Speciale letterario

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Letter

le a i c spe

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Incontro con Gianni Milano

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Da rileggere: I Promessi Sposi

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di Alessandro Manca e Andrea Labate di Filippo Bernasconi

Intervista a Franco Loi di Elisa Costa

11 Odio i Promessi Sposi di Alessandro Massone

12 Città di Carta, Milano – Un amore di Irene Nava

14 Milano e Alda Merini

di Chiara Di Pisa, fotografie Paola G. Valisi

20 Io e David

di Mattia Salvia

22 L’uomo dei paperi: Don Rosa di Stefano Colombo

24 Non potete post modernizzare il postmoderno di Alessandro Massone

26 Intervista a Casiraghy

di Davide Contu e Alessandro Manca

29 Il processo di identità di Francesco Floris

31 Come ti salvavo il libraio di Filippo Bernasconi

33 Wu Ming

di Daniele Colombi

35 L’importante è saperli usare di Alessandro Massone

36 Ketai Novels

di Francesca Di Vaio

37 Poetica e individualità di Ludovica de Girolamo

39 Muore Federico Moccia, l’Italia in lutto di Sebastian Bendinelli

Cover: Maurice, jm3, Alessandro Massone


ratura Come si legge: I. Inserire testo dal punto h. II.

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ome tutte le migliori storie, anche quella di Vulcano si perde nel mito. La leggenda narra che in una notte buia e tempestosa di dieci anni fa tre giovani studenti della Statale— Luca Gualtieri, Andrea Modigliani e Andrea Canevazzi— ebbero la brillante idea di fondare un giornale. E così fecero, dando alla luce il primo numero in quella stessa fervida notte. Da allora Vulcano ha raggiunto i dieci anni di pubblicazione, diventando il giornale più longevo nella storia dell’Università degli Studi di Milano. Per celebrare il decennale (un bel traguardo davvero, se si pensa che ci sono serie televisive, testate e matrimoni che durano meno) abbiamo voluto dare vita a un numero speciale. E di cosa non abbiamo potuto trattare diffusamente quanto avremmo voluto in tutti questi anni? Se considerate che la maggior parte dei redattori è iscritta alla Facoltà di Lettere e Filosofia, non avrete diffcoltà a dedurre la risposta. Nelle prossime pagine troverete un’assaggio di punteggiatura, prosa e Promessi Sposi. Un omaggio a Milano nelle parole di Dino Buzzati e sui muri di Alda Merini. Un accenno all’Oriente nelle Keitai Novels e nella poetica cinese. La trasformazione dell’industria libaria e culturale, senza tralasciare nemmeno il fumetto! Potrete forse riconoscervi anche voi nelle opere di David Foster Wallace o riscoprire la poesia con Gianni Milano e Franco Loi. In ogni caso, vi aspetta un eruzione di letteratura. Gemma Ghiglia @g_ghiglia 3


di Alessandro Manca

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bbiamo incontrato uno dei papà della controcultura italiana. Gianni Milano è da più di trent’anni una singolare figura di vagabondo del Dharma: pacifista attivo, buddhista, poeta tribale e, soprattutto un tenero maestro elementare entrato in rotta di collisione con la mostruosa macchina burocratica scolastica dei primi anni ’60 — da “Il maestro e le margherite”, Millelire Stampa alternativa, 1994 Gianni Milano Dovreste smettere di leggere per un po’ perché poi inevitabilmente assorbite forme, stilemi e immagini che non sono vostre, come il bambino piccolo che vuole fare il grande e parla di gran scopate ma non sa neanche come è fatta la figa. E invece, secondo me, è più consona alla vostra realtà quell’immagine del vagone sul binario morto. È un’immagine forte, un pugno nel plesso solare. Se tu scrivi una poesia come Che cos’è la vita? Un treno su un binario morto, è una pittura cinese, di massima semplicità. È una pennellata. Io cercherei di domandarmi: posso farne a meno? Sì? Allora cancello. Scrivere poesia, non so chi l’ha detto, significa fare come diceva Michelangelo. Che cos’è la scultura? Togliere. Che cos’è la vita? Un treno su un binario morto; un binario color rosso-marrone, ricorda le foglie d’autunno, è un presentimento di morte, e contemporaneamente è molto eroica, e ci sono questi binari, fermi, duri, che indicano comunque un impegno etico. C’è anche l’ineluttabilità: potrebbe essere intitolata ‘Il destino’. Io farei la domanda e darei la risposta, come un haiku giapponese: Che cos’è la vita? Un treno Su un binario morto È l’esuberanza dei giovani quando scrivono, per cui puoi aggiungere sempre delle parole senza finire mai, ma se dietro 4


e Andrea Labate

non c’è un’età e la drammaticità di una certa esperienza, queste parole rischiano di essere come coriandoli, e le trovi per terra, sporcano il pavimento. Andrea Labate Sì, però mi sembra un po’ contraddittorio rispetto a quello che fai tu praticamente. Le tue poesie sono lunghe. GM Non sono lunghe come composizioni…poi erano lunghe in quegli anni. Quel tipo di scrittura toglieva terreno al modo di pensare consueto. Dicevo a Fernanda Pivano: “non direi mai un cavallo che nitrisce, perché nella parola cavallo è implicito il nitrire, allora scriverò un cavallo che fuma la pipa” che è la tecnica surreale, proprio per spiazzare i luoghi comuni e le risposte automatiche. Tu ti aspetti sempre una certa risposta, il tuo cervello, la tua anima è assopita, va avanti per abitudine, invece devi tenerla sempre sull’attenti. Uomo Nudo invece è un flusso, dietro c’è una grande disperazione: “tenetevi stretti ai crini dei cavalli, l’apocalisse è ubriaca”. Era un momento di totale sradicamento, non c’erano punti di riferimento. Tutto era finito, il Sol dell’Avvenire, la validità di una certa politica che non dava più risposte. Così nasce nel 1965 Uomo Nudo1. Era rivolta ai primi sperimentatori esistenziali, che non erano, come dire, dei baktinauti, non erano dei viaggiatori della compassione, erano dei poveri cristi emarginati. Il popolo dell’underground in Italia era composto in gran parte da sottoproletari, scappati da casa. Poi c’è gente che definirà le mie parole “avanguardia” mentre sono parole del selciato, son povere parole sofferenti che si offrono così, sperando di non essere ancora una volta calpestate. Invece quando io ho scritto “cazzo” sono finito in tribunale. C’erano delle parole che a priori venivano emarginate. Quando ho cominciato a leggere le prime poesie, all’aperto, e mi tiravano la roba addosso, ero disperato come pochi. Non avevo amori. Stavo in una soffitta. Il mondo intorno era di merda. Quei pochi ragazzi scappati di casa li trattavano come delle bestie. Non si mangiava. Ma poi…che cazzo, a mò di consolazione arriva l’Urlo di Ginsberg. 5


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La nostra era una realtà industriale. C’era solo Agnelli che comandava, la Fiat. Quando io mi sono laureato con la mia tesi, una tesi anarcobeat, il relatore mi chiese: ma lei non parla della classe operaia? Io ho raccontato di un amico batterista, si chiamava Ombra perché era magro, alto. Lui tornava a casa di notte, dopo le quattro, e abitava sul Lingotto, quando gli operai entravano in fabbrica, e siccome portava i capelli lunghi, gli operai gli ghignavano dietro dicendo “ah frocio…culattone…” e allora ho chiesto al professore: vuole che continui a parlare della classe operaia? Quell’esperienza chiedeva a noi stessi di essere. Non avere, ma essere, come diceva Fromm, uno psicanalista che andava di moda in quel periodo. Il ‘che cosa’ non dice niente, c’è già nell’essere. Se sei, sei qualcosa. Certi comportamenti erano legati ai tempi. Era il periodo del boom economico, che però non era per tutti, e predicare o praticare la povertà anche nella vita quotidiana era vista come una grande eresia. E gli eretici si bruciano. Negli anni ’80 riflettendo su quei tempi ho cominciato a vedere un’analogia tra le modalità del nostro underground e la predicazione che fece Fra Dolcino. Dal Trentino ha attraversato la valle, le montagne ed è andato poi a morire nel novarese, ed ha fatto una morte atrocissima. Hanno squartato sia lui che Margherita, la sua compagna, e poi le ceneri furono disperse perché non ci fosse uno spazio per i suoi fedeli. E lo stesso è capitato a molte di queste persone che batterono quella strada. L’underground ha una data, si dice, ma in realtà lo spirito ha continuato. Se voi siete qui vuol dire che c’è, ma pone dei quesiti diversi. Quello che mi turba è che le risposte siano identiche ad allora. Ricordatevi cosa disse Allen Ginsberg nel 1967: “Mi fate tanta tenerezza – disse Allen ai ragazzi di Milano – ma il beat è morto”. Se uno è un poeta, non lo è con gli aggettivi. Per cui io vi dico: fate la vostra ricerca, la vostra strada. Lo stesso Allen Ginsberg alla fine faceva i blues con Bob Dylan. E se leggete i testi dei blues sembrano filastrocche, canzoncine per bambini. Non sembrano dell’Allen che ha scritto i poemi chilometrici, sovraccarichi e pieni di cose, che da giovane ha scritto Urlo e poi Kaddish, l’Allen che si nutriva dei poeti metafisici inglesi, Blake, che torna dall’India dove aveva fatto un’esperienza con dei sadhu indiani. Ma era anche l’Allen che scrive per poterle cantare le sue poesie, quindi alcune erano molto semplici e ripetitive, e ti poteva rispondere: perché scrivi? Perché respiro. E allora non hai una fedeltà a uno stile. Alessandro Manca una fedeltà a te stesso? GM La fedeltà è una puttana. Fedele a che? A un modello? Che sei tu, e il tu di ieri diventa modello del tu di oggi? No. Allora c’è un problema: essere intelligenti. Respirare aria buona e non inquinata. Insomma scrivere poesie non è andare fuori porta la domenica. E i poeti oggi sono in una situazione molto più drammatica dei poeti dell’’800 o di una parte del ‘900. AL Perché non si legge più? GM No, perché alla poesia si richiedono cose che non si richiedevano prima. Una volta il poeta aveva uno statuto, vedi Pascoli, Carducci, D’Annunzio. Io devo dichiarare: sono un poeta–pedagogista, altrimenti la gente mi chiede: cosa vuol dire? La poesia non è solo registrazione. Tu insuffli con la poesia nella realtà che ti circonda, la trasformi. E poi soprattutto è una grande responsabilità. Come tutte le cose. Come far da mangiare. Se fai una cosa, falla bene, dicevano i monaci. E quando hai fatto una cosa e te la sei letta, devi essere contento di quello che hai fatto. Non devono dirtelo gli altri. Se non sei contento crac crac strappa e butta via.


