Taking Care - Common Goods

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Padiglione Italia, responsabile TAMassociati http://www.takingcare.it


Bene comune, male comune e ruolo del progetto Giuseppe Longhi – membro del comitato d’indirizzo

Indice Premessa Beni comuni, beni pubblici: una nota sull'origine Beni comuni 1.0 – 2.0 – 3.0 L'equilibrio fra interesse privato ed empatia: sintesi da Adam Smith, “The theory of moral sentiments”

Sulla questione del male comune: sintesi da Roberta De Monticelli, Al di la del bene e del male, 2015

Il rinnovo del sapere bene comune da privilegiare: sintesi da Martha Nussbaum , “Non per profitto: perché la democrazia ha bisogno delle scienze umane”, 2010


Premessa La questione dei beni comuni oggi è sovente il risultato della sovrapposizione di due concetti con origine e significati diversi: - quello di bene comune, proprio del sistema di pensiero filosofico e giuridico anglosassone, elaborato con grande compiutezza da Adamo Smith nella sua prima opera “The theory of moral sentiments”; - quello di bene pubblico, proprio dell'ordinamento napoleonico, fatto proprio dal nostro sistema giuridico e destinato a definire i titoli di proprietà e di godimento del patrimonio pubblico. I due concetti nel tempo saranno destinati ad intrecciarsi con sempre maggiore frequenza, fino ad usare in modo esteso il termine di bene comune, ma mi sembra utile aver ben chiara la diversa natura dei due termini. Va ricordato inoltre come il rapporto fra bene privato, pubblico e comune è alla base della civiltà dell'uomo e ripercorrerne le tappe nel lungo momento agevola la comprensione delle regole fondamentali del progetto (sull'evoluzione del rapporto fra i tre termini una rapida ed efficace sintesi è fatta da Luca Ciarrocca, “Rimetti i nostri debiti”, 2015 pagg. 165-175). Non si può ignorare come oggi il tema del bene pubblico sia soverchiato dal fenomeno dilagante del male pubblico, risultato del processo sempre più dilagante e generalizzato di erosione dell'idealità, cui corrispondono un'eclissi o atrofia della sfera pubblica ed una condizione diffusa e preoccupante di apatia e di perdita di speranza. Questo argomento è trattato da Roberta De Monticelli, in: “Al di la del bene e del male”, 2015, la quale evidenzia come il male pubblico diventa male comune in quanto aumenta l'ingiustizia. E l'ingiustizia è il massimo male comune, perché riduce il più grande valore che una società può realizzare come tale attraverso le sue istituzioni, i suoi costumi, i comportamenti reciproci dei suoi membri: offrire a ciascuno pari opportunità di sviluppo personale. Ma la coscienza del male si riduce per l'apatia, che colpisce in misura crescente anche le popolazioni più giovani, per la diffusione di un sentimento di normalità che esclude il rispetto della norma, rendendo normali gli abusi, i soprusi, i condoni e i perdoni, far promesse e non mantenerle, trafficare con le mafie e governare, l'illimitata corruzione e l'infinita impunità. Ma questa 'normalità' è semplicemente la fine della democrazia, sostiene la De Monticelli, e se questa fine incombe la colpa è in larga parte di noi educatori, tanto coinvolti in un moto generale di conversione alla realtà, quanto assenti dal fronte di battaglia dell'idealità. Se le classi dirigenti del nostro Paese, anche le generazioni più giovani, in particolare quelle politiche paiono tanto mediocri, tanto incapaci di sollevare questioni di fini o di veri progetti di società, tanto disperatamente prive di una visione del futuro, così miserabilmente abituate a vivere alla giornata, a raccattare consensi in cambio di favori e a governarci col ricatto continuo dell'emergenza, una parte della colpa, e una parte non indifferente, non sarà nostra in quanto educatori? Il tema dei beni comuni identifica così un progetto centrale: quello della crescita del sapere e delle sue infrastrutture come strumento fondamentale di sviluppo delle risorse umane. Questione affrontata da Martha Nussbaum in: “Non per profitto: perché la democrazia ha bisogno delle scienze umane” (Princeton University Press, 2010) dove, prendendo atto del dilagare dell'indifferenza e dell'apatia civile ribadisce la centralità dell'esigenza di rinnovo dei modelli di educazione, perché svolgano il ruolo di religione civile, attraverso un'educazione alle emozioni morali. Si ritorna al messaggio di Adamo Smith e all'urgenza del suo rinnovo. Se le cose fossero migliori di quanto io credo, non dobbiamo tirare un sospiro di sollievo; dovremmo fare esattamente quello che avremmo fatto nel caso peggiore. Dobbiamo raddoppiare il nostro impegno per processi di formazione in grado di mantenere vitale la democrazia. (Martha Nussbaum)


