Ucuntu n.95

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il Patto

Mafiaepolitica Ma chi governa davvero questo Paese? Fra Andreotti e Berlusconi, non si può dire che i nostri presidenti del Consiglio non abbiano fatto accordi con mafiosi. Insieme, fanno quasi vent'anni di governo...

Jack Daniel - Parla la Politica, quella vera...

Roccuzzo Morrione Feola Galizia ScatĂ Acquaviva Scalia || 21 novembre 2010 || anno III n.95 || www.ucuntu.org ||


Antimafia

“Siamo tutti Telejato” Pino Maniaci di Telejato

Il 28 novembre in piazza a Partinico per sostenere la piccola tv che fa grande informazione contro i boss

Dalla Bbc, al quotidiano tedesco Bild, sino alla Cnn. Tanti i giornalisti inviati in questi anni a Partinico, provincia di Palermo, per raccontare quello che accade dietro gli schermi di una piccola tv locale: Telajato. Il perché è presto detto. Nata dieci anni fa, la tv a conduzione familiare - animata da Pino Maniaci, la moglie Patrizia e la figlia, Letizia - trasmette da un appartamento, in cui - come ci racconta il giornalista: “la stanza più grande, figuratevi, è il bagno!”. Si tratta di un team giornalistico armato di ironia e notizie scomode che deride mafiosi, denuncia collusi e corrotti, informa i cittadini, con poche risorse ma tanta tenacia. Telejato, grazie ad internet, condivide con il resto del Paese la sua scommessa per una informazione libera, facendo sentire il fiato sul collo ai mafiosi. Ai danni del direttore Maniaci, avvertimenti, intimidazioni e un pestaggio, avvenuto nel gennaio del 2008 da parte del figlio del boss Vito Vitale. Ma l’ultima minaccia, dell’ottobre scorso, pesa molto più delle altre. In una lettera, per la prima volta, si fa riferimento anche alla sua famiglia. «Dalle rivelazioni del pentito di mafia, Francesco Briguglio, si è saputo che i capi dei clan avevano dato il loro assenso per farmi fuori - racconta Pino». Maniaci da tempo denuncia quello che sta accadendo a Partinico, di recente oggetto della riunione del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza. «Qui – dichiara – si sta giocando la lotta più importante per gli equilibri al vertice di Cosa nostra. E’ un momento delicatissimo. Si è in-

nescato lo scontro fra diverse cosche». Ma non è solo la faida intestina a portare all’escalation di violenza. «Ci siamo occupati di un bene confiscato - continua Maniaci – una cava che dopo la confisca è stata affidata a una associazione. Fonti attendibili – prosegue – hanno riferito che agli imprenditori viene imposto di rifornirsi solo da quella cava, in sostanza, il bene è ancora nelle mani della mafia». Pizzo, attentati, auto incendiate – ricorda Pino - «se ci sono ritorsioni oggi a Partinico è perché qualcuno, comincia dire “no” alle mafie, al pizzo». Dieci anni di lavoro, di sensibilizzazione culturale antimafia, su Partinico e dintorni sono tanti e hanno portato a cambiamenti concreti, sui cittadini, sui mafiosi e i loro familiari. «Noi li prendiamo in giro – conclude Maniaci – il nostro motto è: loro si sentono uomini d’onore? Per noi disonorarli è una questione d’onore». Tanti i giovani volontari che lavorano con Pino, conducono Tg, vanno in giro con le telecamere a raccontare quello che accade. Il 28 novembre si svolgerà “Siamo tutti Telejato” una manifestazione nazionale in sostegno alla tv, cui ha già aderito una vasta rete di associazioni, enti locali, scuole e singoli cittadini. Pino, Letizia e Patrizia, non sono soli, ma a Partinico oggi, continuano a rimanere pericolosamente esposti. Norma Ferrara www.liberainformazione.org

APPELLO

IL 28 NOVEMBRE TUTTI IN PIAZZA PER TELEJATO! Coppola Editore, Corleone Dialogos (ArciLibera) Gruppo Facebook “Quelli che fanno come Telejato” e l’associazione Rita Atria lanciano un appello di solidarietà per la Redazione di Telejato. Ennesima lettera minatoria nei confronti dell’emittente Telejato che trasmette in una zona calda ed è prezioso strumento di informazione per i territori del partinicese e del corleonese. Pino Maniaci e famiglia non vanno lasciati da soli, per questo vi chiediamo di aderire all’iniziativa scendendo il 28 Novembre alle ore 10:00 in Piazza a Partinico, per dire ai mafiosi locali che Pino Maniaci e la sua famiglia non sono soli. Oltre alla solidarietà fisica e umana, sarà gradita la solidarietà finanziaria. Per aderire: redazione@corleonedialogos.it