Da rileggere per la prima volta i promessi sposi di Filippo Bernasconi

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oioso, noiosissimo”. Benchè generazioni di professori si siano prodigate per elogiare la sorprendente leggibilità del capolavoro manzoniano, soltanto l’oblio attenua il ricordo della noia patita sui banchi di scuola. Il giudizio tranchant mormorato a mezza bocca dallo studente di ginnasio spesso ci segue tutta la vita, lasciando il tomo a impolverare in libreria. Noi così moderni, abituati ai ritmi serrati dello schermo, ci spazientiamo di fronte agli interminabili excursus; noi, laici e razionalisti, ci indigniamo per l’ingenuo provvidenzialismo del Manzoni; noi, disincantati pessimisti, storciamo il naso di fronte a conversioni improvvise e improbabili. E anche chi, in preda a spinte mistiche, ama trastullarsi con il cosiddetto “recupero del sacro”, trova indigesto l’ottuso fanatismo di Lucia, la caramellosa bontà di Federigo Borromeo, il rigore teologico del Manzoni. Niente di più falso. Certo, non si può negare che in queste critiche vi sia del vero, ma troppo fa nella bocciatura senza appello la presenza ingombrante della scuola dell’obbligo. Ci perseguitano i terribili passi imparati a memoria (“Addio monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo, cime ineguali…”); le tracce di temi, piene di puntigliose analisi dei personaggi (“Analizza, nella notte degli imbrogli, il ruolo di Lucia e quello della madre Agnese etc. etc.”); l’estenuante confronto tra “Fermo e Lucia”, ventisettana e quarantana. Ma immaginate di studiare “Il nome della rosa” imparando a memoria il prologo, sfiancandovi in temi sulla figura di Guglielmo da Baskerville contrapposta a quella di Bernardo Gui, e facendo magari delle letture comparate con il “Pendolo di Foucault”. Un trattamento simile ucciderebbe qualsiasi libro. Proviamo invece ad estrarre l’autorevole mattone dalla libreria, spolveriamolo, e leggiamolo senza scadenze di tempo, come faremmo con qualsiasi altro libro. Subito la scrittura manzoniana, un tempo così lenta e farraginosa (per forza, il prof. si fermava ogni due righe), ci sorprenderà per la sua vivace espressività, semplice ma mai banale. Allo stesso modo, l’occhialuto intellettuale ottocentesco, impresso così nella nostra memoria, si trasformerà in un pungente castigatori di vizi, che senza far differenze tra i potenti e gli umili, ironizza a volte spietatamente sulle miserie umane. Se continua a farci sorridere l’ingenua fiducia nella Provvidenza, l’indignazione del Manzoni per le ingiustizie diventa la nostra indignazione, e il testo dell’oppressione scolastica diventa un testo di ribellione. Troppo facile è poi ritrovare nei signorotti di allora i miseri protagonisti della nostra politica, gli sbruffoni dei privè o i cortigiani del piccolo schermo. E poco importa se gli excursus ci annoiano ancora, detto inter nos, se anche li saltiamo non ci vede nessuno. 7


Una chiacchierata col poeta Intervista a Franco Loi di Elisa Costa


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rima degli appelli della Lega, prima dei corsi gratuiti organizzati dal comune, prima ancora che diventasse di moda la salvaguardia del patrimonio linguistico tradizionale, un’intera generazione di poeti ha composto canti, poesie e raccolte in dialetto milanese. Franco Loi viene considerato l’ultimo depositario di questa eredità, nome più recente in un lungo elenco che comprende, tra gli altri, Giuseppe Parini e Alessandro Manzoni. Nato a Genova nel 1930, a sette anni si trasferisce a Milano. Figlio di un ferroviere, dopo il diploma in ragioneria e qualche anno alla Bocconi entra nel mondo della cultura milanese con un impiego all’ufficio stampa della Mondadori. Qui incontra Vittorio Sereni, il primo a credere nel suo potenziale e spingere per la pubblicazione del suo primo volume di poesie, I cart. Sin da subito Loi scrive in dialetto: “All’inizio scrissi qualcosa in italiano, ma poi stracciai tutto. Quando usai per la prima volta il dialetto milanese, capii esattamente cosa significa fare poesia. O meglio: scoprendo una lingua, ho scoperto la Poesia”. Quello che usa non è il milanese tradizionale in senso stretto. È il linguaggio della gente, il parlato di chi, come lui, a Milano non ci è nato ma si è appropriato del dialetto locale imbastardendolo con parole inventate, regionalismi ed espressioni gergali. Ci accoglie nel suo appartamento milanese, una casa che potrebbe diventare la succursale della Sormani. Migliaia di libri sono ordinati sugli scaffali o impilati verticalmente sul pavimento. Nella chiacchierata che è seguita non ha smesso di parlarci dei suoi preferiti, prenderli dai vari mucchi per mostrarceli, di citare i suoi passaggi preferiti sottolineati con cura a penna. Franco Loi passa con disinvoltura da Dante a Leopardi, da Gurdjieff alla filosofia orientale, e nel mezzo ci parla di cultura e di storia, della Milano di oggi e di quella che non c’è più. Lei è considerato l’ultimo poeta vernacolare milanese vivente… (mi interrompe senza aspettare la fine della domanda) “Perché dice vernacolare? Il vernacolo è un modo sprezzante usato dalle scuole per dispregiare chi usa il dialetto. Viene dai tempi del fascismo, quando gli insegnanti toglievano dei voti se il bambino impiegava parole di origine popolare. Nello Zibaldone Leopardi dice che un poeta dovrebbe ascoltare il popolo quando parla, perché esso è vicino alla natura e privo di logica. Lui non era molto vicino al popolo, ma questo l’aveva capito. Se vogliamo scoprire come vivevano nelle epoche passate dobbiamo guardare quello che scrivevano i poeti dialettali. Leopardi era un grande lirico ma non sapeva niente della condizione della gente. Nessuno dei poeti cosiddetti “in italiano” ha mai parlato di loro. Non Montale, non Ungaretti… nessuno. Dante sì, infatti scriveva in dialetto. Le lingue parlate dalla gente sono il serbatoio di ricchezza della lingua nazionale, che senza più dialetti risulterebbe terribilmente decaduta, senza più forza. Pensi al francese. L’italiano era salvo, ma adesso che il dialetto non concorre più alla formazione della lingua, anch’esso sta sparendo. Pasolini, Fenoglio, Pavese… tutti i grandi narratori fino ai primi del Novecento hanno attinto a piene mani dal popolare. Bisogna continuare così, sennò la narrativa muore”. Oggi si sta cercando di recuperare il sostrato della lingua italiana tra le nuove generazioni. Il comune organizza dei corsi gratuiti, e si parla anche di lezioni a scuola con tanto di voto. Cosa ne pensa di queste iniziative? La lingua è un modo per socializzare. I meridionali nei primi anni ’50 venivano a Milano e cercavano di esprimersi come al Nord. Dai ricchi ai poveri, tutti parlavano o cercavano di parlare milanese. Anche se c’era una lingua ufficiale,

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la stragrande maggioranza degli italiani si esprimeva con parlato locale. La Lega sbaglia a cercare di imporre il dialetto con dei provvedimenti perché non è attraverso le leggi che si può cambiare il costume: semmai il contrario. In Irlanda c’è una legge del genere, insegnano l’irlandese persino in università: tutti lo sanno ma nessuno lo parla. È la vita sociale che determina la lingua e se lì tutti sono portati a parlare l’inglese, anche se c’è la legge l’irlandese è quasi sparito lo stesso. La prima volta che ci siamo incontrati aveva raccontato di portare sempre con sè un taccuino per annotare pensieri e voci che coglie nella strada. Come nasce da questo l’ispirazione per le sue poesie? Ispirazione? Dante non parla tanto di ispirazione. Dice I’ mi son un che, quando Amor mi spira, cioè “io sono uno che quando l’amor gli alita”. Non dice “m’ispira” ma “mi spira”. L’ispirazione è qualcosa di classico, di ottocentesco. Dante dice “mi alita”. È l’amore per le cose, per la vita. È Dio. Allora, quando amor mi spira, noto. Trascrivo e prendo nota. Tutto può indurti a scrivere, se sei in uno stato che muove l’amore. Qualunque esso sia: la natura, l’amore per una donna, l’amicizia, la morte… tutto può essere un movimento per indurti a scrivere”. Lei è stato a lungo militante nel PCI. Cosa ne è stato del suo interesse per la politica? I miei genitori erano di sinistra e io sono cresciuto in un ambiente antifascista e socialcomunista. Ho cominciato a interessarmi attivamente alla politica intorno agli 11/12 anni. Tra il ’54 e il ’68 ho partecipato al movimento studentesco, ma la situazione non era molto migliore rispetto a quando c’era la guerra. Anzi, succedeva di peggio perché ci conoscevamo tutti. Io ero presidente di un gruppo che avevo contribuito a fondar, il Centro di Informazione Politica. Un giorno hanno indetto una riunione e io che ero il presidente non sono stato invitato: gli stessi che avevo fatto mio vice e segretario stavano tramando alle mie spalle. Così nel ’69 ho dato le dimissioni. Da allora ho capito che non ero adatto a questo ambiente, perché fare la politica consiste anche nel tradire il tuo amico più caro. Come ha fatto a rinunciare? Ha trovato un altro modo per cambiare le cose? Ho incanalato la mia voglia di migliorare il mondo capendo che finchè la gente non prende coscienza di sé, la politica sarà sempre così. Ha ragione il Cristo quando dice che l’unica opera che si può fare è far crescere la coscienza della gente. Bisogna essere aperti, non limitarsi a guardare la televisione ma leggere, informarsi, perché sennò si resterà sempre fregati da chi ha un minimo di cultura più di noi. Vedo che sta leggendo l’antologia postuma di Alda Merini. La conosceva bene? Alda era un personaggio, per me era una cara donna. Era andata fuori di testa, ha patito molto, ma era una donna di qualità. Ha scritto delle belle poesie, non tutte, ma ce n’erano. La prima volta che l’ho conosciuta è stato a Melegnano, siamo andati in un bar con alcuni amici comuni, dopo una lettura di poesie. Lei scriveva spesso di getto e mi ha dedicato una poesia, così, dal nulla. Niente di eccezionale: era veramente brutta. La sua casa è una vera biblioteca. Questi libri li ha letti tutti? Quasi. Un tempo leggevo molto, ma adesso non più come una volta. Gli chiedo quali di questi si porta nel cuore. Lui prima non sa rispondere, poi cerca in una pila Frammenti di un insegnamento sconosciuto di Gurdjieff, e ci congeda con l’ultima citazione: “Il mondo è più straordinario di quello che pensiamo”. 10