Beni comuni, beni pubblici: una nota sull'origine Beni comuni Si può far risalire la nozione moderna di beni comuni alla prima opera di Adam Smith “The theory of moral sentiments”, un'opera in continuità con l' “Etica Nicomachea” di Aristotele: “al fine di raggiungere il “bene umano”, certo esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città”. Nella Teoria dei sentimenti morali, Smith sostiene che nel perseguire i suoi obiettivi privati l'uomo è naturalmente portato a condividere e capire le emozioni e i sentimenti degli altri, cioè è l'unico essere dotato di empatia (nel linguaggio dell'epoca, Smith utilizza la parola “sympathy”), di conseguenza: «per quanto egoista si possa ritenere un uomo, ci sono evidenti principi nella sua natura per cui è interessato alle sorti del prossimo suo e che gli rendono indispensabile l'altrui felicità, benché egli non ne guadagni nulla se non il piacere di contemplarla». Nasce così un’indissolubile unità tra obiettivo privato e perseguimento del bene comune attivato dall'empatia che disegna un modello di società (ma anche un modello progettuale) basato sull'intensità delle interazioni fra persone (concetto ripreso nel '900 a partire da Robert Solow e Jane Jacobs), sul potere dell'immaginazione (il filone della città creativa), sulla società come continuo processo di aggiustamento (accomodation – filone del thinkering, dell'approssimazione, delle capacità accresciute,....). La comunità umana, secondo Smith, è come un'orchestra che, continuamente, tenta di aggiustarsi (metafora riproposta continuamente ai giorni nostri, vedi scenari Shell, Institute for the future,.....). Il percorso disegnato da Smith nella seconda metà del '700 è stato violentemente negato dai sostenitori del conflitto, della rigida divisione del lavoro, della ricerca di astratte condizioni di equilibrio di mercato, dai funzionalisti nella progettazione urbana, in una traiettoria che va da da Hobbes (homohominis-lupus), a Walras. Il percorso di Smith è ripreso, nella seconda metà del '900 da Amartya Sen e Marta Nussbaum. Sen sottolinea come Smith nel suo libro precisi che la prudenza sia la virtù più utile all’individuo ma anche che “l’umanità, la giustizia, la generosità e lo spirito pubblico (public spirit) sono le qualità più utili per gli altri”. 
Così, secondo la rivisitazione di Sen del pensiero di Adam Smith: «Un’economia di mercato per essere di successo richiede diversi valori che includono la fiducia reciproca e la fiducia nell’altro». Oggi con il progresso delle scienze cognitive e delle neuro scienze ci è data l’opportunità di rivedere la teoria intuita da Adam Smith alla luce della complessità del sentire umano, partendo dall'approfondimento della teoria del fellow-feeling. Beni pubblici La teoria dei beni comuni è essenziale per comprendere la natura del progetto e la sua organizzazione, ma rimane nell'ambito delle scienze sociali, per poter affrontare le implicazioni di spazio di tali regole penso sia utile fare riferimento alla teoria dei beni pubblici, di matrice napoleonica, e della successiva loro codifica nel nostro codice civile. La matrice della classificazione dei beni pubblici è originariamente di ordine militare, e tende a salvaguardare quegli spazi e quegli oggetti la cui compromissione avrebbe pregiudicato l'integrità del territorio nazionale. A partire dalla seconda metà del '900 decade la natura militare della salvaguardia del bene pubblico, a favore della tutela di beni irriproducibili, divenuti rari a causa dell'intensità di sfruttamento del patrimonio naturale. Si esce così dal campo della difesa nazionale per entrare in quello della sostenibilità.


La struttura giuridica dei beni pubblici si articola in: - beni demaniali (indisponibili e imprescrittibili- ghiacciai, fiumi, spiagge, acque territoriali, strutture di difesa); - patrimonio indisponibile (foreste, parchi, riserve – esso può essere ceduto a condizione che se ne conservi la destinazione/funzione); - patrimonio disponibile (è il capitale fisico sociale ed è disponibile ed alienabile). Storicamente quindi i beni pubblici sono riferiti al solo capitale fisico (in un'epoca in cui si ritenevano le possibilità del suo sfruttamento illimitato), il loro ruolo oggi è: - segnare un limite al consumo dei beni essenziali da cui dipende la biocapacità del territorio (è il caso dei beni demaniali); - far fruire alla comunità i beni e servizi prodotti dal patrimonio indisponibile (è il caso dei demani comunali che riguardano boschi, orti,....., da cui la comunità ricava materie prime per l'abitare, beni di sussistenza, o ricava servizi quali il raffrescamento, l'impollinazione,....I demani comunali a servizio della popolazione sono una caratteristica del diritto anglosassone, ma presenti ancora oggi anche sul nostro territorio, ad es. in alcuni contesti alpini); - contribuire al benessere della comunità con il patrimonio disponibile (scuole, ospedali, centri civici, piazze,.......) In sintesi i beni pubblici si configurano, in quanto beni non rivali: - come un efficace strumento di difesa dal depauperamento patrimoniale prodotto dalla produzione ed uso dei beni privati, che per definizione sono rivali (perché il consumo da parte di un soggetto rende il bene indisponibile per un secondo potenziale consumatore); - come efficaci strumenti di produzione: - di cultura, per aumentare le capacità ed il valore delle risorse umane; - di benessere e salute, grazie alla fornitura di beni e servizi come la salute, i luoghi di comunità, paesaggi di qualità......; - di beni essenziali alla produzione di biodiversità. Essi quindi sono endogeni alla catena del valore, all'interno della quale si colloca l'architettura: - con la produzione di beni comuni disponibili (es: gli edifici e gli spazi pubblici); - con lo sfruttamento dei beni e servizi indisponibili prodotti dal capitale naturale (il legno da costruzione dai boschi, la terra dalle cave,......) quali materie prime per l'edificazione; - con la produzione e la difesa di 'paesaggi' composti dai beni demaniali e dal patrimonio storico. Riguardo ai beni pubblici e alla loro disponibilità una trattazione importante al fine della progettazione nell'era dell'antropocene si veda: IABR 2014, Urban by Nature, scaricabile da http:www.vodblogsite.org


