha ridotto sul lastrico centinaia di persone, imbastisce, seguendo questo elementare ma efficacissimo gioco, una truffa colossale da centinaia di milioni di euro. Troppo facile da prevedere, troppo semplice l’inganno. Funziona a meraviglia: una bolla speculativa devastante mette in crisi intere economie nazionali. Un po’ come l’effetto di una bolla di sapone sui bambini – incantevole meraviglia – così l’Italia, da già quasi vent’anni, vive avvolta in una coloratissima ed eccitante membrana mediatica. Curzio Maltese – nel suo La bolla. La pericolosa fine del sogno berlusconiano – utilizza questa giocosa metafora per descrivere

una nazione incantata, sognante, che presto, però, allo scoppiare della iridescente vescicola, si dovrà svegliare per ritrovarsi nel vuoto istituzionale, culturale e morale.

È impietoso il giornalista di Repubblica. Inesorabile e pessimista, rancoroso quasi: la sua categoria è stata, e continua ad essere, complice di una situazione, non soltanto politica, da romanzo di fantascienza. Un incantesimo tutto televisivo e giornalistico che tiene imballato un Paese nella creduloneria. “Falla facile, cretino”: il motto di Medoff, uno slogan pubblicitario, la matrice del pensiero dominante politico e culturale che - attraverso Berlusconi, La Lega, Di Pietro, Beppe Grillo – costituisce la cifra stilistica predominante dell’immaginario italiano odierno. La chiave del successo popolare risiede nella semplificatoria banalità. Intanto: il tasso di disoccupazione cresce, i pochi punti di eccellenza si avviano verso il declino, il sistema formativo - universitario degrada costantemente. Vari punti di un quadro attraverso il quale Maltese cerca di tracciare l’immagine di una nazione ormai in visibile (ma non visto) decadimento. Ma, ed è quanto di più sconfortante emerge dal libro, nel toccare il suolo ed esplodere, la bolla ci lascerà “senza illusioni in un vuoto di civiltà e democrazia”. Con la fine di Berlusconi non si risolverà tutto. “Siamo ridotti come il paese di Macondo, che dovrà un giorno rinominare gli oggetti. Non è stato facile arrivare a tanto e non sarà semplice uscirne”.

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Giulio Ferroni, Dopo la fine. Una letteratura possibile Donzelli

La sensazione, l’ossessione quasi, della fine rappresenta, forse, la più contorta filigrana culturale dell’ultimo decennio. L’avviarsi alla morte della democrazia, del nostro pianeta per i disastri ambientali, il terrorismo… Insomma, è come se si avvertisse in maniera più forte e tragica la finitudine e la precarietà delle cose, la minaccia della conclusione di un ciclo: un nuovo scossone lo ha dato la recente crisi economica e finanziaria minando la sicurezza di un mercato e di una economia scatenati sotto il segno di continui e sregolati espansione e consumismo. Attraverso uno sguardo lucido e consapevole, Giulio Ferroni, nella riedizione ampliata e aggiornata del suo fortunato Dopo la fine. Una letteratura possibile, analizza la possibilità di una letteratura allo stato attuale.

Se anche il post-moderno sembra ormai volgere alla fine, col riacuirsi dei fondamentalismi religiosi, il riappropriarsi dei valori assoluti di stampo teologico e l’inversione di tendenza nella progressione verso la nietscheana morte di Dio, potrebbe e dovrebbe svilupparsi una nuova letteratura che rifletta sull’attuale stato di esistenza, che prenda coscienza del suo essere dopo e che i vecchi modelli ideologici o culturali non sono più validi, che si interroghi sui limiti e sullo spazio della vita presente, consapevole e demiurgo di un linguaggio che sfugga alla velocità vuota del comunicare odierno, all’indifferenza, all’indiscrezione, alla permutabilità dei linguaggi mediatici dominanti. Se postumo, per gli antichi romani, era il figlio nato dopo la morte del padre, la letteratura sembra fiorire in una situazione simile: nasce è si sviluppa dopo la morte di ciò che la ha prodotta. Tutte le epoche, tutte le condizioni, tutti i sistemi culturali hanno una fine. Terminano per lasciare spazio ai nuovi: postumi proprio perché nascono dopo il crollo dell’insieme che li ha creati. La letteratura, come in altre epoche, prende coscienza della fine e fa di questa condizione la sua stessa ragione vitale. E anche oggi, proprio perché sembra superata da altre forme di espressione, lo stato di postumo è ancora più radicale. A nulla servono, se non a declamarne più fortemente la fine, le illusioni di chi vuole rivendicare la vitalità e l’attualità della letteratura. Unica via d’uscita praticare una “ecologia culturale” che svincoli dal sentore agonizzante del troppo, della sovrabbondanza di libri e di parole: espressione soltanto di una inconsapevole vuotezza. Eliminare la chiacchiera intellettuale, gli esercizi di erudizione e le follie interpretative per ristabilire un rapporto diretto con i classici e riconoscere le sole parole che contano.