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ODIO i promessi sposi di Alessandro Massone — @amassone

l fatto che odi i Promessi sposi è un po’, lo ammetto, un mio shtik. Ma c’è differenza tra odiare e trovare brutto, non soddisfacente. Nessuno ha titolo, credo, di odiare la mediocrità. La mediocrità è lì, succede, può solo essere accolta con una scrollata di spalle e poca attenzione. L’odio è una risorsa preziosa, disponibile in quantità limitate, perché richiede forze. Odio i Promessi sposi perché potrebbe essere un grande romanzo, invece che un pasticcio che Hugo avrebbe scritto in un weekend. Ha così tanti problemi e difetti, che è difficile scegliere da dove iniziare. Personaggi, promesse infrante, e temi può essere un buon tentativo. Personaggi. Disperata dalla mancanza di personaggi nell’opera, la critica, soprattutto scolastica, è costretta a rimanere avvinghiata a Don Abbondio in maniera molto poco religiosa. Le cicatrici sulle natiche dell’uomo di Chiesa sono pure immeritate: la sua fascia come Miglior Personaggio non fa che cantare i difetti del romanzo. Don Abbondio è piatto, codardo, così grigio che ha pure gli occhi di quel colore. Fine. Non c’è altro da sapere su di lui. E la stessa critica si può porgere verso tutti gli altri. Agnese, la buona madre. Don Rodrigo, crudele e annoiato. Il Griso, violento ma letteralmente “Grigio”. Fra Cristoforo, giusto ma maledetto. Renzo, coraggioso ma tonto. Perpetua, popolana gossippara. E questi personaggi piani sono i meglio riusciti. Guai cercare di definire Lucia, così vuota da essere un vero prototipo per le eroine dei romanzi Young Adult. I personaggi secondari esistono invece per una buona ragione, portare avanti la trama. Fanno il loro lavoro e poi spariscono. Stendere un intreccio interessante con questi personaggi di cui non può importarci nulla era davvero un’impresa titanica. Manzoni prova a cercare rifugio nella suspence, ma fallisce. Promesse infrante. Una delle strutture fondamentali della costruzione di un’attesa in ambito narrativo è quella dello scambio, materialmente commerciale. Il lettore spende tempo e attenzione nelle lunghe pagine che l’autore usa come setup del piano, accordando fiducia che questo lo porterà da qualche parte interessante e inaspettata. Completamente fallimentare è così la sottotrama del voto di Lucia. Lucia fa voto che resterà vergine, non si sposerà, si farà suora, pur di uscire viva dalla sua terribile disavventura. Indubitabilmente, Lucia si salva, ma! il voto è sciolto da Fra Cristoforo perché i due ragazzi, fondamentalmente, gli stanno simpatici. Per pagine il lettore viene preso per il naso, come se questo voto fosse stato una vera minaccia alla coppia piú bella del mondo, come se almeno potesse ambire ad essere fonte di tormento per Lucia. Manzoni invece fugge, in timore di dio, da scelte risqué per i suoi personaggi. Un discorso simile si può fare riguardo questo terribile crudele Innominato che incontriamo appena in tempo perché smetta di essere terribile e crudele. Che civetta. Infine, i temi. La verità è che i Promessi sposi avrebbe potuto essere un grande romanzo, se Manzoni non avesse avuto una così pressante agenda religiosa. La temibile peste finisce per uccidere solo personaggi secondari, e il disegno divino rende inutili le azioni e le tensioni di tutti i personaggi. Ma soprattutto, la narrazione si mette in marcia per la mediocrità di un codardo, e dopo un intero romanzo per spiegarci quanto Don Abbondio fosse nel torto, Renzo abbraccia tutte le sue debolezze e placidità, in un finale anticlimatico e condiscendente. Se non si può negare l’enorme valore storico dell’opera nel contesto italiano, trovare i Promessi sposi un capolavoro è un pensiero di deviato patriottismo, denso di provincialismo. O forse ci accontentiamo di poco. 11


Città di carta — Milano un amore di Irene Nava — @irenena89

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nico romanzo di argomento amoroso di Dino Buzzati, iniziato nel mese di marzo del 1959 a Saint Moritz e pubblicato da Mondadori nel 1963, questo è un libro in cui, a detta dell’autore stesso, “c’è tanta autenticità” senza essere totalmente un’autobiografia. Secondo lo scrittore e critico Alberico Sala, è “l’affermazione che la donna dev’essere un groviglio di sentimenti, un impasto di nervi e di sangue, non una geometria di cavi e di impulsi”. “Un mattino del febbraio 1960, a Milano, l’architetto Antonio Dorigo, di 49 anni, telefonò alla signora Ermelina”. Egli è un “borghese nel pieno della vita, intelligente, corrotto, ricco e fortunato”, e telefona alla suddetta signora perché gli prepari un appuntamento con una ragazza. Questi incontri a pagamento sono gli unici contatti che egli ha con l’altro sesso, dato che non riesce ad avvicinarle nella vita reale, e in questo modo si prende le sue rivalse su di loro. In questo contesto, infatti, le donne sono subordinate a lui e non più esseri misteriosi e irraggiungibili, che lui, “con tutto il suo ridicolo armamentario letterario nella crapa”, non riesce a comprendere. Ma quel giorno la ruffiana gli presenta una ragazza mai vista prima, Laide, che sconvolgerà completamente la sua vita. Quello che doveva essere un piacere a pagamento si trasforma in una passione straziante per Antonio, il quale, innamoratosi della ragazza, cerca di tenerla vicina come sua esclusiva proprietà in qualsiasi modo, anche con il denaro, ma inutilmente. Adelaide infatti intesse una rete di inganni sempre più stretta attorno a lui, che più cerca di svelare la sua vera identità, il suo vero cognome, le sue relazioni e occupazioni, più si trova ingarbugliato in un dedalo di bugie, nel labirinto di una Milano popolare a lui da sempre preclusa, un mondo estraneo che lo affascina perché diverso da quello di tutta la sua esistenza e che al tempo stesso suscita il suo disprezzo. Nel romanzo, Milano è spesso personificata e quasi “senziente”, diventando l’incarnazione di Laide e dando forma alle inquietudini del protagonista, anche se d’altra parte non mancano riferimenti topografici molto precisi e un’immagine realistica della “città che lavora”. In corso Garibaldi esisteva ancora un quartiere popolare di “vecchissime case addossate le une alle altre in un groviglio di muri, di balconi, di tetti, di comignoli. Dove lo spirito della città antica, non quella dei signori ma quella dei poveri, sopravviveva con singolare potenza.” Qui Antonio si addentra un giorno per caso, seguendo un profilo di donna che più tardi penserà essere stata pro12


prio Laide, in un “labirinto di viuzze, anditi, sottopassaggi, piazzuole, scale e scalette” chiamato la Storta. Ed è proprio questa città nascosta, il Vicolo del Fossetto, contrapposto al suo ufficio in via Moscova o alla casa della signora Ermelina in piazza Missori, a rappresentare il fascino che la ragazza ha ai suoi occhi: tutto ciò che lui, in quanto persona “bene”, non aveva mai sperimentato prima. Milano ha tante facce in questo romanzo di anni fa, quando ancora qualche parte di città sfuggiva alla cementificazione e alla modernità, e sono da una parte il mondo da cui viene Antonio, che lo annoia ma che non sa lasciare perché in fondo sicuro e confortevole, e dall’altra il mondo di Laide, fatto di vicoli, locali del divertimento, povertà, voci, canti popolari e misteri che per Antonio non saranno mai svelati. Laide stessa è “il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi.” Come se esistessero due città nella città, due mondi incomunicabili, e Antonio si dispera nel tentativo di indagare questa Milano sconosciuta e allo stesso tempo il passato oscuro della ragazza. Laide lo trascina sempre di più nell’infinita sequela di storie inventate e mezze verità, e lui si lacera in dubbi, sospetti, moti d’amore e poi di disprezzo verso quella creatura tanto piccola e candida eppure terribile. Ma in fondo Antonio non vuole davvero sapere, non vuole immergersi in una vita che la sua buona nascita gli ha reso estranea. Per lui questa passione è un gioco esotico, una gita in una parte di città affascinante, un tentativo di rivivere la giovinezza per l’ultima volta. Il suo è un amore per un’idea, una rivalsa su un mondo che lo allontana, che può dominare solo nel possesso fisico, in quell’attimo di certezza che il potere del denaro può dargli. Ma come gli fa notare la Piera, amica di Laide anche lei mantenuta da ricchi signori a cui Antonio si rivolge disperato dopo l’ennesima bugia scoperta, egli sta cercando di comprare Laide “a rate mensili”, continuando a condurre per proprio conto la sua vita rispettabile. E Laide è presente come un’ombra che si annida in qualsiasi percezione, tanto che a volte il soggetto Laide/Milano viene a coincidere: “in lei viveva meravigliosamente la città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa, insolente. Nella degradazione degli animi e delle cose, fra suoni e luci equivoci, all’ombra tetra dei condominii, fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica desolazione, una specie di fiore.” 13


Milano & A di Chiara di Pisa — @Catullina185 foto Paola G. Valisi — @pgvalisi


Alda Merini

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Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta.

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on si può essere milanesi e discutere di poesia senza parlare di Alda Merini, la poetessa dei Navigli. Nata il primo giorno di primavera del 1931, in tempo di guerra, fin da giovanissima ha trovato sfogo alle crudeltà della vita nella scrittura. Altra sua grande passione fu il pianoforte, strumento spesso evocato nelle sue opere. Pur non avendo superato l’esame di ammissione per il liceo classico Manzoni, il suo orgoglio ebbe ben presto di che riscattarsi. Il suo precoce talento, infatti, non rimane nascosto ma viene scoperto da Giacinto Spagnoletti, che ne inserisce alcune liriche nella sua Antologia della poesia italiana 1909–1949. Importante fu anche la sua relazione con Giorgio Manganelli, a cui dedicò alcune sue poesie giovanili e molto intense. Il 1953 è un anno importante nella vita di Alda, che vede la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, la Presenza di Orfeo, e il suo matrimonio con Ettore Carniti, da cui avrà quattro figlie: Emanuela, Flavia, Barbara e Simona. Alda non venne mai vista dalle figlie come una “madre” in senso proprio, a causa delle travagliate vicende esistenziali che le portarono a vivere separate. La ricordano come una “madre– poetessa”, una donna complessa ed estremamente profonda, il cui amore principale sempre fu la Poesia. Siamo a metà del XX secolo, la sua attività di poetessa prosegue inarrestabile, grazie anche all’amicizia con Salvatore Quasimodo, che pubblica alcuni suoi versi nel volume Poesia italiana del dopoguerra.