Beni comuni 1.0 – 2.0 – 3.0 Beni comuni1.0 Con l'avanzare della società dei consumi l'accelerata produzione di beni privati o rivali, prodotti con tecniche 'sottrattive' di prelievo di materie prime ha una serie di conseguenze: - il depauperamento accelerato del patrimonio pubblico (demaniali e del patrimonio indisponibile); - la caduta del saggio di profitto, coniugata a crisi cicliche di sovraproduzione, compensate dalla crescita del patrimonio sociale disponibile (a causa delle politiche redistributive); - il deterioramento dei beni patrimoniali a causa della progettazione “a ciclo aperto”, la quale genera sia depauperamento del patrimonio ambientale per eccesso di prelievo, sia esternalità negative per eccesso di output; - l'arricchirsi del patrimonio indisponibile a causa della realizzazione dei servizi a rete, che all'origine erano pubblici. Strutturalmente, ai beni reali puntuali si aggiunge con sempre maggiore intensità la morfologia delle reti, che è contemporaneamente funzionale e di socialità. Questo mondo ha i suoi momenti topici con la grande epidemia di Londra, causata dallo smog, con il disastro di Seveso, con la Conferenza di Stoccolma sullo sviluppo umano, con “I limiti della crescita” del Club di Roma, con “Cambiare o perire” del gruppo di Bariloche, con Roengen e la bioeconiomia, con Reyner Banham e la sua “Theory and Design in the First Age Machine. Beni comuni 2.0 Sono caratterizzati dalla rivalutazione del patrimonio naturale, a causa della consapevolezza della sua limitatezza (vedi Kenneth Boulding, The earth as a spaceship, 1965) e dal riconoscimento fra i beni comuni del capitale umano. La rivalutazione del patrimonio naturale avviene sopratutto grazie alle Conferenze su ambiente e sviluppo e alla progettazione “a metabolismo chiuso”, conseguenza logica dei “Limiti della crescita”, degli studi promossi dal Club di Roma e dal Wuppertal Institut. Le Conferenze su ambiente e sviluppo sono destinate a mutare la struttura del progetto fisico in quanto, imponendo standard di emissioni o comunque di impatto ambientale tendenti a 0 e standard di consumo energetico ugualmente bassi, impongono un cambiamento tecnologico in quanto, di fatto vengono messe fuori legge i processi produttivi basati sul prelievo di materia a favore di metodi di produzione additivi basati su regole biologiche. Il corollario naturale dei limiti e delle innovazioni imposti dalle Conferenze è il metodo di progettazione a metabolismo 'chiuso' e un'idea di progettazione sostenibile nella quale il principio dell'intangibilità del patrimonio naturale diventa la forza guida. L'ingresso fra i beni comuni del capitale umano e delle sue declinazioni (relazionale, collaborativo....) lo si deve alla cibernetica ed al pensiero anarchico di Negroponte, Alexander, Price, i quali vedono nelle capacità accresciute dell'uomo, grazie all'architectural machine, la fine della progettazione impositiva e demagogica a favore di una pratica egualitaria. Il risultato è l'architettura come arte collaborativa e generativa, in grado non solo di soddisfare bisogni, ma anche di generare nuova ricchezza. Il pensiero creativo dell'uomo come principale fattore di produzione, da cui parte un'economia basata su beni illimitati e non rivali, a 0 impatto, in grado di superare i tradizionali beni rivali la cui crescita ha provocato seri problemi all'assetto del patrimonio dalla terra.


Il campo dei beni comuni si è enormemente dilatato, esso riguarda non sono il solo capitale fisico, ma anche le risorse immateriali (Atomi e bit, secondo Negroponte) e, sopra tutto capitale umano, la cui crescita è il fine primo del progetto (vedi Romer sulla produzione di idee come motore dello sviluppo). La machine à habiter di LC è divenuta una macchina relazionale (definizione dell'UE) grazie alle TLC, e una macchina per produrre energia, cibo, relazioni. Beni comuni 3.0 E' l'epoca secondo la definizione di Buckminster Fuller del cambiamento accelerato, il connubio di cibernetica, biotech e connettività sta producendo ondate rapide di cambiamenti – gli tsounami – per cui il progetto deve navigare tra tecnologie e servizi abilitanti per favorire i nuovi processi economici e sociali e anticipare gli effetti dirompenti delle ondate di innovazione. Questo surf si manifesta all'interno dell'evoluzione epocale dell'antropocene, per cui la natura e la sua intangibilità diventano gli attori principali del progetto. Il tema prioritario della progettazione nell'era dell'antropocene è ricostruire i flussi della natura (vedi il programma di ricostruzione dei flussi naturali e loro metabolismo di Rotterdam), proporre azioni umane in armonia con la natura e ispirate al principio della resilienza. L'alfabeto del progetto è dato dagli ecosistemi, la sua organizzazione è aperta (vedi Open Atchitecture di Ratti, vedi anche Urban by nature-Rotterdam Biennal 2014, ma sopratutto le direttive europee in materia di organizzazione 'aperta' dei progetti), perché deve attrarre conoscenze per implementare le risorse umane, la sua struttura è dominata dal cummunity building, perché il suo scopo è favorire il dialogo fra diversità attraverso la co-creazione (gli Urban Think Tank sono un esempio interessante, ma la casistica è ampia). Bibliografia: la narrazione di “Beni comuni 1.0 – 2.0 – 3.0” è strutturata in sinergia con la narrazione della città e dei modelli di organizzazione d'impresa, interpretando l'architettura come componente della costruzione civile della comunità. I riferimenti sono a: - per la città: - Charles Landry, Città.1.0 – Città 2.0 – Città 3.0 (charleslandry.com/blog/the-city-1-0/); - Boyd Cohen, The 3 Generations of Smart Cities (http://www.fastcoexist.com/3047795/the3-generations-of-smart-cities); - per l'impresa: Impresa 2.0 - Erik Brynjolfsson & Andrew Mcafee, The Second Machine Age, Impresa 3.0 - Peter Marsh The next Industrial revolution, Impresa 4.0 – Federal Ministry of Education and Research, Recommendations for implementing the strategic initiative INDUSTRIE 4.0