Danilo Aprigliano

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foto Dan Brady

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Valentina

I vestiti nuovi dell’Imperatrice Sono uscite da poco, per i tipi di Magazzini Salani, due edizioni critiche di Valentina: Biografia di un personaggio e Trilogia di Baba Yaga. Curate dalla famiglia con la “benedizione” di Giampiero Mughini, ripropongono il fumetto di maggior successo di Guido Crepax. Valentina era stata da poco protagonista di uno sgangherato volume uscito in allegato ai quotidiani RCS (“Eroine Sexy”, antologia raffazzonata e inconsistente, con accostamenti improbabili - Gea di Luca Enoch e Piera degli spiriti di Mattioli e Toffolo) e, nell’inverno 2008/09, di una impressionante mostra alla Triennale Bovisa. La famiglia ha inoltre approvato una linea d’arredamento ispirata ai disegni dei fumetti in questione. Valentina Rosselli insomma sta trovando, nei primi anni Duemila, un successo quasi pari a quello della sua comparsa, negli anni ‘70. Ovviamente senza destare le stesse polemiche di un tempo, nonostante stoni più con l’attuale epoca che con quella di allora. Valentina Rosselli è una fotografa di moda; le sue avventure iniziano nel 1965, al fianco del fidanzato Philip Rembrandt alias Neutron, supereroe proveniente dalle viscere della terra, dallo sguardo paralizzante. Dovrebbe fargli da spalla, ma ne fagocita il personaggio. Diventa così protagonista delle strisce di Neutron, fino ad avere delle serie proprie. Inizia un fenomeno: poco prima del ‘68, Crepax coglie le avvisaglie della rivoluzione sessuale e le scatena nel proprio fumetto. Non è però mera propaganda: le dichiarazioni aperte dall’ideologia crepaxiana (le riviste comuniste, i presagi di un nazismo sempre incombente) sono affiancate da un apparato culturale imponente (il Medioevo, la fiducia nella psicanalisi, la passione per il jazz, Samuel Beckett quale punto di riferimento – e guest star sotto mentite spoglie-, le citazioni letterarie – Dracula di Stoker, Il Maestro e Margherita di Bulgakov, le fiabe di Andersen e Grimm), che fa di Valentina non il fumetto pruriginoso che il pubblico mainstream ha sempre creduto ma un progetto culturale complesso e d’immensa portata. Il mondo di Crepax è tutto l’universo, Valentina solca gli oceani, vola in cielo in groppa all’ippogrifo, finisce nel mondo “inferiore”; ma il mondo di Crepax è anche – solo Milano. Su Milano Valentina vola su di una scopa per andare ad un sabba e sono i luoghi di Milano, con i nomi a volte storpiati, i punti di riferimento di alcune sue avventure. Valentina è provocante ma non volgare, spesso protagonista di vicende scabrosissime ma (crudelmente) raffinate, tra feticismi letterari e torture. Vicende erotiche a volte violente, come lo stupro scampato nel ciclo di Baba Yaga. Valentina non è però un fumetto di fatti: è il fumet to di un personaggio. A vol te non succede nulla, al cune tavole sono dei di vertissement (Valenti na che vaga tra la cancel leria di Crepax; il gioco dell’oca di Valentina e Fi lippo). Di lei il lettore può sa pere tutto, Crepax ne mostra per-

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sino la carta d’identità; e non parlo solo della sua esteriorità, essendo l’indagine psicologica finissima, addirittura indiscreta. Eppure Valentina è un mistero: sempre imprevedibile, inafferrabile, spesso malinconica, non si è mai certi di cosa pensi, cosa voglia - ed in effetti a volte non è lei a cercare le avventure, ma ne è trascinata (certo non si tira mai indietro).

Il mistero sta anche nella sua ambivalenza, il suo essere umana/divina: carnalissima, svagata, pigra, primitiva ma anche eterea, sofisticata, avventurosa, complessa.