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Nel 1965 viene internata in manicomio. Inizia qui il periodo più buio e doloroso della sua vita. Al Paolo Pini di Milano, Alda conosce l’inferno. Come Orfeo (citato nel titolo della sua prima raccolta poetica) si cala nelle tenebre per cercare la luce della sua vita, così Alda nel suo inferno personale riesce a scoprire l’incanto del mondo. Una donna che della vita riusciva a cogliere ogni aspetto, un’anima dotata di un’immensa sensibilità, sensibilità che fu la sua malattia e la sua forza. Forse è vero che la poesia va a braccetto con la follia e che tutti i più grandi sono matti. Questa esperienza di solitudine profonda riesce a diventare per lei fonte di salvezza e di vita. Spesso bisogna toccare il fondo, raggiungere gli abissi per riuscire a capire, sentire, apprezzare tutto ciò che ci circonda, come lei stessa ha affermato: ”Quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita”. Gli anni bui e dolorosi vissuti al Paolo Pini di Milano, nella solitudine e nel silenzio, corrispondono anche ad un’interruzione della sua attività poetica. Nel 1972 esce dal manicomio. Si alternano momenti di salute e di malattia con sporadici periodi di internamento, fino al 1979 quando viene dimessa definitivamente e ricomincia a scrivere. Una vera e propria resurrezione. Nascono ora alcuni dei suoi componimenti più intensi, si veda ad esempio la raccolta La Terra Santa (Scheiwiller, 1984). Alda troverà anche il coraggio di raccontare le atrocità del suo internamento alla clinica psichiatrica attraverso alcune opere in prosa, tra cui L’altra verità. Diario di una diversa (Sheiwiller, 1986). 17


Dopo la morte del marito nel 1983, vive in uno stato psichico ancora debole, aggravato dalla difficile situazione finanziaria in cui versava. Alda si aggrappa allora all’ intenso legame sorto con il poeta Michele Pieri, con il quale si sposerà, nonostante la differenza d’età di ben trent’anni. Trasferitasi nella città natale del secondo marito, Taranto, vi rimane per circa quattro anni. L’aggravarsi del suo profondo stato depressivo pone però fine a questo apparente periodo di tranquillità e la riporta a vivere nuovamente gli orrori dell’ospedale psichiatrico, questa volta di Taranto. Torna al suo amato naviglio di Milano nel 1986. Sono questi anni fecondi per la sua attività poetica. Vengono pubblicate, tra le altre, le raccolte Vuoto d’amore (Einaudi, 1991), Ballate non pagate (Einaudi, 1995) e Fiori di Poesia, 1951–1997 (Einaudi, 1998). L’ansia, l’amore in tutte le sue forme, la luce e l’oscurità, un Dio crudele, lo slancio vitale e disperato. Questi sono alcuni dei temi più trattati nelle sue liriche. È una poesia di forti contrasti, una poesia di dolci lamenti e crude osservazioni, ma fatta anche di esplosioni di gioia e di fragili speranze. Donna religiosa, ma in un modo tutto suo. Come lei stessa sostenne: “Credo in un Dio crudele che mi ha creato, non è essere cattolici questo? Perché, Dio non è così? Tutti abbiamo un Dio, un idoletto, ma proprio il Dio specifico che ha creato montagne, fiumi e foreste lo si immagina solo… con la barba, vecchio, un po’ cattivo, un Dio crudele che ha creato persone deformi, senza fortuna. Credo nella crudeltà di Dio.” Alla poetessa che “trovava i suoi versi intingendo il calamaio nel cielo” vengono assegnati negli anni numerosi premi letterari, come il Librex – Guggenheim Eugenio Montale nel 1993, il premio Procida– Elsa Morante nel 1997, l’Ambrogino d’oro nel 2002 da parte del Comune di Milano e una Laurea honoris causa dall’Università di Messina. Muore di tumore il 1 novembre del 2009, circondata dai mozziconi delle sue amate Diana senza filtro. La sua casa in Via Magolfa n° 32 adesso è un museo. Vi lascio con le sue parole, parole di una grande donna che ha vissuto la sua vita appieno, cogliendone ogni aspetto, anche i più tragici e crudeli, senza mai perdersi d’animo né smettere di sognare:

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Io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno…. ...per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara.

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I o e D avid

di Mattia Salvia — @mttslv

S

crivere di David Foster Wallace nel 2013 è stupido e inutile. Stupido perchè tutti – TUTTI – lo fanno, quindi le probabilità di riuscire a dire cose nuove e intelligenti sono molto basse. Inutile perchè anche scrivendo, diciamo, due milioni di battute (?) non si riesce a dire tutto quello che ci sarebbe da dire. Premesso tutto questo, ho ancora più di 4000 battute da riempire: ecco quindi un articolo su cosa ha insegnato A ME David Foster Wallace, su quello che IO amo di lui come scrittore, sul MIO rapporto con i suoi libri – insomma tutta una serie di cose estremamente personali e soggettive in cui spero qualcuno possa rivedersi. David approverebbe. Io e DFW abbiamo avuto la stessa malattia – lui in una forma decisamente più grave – e preso lo stesso tipo di medicine. Quando ho letto per la prima volta Infinite Jest stavo iniziando ad uscirne e penso sia per questo che me ne sono innamorato. Ho sentito spesso descrivere la depressione clinica come un abisso di indolenza, uno stato in cui tutte le infinite possibilità offerte dalla vita sembrano non valere la pena di essere colte – come se si trattasse soltanto di un “non avere sbatti” elevato all’ennesima. Non è così. La persona depressa non passa le sue giornate a rigirarsi nel letto e a piangere (true story) perché pensa che le energie necessarie ad alzarsi e uscire di casa siano sprecate e tutto sia brutto e insensato, lo fa perché per lei non esiste altro che lei stessa e il suo dolore – “alzarsi” e “uscire di casa” non sono nemmeno contemplate come opzioni. Dalla mia esperienza ho imparato che la depressione è solipsismo puro. E il motivo per cui ho amato IJ è che è un libro contro il solipsismo. L’ho amato perché mentre da un lato – con la descrizione perfetta di una situazione in cui mi trovavo e da cui stavo cercando faticosamente di uscire – sembrava rivolgersi proprio a me, dall’altro era come se mi dicesse “Attento! Stai pensando che io stia parlando proprio a te! Ci stai ricascando!”. Ci ho messo un mese a finirlo – un agosto passato a Milano solo con il mio cane, Infinite Jest e una scorta di gelato – ed è stato come stare un mese in una Comunità di Recupero. Era il 2010. Subito dopo Infinite Jest ho letto La scopa del sistema (che mi ha fatto scoprire Wittgenstein), Signifying Rappers (che mi ha mostrato come per quanto riguarda il rap americano DFW avesse proprio dei gusti di merda) e via via tutto il resto della sua produzione, da cui ho appreso alcune lezioni fondamentali sullo scrivere: 1) che scrivere non è un atto per così dire “metafisico” ma un lavoro a tempo pieno, che non è tanto come essere ispirati da Dioniso quanto più come stare otto ore a una catena di montaggio; 2) che scrivere è in un qualche modo ineffabile una cosa legata al capire chi sei ma che non puoi capire chi sei da come scrivi né capire come devi scrivere da chi sei, che quindi in definitiva questa non è granché utile come lezione – che forse il punto sta nel non considerarla una lezione e nel guardarla come un koan zen; 20


3) che non saprò mai scrivere bene – che posso pure provarci a farmi pagare per farlo ma che se non dovessi riuscirci entro un tempo ragionevole significa che il mio posto è sempre stato a una catena di montaggio. E qui veniamo alla cosa più importante che ho imparato da DFW: che non sono in qualche modo speciale/diverso/migliore degli altri e che la prova inequivocabile di questo è il fatto che io pensi di esserlo. Che quando utilizzo l’espressione “la gente” (ad esempio in contesti come la gente è stupida, la gente non capisce un cazzo, odio la gente) devo ricordarmi che la probabilità che anche io faccia parte della “gente” sfiora la certezza matematica. È una cosa che cerco di tenere sempre a mente perché è l’unico modo per sconfiggere la solitudine e l’isolamento, gli scarti di lavorazione della nostra auto–coscienza. Se riusciamo a scendere dal piedistallo su cui ci poniamo perennemente – senza farlo apposta, per il solo fatto di essere coscienti di noi stessi – possiamo provare a metterci nei panni degli altri e se riusciamo a metterci nei panni degli altri possiamo provare davvero a capirli. Altrimenti siamo degli stronzi ipocriti quando ci lamentiamo di quanto ci sentiamo soli e incompresi. La vera sfida è riuscire ad esistere nonostante noi stessi. Ricordarsi sempre che il mondo non cessa di esistere quando chiudiamo gli occhi per riprendere ad esistere quando li riapriamo ma è là fuori indipendentemente da noi, che per gli altri è dura esattamente come per noi e che gli altri vedono quello che vediamo noi e provano quello che proviamo noi. Ricordarsi tutto questo nonostante il semplice fatto di esistere e di essere sempre costantemente al centro di tutte le esperienze che facciamo faccia di tutto per farcelo dimenticare. Tenere sempre presente che non siamo soli. Tutto questo David Foster Wallace nei suoi libri cercava di spiegarlo a se stesso – leggerlo significa origliare dietro la porta mentre lui parla da solo e cerca di convincersi di certe cose per salvarsi la vita. Mi dispiace che alla fine non ce l’abbia fatta ma non gli sarò mai abbastanza grato per averci provato.

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L’uomo dei paperi

D on r osa

L

di Stefano Colombo

a musica moderna, cinquant’anni fa, venne sconvolta dalla british invasion. In anni recenti, il mondo del fumetto è stato segnato in modo analogo da un invasione targata Giappone: quella dei manga. Per la nostra generazione i manga (con tutto il contorno di anime, cosplay ecc.) sono un fenomeno di massa. Ma il vecchio fumetto è sopravvissuto: se tutti noi abbiamo tifato Goku e amato Pikachu, chi non ha mai letto una storia di Zio Paperone? Keno ‘’Don’’ Hugo Rosa ne ha letta ben più di una; e, non contento, le storie è passato a crearle. Forse il più celebrato fumettista Disney vivente, è considerato in modo unanime l’erede di Carl Barks (l’uomo al quale si deve la strutturazione dell’ ‘’universo papero’’), al quale Rosa è sempre stato devoto – ad esempio, mimetizzando nei suoi disegni piccole scritte ‘’D.U.C.K.’’: che in inglese vuol dire sì ‘’papero’’, ma è anche l’acronimo di ‘’Dedicato allo zio Carl da Keno’’. Nato nel 1951, suo nonno emigrò nel Kentucky dal Friuli: di questa origine italiana Don Rosa è sempre andato fiero – conserva ancora molti oggetti di “nonno Gioachino”, e spesso li ha rappresentati nelle sue tavole a fumetti. Dopo una laurea in ingegneria, ha continuato a coltivare la sua passione per il disegno fumettistico, in particolare per i personaggi Disney, esordendo come autore a metà degli anni Ottanta: ma la sua definitiva consacrazione avviene nel 1993, con La Saga di Paperon de’ Paperoni. La Saga è forse la vicenda più vicina a un poema epico narrata in un fumetto Disney: una biografia illustrata del papero più ricco del mondo, per costruire la quale Rosa ha attinto con rigore scientifico all’opera del maestro Barks. Rompe in modo drastico con la tradizione Disney, decidendo di rappresentare anche legami di parentela diretti (padre–figlio, fratello–sorella) in un panorama prima dominato dal classico zio–nipote: Rosa ci presenta la famiglia De’ Paperoni al gran completo. La casa di Glasgow dove il giovane Paperone vive in ristrettezze con madre, padre, zio e sorelle; la sua fiamma ai tempi della corsa all’oro, Doretta Doremi; la madre e il padre di Paperino; e tanti altri. Il futuro magnate di Paperopoli viene seguito (con notevole approfondimento psicologico) in tutta la sua avventurosa vita, fino all’incontro con i suoi nipoti – ormai ottantenne – nel 1948: esattamente quando Barks disegnò e ambientò la prima storia con protagonista Paperone (Paperino e il Natale su Monte Orso), chiudendo così idealmente il ciclo. Rosa ha scritto e disegnato con il suo tratto minuzioso molte altre storie per la Disney — spesso con protagonista il magnate piumato. Recentemente, però, ha fatto scalpore la sua decisione di ritirarsi dal mondo del fumetto, corroborata da una lettera al vetriolo indirizzata alla Disney. L’autore (affetto anche da problemi agli occhi) è entrato in collisione con l’azienda per motivi sindacali, denunciando l’obsoleta legislazione del copyright fumettistico. La Disney, infatti, non ha personale addetto alla creazione di storie a fumetti. Queste vengono commissionate ad autori freelance — o più spesso a dipendenti da compagnie aventi licenza (come nel caso di Rosa e Barks): gli autori vengono pagati solo al momento della consegna e ‘’un tanto a pagina’’. Anche se la loro opera avrà successo, venendo magari ripubblicata, non vedranno mai un centesimo in più di quanto siano stati pagati all’inizio. Non esiste insomma il sistema delle royalties. Situazione che affossa un autore come il nostro, le