L'equilibrio fra interesse privato ed empatia: breve sintesi da Adam Smith, “The theory of moral sentiments” Un contributo rilevante alla nozione di bene comune è la prima opera di Adam Smith “The theory of moral sentiments”, un'opera in continuità con l' “Etica Nicomachea” di Aristotele: “il fine di raggiungere il “bene umano”, certo esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città”. Nella Teoria dei sentimenti morali, Smith espone un fondamentale assunto psicologico: l'uomo è naturalmente dotato della capacità di condividere e capire le emozioni e i sentimenti degli altri, cioè dell'empatia, (nel linguaggio dell'epoca, Smith utilizza la parola “sympathy”), di conseguenza: «per quanto egoista si possa ritenere un uomo, ci sono evidenti principi nella sua natura per cui è interessato alle sorti del prossimo suo e che gli rendono indispensabile l'altrui felicità, benché egli non ne guadagni nulla se non il piacere di contemplarla». Per simpatia/empatia, sentimento innato nell’uomo, va intesa dunque la capacità di identificarsi nell’altro, la capacità di mettersi al posto dell’altro e comprenderne i sentimenti in modo da potere ottenere l’apprezzamento e l’approvazione altrui. Da questo sentimento gli individui deducono regole morali di comportamento. La coscienza morale non è allora un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l’uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo: «La natura, quando ha creato l'uomo perché vivesse in società, lo ha dotato di un innato desiderio di soddisfare e un'avversione a ferire i suoi fratelli. Essa gli ha insegnato a provare piacere per i loro momenti propizi e dolore per quelli infausti». Ancor di più, noi desideriamo assicurarci di meritare un giudizio positivo. Ci educhiamo con impegno di modo che possiamo sperare di essere veramente degni di encomio. Nell'impianto teorico smithiano, noi realizziamo ciò facendo affidamento su un fittizio “spettatore imparziale”, il quale altri non è che la nostra stessa coscienza. 
La presenza di uno “spettatore imparziale”, assieme alla nostra innata compassione, fa sì che possano sussistere continue interazioni sia tra persone diverse, sia all’interno dello stesso individuo, tra il suo “ego” e il suo “super-ego”. Questo feedback genera le convinzioni morali, gli imperativi categorici e le altre norme, convenzioni e regole informali che incidono sulla nostra vita sociale. 
Adam Smith non utilizza la parola self-interest, ma self-love (amore di sé) fondato sulla sympathy.
 L’uomo, infatti, non agisce per essere apprezzato dagli altri, ma in primo luogo per essere apprezzato da se stesso: di conseguenza l’azione cooperativa o disinteressata, solidale, non nasce da una vanità o dal giudizio che ci aspettiamo dagli altri. Nasce piuttosto dal giudizio che noi abbiamo di noi stessi, specchiandoci negli occhi altrui per trovare, nel loro sguardo, il nostro io interiore. In Smith c'è “il potere etico dell’immaginazione”. La coscienza morale non è un principio razionale interiore ma scaturisce dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, è per così dire il tentativo di “internalizzare” una relazione di scambio - in una sorta di aggiornamento delle idee degli stoici.
Questa è la sympathy, anche denominata fellow-feeling. Il sentire comune, insomma, che porta l’uomo naturalmente a vivere in società. Si tratta di una visione radicalmente opposta a quella dell' homo homini lupus di Hobbes, un’antropologia pessimista ribaltata da Smith in una prospettiva di socialità positiva.
L’uomo “desidera naturalmente non solo di essere amato, ma di essere amabile; ossia di essere quella cosa che è il naturale e appropriato oggetto d’amore. Teme naturalmente non solo di essere odiato, ma di essere odioso; ossia di essere quella cosa che è il naturale e appropriato oggetto di odio”. La società, per Smith, nasce dunque come continuo processo di aggiustamento (accomodation), un’operazione continua di misura volta, appunto, al raggiungimento di un equilibrio. Egli usa un’immagine bellissima che viene continuamente riproposta anche ai giorni nostri: la comunità umana è come un’orchestra che, continuamente, tenta di accordarsi. Non è il concerto che conta ma, piuttosto, la ricerca dell’accordo attraverso la simpatia.