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Mafia e Stato

Il Patto Brescia: espulsi i capi operai, liberi e trionfanti gli stragisti. Viviamo in un Paese così. La piccola politica non basta “Andreotti Giulio, anni dieci. Berlusconi Silvio, anni otto. Cuffaro Salvatore detto Totò, anni sette. Lombardo Raffaele, anni due e mesi sei...”. No, non è quello che stavate pensando. E' semplicemente il numero degli anni in cui la Repubblica Italiana e la Regione Siciliana sono state governate da politici ufficialmente e giudiziariamente in contatto con mafiosi. Per un terzo della nostra storia civile, quindi, siamo stati comandati da gente che s'intendeva coi mafiosi. Questo è il Patto. Il Patto non esclude patti minori - anzi, li esalta - ma non coincide con essi. Questi ultimi possono essere considerati delle patologie del sistema, ma il Patto è una fisiologia. Uccidere Falcone, ad esempio, può essere stata una scelta eccezionale, una patologia. Ma se ciò è stato fatto per impedirgli di portare Badalamenti (tramite Buscetta) a rivelare gli incontri Cosa Nostra-Governo rivelazioni che ora sono agli atti della Storia ma vent'anni fa avrebbero rivoluzionato il Paese – uccidere Falcone allora non sarebbe più una decisione occasionale, un caso estremo, ma una componente fisiologica, necessitata, del Patto. Lo stesso per Borsellino, ucciso dalla mafia ma non per essa. Il Patto, agli albori della Repubblica, consiste in questo: l'Italia è un paese civile, con libere elezioni, ma fino a un certo punto. Mezza Italia resta pre-repubblicana, feudo senza diritti del grande latifondo. L'altra metà è repubblica, ma con un confine pre-

ciso: in nessun caso può andare al governo il partito dei lavoratori dipendenti, che per ragioni storiche si chiamava comunista. Entro questi binari, la vita della repubblica andava avanti tranquilla. Un nord corporativo e democratico, e tutto sommato europeo, in cui lo Stato finanziava gli imprenditori e questi garantivano la piena occupazione. Un sud largamente autonomo ma non ribelle, in cui i grandi proprietari terrieri si evolvevano in “imprenditori” e i loro armati in moderni mafiosi. Due insiemi collegati dalla Dc e dall'emigrazione. Nei momenti di crisi (l'occupazione delle terre, l'autunno caldo) s'interveniva con mezzi forti: Portella delle Ginestre, Piazza Fontana. Ma erano casi estremi. A poco a poco la crisi rientrava (i contadini emigravano, gli operai accettavano la ristrutturazione industriale) e tutto tornava nella normalità. Che era una normalità italiana, legata al Patto.

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Il nostro - sto parlando del Sud: ma ormai arriva a Milano - è un Paese antichissimo, molto più antico della politica. Da noi la destra non è quella parte del parlamento che siede alla destra dell'onorevole speaker, è proprio il padrone feroce, nato sulla zolla; e la sinistra non è un club di gentlemen riformisti, è generazioni infinite di contadini. La paura, la fame, muovevano reciprocamente i due mondi. Certo: poi venne De Gasperi, venne Togliatti; ci siamo inciviliti parecchio, nei nostri anni belli, prima di diventare quel che siamo. Ma l'imprinting è quello: una lotta

di classe a volte umanamente “politica”, altre volte feroce. In altri Paesi simili (la Grecia del dopo-guerra, la Spagna di Franco) questa lotta di classe fu risolta con stragi di centinaia di migliaia di cittadini. In Italia col Patto.

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A Brescia, in questi giorni, sono accadute - per singolare coincidenza, quasi insieme due cose che ci ricordano cos'è stato in pratica, e cosa ancora è ogni volta che gli si lascia via libera - la gestione del potere in questo paese. Sono stati esiliati d'autorità, con un ottocentesco foglio di polizia, i capi di una pacifica manifestazione di operai; ché tali erano i senegalesi della gru, prima ancora che forestieri o immigrati: operai. Ed è stata definitivamente dichiarata impunita la strage del maggio '74 di Brescia, di trentasei anni fa. Otto italiani ammazzati, feriti più di cento: la giustizia, impotente, alza le braccia. Perseguitati gli operai, liberi e trionfanti gli stragisti: questo è lo stato del mio Paese nell'anno di grazia 2010. Non sarà la politica piccola a sollevarlo. Maroni, spingendo Tremonti, tradisce Berlusconi in proprio o per conto di Bossi? Chi ha spinto la Carfagna a quest'ultima storia di Bocchino? Lombardo è più o meno mafioso di Cuffaro? E che ce ne frega. Pensiamo alla politica seria, almeno noi. Cacciare Berlusconi, deridere i suoi cortigiani, sberlursconizzare la sinistra: vi pare un programma da niente? Riccardo Orioles