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cui creazioni hanno avuto un successo clamoroso — è una delle tante cose in comune tra Rosa e il maestro Barks. Una norma degna di un avaraccio come Zio Paperone. Che però, davanti alle preghiere dei nipotini o alle lusinghe di Doretta, sapeva lasciarsi andare a inaspettati slanci di generosità (qualche volta). Di certo, il vecchio cilindro non avrebbe mai portato all’ammutinamento uno degli autori che hanno dato più lustro al suo personaggio: ma Don Rosa non vive a Paperopoli. E i sindacati, nell’America reale, non sempre difendono con efficacia gli interessati. Chissà, forse a Don Rosa non resta che affidarsi alla Numero Uno. 23


DEEP POE N on potete

postmodernizzare il post moderno di Alessandro Massone — @amassone

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uando ho scoperto l’esistenza dell’Alt Lit, mi sono illuminato di interesse. Un genere letterario che si poneva di superare il post–moderno, nativo digitale, che si sviluppava nella poesia e non nella narrativa. Sembrava troppo intrigante, troppo bello, per essere vero. Indovinate —Lascio giudicare a voi, lettori, prima di commentare. Una breve selezione antologica da due dei principali poeti Alt Lit: the hymnal at my grandmothers funeral says ‘wives be subordinate to your husbands, as is proper in the lord’ five months ago i saw a video of a dog being thrown into a garbage compactor * A neighbour, Anne-Marie my first friend? First crush? We played with her dolls once & It felt transgressive even aged ~3, a socialised boy. * you are gone for lunch i had peanuts (Steve Roggenbuck, i am like october when i am dead) Già, fanno schifo. Quando sui giornali leggiamo “storie di internet” veniamo esposti a due facce, l’Internet dei pervertiti, e l’Internet degli ingegneri fighi. La verità è che tra questi due poli esiste un enorme deserto di mediocrità. Peggio, di mediocri che sognano di essere tra i fighi — alcuni ci provano e buon per loro, altri ci credono e ahinoi. Gli autori alt lit si definiscono spesso parte di un movimento “un–modernist”, non–modernista, anti–modernista. Se state aggrottando la fronte, avete ragione: gli estratti che ho inserito poco sopra sono rigurgiti di tutti i peggiori difetti del post–moderno americano dagli anni ottanta in poi. No, gli autori alt lit sono non–modernisti perché celebrano la stasi, l’atarassia, il vuoto. Nelle mie ricerche non sono riuscito a tracciare una paternità dell’espressione, ma immagino che il disgraziato si fosse confuso con il Futurismo.

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ETRY LOL Alt Lit: un genere letterario nato sul frainteso, dall’egomania, nella mediocrità, e perché va di moda.

Trovo molto buffo che un gruppo di wannabe letterati continui ad usare un’etichetta con una evidente nozione errata sottostante come marchetta di presentazione. Oltre alla stasi, all’amore per Internet e soprattutto per se stessi, alcune misteriose fissazioni dei nostri letterati alternativi sono genuinamente curiose. Su tutte, la più buffa è indubbiamente la costante presenza di ipotetici valori precisi accompagnati dal simbolo tilde inteso come “circa”

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Come un–modernism, la natura caotica di internet rende estremamente difficile tracciare una paternità “poetica” della tilde. Il nocciolo del problema non è la sola mediocrità, ma la mediocrità mescolata all’egomania. Lo spazio apparentemente infinito di Internet sembra aver irrimediabilmente ingigantito l’ego di un certo tipo di giovani aspiranti poeti — c’è spazio per tutti, quindi siamo “importanti” tutti. E, sebbene, ogni essere umano sia un fiocco di neve unico e speciale, il tempo non è infinito quanto lo spazio. La depressione e l’atarassia di David Foster Wallace sono interessanti, le mie no. È probabile nemmeno le vostre. È fondamentale sottolineare che non sono i temi o la forma a rendere odiose e orribili queste poesie. Non esiste materiale inevitabilmente brutto. Ci sono autori discreti sulla scena — Tao Lin sarà probabilmente l’unico ad essere ricordato, almeno per qualche anno. È una storia davvero deprimente. Le premesse ci sono tutte — sarebbe così grande fonte di ispirazione, una vera forma di Letteratura che nasce e si fa florida nel decennio delle emoji. Invece tutti i dubbi, tutti gli ostacoli che uno scettico potrebbe immaginare sulla strada verso la grandezza dell’alt lit, tutti portano la macchina fuori strada. E così invece di essere esempio, è contrappunto, manifestazione della difficoltà, invece che del trionfo sulle difficoltà. Perché voglio credere che ci sia un futuro per una nuova generazione di Autori da leggere, ma ho tante prove quanto un prete che scrive il proprio sermone, sudato e poco ispirato, la notte tra sabato e domenica. 25


Casir

Poesie, aforismi, tipogr Intervista a

di Davice Contu e Alessandro Manca

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a oltre trent’anni, a pochi passi dalla stazione ferroviaria e dall’oratorio di Osnago, in una delle tipiche villette a due piani della provincia lombarda, Alberto Casiraghy e le edizioni Pulcinoelefante pubblicano, in serie limitate, poesie, raccolte di aforismi e particolari opere di autori sconosciuti. Diversamente dagli editori tradizionali Casiraghy utilizza ancora i caratteri mobili e un vecchio torchio per produrre i suoi volumetti; nel corso degli anni, per la sua casa sono passati autori come Allen Ginsberg o la compianta Alda Merini, di cui è stato grande amico per oltre vent’anni. Davanti a un thè, Alberto ha condiviso con noi la sua storia. Alberto com’è nata quest’esperienza? I libricini della Pulcinoelefante sono nati per amore della poesia. Da ragazzino scrivevo le mie poesie e lavoravo in una tipografia ma il foglio stampato mi sembrava sempre un po’ povero. Così iniziai ad abbinarci un’immagine per sostenere un po’ la poesia. Sempre da ragazzo avevo fatto dei disegni tra cui il “pulcinoelefante”. È stato come un gioco: all’inizio stampavo le mie poesie, o quelle di un amico, proprio come oggi, il sabato pomeriggio. Quando ho incontrato la Merini ho cominciato a stampargli un volume a settimana che lei usava per pagare il panettiere o il farmacista, visto il periodo difficile. Come sono stati gli inizi? È stata dura? No, ho sempre vissuto felicemente. E poi, in pochi hanno il privilegio di riuscire a vivere stampando delle piccole poesie. Esiste un “lettore medio” appassionato delle tue opere? Paradossalmente le persone che sfogliano i miei libretti sono “catturati” dalle immagini: se associ ad una bellissima poesia una brutta immagine non lo prendono, mentre se ad una mediocre ne accosti una splendida lo prendono perché l’immagine vale subito molto di più. Poi però ci sono le eccezioni: la Merini ad esempio; tutti guardavano lei, la sua personalità. Nella sua poetica è molto forte il rapporto con la natura e gli animali. La natura mi sembra molto indifesa, anche se è più forte di noi. A Osnago da cinquant’anni non c’è più un pesce nel torrente e questo è gravissimo, non grave. Magari ho realizzato qualcosa di bello con il mio lavoro ma il fatto di non essere riuscito a fare nulla per far tornare i pesci per me è un fallimento. L’uomo pensa a curare marciapiedi e tombini e a se stesso ma anche i rinoceronti, le giraffe e le balene hanno il diritto, come noi, di vivere sulla Terra e questo mi sembra importante.

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raghy

rafia e Pulcinoelefante

La mia, più che un’esperienza editoriale, è un’esperienza antropologica; alcuni giorni, in questa casa, passano anche cinque o dieci persone, e a volte è anche troppo. Riesci ancora a concentrarti sul tuo lavoro? Certamente, però a volte si diventa superficiali. Per esempio nel 2009 sono andato a Berna e ho incontrato un universo di persone molto speciali; sono andato a vedere una mostra su Paul Klee ma, poiché c’erano anche altre mostre, non ho più visto nessuno. A breve andrò a Vicenza a fare una mostra in una casa del Palladio; dopo ce n’è un’altra, e così non riesco più a concentrarmi. Anche se io sono un camaleonte e mi adatto subito: è bello ugualmente. Questa sensibilità nei confronti delle persone e degli animali ti fa sentire parte di un’avanguardia o un sopravvissuto di un modo di fare sbagliato? Di certo non dell’avanguardia, perché avrei bisogno di un altro linguaggio. Pensa che utilizzo un sistema a caratteri mobili che ha già 500 anni. Io sono riuscito a renderlo più contemporaneo. Il mio gesto artistico ora è questo e mi rende felice, e non è poco: fare un lavoro che ti rende felice. Stamperò un pensiero da un proverbio arabo che dice: “Se tu fai il lavoro del tuo amore non lavorerai per tutta la vita”; anche Stendhal disse una cosa del genere. Il mondo degli aforismi mi nutre; ogni giorno penso agli aforismi. Leggendo la prefazione di Vassalli a “Gli occhi non sanno tacere – aforismi per vivere meglio” l’aforisma pare un’arte desueta in Italia. No, in molti scrivono aforismi ma sono in pochi quelli che ne scrivono di belli. Alcuni sono scritti in modo molto retorico, altri sono molto colti e poco introspettivi. Per me l’aforisma dev’essere leggero ma anche pesante; devono essere spiazzanti. Prendi ad esempio Cioran, Wilde, Lec o Kraus: grandi scrittori di aforismi che ti sorprendono o che memorizzi facilmente e che, un giorno, ti aiutano anche a ridere. Quando ho incontrato la Merini lei non ne scriveva. Così ho iniziato a dirle: “Perché, Signora Merini, non comincia a scrivere aforismi?”. Ci parli dell’incontro con Alda Merini. Quest’incontro ha segnato la sua attività? Non saprei dire se ha segnato la mia attività, attuale o passata. Ripensandoci, la cosa che mi ha donato è stata il distacco dal denaro. In parte lo avevo già ma in lei era assoluto. Tra pochi giorni cadrà l’anniversario della scomparsa di Alda Merini. Cosa ne pensa del Comune di Milano e delle poche iniziative, tra cui la casa museo, ideate per ricorda-