Ci si costituisce in gruppo non per un’attitudine


difensiva, quasi che la società e la divisione del lavoro fossero le uniche modalità, quasi necessarie, di regolazione dei rapporti tra economia e esseri umani, lo si fa proprio per l’insita propensione allo scambio, per la possibilità di trovare qualcuno con cui relazionarsi, prima che scambiare merce contro denaro. Ne La Ricchezza delle Nazioni Adamo Smith scrive: “Chi ha mai visto un cane scambiare un osso con un altro cane”, a sottolineare la naturale umanità dello scambio. La società non nasce perché individui egoisti e auto-interessati trovano, appunto, la divisione del lavoro come il meccanismo più produttivo per aumentare la propria ricchezza e quella di tutti. Piuttosto la comunità, l’essere insieme degli uomini attraverso la parola, non solo è preliminare al mercato e alla divisione del lavoro, ma li rende possibili.
Per dirla con le parole di Michele Bee (che ha curato un’antologia di scritti di Smith, L’economia dei sentimenti, Donzelli collana degli «Essenziali», 2011), “Il mercato di cui parla Smith è assolutamente tangibile, sorge dai sentimenti umani, da tendenze naturali, dalla vicinanza, dal self-love, e nulla ha a che fare con quella costruzione teorica e matematica cui darà luogo Walras e successivamente Pareto. Se il mercato di cui parla Smith parte dal commercio della vita quotidiana (the business of common life), ed è quindi assolutamente empirico, per Walras il mercato è un astrazione assolutamente razionale che funziona indipendentemente dalla realtà concreta”.
 Proprio l’appiattimento della dimensione normativa (ciò che dovrebbe essere in un mondo auspicabile e perfettamente razionale) su quella descrittiva (ciò che effettivamente è, con tutti i limiti di una razionalità limitata) è tra le criticità maggiori del pensiero economico ortodosso. Recuperare la complessità filosofica di Smith, attraverso i suoi riferimenti alla tradizione aristotelica ed i prodromi di quello che sarà l’approccio di Amartya Sen, è fondamentale per riportare al centro dell’analisi economica quello che Marshall chiamava ‘uomo in carne e sangue’, dimenticato dai modelli neoclassici. Infatti, due secoli più tardi Amartya Sen (premio Nobel per l’economia 1999 per i suoi studi basati sulla destrutturazione dell’idea di benessere dominante all’interno dell’approccio neoclassico), ricorda come nel pensiero di Smith lo scambio, è si un beneficio per il funzionamento del mercato, ma anche come la ricerca del solo interesse personale non sia utile per il beneficio della società.
Infatti, analizzando la Teoria dei Sentimenti Morali, Sen fa notare, come Smith nel libro precisi che la prudenza sia la virtù più utile all’individuo ma anche che “l’umanità, la giustizia, la generosità e lo spirito pubblico (public spirit) sono le qualità più utili per gli altri”.
Così, secondo la rivisitazione di Sen del pensiero di Adam Smith: «Un’economia di mercato per essere di successo richiede diversi valori che includono la fiducia reciproca e la fiducia nell’altro ». In questo filone si muove oggi la Responsabilità Sociale d’Impresa, ovvero la nascita di una responsabilità aziendale che all’interno delle strategie imprenditoriali tiene in considerazione la gestione di problematiche etiche e sociali, tutto il contrario quindi del pensiero dominante di Milton Friedman, secondo il quale i manager devono operare nell’interesse esclusivo degli azionisti e non risolvere problemi sociali con i soldi degli altri. 
Oggi con il progresso delle scienze cognitive e delle neuro scienze ci è data l’opportunità di rivedere la teoria economica alla luce della complessità del sentire umano, partendo da un recupero, essenziale, dei classici, e dall'approfondimento della teoria del fellow-feeling.Allegato: breve sintesi di Adam Smith “The theory of moral sentiments”


Sulla questione del male comune: sintesi da Roberta De Monticelli, Al di la del bene e del male, Einaudi, 2015 Il male pubblico è il risultato del processo sempre più dilagante e generalizzato di erosione dell'idealità, cui corrispondono un'eclissi o atrofia della sfera pubblica ed una condizione diffusa e preoccupante di apatia e di disperanza.

L'erosione dell’idealità La nostra coscienza di tutto ciò che è “normale” tende ad appiattirsi totalmente su ciò che è reale, effettivo e vincente, nel buio che ricopre tutte le sfere dell'esperienza e del giudizio di valore, e di conseguenza anche le fonti di tutte le norme, anzi della normatività, senza cui la vita umana cessa. Il concetto di reale si basa su quello di normalità e rifiuta quello di idealità. Normalità: “Tutto quello che è reale è normale”, dice il cinismo che ha permeato il linguaggio comune, popolare. Alla parola normalità, nel suo uso corrente non è rimasta più neppure una traccia, fra i suoi significati, del suo discendere direttamente dalla parola 'norma'. Normale è ciò che si fa, in particolare contro le norme. Normali sono gli abusi e i soprusi, i condoni e i perdoni, gli annunci e le smentite, far promesse e non mantenerle, trafficare con le mafie e governare, l'illimitata corruzione e l'infinita impunità, evadere o eludere le tasse e potersene vantare, esaltare la concorrenza e truccare le gare d'appalto, lodare la meritocrazia e promuovere soltanto i parenti o i propri allievi, proclamare la pari importanza di ciascun militante ed espellere i dissidenti. Idealità: il fenomeno dell'erosione dell'idealità è dilagante, e la sua profondità e vastità ci impedisce di prenderne coscienza. Il più delle volte si oppone l'ideale al reale: ma, in senso stretto, l'ideale è ciò che il reale dovrebbe essere. Diamo una provvisoria definizione di ideale di una cosa: l'insieme dei valori che una cosa realizza al suo meglio. La nozione di valore è legata a quella di ideale perché in una certa misura il valore trascende sempre il bene che lo incarna. Valore: Valore non è eredità da tradizione, e neppure è qualcosa di posto o imposto da volontà più o meno forti o dominanti, ma è dato dall’esperienza viva che chiede parola nuova, pensiero chiaro - o non è niente. E non c'è esperienza che non sia in qualche modo esperienza di valore, ma anche che non sia esperienza nuova.