Il ciclo di Baba Yaga (da cui Corrado Farina trasse un film) è un inferno di citazioni letterarie, reminiscenze cinematografiche (la vampirizzazione onirica da Persona di Bergman) e indagini psicologiche fondate su una profonda conoscenza della psicoanalisi. La Biografia di Valentina invece ne affronta le problematiche adolescenziali (soprattutto l’anoressia) e la trasformazione del personaggio partendo da un mero dettaglio estetico: la frangetta, adottata dopo aver visto Louise Brooks ne… Il vaso di Pandora! Un particolare, la frangia mora, che pur avendo accomunato alcune dive (la Brooks, Audrey Hepburn in Sabrina, Chrissie Hynde leader dei Pretenders) è stata per ognuna di esse tratto distintivo. L’iniziativa della Salani è indubbiamente ridotta, considerata la vastità del materiale da cui è tratta, ma può essere un inizio di recupero di quello straordinario tesoro costituito dalle strisce di Valentina e dal patrimonio crepaxiano in genere.

Tommaso de Brabant


TOP TEN

delle teorie cospirative più assurde parte prima 10. IL POLLO FRITTO PROVOCA STERILITÀ Ma solo in individui di sesso maschile e dalla pelle nera. Questa vecchia leggenda metropolitana sarebbe legata agli studi sulla sifilide portati avanti sulla popolazione afroamericana di Tuskegee, in Alabama. Secondo un’altra versione, il responsabile della sterilità sarebbe il pollo fritto della Kentucky Fried Chicken, che in realtà è guidato dal Ku-Klux-Klan. Dettaglio che non contribuisce a eliminare da questa teoria una leggera sfumatura di razzismo. Credibilità: Inesistente 9. SHAKESPEARE ERA UNA DONNA Non avete mai sospettato un raffinato tocco femminile dietro i doppi sensi in “Sogno di una notte di mezza estate”? O il desiderio di riscatto del sesso debole come motore della perfidia di Lady Machbeth? Lo scienziato John Hudson, che ci ha pensato prima di voi, ritiene che ciò avvenga perché il poeta cinquecentesco era in realtà una donna ebrea di origine italiana, Amelia Bassano Lanier, autrice realmente esistita e sospettata di usare lo pseudonimo di William Shakespeare per pubblicare i suoi lavori migliori, possibilità negata alle donne nella Londra elisabettiana. A sostegno di questa teoria, alcune analogie tecniche nel linguaggio dei due artisti e la presenza dei tre nomi della Lanier in altrettante opere del bardo immortale. Ma non è la prima volta che qualcuno cerca di dare un’identità femminile a Shakespeare, che nel corso degli anni è stato considerato l’alter ego della contessa Mary Sidney o della Regina Elisabetta. Se non siete convinti, nulla vieta di contestare Hudson, magari citando le parole di Amleto a Ofelia: “Ma vatti a chiuderti in convento!”. Credibilità: Rasoterra