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re la poetessa? Il vero museo era lei. Dentro di lei c’era un universo in ebollizione; era come un vulcano. La sua era una casa normalissima. Semmai farei un premio intitolato a lei. E, secondo me, il comune di Milano, non si è comportato male con Alda Merini. La sua memoria sicuramente non svanirà; adesso uscirà il “meridiano”: è il massimo. Alda amava molto Milano. Mi raccontava che, anche quando aveva solo diecimila lire in tasca, prendeva un taxi per fare un giro della città: la stazione centrale, Brera…Lei la guardava dal finestrino della macchina e, quando il tassametro arrivava alla soglia, scendeva dal taxi e tornava a casa a piedi. Molti hanno criticato la scelta di aver fatto i funerali di stato. Perché? Alda Merini era un caso particolare; ha subito diverse critiche perché “si è fatta mangiare dai media” e perché andava ospite da Costanzo. Lei era più forte di chiunque, non si è fatta mangiare. Altri poeti, come Zanzotto o Raboni, sfuggivano alla televisione ma questa era una loro scelta. La televisione ti mangia subito ma a lei ha fatto comodo: se non avesse avuto la visibilità forse si sarebbe spenta velocemente, aveva bisogno degli applausi. Alda Merini era molto conosciuta e i giornalisti, in alcune occasioni, le chiedevano una poesia. Così il pubblico leggeva una di queste poesie e si chiedeva: “Ah ma questa è la Merini?”. La realtà era diversa: magari aveva bisogno di soldi e il giornalista gli pagava la poesia così lei ne scriveva una… Torniamo alla tua attività: quante e quali persone hai incontrato in questa tua avventura? Su 8000 titoli è difficile ricordare tutti. Però su tutti mi ricordo Ginsberg: era una serata magica e stava iniziando a recitare le sue poesie quando notò un ragazzo tra il pubblico con una chitarra e lo chiamò sul palco; fece così il suo reading, con questo ragazzo che lo accompagnava. Al pubblico piacque moltissimo. Secondo lei, qual è lo stato di salute della poesia in Italia? Stavo ascoltando la radio poco fa e dicevano che, non so se a Pordenone o in un’altra località, molte persone hanno assistito a un evento sulla poesia. Se poi si guarda al Festival di Mantova… Secondo me, nei momenti difficili come questo, ci sono dei poeti che escono con delle belle opere. La decadenza arriva quando hai troppo da mangiare. Un mio amico dice spesso: “Quando hai un po’ freddo, stai meglio”. Cosa le piacerebbe trasmettere attraverso il suo lavoro? Soprattutto la libertà del fare. Mi piacerebbe trasmettere la mia fortuna e la mia libertà agli altri. Questo l’ho notato grazie all’esperienza antropologica di questi dieci anni, da quando sono stato a San Vittore a stampare volumetti con i detenuti. Con loro ho stampato 150 libretti, con i loro disegni e i loro testi. È stata un’esperienza pazzesca, in quel posto c’è un’energia latente, che puoi incanalare, se riesci a trasmettergli il desiderio di creare e di uscire con la mente. Molti di loro non avevano mai pensato a questo. Ho letto su internet di un artista tedesco che impanava croci…. Pensa, all’inizio non lo voleva pubblicare nessuno perché era imbarazzante. Lui e sua moglie sono cattolici e iconosclasti!


I l processo d ’ identità di Francesco Floris

L’

Identità si definisce per contrapposizione: se per vedere un dipinto è necessario possedere la nozione di cornice, così per cogliere una musica bisogna distinguerla dal silenzio, anche nel mondo delle cancellerie e dei lugubri antri di un tribunale labirintico, qual è quello descritto ne “il Processo”, per comprendere la visone dell’autore in merito all’identità del singolo, bisogna orientare la propria bussola intellettuale, dirigere il proprio binocolo attenzionale sull’universo dei personaggi secondari, periferici, quei non–uomini che costellano il microcosmo kafkiano. Tali fantocci comunicanti sembrano in qualche modo rassomigliare alle farfalle spillate dell’insettario nella “parabola della falena” riportata in un celebre saggio di Didi–Huberman: proprio ora, che esse sono immobili, stabili dinnanzi alla penetrazione del nostro sguardo, proprio ora che ci si concedono, che possiamo apprezzare l’armonica forma delle nervature, lo spettro cromatico delle ali o la dimensione degli ocelli che costituiscono gli occhi, fatalmente esse perdono la principale caratteristica che fa di una farfalla, una Farfalla; la vitalità. In Kafka, il giudice, il portinaio, le guardie, gli imputati, mancano di quell’elemento primario che rende l’uomo, Uomo; con scelta stilistica banale ma di un’efficacia spiazzante, l’autore priva i personaggi del nome proprio, per sostituirlo con un surrogato neutro ed astratto come quello rappresentato dalla professione, dal ruolo, dalla funzione alla quale si è adibiti e, nella più pessimistica prospettiva, destinati, all’interno del gigantesco sistema garantito dalla Ragione Calcolante, che 29


definiamo società e che, in Kafka trova quasi spontaneamente il proprio correlativo allegorico nel mondo della Burocrazia. Anche gli elementi accidentali della vicenda, quali i ripetuti incontri, dal sapore grottesco nel senso più pregnante di questo termine, fra il protagonista K. e quelle antropomorfiche funzioni sopraccitate, acquisiscono funzionalità per la narrazione; da elementi casuali si elevano sul piano della necessità grazie ad un ulteriore escamotage letterario: K. è vuoto di meraviglia, è concavo di stupore anche di fronte alla comunicazione più grave e sorprendente, al dispiegarsi dell’evento più assurdo, come se, scrive Benjamin “il protagonista fosse tacitamente invitato a rammentarsi di qualcosa che ha dimenticato”. La “sospensione dell’incredulità”, così Coleridge definisce quell’atteggiamento di cooperazione comunicativa fra il lettore e l’autore di favole, si trasforma in Kafka nel tassello immanente all’esistenza umana stessa, coercitivamente (ad opera di chi o cosa non è dato saperlo) abituata ad accettare l’irrazionalità del razionale, l’assurdità del normale. È stato scritto, molte volte in passato, che Kafka ha compreso ed interpretato meglio di qualunque altro autore la complessità del vissuto umano e le angosce che turbano la nostra epoca; non sappiamo e in fondo non c’interessa sapere se questa affermazione corrisponda a verità; forse si può dire solamente una cosa: egli servendosi di quell’esasperazione che fa dell’arte, l’Arte, e ponendoci di fronte agli imbarazzi, alle contraddizioni di un individualismo che s’è dimenticato degli individui o come scriverebbe Marx delle persone, ci ha aiutato, ci aiuta e ci aiuterà a districare i rovi di quel processo d’identificazione personale che, se state leggendo queste righe, ha iniziato la propria discussione in aula in quell’istante remoto in cui siamo involontariamente entrati a far parte dell’umanità, e che giungerà a sentenza definitiva, a compimento, nell’eternità della parola “mai”. Come del resto, le opere di Kafka.

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C ome ti salv ( av ) o il libraio di Filippo Bernasconi

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er regolamentare il prezzo dei libri è in vigore dal 2011 la leggi Levi, che impone uno sconto massimo del 15% sul prezzo di copertina. Per chi era rimasto ai vecchi tempi, quando i prezzi erano decisi dall’incontro tra domanda e offerta, si è aperto un nuovo mondo: non più confusionarie mani invisibili, ma un preciso editore che stabilisce il “giusto prezzo” di un libro in ogni angolo del Belpaese (salvo alcune arzigogolate eccezioni). In questo modo il piccolo libraio viene difeso dalla concorrenza della grande distribuzione e della vendita on–line, sostiene il legislatore, tutelando la “pluralità del mercato editoriale”. La legge ha avuto non pochi detrattori: di solito gli interventi legislativi servono infatti a imporre dei prezzi massimi, magari per evitare cartelli tra i venditori e tutelare i consumatori più deboli, mentre imporre dei prezzi minimi sembra un regalo fatto alle librerie a spese dei lettori. In realtà le cose non sono così semplici, tanto che in molti paesi già da tempo esistono leggi che regolano il prezzo dei libri: in Spagna e Germania il prezzo di copertina è fisso, in Francia sono possibili sconti solo fino al 5%. Esistono delle ragioni storiche per l’adozione di misure di questo tipo: il libraio di piccole dimensioni sostiene infatti costi fissi maggiori e ha un’offerta di titoli per forza di cose limitata. È inevitabile quindi che nel lungo periodo sparisca per far posto alle librerie più grandi, più ricche nell’offerta ed efficienti nella gestione dei costi. Poco male, penseranno in molti: “il piccolo libraio” andrà a far compagnia ad arrotini e ombrellai, lasciando il posto a professioni più moderne ed “efficienti”. L’obiettivo del legislatore, però, era un altro: delegare tutta la distribuzione libraria a pochi gruppi, destino per molti inevitabile di un mercato liberalizzato, è sicuramente più efficiente sul fronte dei prezzi, ma può ridurre l’offerta di titoli. All’epoca si temeva, infatti, che i grandi distributori si potessero accordare fra loro per escludere titoli “scomodi”, invisi ai “poteri forti”, privando il lettore della possibilità di formarsi un’opinione libera e plurale. L’argomentazione può risultare più o meno convincente, è chiaro però che poteva avere senso soltanto nell’era pre–internet: oggi l‘acquisto on–line di libri (cartacei e non) permette a ogni lettore di ordinare con un clic qualsiasi opera, anche la più “slegata dalle logiche del mercato editoriale”, spaziando dall‘ultimo j’accuse contro le scie chimiche alla nuovissima teoria per uscire dalla crisi in barba alle banche e ai massoni. Nessun cartello può fermare il libero pensiero del lettore, che con un computer e un po’ di fantasia nelle strin-