Apatia civile e atrofia della sfera pubblica Questa convinzione motiva una seconda tesi sulla natura del male pubblico che oggi ci aff1igge: alIa base dell'erosione dell'idealità nella sfera dell'etica pubblica c'è una eclissi generalizzata dei valori. Anche a costo di restringere un po' la visuale alle cose italiane, vorrei esemplificare questa tesi con un valore: la bellezza. Anzi, con un disvalore: la distruzione e dissipazione di bellezza che è in atto in questo Paese. Prendo a tema la bellezza, in primo luogo perché la visibilità del bello e del brutto mostra bene cosa possiamo intendere per valori e disvalori. In secondo luogo perché la bellezza è nella concezione classica la "gloria" della giustizia, la sua visibilità, il suo splendore. In terzo luogo perché nella sua natura di valore intrinseco e non strumentale la bellezza serve anche per sottolineare in che cosa, specificamente, consiste l'erosione dell'idealità. L'Italia non è solo il Paese dei dissesti ambientali che fanno vittime ogni anno, dei territori avvelenati


dalle discariche abusive, delle residue industrie private o pubbliche che nessun governo costringe ad applicare le più elementari normative a tutela della salute pubblica. E' anche il Paese che ha sconciato il volto di alcune delle più belle città del mondo, come tutti possono vedere anche solo da un film come “Le mani sulla città”, che risale agli anni sessanta del secolo scorso. E' oltraggiata dalle cementificazioni (otto metri al secondo di consumo del suolo), dalle grandi opere inutili che sventrano le montagne o sfigurano le lagune, dalle autostrade che sfasciano quel che resta di fragili paesaggi celebrati nel mondo (celebrati ormai sulla base di photo shopping che cancellano le brutture), dalla sistematica distruzione dei litorali, delle dune, delle pinete che vi si affacciano, dalla demenziale proliferazione dei cosiddetti porti turistici, puri pretesti all' edificazione sfrenata, finanziati a volte addirittura coi soldi pubblici stanziati per la difesa dei litorali dall'erosione marina. E' il Paese che con l'aiuto delle amministrazioni locali ha ridotto a discariche di veleni alcune delle sue spiagge più belle. Di tutto questo alla maggioranza dei cittadini importa a quanto pare ben poco. Non è solo che ci sono altre priorità: e proprio che i più non vedono e non sentono che sconcio e bruttura sono dissipazione di senso e bellezza, distruzione del volto stesso di questo Paese e quindi in certo modo della sua e nostra identità, e «diritto culturale» costituzionalmente tutelato. Tutto questa appare, evidentemente irrilevante a molti. Questa diffusa assuefazione al brutto esemplifica bene, mi pare, quella che ho chiamato eclissi dei valori, la sua atrofia per quanto riguarda la sfera pubblica. Male pubblico male comune Possiamo dire “male comune” invece di “male pubblico”. Possiamo, se riusciamo a convincerci che questo male che riguarda la sfera dell'etica pubblica è effettivamente una riduzione del valore della vita di ognuno, precisamente in base alla circostanza che alcuni ne sono beneficiari in violazione dei diritti di altri. Vale a dire, il male pubblico è male comune in quanto aumenta l'ingiustizia. E l'ingiustizia è il massimo male comune, perché riduce il massimo valore che una società può realizzare come tale attraverso le sue istituzioni, i suoi costumi, i comportamenti reciproci dei suoi membri: offrire a ciascuno di essi pari opportunità di sviluppo personale.

L'apatia C'e un abisso di differenza tra la sfera pubblica e quella privata. Molto raramente, almeno in età giovaniIe, ci colpisce nella sfera privata quella forma di quotidiana indifferenza al male della cosa pubblica che sembra diffusa oggi tra le generazioni più giovani. Rassegnati disincanti e stati di apatica "disperanza": così vorrei chiamare la depressiva assenza di ogni speranza e investimento personale e ideale sul futuro, anche il futuro comune, che colpisce oggi non più soltanto la vecchiaia ma molta gioventù dei Paesi occidentali. Quando non fa di peggio, andando a nutrire i nuovi fanatismi e fondamentalismi che incendiano il mondo ai nostri confini. Certo, quanta più le vicende politiche di un Paese smuovono e rimettono in questione le «faglie profonde» del patto di cittadinanza, il suo nucleo etico, tanto più forte può essere la loro influenza sulle vite private. Ma proprio questo è iI fenomeno: in una democrazia indifferenza e apatia si addensano intorno al nucleo etico della convivenza civile, il che non vuol dire, necessariamente e alIa lettera la sua Costituzione, ma certamente i principi ideali e quindi i valori che la ispirano. Noi conosciamo bene questo fenomeno dell'indifferenza verso il valore della cosa pubblica, che anzi non ci pare affatto nuovo ma ha in Italia una tradizione: da Guicciardini a Leopardi a Beccaria a Manzoni a Massimo d' Azeglio a Piero Calamandrei.