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In questo Stato

Quei silenzi pericolosi Ci sono diversi modi per impedire di cercare verità scomode per il potere. Le mafie e le zone grigie in cui si sviluppano, li praticano tutti. Se in Russia decine di giornalisti sono stati uccisi e altri vengono selvaggiamente aggrediti, a esaltazione di quel “dono di Dio” con cui Silvio Berlusconi definì l’illuminato amico Putin, se la censura vige nei regimi dittatoriali, dal Medio Oriente all’Asia, dall’Africa all’America Latina, l’Italia presenta opzioni certo meno tragiche, ma altrettanto valide per il fine che si prefiggono: il silenzio sulle illegalità, gli affari sporchi, la corruzione diffusa. La memoria è venuta meno e vengono distrattamente ricordati gli undici giornalisti che negli anni hanno perso la vita per mano mafiosa e mandanti ignoti. La buona informazione affoga ogni giorno nella cronaca nera soggiogata dalle 3 “esse” di un pessimo bagaglio informativo privo di radici etiche e culturali: “sesso, sangue, soldi”. Il panorama dei telegiornali, per il Censis unica fonte d’informazione di oltre il 70 % dei cittadini, è dominato dall’irrisolto conflitto d’interessi berlusconiano, mentre sulla carta stampata – insieme con decisioni governative che colpiscono i finanziamenti alle iniziative più indipendenti e senza sponsor – incombono falsi editori e veri appartenenti a comitati d’affari. Sfruttamento di giovani precari, quasi sempre costretti a lasciare la passione del giornalismo o a emigrare, isolamento di cronisti di vaglia, mancanza di inchieste, notizie prive di storia e contesto: è la situazione di tanti giornali nel Meridione dominato dagli interessi illegali e mafiosi. E per certi aspetti non è dissimile, in contesti diversi, la situazione al Centro-Nord.

Pena di morte all'italiana

E quando cronisti coraggiosi riescono a superare la cortina delle contiguità editoriali, magari animando blog d’inchiesta che fanno opinione, scattano le minacce mafiose, gli attentati intimidatori, le richieste terroristiche di risarcimenti milionari o a volte i licenziamenti. I dati dell’osservatorio Ossigeno, che presentiamo, sono impressionanti, ma il governo, le autorità, come l’ informazione stampata e televisiva, li ignorano. E’ un drammatico errore, che colpisce il cuore stesso della Costituzione , ricordando quanto scrisse quasi un secolo fa Joseph Pulitzer: “Al di là della conoscenza, al di là delle notizie, al di là dell’intelligenza, il cuore e l’anima di un giornale albergano nel suo senso morale, nel suo coraggio, nella sua integrità, nella sua umanità, nella sua solidarietà verso gli oppressi, nella sua indipendenza, nella sua dedizione al bene comune”. Roberto Morrione

La pena di morte in Italia si avvale di due tecniche, entrambe efficaci perché messe a punto nel corso di lunghi anni. La prima è quella di negare il diritto alla salute, come dimostra da ultimo il caso di Graziano Scialpi, un uomo detenuto nel carcere di Padova morto di tumore. Per oltre un anno gli era stata negata una visita specialistica nonostante non riuscisse più a camminare: quando finalmente è stato portato in ospedale, il tumore si era ormai esteso dai polmoni a tutto il corpo e non c’è stato più niente da fare. La seconda è quella di creare, grazie al sovraffollamento delle carceri, delle condizioni di vita talmente disumane per cui molti detenuti scelgono di suicidarsi. Si tratta a ben vedere di due tecniche molto raffinate, perché consentono di eliminare il passaggio dal braccio della morte, un passaggio costoso che per di più genera polemiche e scontri nella società civile. La via italiana consente invece di ottenere risultati migliori (se sommiamo i suicidi ai decessi per malattia arriviamo ad oltre 160 morti l’anno, mentre nel 2008 in tutti gli Stati Uniti sono state giustiziate 36 persone) nella generale indifferenza del paese e delle forze politiche. È per questo che bisognerebbe lanciare anche in Italia una campagna per abolire davvero la pena di morte, facendo del carcere un luogo rispettoso degli uomini che lo abitano, in base al principio che la pena consiste nell’essere costretti a vivere chiusi tra quattro mura e non nel dover subire la violenza arbitraria di un sistema al collasso. Francesco Feola

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Antimafia

“I fatti devono andar d'accordo con le parole” Tre redattori dei Siciliani

Perché fra i ragazzi suscita ancora tanto interesse la storia dei Siciliani e di Giuseppe Fava?