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8. LASCIATE RIPOSARE COBAIN IN PACE (ALLE SEICHELLES!) 8 Aprile 1994: Kurt Cobain è stato ritrovato morto nella sua casa sul lago Washington. Il rapporto del medico legale dichiara il suicidio, ma i fan non sono convinti. Prima di morire per una pallottola in testa, Kurt si era iniettato eroina pari a tre volte la dose normalmente letale per una persona. Perché, se si voleva sparare? E come ha fatto dopo una dose cosi massiccia di droga? Inoltre una delle carte di credito di Kurt mancava quando fu ritrovato il suo corpo e qualcuno cercò di usarla ripetutamente dopo la sua morte per prelevare somme molto alte. I tentativi cessarono quando il suo corpo fu ritrovato. Inoltre la scena che si ritrovò davanti la polizia non indicava affatto un suicidio: fu la moglie Courtney Love a suggerire così alla polizia. La teoria più dilagante tra gli inconsolabili fan del grunge vuole questa morte un omicidio architettato dalla vedova, malamente travestito da suicidio e fortuitamente impunito. Anche se ogni tanto qualcuno giura di averlo avvistato, vivo e vegeto. Magari a braccetto con Jim Morrison e John Lennon. Manca Elvis, ma è assente giustificato: partecipa ogni anno a un concorso di sosia del re del rock’n’roll. Ma perde sempre… Credibilità: Bassina 7. L’ALLUNAGGIO È STATO UNA BUFALA 20 luglio 1969. Il mondo intero ha lo sguardo incollato al televisore per assistere alla diretta del primo uomo sulla luna. Siamo in piena guerra fredda e subito si diffonde l’idea che l’atterraggio sia un falso girato in studio addirittura dal regista Kubrick. Il tutto in un estremo tentativo della NASA di battere sul tempo i rivali sovietici. Per ammissione dello stesso Neil Armstrong alcune di quelle immagini sono fotomontaggi realizzati perché lui e soci si erano dimenticati, ad esempio, di posare accanto alla bandiera americana. Come se sulla Luna ci fossero molte altre cose da vedere che non prevedano crateri e polverone. Questa teoria è in calo di credibilità: se nel 1970 ci credeva un terzo degli intervistati, oggi è solo il 6%. Credibilità: medio/bassa – perché scervellarti quando puoi divertirti allo stesso modo al cinema? 6. IL GOVERNO USA È IL MANDANTE DELL’11/9 Secondo questa tesi Al Qaeda è assolutamente estranea agli attentati del 2001, che sarebbero stati invece organizzati dalla Casa Bianca per giustificare la guerra in Iraq, conflitto che avrebbe portato quattrini agli amici della famiglia Bush, ma che George W. aveva qualche problemino a giustificare al corpo elettorale. Sostiene questa idea il documentario “Loose Change” secondo il quale nessun aereo si è schiantato contro il Pentagono. Le immagini mostrate al rallentatore evidenziano che nessuna figura si è abbattuta sul ministero della difesa, si vede solo una grande esplosione. La carcassa non è mai stata ritrovata e il carburatore non può polverizzare un Boeing 757, cos’è successo dunque? Niente aereo = niente terroristi = azione dall’interno. A questo punto mettete su la colonna sonora di Psycho perché è il momento di farsi delle domande: che cosa è successo davvero l’11 settembre 2001? Se non c’è stato nessun aereo, perché il governo americano dovrebbe mentire in maniera tanto spudorata? Quali altri segreti ci sta nascondendo? Credibilità: media.

Elisa Costa

28 Estate 2010 — Vulcano 54


Non sono una signora, 5

Art. 101, comma 1, Cost. La giustizia è amministrata in nome del popolo

“L’autorità non è fine a se stessa. Ha senso di esistere soltanto se viene intesa come servizio: il potere viene conferito e deve essere accettato in funzione delle prestazioni che la comunità richiede.” (A. Scopelliti) Viene oggi costantemente contestato il giudice che non accetta più di essere “registratore passivo” di scelte operate dal Parlamento o dal Governo, ma tende invece a diventare illuminato e sereno interprete della legge, secondo i valori normativi della Carta Costituzionale. Il giudice deve rimanere fedele ai suoi doveri di ufficio, anzitutto doveri di coscienza, né di destra né di sinistra. Il giudice deve essere custode della propria indipendenza, contro ogni tentazione ideologica e ogni sollecitazione di parte. Ma è davvero così libero, il giudice, nelle proprie scelte, da poter influire sulla vita politica del nostro paese? L’indipendenza del giudice nell’esercizio delle sue funzioni non significa arbitrio. In base all’art. 101, comma 2, della Costituzione

I giudici sono soggetti soltanto alla legge Tale norma costituzionale è da leggersi sotto due diversi profili, ponendo l’attenzione in un caso sull’avverbio soltanto e nell’altro sulla soggezione alla legge. Nell’esercizio delle proprie funzioni il magistrato non incontra nessun altro vincolo se non quello della legge. Ciò sottolinea la sua indipendenza sia da organi esterni alla magistratura, sia dagli altri stessi giudici. L’art. 101 della Costituzione rivela anche che l’indipendenza del giudice non equivale ad un libero arbitrio, ma ha senso solo nell’ambito di ciò che la legge prevede. Il giudice, nella sua libera interpretazione della norma astratta, deve comunque attenersi a quei dettami della legge formale che rispecchiano la volontà del legislatore. Le due letture si integrano a vicenda e sono entrambe indispensabili. La legge fornisce al giudice la norma da applicare al caso concreto e costituisce l’unico vincolo ammissibile alla funzione giudiziaria. Dietro alla norma il giudice ripara la propria indipendenza, e su di essa fonda la propria impermeabilità ad influenze esterne. È quindi la legge stessa la misura cui la libertà interpretativa del giudice - anche rispetto ai cosiddetti “casi politici”- può e deve adeguarsi. Quando il magistrato indaga, accusa, sentenzia, lo fa perseguendo un ideale politico, o perché costituzionalmente soggetto ai dettami della legge?