Rex facit legem versus lex facit regem A livello giuridico caduta della distinzione fra ideologie politiche che che rispondono a determinate volontà dotate di potere (rex facit legem) e principi ideali di giustizia che sono posti a fondamento delle regole stesse dell'agone politico (lex facit regem). In entrambi i casi sentiamo spesso accampare come ovvietà, a giustificazione di queste operazioni, argomenti tipicamente scettici: ad esempio, che descrivere i fatti con obiettività è impossibile per un giornalista, perché non ci sono verità e falsità ma solo interpretazioni; oppure che le costituzioni non sono che l' espressione storica di determinati rapporti di potere esistenti, e dunque vanno sempre riadeguate al cambiamento di questi rapporti di potere. In conclusione: l' opacità della vita pubblica può diventare opacità della coscienza privata, e la regressione del faccia a faccia nell'anonimato consortile può portare con se la progressiva sparizione del faccia a faccia con se stessi: l' omertà dell' autocoscienza. E questo processo di auto disfacimento della libertà interiore sembra ben più radicale e irreversibile della prigionia ideologica o politica: poiché decostruisce i vincoli di senso della libertà, cioè l'etica e la logica stesse. In linea di tendenza, etica pubblica significa anche: occorre disabituarsi tanto alla delega quanto alla recriminazione contro male identificati nemici impersonali, i «poteri forti», il Finanzkapital, «loro». Occorre identificare le consorterie usurpatrici di poteri non legittimi e combatterle eticamente, legalmente, politicamente nel faccia a faccia, che esige il rispetto della prospettiva in prima persona e il riconoscimento del carattere personale delle responsabilità. Delle due grandi componenti di una democrazia, quella istituzionale e procedurale e quella del "discorso da cittadino a cittadino", cioè del dibattito pubblico in quanta vero spazio delle ragioni, nella storia recente è esponenziale la crescita dell'importanza della seconda e lo spostamento dei suoi centri di gravità dai partiti ai cittadini.

Perché la coscienza del male si riduce? Una democrazia non è soltanto una forma di governo politico, è una civiltà fondata sulla ragione pratica. Il disincanto della ragione pratica è semplicemente la fine della democrazia. E se questa fine incombe la colpa è in larga parte di noi educatori, tanto coinvolti in un moto generale di conversione alla realtà, quanto assenti dal fronte di battaglia dell'idealità. Colpa di noi "educatori", non perché non abbiamo insegnato gli ideali; al contrario, perché abbiamo fatto come se l'idealità fosse una questione di «porre» valori: cioè un atto della volontà, non un esercizio esperto di sensibilità, intelligenza e ragione, un esercizio di ricerca del vero. Oppure, ancor peggio, come fosse questione di ereditare passivamente valori dalla tradizione ("tradizione", "passato", "religione": sono tre parole frequentemente associate all'uso comune del termine "valori"). Ma neppure questa è «sensate esperienze e certe dimostrazioni»: questo è indottrinamento. E noi educatori, quale che fosse la nostra disciplina, abbiamo seguito, in generale, quelle filosofie. Se le classi dirigenti del nostro Paese, anche le generazioni più giovani, in particolare quelle politiche paiono tanto mediocri, tanto incapaci di sollevare questioni di fini o di veri progetti di società, tanto disperatamente prive di una visione del futuro, così miserabilmente abituate a vivere alla giornata, a raccattare consensi in cambio di favori e a governarci col ricatto continuo dell'emergenza, una parte della colpa, e una parte non indifferente, non sarà la nostra di educatori? Questione affrontata da Martha Nussbaum in “Non per profitto: perché la democrazia ha bisogno delle scienze umane” (Princeton University Press, 2010, 158 pp.) dove, prendendo atto del dilagare dell'indifferenza e dell'apatia civile ribadisce la centralità dell'esigenza di rinnovo dei modelli di educazione, perché svolgano il ruolo di religione civile, attraverso un'educazione alle emozioni morali.


Il rinnovo del sapere bene comune da privilegiare: sintesi da Martha Nussbaum , “Non per profitto: perché la democrazia ha bisogno delle scienze umane”, 2010, Princeton University Press