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ghe di ricerca può formarsi facilmente la coscienza civile che più gli aggrada. Curiosamente però il legislatore italiano ha preferito lasciare il piccolo libraio in balia degli spiriti animali del mercato fino al 2011, quando difenderne l’esistenza poteva tutto sommato garantire un certo pluralismo nell’editoria, intervenendo solo quando l’avvento di internet aveva ormai spazzato via ogni possibile utilità sociale per la regolamentazione del prezzo dei libri. Il pianificatore però fa le pentole ma non i coperchi: il costo degli e–book infatti non è regolato, ma lasciato al giudizio dell’editore. Benché alcuni chiedessero a gran voce di allineare il prezzo dei libri virtuali a quello dei cartacei, il legislatore ha avuto uno sprazzo di lungimiranza: l’acquisto di e–book è infatti strutturalmente impossibile da imbrigliare, visto che chiunque può aprirsi un account su un sito straniero e fare i suoi acquisti all’estero. Finora gli editori hanno scelto di non affossare completamente il mercato del libro tradizionale, evitando scostamenti eccessivi di prezzo tra il libro virtuale e il cartaceo. Ciononostante le differenze sono comunque notevoli: Inferno, il nuovo best seller di Dan Brown, costa 9,99 su e–book, mentre il prezzo di copertina è di 20 euro. Su quasi ogni titolo la differenza è comunque molto consistente, diventando in alcuni casi abissale. L’intenzione di assecondare le pressioni dell’Ali, l’Associazione Librai Italiani, molto attenta alla propria sopravvivenza e molto poco a quella dei lettori meno facoltosi, rischia quindi di rivelarsi controproducente: un prezzo artificialmente alto dei libri cartacei tende a rendere la transizione dalla lettura su carta a quella su dispositivo digitale ancora più rapida. Difficile immaginare che l’amore per “il fruscio della carta” possa giustificare a lungo prezzi di copertina superiori anche più di due volte al proprio omologo virtuale. Paradossalmente quindi i goffi tentativi del legislatore di salvare una modalità di distribuzione già da tempo obsoleta, proteggendo una delle tante corporazioni che affossano l’Italia, rischia di accelerarne l’inevitabile fine: nel frattempo a pagare il conto sono i lettori, specialmente gli aficionados della cellulosa, costretti a rinunciare a promozioni e offerte.

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W u M ing

di Daniele Colombi

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utto ha inizio nel 1994, quando un gruppo numeroso di artisti decide di riunirsi sotto un unico nome per opporsi al deterioramento dei cambiamenti culturali in atto. Ognuno di questi artisti si ribattezza Luther Blissett con l’obiettivo di scatenare il caos all’interno dell’industria culturale del tempo. Il nome appartiene in realtà a un calciatore inglese degli anni Ottanta di origini afro–caraibiche, passato per un breve periodo nel Milan, senza lasciare una traccia degna di nota. In Italia, invece, il fenomeno Luther Blissett Project (LBP) diventa una leggenda e ben presto viene considerato come un eroe nazionale, un moderno Robin Hood che lotta contro lo strapotere dell’industria culturale in rapida trasformazione, organizzando campagne di solidarietà a vittime della censura o della repressione, e – soprattutto – orchestrando elaborate beffe mediatiche come forma d’arte, rivendicandole sempre e spiegando quali difetti del sistema ha sfruttato per far pubblicare o trasmettere notizie false. Il fenomeno si diffonde sempre più, al punto che viene elaborata un’immagine per creare un vero e proprio ritratto di Luther Blissett, assemblando più foto insieme dei parenti di un autore del LBP. Il progetto è attivo anche in paesi come Spagna, Francia e Inghilterra; in Italia realizza e costruisce leggende storiche, volte a prendere in giro quel mondo culturale altezzoso e snob, portatore della verità assoluta in opposizione alla presunta ignoranza della gente comune. Così il LBP crea artisti dal nulla, inventa profili di autori di opere geniali e non sono in pochi a cascarci. Nel gennaio del 1995 viene presentato Harry Kipper, omonimo del vero artista; si tratta di un autore concettuale, scomparso in sella alla sua bici al confine italo–jugoslavo, mentre era intento a tracciare la parola ART sul terreno europeo. Un artista scomparso, poco conosciuto, potrebbe essere uno scoop grandioso, dando prova di grande attenzione all’arte di autori meno famosi. Così la trasmissione Chi l’ha visto si scatena e va alla ricerca di questo personaggio; la figuraccia è evitata per un soffio e la puntata registrata – con tutta la troupe televisiva dirottata a Londra – non va in onda grazie alla rivendicazione del LBP. Nel giugno dello stesso anno, alla Biennale di Venezia, sono esposti i quadri di un esemplare di scimpanzé, chiamata Loota; in realtà, i presunti esperti d’arte, che apprezzano i dipinti della scimmia, osservano semplice spazzatura artistica creata dal LBP. E ancora: un artista serbo rimasto ucciso dai bombardamenti NATO mentre si trovava in cella per condotta antisociale, autore di manichini che riproducono le morti violente

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di persone comuni – in realtà fotografie di cadaveri autentici prese dal sito rotten.com. Il LBP si inventa anche finti scritti e registrazioni che fanno credere a riunioni sataniche e messe nere nella regione Lazio nel 1997; Studio aperto quasi non crede alla possibilità di avere questo scoop e si lancia in servizi e analisi, mostrando addirittura un video improbabile di un presunto rituale satanico. Dietro a Studio aperto si susseguono articoli di Repubblica; operando in questo modo il LBP vuole dimostrare la scarsa professionalità di giornali e cronisti e l’infondatezza del panico morale. La smentita ufficiale arriverà dal Tg1 pochi giorni dopo, quando il LBP uscirà ancora allo scoperto. Luther Blissett non è, però, solo scherzi e macchinazioni: nel 1999 è pubblicato in Italia il romanzo Q, scritto dalla colonna bolognese del progetto. Il libro ha un successo spaventoso ed è tradotto in inglese, spagnolo, tedesco, olandese, francese, portoghese, danese, polacco, greco, russo, ceco, turco, basco e coreano. Il romanzo è ambientato nel Sedicesimo secolo in Europa centrale, durante le sollevazioni contadine e rivolte popolari che per poco non hanno fatto “deragliare” la Riforma protestante, prima di essere soffocate nel sangue con l’entusiastico beneplacito di Lutero. Nel mese di dicembre del 1999, gli autori del LBP commettono un suicidio simbolico, detto seppuku , termine giapponese che indica lo specifico rituale del suicidio tipico dei samurai. Ai quattro scrittori di Q, si unisce un quinto elemento e, insieme, danno vita al gruppo dei Wu Ming – per esteso Wu Ming Foundation. Wu Ming è un’espressione cinese e può assumere il significato di “Cinque nomi” o di “Senza nome”, a seconda della pronuncia. Ancora una volta l’impronta iniziale è quella di rifiutare la macchina fabbrica–celebrità; questa stessa frase, del resto, è utilizzata dai cinesi che lottano per la libertà di espressione. In realtà gli autori della Wu Ming Foundation sono tutt’altro che anonimi. Roberto Bui è Wu Ming 1, Giovanni Cattabriga è Wu Ming 2, Luca di Meo è Wu Ming 3— il quale ha lasciato il progetto nel 2008— Federico Guglielmi è Wu Ming 4 e infine Riccardo Pedrini è Wu Ming 5. Insieme scrivono numerosi romanzi, tra cui 54, Manituana e Altai; ma ogni membro ha scritto anche dei libri da “solista”. Non mancano le numerose dicerie costruite intorno a questi autori, molto spesso considerati anonimi o inventati; in realtà il loro sito internet è ben visibile e la loro storia è a disposizione di tutti.

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L’ importante è saperli usare

Guida rapida all’uso dei trattini

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di Alessandro Massone — @amassone

rattini. Sono più o meno parte della nostra grammatica, li vediamo in uso in romanzi di traduzione americana e anche in esempi di letteratura peninsulare, ma a scuola il maestro si limita a indicarne un esemplare un po’ ammuffito dietro una teca impolverata. “È un trattino”, ci viene detto, e si usa o per i dialoghi o al posto delle parentesi o per degli incisi o — insomma, dappertutto e da nessuna parte. La parte migliore a scuola non la insegnano, però. C’è un colpo di scena. Esiste più di un trattino — un po’ come quando avete scoperto che dietro l’isola di Lost se ne nascondeva un’altra. Il primo trattino è quello che probabilmente usate, è quello che ha il tasto sulla tastiera.

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Questo non è un trattino. Sulla tastiera non avete il trattino che si usa nello scritto. Il tasto che premete, il simbolo che siete abituati a vedere … è il meno. Quello che si usa per indicare una sottrazione di un numero ad un altro. Ogni volta che usate quel tasto per fare un trattino, state sbagliando. Perché il trattino vero è un altro. Anzi, sono due. Si chiamano en dash e em dash, si usano in posti diversi e sono diversi dal meno.

— m

Questo è un em dash. Si chiama così perché è lungo quanto una m dello stesso carattere, corpo e peso. Questo trattino è in via di estinzione, ma è il più bello di tutti. Si usa per interrompere un periodo e aprirne un altro, creando una incidentale che finisce con un punto — un po’ come se qui io parlassi di qualcosa di relativo ma non logicamente successivo alla principale, come quanto è bella la m di Sentinel, il carattere tipografico che usiamo su Vulcano.

– n

Questo è un en dash. Si chiama così perché è lungo quanto una n dello stesso carattere, corpo e peso. Questo è il trattino per antonomasia, che vedete più spesso e che ogni tanto, in maniera schizzofrenica, programmi come Word vi autocorreggono. Nasce come alternativa della virgola per gli incisi – per varietà, e praticità – ma si usa anche nei dialoghi, che vengono poi chiusi semplicemente con un punto fermo, senza ulteriori spiegazioni — a meno che non sia necessaria una specificazione dell’azione del parlato. Per colpa della nostra troppa abitudine a vedere il meno usato al posto dei trattini, il nostro occhio oggi percepisce l’em dash come troppo lungo, così l’en dash ha finito per subire uno – in qualche modo – scivolamento di significato e coprire tutti i casi d’uso. Per vedere quanto siamo abituati all’uso scorretto dei trattini osservate: quatre-vingt-douze///quatre–vingt–douze (La forma corretta è la seconda.)

Imparare ad usare correttamente i trattini non serve a niente. È un errore diffuso a livelli incredibili, e nessuno ci fa caso — ma essere corretti è divertente.