Libri, programmi tivvù, dibattiti, ristampe di romanzi e di opere teatrali, domande ascoltate da ragazzi sparsi in assemblee da Pachino a Modena. Giuseppe Fava incuriosisce, suscita interesse, “torna di attualità”. Perché “torna di moda”? Io non riesco a parlarne così, visto che è una delle persone più importanti della mia vita di adulto. A lui devo il fatto di saper pigiare su questi tasti da computer qualcosa che rassomiglia a un articolo di cronaca. Ai suoi tempi, in realtà, scrivevamo ancora su taccuino e lettera 22. E dopo il suo assassinio è passato un sacco di tempo e tanti silenzi.Ora non c’è più silenzio. Evviva! Ma perché tanto interesse postumo e in così grande ritardo? Il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, pochi giorni fa liberata dopo 15 anni da un regime illiberale come quello della ex Birmania, ha detto: “La base della democrazia è la libertà di parola”.

Ecco il punto è proprio questo e riguarda anche la “riscoperta” dell’uomo Fava e l’Italia di oggi, non la Catania, la Sicilia o l’Italia – appunto – degli anni Ottanta quando Fava fu ucciso da cinque colpi di pistola nel centro di una grande città del sud di uno degli otto paesi più industrializzati del mondo. Fava suscita interesse oggi perché era un uomo e un giornalista libero e perché

nell’Italia di 30 anni fa fu ucciso solo perché faceva il suo mestiere: metteva insieme notizie e le pubblicava, ragionava sui fatti. Perché, come scrisse Seneca in una delle sue lettere a Lucilio, “i fatti devono andar d’accordo con le parole”. Bastava questo per essere ucciso, in quell’Italia. E infatti la mafia, per compiacere imprese e politici mafiosi, lo uccise. Cosa c’entra ora Fava con i nostri giorni? Il solo esercizio della libertà di espressione

a mezzo stampa – qui e ora – è eversivo. Fa emozionare, suscita passioni civili perché in giro ci sono poche idee, parole e modelli di libertà. Guardatevi intorno e parliamone. E difatti se ne riparla, fortunatamente. E Fava suscita interesse, crea libri (altri ne usciranno) e smuove sentimenti profondi che sembravano addormentati. Smuove sentimenti soprattutto tra i ragazzi, da Pachino a Modena, in cerca di parole di verità e di “modelli”. Perché in fondo, aveva ragione il vecchio Hernest Hemingway che nel 1950 disse: “Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare”. Già, è vero: “a che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?”, scrisse Fava nella sua prima commedia, “la violenza”. E quella frase – che è anche un “programma civile” per i prossimi decenni italiani - continua a parlare al mondo che ci circonda. Guardatevi attorno e parliamone. Antonio Roccuzzo

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Antimafia

Riflessioni sull'antimafia siciliana e Giuseppe Fava E' cominciato il percorso che ci porterà alla nostra giornata annuale di memoria e riepilogo, il cinque gennaio. Non è una giornata di cerimonie ma di lavoro. Ne parla una delle ragazze che l'organizzano, una di noi Capita che un giorno, una mattina, ancora assonnacchiata nel letto e colma della stanchezza accumulata nei passati giorni, arrivi una telefonata nel cuore del dormiveglia da cui non vuoi, ma sai di dover uscire. Capita così che sonno, stanchezza, ti facciano rispondere quasi con un sissignore militare all’interlocutore sintetico e deciso che dall’altro lato del telefono, ti dica di tracciare un ritratto dell’antimafia siciliano all’indomani del Premio Fava Giovani 2010. Capita che riattacchi il telefono e via via che i neuroni si svegliano, riconnettendosi l’uno con l’altro, ti diano la percezione di quanto accaduto. Capita che realizzi cosi che il Premio Fava Giovani 2010 è passato, veloce come lo scatto di un’istantanea; rapido sì ma duraturo nella costruzione interna che ha edificato dentro. Realizzi che ci hai lavorato su per mesi, dandogli, come si fa con la propria creatura, tutta l’anima e la protezione da ogni cosa. Restano la stanchezza, il sonno da recuperare, i conti da fare, e, nell’animo, sensazioni miste:la gente che hai incontrato, quella che ti ha lasciato un segno dentro, uno spunto, una riflessione.Quella che hai conosciuto bene, quella che hai solo salutato di sfuggita e resta quel qualcosa da scrivere per l’interlocutore telefonico delle 8 del mattino.