Massimo Brugnone

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Niccolò Ghedini

Si è spento nella sua residenza romana l’avvocato Niccolò Ghedini. Era celebrato perché poteva ottenere sempre e comunque l’assoluzione per il suo assistito, prescindendo da ogni aspetto collaterale, come per esempio la sua innocenza. L’avvocato era affetto da lungo tempo da una semplice polmonite, male non certo incurabile. Purtroppo però, invece di andare in ospedale, si era rivolto al tribunale di Roma chiedendo che il morbo venisse spostato d’ufficio ad un’altra persona. – I malati sono tutti uguali – aveva spiegato – ma alcuni sono più uguali di altri. Si era mostrato sereno fino all’ultimo di fronte ad amici e parenti – Tranquilli – aveva detto – dopo due anni, anche se non ci si cura, la malattia si prescrive da sola. In imbarazzo il sacerdote giunto per l’estrema unzione – Diceva che Silvio è amico intimo del mio principale e pretendeva di ricevere l’assoluzione senza nemmeno confessarsi. Quando gli ho chiesto di dirmi i suoi peccati, si è avvalso della Facoltà di non rispondere. La scomparsa di Ghedini ha ispirato il prossimo film Medusa: “Il settimo guardasigilli”. Nella pellicola l’avvocato, sfidato a scacchi dalla morte, vince la partita con un brillante decreto interpretativo: i pedoni del bianco possono trasformarsi in qualsiasi momento in regine, a patto che si trovassero sulla scacchiera ad inizio partita. Difficile alleviare il cordoglio dei parenti – Purtroppo la nostra vita non sarà più la stessa – dicono – ora che tutto il nostro affetto è rimasto senza utilizzatore finale. Lo ricorda con tenerezza la maestra di catechismo – Lo preoccupava soprattutto il fatto che Dio vedesse tutto in ogni momento – ricorda commossa – pensate che prima della Cresima chiese al vescovo che l’occhio divino venisse spento di fronte ad episodi “penalmente non rilevanti”. Nel cassetto del comodino dell’avvocato sono stati trovati degli appunti per la legge “che avrebbe sempre sognato fare”: si tratta del decreto salva-stempiatura, secondo il quale ogni capello caduto illegalmente viene fatto rientrare forzatamente sulla testa del presidente del consiglio e dei suoi amici più bisognosi (su tutti Galliani e Confalonieri). Discordi le voci del mondo politico: Silvio Berlusconi, preoccupatissimo, ha chiesto se fosse ancora vivo l’avvocato che fece assolvere O.J. Simpson. Per Bersani la scomparsa di Ghedini ricorda “il sonno del mugnaio dopo la macina”, con la consueta metafora bucolica un po’ oscura. Polemiche come al solito per l’editoriale di Feltri, che tuona – Di Pietro, lo hai ucciso tu, stronzo! – Ma il più affranto è senz’altro il ministro Alfano, – Domani ho il consiglio dei ministri – ha dichiarato – e non avevamo ancora finito il dettato! Addio Niccolò, purtroppo di fronte al fatale appuntamento non si può chiedere il legittimo impedimento.

Filippo Bernasconi

30 Estate 2010 — Vulcano 54


CRUCIVERBA 1

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Orizzontali: 1—Secondo il cardinale Bertone, è affine all’ omosessuale (quando si dice “da che pulpito…”). 8—La lascia il morente ai successori. 9—La moglie di Fo. 10—Lo è l’età di un inglese. 12—Nome dell’Andriç autore di “Un ponte sulla Drina”. 13—Il “tutto” greco. 14—Un tempo, gli uomini vi avevano le prime esperienze sessuali. 15—Celebre mantra mormorato dai buddisti. 16—Sta tra “to be” e “not to be” nell’Amleto. 17—Studiava le affinità tra fisiognomica e istinto criminale. 21—Durante e dopo la Messa, supervisiona i chirichetti. Verticali: 1—Vi si trova chi corre un rischio. 2—“Come …” è un film con Robert Redford. 3—Una lista di sinistra del nostro Ateneo. 4—Quella “on a Grecian urn” è una poesia di Keats. 5—Firenze. 6—Nome del gerarca Balbo. 7—Quello di Como è ricco di cadaveri. 11—Ne è ricco l’artista. 13—Secondo alcuni, ne ha molto chi ha molti nemici. 16—Venivano definiti così i film piccanti. 18—Iniziali del Pantani ciclista. 19—La più celebre sigla terrorista italiana. 20—Targa della nuova provincia di Olbia-Tempio.