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K etai N ovels

di Francesca Di Vaio — @sadpanda_

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l Sol levante non si smentisce mai. Ecco un nuovo prodotto mediatico di straordinario successo in Giappone: le Keitai Novels, ovvero, romanzi scritti usando il cellulare. Scaricabili in tre formati (WMLD, JAVA and TXT), questi brevi racconti, di massimo 100 caratteri a capitolo, vengono pubblicati online e, abbonandosi ai siti in questione, si possono ricevere tutti i racconti direttamente sul proprio cellulare; i più letti e apprezzati vengono poi trasposti su carta. Il primo romanzo su cellulare fu pubblicato in Giappone nel 2003 da Yoshi, Deep Love, una serie di racconti su una giovane prostituta di Tokyo. Divenne cosi popolare da diventare un libro (2.6 milioni di copie vendute in Giappone) una serie televisiva, un manga ed addirittura un film. “È come suonare musica dal vivo in un bar” dice Yoshi, “capisci subito se piaci al pubblico, ed hai la possibilità di cambiare il tuo lavoro”. Maho i Land (Magic Island), il più importante sito keitai, riceve 3.5 milioni di visite ogni mese. Nel 2007, 98 romanzi del sito sopracitato sono stati trasposti in libri. Gli autori, prettamente donne, scrivono, sotto falso nome, usando un lessico pieno di abbreviazioni e parole straniere in perfetto stile Gals, storie autobiografiche, d’amore e di tutto ciò che gli gira intorno, in poche parole, alla “3 metri sopra il cielo”. Questa moda è diventata così importante da far nascere un’applicazione per iPhone, Quillpill, creata per “fiction a puntate” e “scritti occasionali”. In un intervista al New Yorker il sociologo Kensuke Suzuki spiega l’importanza di questo fenomeno, “i romanzi keitai sono come un database di informazioni sui giovani d’oggi, come scrivono, come parlano… Abbiamo bisogno di questi racconti per studiare e capire le giovani donne giapponesi.” “Tutto ciò che incoraggia la gente a leggere di più è un idea eccellente”, dice Bernard Kedge — manager del Galloway and Porter, una famosa libreria di Cambridge— a proposito del fatto che la maggior parte dei lettori, ed anche degli scrittori di questi romanzi, non ha mai letto un libro prima. Niente più case editrici da contattare, aspiranti scrittori, vi basterà il vostro iPhone per diventare il prossimo Moccia.


P oetica

e individualità

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di Ludovica de Girolamo — @Ludovica_dg

uando si pensa alla Cina, viene in mente un’entità molto compatta. Un paese enorme, un popolo vastissimo, come la sua storia, la sua cultura e le sue tradizioni. Si possono immaginare tante cose di questo luogo, per alcuni ancora avvolto in un’aura di mistero e per altri rappresentato dalle chinatown un po’ di tutto il mondo. In ogni caso, sicuramente una delle caratteristiche che si riscontrano e che più colpiscono della Cina è la dimensione della collettività. Effettivamente è così: in Cina, per migliaia di anni, il singolo è sempre stato visto come parte di una rigida struttura sociale, fondata su gerarchie che regolano ogni tipo di rapporto interpersonale. Tutto ciò per raggiungere quell’ideale di armonia e istanza di buon governo portato avanti dal confucianesimo, dottrina ufficiale di corte già nel 200 a.C.. Riflesso di questa coralità si trova nella poesia cinese più antica, raccolta negli oltre 300 componimenti dello Shi Jing, il Libro delle Odi. L’opera, uno dei classici confuciani, contiene canti popolari, odi, inni. I poemi trattano di vicende storiche–leggendarie, o legate alla vita di corte, a festività e riti. Non può passare inosservato il fatto che tutti gli scritti siano anonimi. Fin dalle testimonianze più antiche la poesia era concepita come il mezzo per mettere in parole le “aspirazioni”. L’aspirazione era interpretata come uno slancio etico al bene comune, un ulteriore modo per trasmettere i dogmi del maestro per antonomasia, Confucio. Questa visione fortemente didattico–moraleggiante, anche se non è sempre direttamente apprezzabile nelle poesie, traspare chiaramente nelle interpretazioni dei commentatori dello Shi Jing, che non lasciano spazio al piacere, all’estetica. Lo Shi Jing, la cui conoscenza era obbligatoria per i letterati–funzionari, è anche la fonte primaria su cui si sviluppa successvamente la poetica cinese: citato nei più innumerevoli contesti come dimostrazione di cultura e autorità, la sua diffusione è una testimonianza della sovrapposizione della sfera degli intellettuali con quella dei funzionari. Per secoli costituirà il repertorio per eccellenza da cui trarre immagini, metafore, figure retoriche, un po’ come sono stati Dante e Petrarca per la nostra tradizione letteraria. Parzialmente contrapposto allo Shi Jing ci sono i Chu Ci, i Testi di Chu: la poesia del Nord da una parte e la poesia del Sud dall’altra. Mentre la prima è legata alla rigida dottrina confuciana e ad un contesto molto omogeneamente gererchizzato, la seconda è legata ad una società in cui erano ancora particolarmente vivide la fantasia, le pratiche magiche e il misticismo dei riti sciamanici. C’è però una ragione più strettamente storica che ci aiuta

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a capire perchè i Chu Ci sono la prima testimonianza di “poesia individuale”. Gli anni che vanno dal 200 al al 589 d.C. secondo la cronologia ufficiale cinese vedono periodi di forti divisioni e lotte tra gli Stati per contendersi il dominio; le istituzioni imperiali non vengono meno, ma sono oggetto di contesa. In base alla tradizionale “rottura del mandato”, che avviene quando la dinastia in carica non è più in grado di governare, si instaurano continuamente nuove dinastie che autoproclamano la propria legittimità. A questa crisi politica gli storici hanno recentemente attribuito l’origine di alcuni sviluppi positivi. In un periodo come questo in cui si percepiva la necessità di rivolgersi altrove, c’era bisogno di nuovi strumenti per comprendere la realtà e la forte destabilizzazione che la caratterizzava: ecco che assistiamo allo sviluppo dell’individualità poetica, alll’entrata del buddhismo e alla sua rapida espansione, alla canonizzazione del taoismo. La scoperta dell’individualità poetica in scrittura è un processo molto lento, che consiste in qualche modo nel superamento del rigore confuciano e coincide con una progressiva identificazione della figura dello scrittore, non più solamente funzionario imperiale. I Chu Ci sono il primo passo per la costruzione di questa identità. Nonostante i testi contenuti nell’antologia risalgano a tempi molto più antichi, essa fu redatta tra il primo e il secondo secolo d.C., e, grazie all’esplicita volontà del suo compilatore Wang Yi, per la prima volta compaiono alcuni dei nomi dei poeti. Wang Yi infatti raccolse i testi e diede loro ordine e paternità. Ad essere riconosciuta non è più solo l’aspirazione collettiva al bene e alla morale, ma una reale ispirazione poetica, uno slancio creativo del singolo che esprime se stesso e i suoi sentimenti attraverso la scrittura. La poesia lirica diventa il mezzo più idoneo per manifestare il qi individuale. Il qi, elemento fondamentale del taoismo, è il soffio vitale. Non è un elemento spirituale in un corpo materiale: nella cultura cinese non esiste questa distinzione, esiste una sola sostanza che passa dallo stato invisibile a quello visibile secondo un ritmo binario (inspirazione/espirazione, nascita/morte e così via). Nel poesia il qi è altrettanto importante: nel linguaggio poetico è considerato come l’abilità e la capacità di esprimere “quello che è racchiuso nel cuore”, per usare le parole del critico letterario del III secolo Lu Ji. Finalmente le emozioni dell’animo sono riconosciute come la sorgente della creazione artistica e letteraria. Come disse Lu Ji: “La poesia nasce dalle emozioni”.

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MUORE FEDERICO MOCCIA ITALIA IN LUTTO Gabriel Garcia Marquez: da lui ho imparato molto

di Sebastian Bendinelli — @se_ba_stian

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irca dodici ore fa, nella sua casa di Rosello (CH), si è spento il filosofo, scrittore e regista Federico Moccia. L’annuncio ha scatenato le reazioni di cordoglio di tutta l’opinione pubblica e del mondo letterario in particolare, da Marquez a Umberto Eco, da Murakami Haruki a Ken Follett. Cortei di giovani sfilano per le vie di Roma e depositano fiori accanto ai lucchetti di Ponte Milvio, mentre in tutta Italia si organizzano fiaccolate e veglie commemorative. Come si nota già dai lavori giovanili, Moccia era dotato di un talento straordinario, capace di infondere acume e profondità intellettuale nei testi di importanti programmi TV come Il treno dei desideri e Domenica In. La prima opera di ampio respiro risale al 1993: Tre metri sopra il cielo, complesso romanzo filosofico di impianto neoplatonico e ambientazione iperurania, sulle prime incompreso da critica e pubblico, diventa un best seller internazionale nel 2004, ripubblicato da Feltrinelli in edizione ridotta. Da allora la carriera di Moccia vive una rapida ascesa: Ho voglia di te (2006) – con cui sfiora il premio Nobel – Scusa ma ti chiamo amore e Cercasi Nikki disperatamente (2007) sono i romanzi sublimi dedicati all’indagine del sentimento umano, mentre Amore 14 (2008), opera della maturità, è il vero culmine della sua narrativa. Di non minore pregio le trasposizioni cinematografiche da lui stesso curate con un gusto raffinato che ricorda Kubrik e Truffaut. Coniugando impegno letterario e civile, Moccia rivestiva da poco l’incarico di sindaco a Rosello, piccola cittadina in cui, a detta unanime degli abitanti, realizzava l’utopico governo dei filosofi vagheggiato da Platone. Pochi come lui hanno saputo incarnare lo spirito di un’intera generazione. Le sue opere, già assunte nel canone dei classici, hanno donato ai giovani di tutto il mondo un sistema compiuto di valori da seguire e professare. La prematura scomparsa arriva in un momento forse non troppo felice: oscurato da nuovi autori come Fabio Volo, il suo successo sembrava declinare. Ma gli amici raccontano, commossi, dei molti progetti a cui l’eclettico scrittore lavorava: nuovi romanzi, un poema in endecasillabi, la candidatura alla presidenza del Consiglio… L’enorme mole di materiale incompiuto sarà presto pubblicata da Mondadori, assieme all’opera omnia, in un volume speciale della collana I Meridiani. Noi lo salutiamo, con affetto e reverenza, ricordando, come se fosse necessario, che nessun grande artista muore davvero, ma trascende le generazioni e i secoli con la forza delle proprie opere.

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Il giardiniere Io sono il passero Io sono il nido dei passeri Io cerco rifugio sotto le grondaie Io sostengo dalla terra al cielo la grondaia Sulla mia stessa barca ospito Dio e la Morte legnose presenze immobili come piante carnivore Io sono il giardiniere del giardino abbandonato Innaffio la speranza con lune ricorrenti e la coltivo anche, cicoria di timida apparenza tra le voracità del mondo. Perché, infine, io sono il passero, il povero tra i poveri che canta anche in inverno. Gianni Milano, 1983

Vulcano, il trimestrale della Statale speciale letterario, ottobre 2013 Milano Direttore: Gemma Ghiglia Vicedirettore: Alessandro Massone Caporedattore: Filippo Bernasconi Design: Alessandro Massone Redazione e collaboratori: Irene Nava, Francesco Floris, Elena Sangalli, Maria Catena Mancuso, Daniele Colombi, Elisa Costa, Paola Gioia Valisi, Ludovica de Girolamo, Giovanni Masini, Lorenzo Porta, Stefano Colombo, Lidia Zanetti-Domingues, Stefano Santangelo, Mattia Salvia, Delis Nisco, Sebastian Bendinelli, Tito Grey De Cristoforis, Danilo Aprigliano, Angelo Turco, Davide Contu, Alessandro Manca, Francesca Di Vaio, Chiara Di Pisa.

La redazione di Vulcano si riunisce ogni giovedì alle ore 12,30 nell’auletta A di via Festa del Perdono 3

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