Lo si potrebbe chiamare un “articolo”, un “pezzo” di 3000 battute per noi che di penna facciamo vivere l’anima e che con la penna vorremmo tracciare un mondo di verità, ma 3000 battute son ben poche per chi quel premio lo ha pensato e plasmato, per chi in quel premio ha visto ben oltre le parole, oltre i dibattiti, oltre il teatro. Insomma, capita che scrivi anche più di quelle 3000 brevissime battute che ti hanno richiesto e te ne freghi pure, ma, capita pure di rileggerti e capire che non riesci a farlo secondo l’insegnamento di Pippo Fava, di quell’uomo che 5 colpi di pistola hanno atterrato in nome di Cosa Nostra, dei boss catanesi, dei cavalieri del lavoro. Pensi solo che nel frattempo sono trascorsi tanti anni e superficialmente dici a te stessa che in fondo oggi siamo più tranquilli di allora: non ci spariamo addosso con le pistole né imbottiamo di tritolo le nostre strade, o, almeno, non lo facciamo più come 30anni fa. Non sentiamo più parlare di morti ammazzati, di giornalisti morti ammazzati, di imprenditori assassinati, poliziotti sparati, giudici saltati in aria. Insomma, sembra un’isola più felice la Sicilia di oggi, la Sicilia senza Fava, che osanna alla debolezza della mafia, mentre soffuse, sotterranee, si consumano le stesse storie e gli stessi intrecci di quel romanzo giallo, quasi fantas-

cientifico che negli articoli de “I Siciliani” si poteva leggere a denuncia di una società anni ‘80 un po’ diversa ma sempre incredibilmente gattopardiana: ”cambiare tutto perché non cambi nulla”. Una società, quella siciliana, che attende risposte. Che si affida ai Ciancimino di turno, alle testimonianze di pentiti vari ed eventuali mentre sulle coste continuano gli sbarchi clandestini e per i campi delle provincie “babbe” di Ragusa e Siracusa, si consuma un’altra Rosarno. E intanto i traffici, gli illeciti, i giochi di potere continuano, ora come allora, nel silenzio dei media che tacciono e dei giornalisti che tacciono. E pensi che in fondo, tra laboratori del’informazione, giornalisti e politici, e dibattiti e teatro, a questo premio Fava, non ci si è raccontata memoria. Ci si è raccontata, forse, una verità senza compromessi;”a schiena dritta” come lo era Fava, come lo sono adesso tanti altri artigiani della parola, che la parola non vogliono modellare né dosare come farmacisti. E così, in queste 3000 battute non si possono incastonare quei gioielli che sono queste vite donate ad un’ideale di verità. C’è chi ha la scorta dietro o, temerario, l’ha rifiutata. C’è chi lavora la sera come cameriere e il giorno come giornalista e non sta a chiedersi, dopo vent'anni così, perché non ha scelto un’altra attività.

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Antimafia

Illustrazione di Paolo Infante C’è poi chi, andando alla Rai o a Repubblica o al Fatto, non ha dimenticato la dote del cronista vero, le lotte de “I Siciliani” e i compagni di avventura di quel periodo in cui Fava c’era e lottava. A leggere così i profani penserebbero a giornalisti davvero sfigati e di poca dote.E invece no: sono coloro che il giornalismo vivono con etica, con passione, e come autentico servizio, con quella verità che porta a sacrificare delle vite da impiegati al giornale in nome di ideali più alti. Ti accorgi che fare il giornalista, il giornalista vero che cerca la verità per allertare la pubblica opinione, può diventare una missione più folle e pazza di quella del paracadutista:senti in coscienza l’irrefrenabile vocazione al risveglio delle coscienze di cui un insieme ordinato di parole può essere veicolo. Se poi, oltre che giornalista dalle domande scomode, sei anche antimafioso, non esistono davvero paracaduti che possano salvarti dalla forza dirompente delle tue stesse parole., proprio come per Fava. E in fondo ti accorgi che questa convention di gente “folle” è la festa del giornalismo che Fava, forse, avrebbe voluto. Ci si abbraccia, ci si ritrova tra compagni di battaglia. E’ la guerra contro tutte le mafie che viene combattuta a suon di giornali ma è anche la battaglia contro la mafia nell’in-