Soluzioni del numero precedente

Orizzontali: 1—Paradiso. 9—Amicizia. 10—Rabat. 11—Ss. 12—Arare. 13 – Si. 14­—Bolo. 15—Mis. 16—Ma. 17—Lionello. 22—Er. 23—Prose Verticali: 1—Parabole. 2—Amaro. 3—Ribaldo. 4—Acaro. 5—Dite. 6—Iz. 7—Sissi. 8—Oasis. 15—Malo. 16—Mer. 18—Ir. 19—Ny. 20—Ls. 21—Oe Registrato al Tribunale di Milano, n. 317, 4 mggio 2004. Direttore responsabile: Laura Rio. Fondato da: Luca Gualtieri, Andrea Modigliani, Andrea Canevazzi. Stampato con il contributo dell’Università degli Studi di Milano, derivante dal fondo per le attività culturali e sociali, previsti per Legge del 3 agosto 1985, n. 429

Estate 2010 — Vulcano 54

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EDITORIALE Non bisogna mai stancarsi di ricordare come la legge bavaglio impedirà al pubblico di conoscere vicende rilevantissime per la vita pubblica, dal caso Scajola agli imprenditori che sghignazzano per il terremoto. Va riconosciuto però che si eviteranno anche degli abusi giornalistici: pensiamo alle pruriginose ma irrilevanti conversazioni di Vallettopoli, e forse (dipende dal testo definitivo che verrà approvata) si ostacolerà il lavoro del ras Vittorio Feltri, la cui cifra stilistica è ormai la pubblicazione di dossier riservati. A volte solo minacciata, vedi Fini, a volte messa in pratica, vedi Boffo o Di Pietro. Quando perfino una legge dalla quale tutti prendiamo la dovuta, e siderale, distanza, potrebbe avere dei riflessi positivi, è bene che il disordinato cosmo del giornalismo italiano si chieda se sta esercitando in maniera davvero irreprensibile il proprio dovere di cronaca. Nell’ambito di casi giudiziari particolarmente intricati, il compito dei media è quello di leggere gli eventi nella loro complessità, sintetizzando i dati, e astraendo il senso generale dei fatti. Oggi si preferisce una soluzione semplicistica e d’effetto: il trapiantato dei documenti dalle cancellerie al menabò, infischiandosene della comprensione dei cittadini. I veterani delle inchieste giornalistiche ricordano che il lavoro professionalmente più meritevole è quello che fa scattare l’interesse della magistratura, non viceversa. Oggi, tra cronisti fedeli al “retroscenismo”, esempi di questo tipo mancano. Auguriamoci, dunque, che la battaglia contro l’indecente legge bavaglio aiuti i giornalisti italiani a riflettere, oltre che sul sacrosanto diritto di cronaca, anche sul dovere di farla come si deve.

Gregorio Romeo

Direttore: Laura Carli Vicedirettore: Danilo Aprigliano Caporedattore: Filippo Bernasconi Impaginazione & Grafica: Alessandro Massone Fotografie Originali: Federica Storaci, Francesca Di Vaio, Irene Nava Vignette e fumetti: Andrea Mannino Redazione: Denis Trivellato, Giuditta Grechi, Luisa Morra, Alice Manti, Elisa Costa, Corrado Fumagalli, Michela Giupponi, Tommaso de Brabant, Luca Ricci, Irene Nava, Davide Contu, Massimo Brugnone, Enrico Guerini, Gemma Ghiglia, Elena Sangalli, Francesca Gabbiadini, Giuseppe Argentieri, Daniele Colombi, Alessandro Manca, Anna Perego, Francesca di Vaio, Andrea Fasani. Collaboratori: Beniamino Musto, Gregorio Romeo, Fabrizio Aurilia, Diana Garrisi, Davide Bonacina, Flavia Marisi, Davide Zucchi, Francesco Zurlo, Chiara Caprio, Marco Bettoni, Dario Augello, Virginia Fiume, Morgana Chittari, Valeria Pallotta, Samuele Lazzaro, Barbara Ferrarini, Daniele Grasso, Alessio Arena, Luca Ottolenghi. Responsabile BachecAlloggi: Giuditta Grechi—bachecalloggi@libero.it

La redazione di Vulcano si riunisce ogni giovedì alle ore 12,30 nell’auletta A di via Festa del Perdono 3

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