Martha Nussbaum in “Non per profitto: perché la democrazia ha bisogno delle scienze umane” propone un’accorata chiamata alle armi destinata a chiunque abbia a cuore l'educazione, in particolare quelli che sono interessati a promuovere le conoscenze, le competenze e gli strumenti indispensabili per la cittadinanza democratica. All'inizio sostiene: "Siamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni enormi e carica di significati globali. . . una crisi in gran parte inosservata, come un cancro, che rischia, a lungo andare di essere molto dannosa alla natura della democrazia: la crisi mondiale dell'educazione ". Dopo aver richiamato l'attenzione sulla gravità di questa crisi silenziosa, identifica l'origine del problema collegandosi alle tendenze sociali, economiche e intellettuali che stanno generando un impatto maligno sulle politiche e pratiche educative a livello globale. Essa afferma: “A causa dell'attenzione esclusiva per il profitto, le nazioni ed i loro sistemi di istruzione, stanno colpevolmente scartando le competenze necessarie per mantenere in vita le democrazie. Se questa tendenza continua, le nazioni di tutto il mondo produrranno generazioni di robot ad alta produttività, piuttosto che cittadini in grado di pensare autonomamente, criticare le tradizioni e comprendere il significato delle sofferenze e delle soddisfazioni di un'altra persona. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è in bilico”. Secondo la Nussbaum, il mondo in cui viviamo è guidato da forze insaziabili di guadagno economico e di meccanicistico desiderio di cittadini produttivi i cui contributi alla società sono prevedibili, efficienti e a pensiero unico, come lo sono i calcoli matematici che stimano i trend di crescita di una nazione. Questa visione guidata dal profitto ha però un costo che non viene rilevato nei fogli di calcolo contabili e crea un deficit intollerabile: la perdita di cittadini capaci di pensiero indipendente, critico, compassionevole e innovativo. Nussbaum descrive questo come un attacco al cuore pulsante, alla vera anima della nostra società. L'obiettivo di questo lavoro è quello di spiegare come e perché dovremmo concentrare la nostra attenzione sulla creazione di sistemi di istruzione primaria, secondaria e terziaria, che supportano, praticano e promuovono la produzione di individui che possiedono "le facoltà di pensiero e di immaginazione che ci rendono umani e rendono le nostre relazioni ricche di rapporti umani, piuttosto che di mero uso e manipolazione ". In relazione a questo la Nussbaum ritiene indispensabile un'educazione alla cittadinanza democratica che poggi su alcuni principi e valori riguardanti ciò che significa essere umani. Valori e principi che possono essere appresi attraverso le discipline umanistiche e le arti, entrambe in tale pericolo da richiedere il nostro urgente sostegno e riabilitazione. Le argomentazione della Nussbaum si dipanano per strati, capitolo per capitolo. Nel capitolo 2, "Educazione per il profitto, educazione per la democrazia" la Nussbaum esplora come i fondamentali principi sociali di paesi come gli Stati Uniti e l'India sembrano in contrasto e addirittura contraddittori con gli obiettivi di crescita economica che guidano molte delle loro politiche e pratiche correnti. Per cui, essa identifica le tensioni che esistono all'interno di queste nazioni, basilari e utili per i lettori per criticare il modello esclusivamente orientato al profitto e a ripensare le sue giustificazioni sociali e politiche. Il capitolo 3, "Educare i cittadini: le emozioni morali (e anti-morali)" implica un'analisi della condizione umana da un punto di vista psicologico che spiega perché la situazione attuale nasce da una tensione interna complessa quanto la situazione socio-politica descritta nel precedente capitolo. Nussbaum fa questo concentrandosi su come lottiamo con sentimenti di ansia e disgusto, spiegando anche come quelle patologie siano l'esito di forme oppressive della gerarchia sociale e di aggregazioni distruttive, ed entrambe possono provocare una sorta di intorpidimento verso la condizione degli altri,


che tarpa lo spirito cooperativo e fraterno necessari per il prosperare di una comunità veramente democratica. Essa propone poi Rousseau e Ghandi come fonti di speranza per interrompere questa dinamica grazie all'enfasi che danno all'importanza di preparare i cittadini ad essere in grado di "Preoccupazione compassionevole", una disposizione composta da un profondo senso di simpatia, da un'ampia e creativa visione delle prospettive del mondo e dei suoi abitanti, e da un approccio empatico di comprensione per la vita degli altri. I capitoli 4-5- 6 ("Pedagogia socratica: l'importanza della discussione"; "Cittadini del mondo"; e "Coltivare l'immaginazione: Lettere e Arti ") sono incentrati sulla costruzione di un curriculum frutto di una pedagogia che recuperi il valore degli studi storici e teorici e che sia umanistica e democratica nella sua natura e pratica. Citando il pensiero di Socrate, Rousseau, Pestalozzi, Froebel, Alcott, Mann, Dewey, Tagore, e Winnicott a sostegno dei suoi argomenti, la Nussbaum da indicazioni per un insegnamento e un apprendimento che siano un antidoto ai problemi che affliggono il nostro sistema educativo anemico e guidato dai test. Il suo argomento è ben sintetizzato quando spiega: “Si noti che parte del problema è il contenuto e, in parte, la pedagogia. I contenuti curriculari si sono spostati da materie che privilegiano immaginazione e capacità critica a materie che sono rilevanti per il superamento dei test. Insieme con il cambiamento dei contenuti è avvenuto uno spostamento ancora più pernicioso nella pedagogia: da insegnamenti che mirano a promuovere curiosità e responsabilità individuale verso percorsi orientati esclusivamente ad ottenere buoni risultati negli esami. Chiedendo ai lettori di riconsiderare cosa e come si insegna, Nussbaum esorta per lo sviluppo degli studenti (le cui menti sono creative quanto flessibili, il cui cuore è capace di vera cura e preoccupazione per gli altri, e la cui vita è caratterizzata da un agire personale riflessivo, critico, e compassionevole, che Nussbaum considera indispensabile per ogni società democratica), di rimanere fedeli ai loro intrinseci obiettivi e principi.


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