formazione e dell’informazione che si tenta di vincere. Lo sa bene chi continua sulla stessa scia di Pippo Fava, raduna giovani, fa nascere testate e giornalisti antimafia sempre convinti che nulla atterrerà mai l’informazione vera. E con loro, a questo premio, cronisti, attori minacciati, e politici che si impegnano nella lotta alla criminalità; sembra davvero un ritrovo di forze all’arrembaggio. Il pensiero ritorna all’interlocutore delle famose 3000 battute che sono diventate molte di più nell’entusiasmo incontenibile che un evento così lascia: ripensi a quell’isola felice che è diventata la Sicilia dei giornali di oggi e inizi a pensare.. Perché, se viviamo nell’isola felice, bisogna affidarsi a Telejato, a Pino Maniaci e alle sue inchietse che denunciano i boss e la malavita locale tramite la sua tv di provincia? Perché, se viviamo nell’isola felice, capita ancora che un giornalista come Carlo Ruta, veda chiuso il proprio blog e capita che Marco Benanti veda “sequestrato” il proprio giornale e licenziato dal suo “altro”lavoro per via di una pratica giornalistica “scottante”? Perché, se viviamo nell’isola felice, Antonella Mascali o Pino Finocchiaro, giornalisti emigrati al servizio del Nord e di grosse aziende, debbano ammettere timidamente

che altrove è diverso che in Sicilia? E perchè parlare di mafia in teatro, deridere il mafioso e condannarlo, ha significato minacce e una scorta come per il vincitore del 2010 al Premio Fava, Giulio Cavalli ? Forse perche, come dice proprio Giulio, nel suo monologo su Fava, viviamo piuttosto “nell’isola delle parole non dette”, dei fatti accaduti ma non ben raccontati, ma dove Pippo Fava “ha costruito le case di marzapane” più resistenti della città. Case di parole e di pensieri che il tempo sembra avvalorare e non sminuire. Sì perche Pippo non c’è più, ma il suo insegnamento è vivo nei giornalisti dalla schiena dritta di oggi, nei giovani che accanto ai più vecchi, continuano a lottare con una resistenza fatta di parole, di quella stampa d’inchiesta oramai rara, di parole di quei giornalisti senza giacca e cravatta né redazione potente alle spalle e che vanno tra la gente a tastare il sapore del vero. Avrebbe gioito Pippo, e con lui, gli altri sette giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia, nel vedere che il giornalismo vero non è morto e che per ogni morto ammazzato nascono 1000, 10000 germogli verdi, giovani e robusti, pronti a dare forza a quei pensieri, su cui si muovono oggi le gambe di questi uomini di penna. Gabriella Galizia

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L'abbandono

Antimafia dei fatti? Ma qui le scuole cadono a pezzi I tagli del ministro Gelmini distruggono la scuola pubblica e l'universi tà. Nel sud d'Italia tagliare i fondi alle scuole e tagliare i docenti si gnifica abbandonare il territorio e ingrossare le fila dei clan mafiosi, che arruolano i ragazzini di strada che la scuola non riesce più ad educare e a coinvolgere. A Catania, nei quartieri più poveri, si chiudono o si abbandonano le scuole

Da quattro anni il Comune di Catania paga a singhiozzo l'affitto di una scuola storica, l'Andrea Doria, nel quartiere San Cristoforo, il quartiere del boss Nitto Santapaola e sempre i Santapaola sono ancora il clan che comanda a Catania, scrivono i magistrati nelle carte della recente inchiesta Iblis (50 arrestati, 80 indagati tra cui il presidente della regione Sicilia Raffaele Lombardo e 400 milioni di euro sequestrati). Quella scuola dovrebbe essere il presidio della legalità. Invece ogni anno è sotto sfratto e rischia di chiudere. Nel 2007 venne pure il presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione e disse: “La legalità comincia a scuola”. Anche Librino è un quartiere difficile di Catania. C'è il clan Cappello col il suo braccio armato, gli Arena, che controlla un intero palazzo (il palazzo di cemento) per lo spaccio e il traffico d'armi Pochi giorni fa una donna è stata sfiorata da un proiettile vagante. Probabilmente provavano una pistola e il tiro è andato fuori traiettoria. A Librino le scuole dovrebbero aumentare e fare da roccaforti contro la criminalità organizzata. E invece chiudono, com'è accaduta all'istituto superiore Lucia Manga-

no, smantellato perchè ritenuto insicuro. “Siccome adesso tutti i docenti devono fare 18 ore complete, non arriviamo a fare le supplenze e le classi senza professore vengono divise nelle aule dell'istituto. Ecco il risultato dei tagli del ministro Gelmini”, ci dice un'insegnante d'Italiano di una scuola di Barriera, un altro quartiere a rischio di Catania. La scuola pare cadere a pezzi: porte di legno con cardini rotti, pareti di compensato sudice e ricoperte di frasi colorate scritte chissà quando. Un foglio appiccicato sulla maniglia della porta dice “/\/\ la Squola”.

E' l'ultima ora. Un ragazzo, Simone, con i capelli in aria sta seduto accanto alla cattedra e facendo dei saltelli gira per l'aula tirandosi dietro la sedia. Tre ragazzi in fondo si urlano addosso ogni genere d'insulti, una palla di carta e una matita vanno rapidamente da destra a sinistra come se fossero due palline da tennis. Jenny, una dodicenne della classe accanto, messaggia col suo cellulare da cui non si vuole separare. Kevin salta in aria e dice “Cornuto, ti rompo tutto”, e il compagno nemmeno gli risponde e passeggia tra i banchi ridendo e dando schiaffi sul collo agli altri.

|| 21 novembre 2010 || pagina 08 || www.ucuntu.org ||


L'abbandono

Manifestazioni per la difesa della scuola pubblica a Catania (G.Scatà)

“Che devi fare? Chiudi il libro e fai vigilanza. L'obbiettivo è che quantomeno non si facciano male”, mi dice l'insegnante. “Caddiddu” in siciliano stretto significa piccolo uccello. E' il soprannome di Giuseppe, un ragazzo difficile bocciato già due volte che spesso passa il tempo a seghettare il banco e a fare lunghe strisce di polvere da mettere in fila e tagliare sul banco. Il compagno gli chiede “E che è, cocaina?” e lui ride. Parlano di dove puoi nascondere la cocaina per non farti beccare dagli sbirri. “Nei cerchioni dell'auto” grida uno, e lui “Quando mai. Lì si sfracella. La devi mettere sotto il cambio o sotto il freno a mano”. “Vengono a scuola perchè altrimenti vanno coi carabinieri in istituto, e preferiscono stare qui, in classe. Ma altri non vengono proprio. Uno è assente dal primo giorno di scuola. Un altro non l'abbiamo mai visto”. La scuola si accartoccia su se stessa come un castello di sabbia sulla riva del mare, lasciato lì in balia delle onde. “Questo è un quartiere difficilissimo. Criminalità, mafia, di tutto. Ma la scuola sta per chiudere, non ci sono fondi e i ragazzi, che sono tanti e scalmanati, abbandonano la scuola”.

Diventano ragazzi di strada a nove e dieci anni. “Li vedo girare sui motorini sotto casa mia. Avranno tra gli otto e i dieci anni”, ci dice Andrea, mauriziano dall'accento catanese. Ha anche lui undici anni e parla di loro, dei ragazzi di strada, la manovalanza dei clan. Sono sbandati, tirano tardi tutto il giorno, non conoscono casa, e sono deboli. Basta avvicinarli con la proposta di fare un guadagno facile e ti vengono dietro. “Certe volte nemmeno i soldi gli interessano. E' la voglia di fare cose da grandi, cose grosse, pericolose. Loro imitano quelli che vedono per strada, e per strada non c'è bella gente”, ci dice Diego, soprannominato dai compagni “'U tappu”. Anche lui ha sì e no undici anni. “Dovremmo avere scuole nuove,

dovremmo essere di più e avere uno stipendio maggiore che motivi tutti a dare il massimo. Hanno tagliato gli insegnati di sostegno e i docenti curriculari. Il risultato è che le classi stanno scoppiando e che i

ragazzi disabili fanno di tutto, senza controllo e senza il diritto di studiare come si deve. Qui è un macello”, ci dice un'insegnante di matematica, precaria. “Ogni giorno, quando entro, mi faccio il segno della croce e mi dico che ce la farò: loro continuano a saltare, a urlare, a non comprare libri, a non fare i compiti. In campagna almeno averebbero qualcosa da fare e non starebbero in piazza a bighellonare e a copiare quello che fanno i delinquenti. Non sarebbero carne da macello”, dice scappando via e facendo un gran baccano coi tacchi degli stivali. Fuori piove, alcuni ragazzi che hanno marinato la scuola hanno scavalcato il recinto di metallo e salutano i compagni dalla finestra, durante la lezione. I compagni riodono e ricambiano il saluto. La pioggia diventa più forte. Anche loro che hanno “caliato” la scuola scappano via. Scappiamo anche noi. La scuola, con le sue pareti di compensato, diventa subito nera, come se fosse fatta di carta assorbente. “Fra poco vieni giù tutto”, mi dice un bidello che fino a quel momento era stato zitto, tanto da sembrarci muto. “Giù tutto”, ripete, ridendo. Giuseppe Scatà

|| 21 novembre 2010 || pagina 09 || www.ucuntu.org ||


Movimenti

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Verso il Primo Marzo 2011

L'anno scorso, con un tam tam partito da FaceBook, siamo riusciti a colorare l’Italia di giallo e a fare scendere in piazza oltre 300mila persone per dire NO al razzismo e alle politiche di esclusione, SI a un’Italia multiculturale e arcobaleno. Autoctoni, immigrati, seconde generazioni: abbiamo scelto di lavorare e manifestare insieme per superare la contrapposizione tra italiani e stranieri, tra “noi” e “loro”, questo schema che fa il gioco di chi punta a dividerci per calpestarci più facilmente. E la mixité, d’altra parte, è stata uno dei nostri principali punti di forza. L'anno prossimo vogliamo fare ancora di più! E pensando al 1° marzo 2011 (che non è così lontano), invitiamo scrittori e giornalisti, professionisti o no, italiani o “stranieri”, a inviarci dei brevi testi sul concetto di mixité e sulla necessità di andare oltre le parole che dividono per trovarne altre, nuove, che uniscano. Saranno raccolti in un libro che vedrà la luce alla vigilia del 1° marzo 2011. I diritti d’autore serviranno a finanziare il lavoro del comitato Primo Marzo. Mandate i testi (max 10 cartelle, su file) entro il 31 dicembre a: redazione@compagniadellelettere.it/ primomarzo2011@gmail.com (allegate una breve biografia, mail e numero di telefono). || 21 novembre 2010 || pagina 10 || www.ucuntu.org ||


Società civile

Cambiare le cose

Nel 2007 quarantaquattro ristoratori di origine italiana a Berlino si sono uniti per denunciare i propri estorsori. Nel nostro paese, invece, non si ha una risposta così immediata e istintiva contro il pizzo. Davide, socio di Addiopizzo Catania, riflette sui motivi di questa differenza Avete mai pensato a come sarebbe bello poter pensare di aprire una attività e non doversi preoccupare del pizzo? Fare un concorso all’università senza dover pensare che tanto è inutile perché alla fine vince il raccomandato? Andare in un ufficio e vedersi serviti senza per forza dover conoscere qualcuno? Bello vero? Eppure questo mondo esiste, esiste al di fuori del nostro paese, e quello che tanta gente non capisce è che anche le piccole cose fanno parte di quell’atteggiamento mafioso di cui siamo accusati, anche giustamente dal resto dell’Europa. Lo so che è un fattore storico – ho sentito tanti studiosi ripeterlo – che il nostro modo di pensare, la nostra mafia, soprattutto al sud, deriva da una storia che ci ha portati a vedere nell’“amico” piuttosto che nel poliziotto, la nostra figura di riferimento. Eppure è un discorso diverso, che va oltre alla mafia come organizzazione, qui si parla di atteggiamento, un atteggiamento che ti porta a pensare che tutti siano stupidi, che solo noi siamo intelligenti, che siamo più furbi di tutti e che

possiamo fare tutto, tanto siamo catanesi, anzi siamo italiani. E allora se siamo così furbi, così “sperti”, perché ci facciamo intimorire da chi ci viene a chiedere il pizzo? Perché abbiamo bisogno dell’amico? Perché a livello internazionale i nostri giovani sono indietro di anni rispetto agli altri? È questo essere sperti? Se siamo davvero furbi come crediamo, dimostriamolo, se ci vengono a chiedere il pizzo denunciamo subito! Se vediamo chi sporca la nostra città rimproveriamolo e prima di tutto pensiamo noi a non sporcarla. Non ho mai creduto che il nostro fosse un popolo di stupidi, allora non riesco proprio a capire perché in Germania il fenomeno del racket è stato stroncato sul nascere, e non dalle forze dell’ordine ma dai cittadini, che si sono subito mobilitati denunciando i loro estorsori. In Italia non ci riusciamo proprio. Lo so che è difficile, però è un processo che deve partire da noi, da noi gente comune, dagli imprenditori, da noi consumatori che dovremmo fare come i tedeschi e finirla con la mental-

ità del “ma tanto non cambia niente” o del “vabbè, ma è il governo che deve cambiare le cose, non noi”. Nella vita di ognuno le cose cambiano se ci diamo una mossa. Siamo noi che con le nostre scelte, con la nostra caparbietà costruiamo il nostro futuro, allora muoviamoci! E costruiamo noi la nostra città, il nostro paese del futuro, il mondo in cui vivere. Basta aspettare il governo, il politico. Facciamo noi quello che loro non vogliono o non sanno fare. Mi auspico che la gente capisca che rispettare ogni legge è l’inizio della legalità, di un paese che funziona, pulito e dove tutti hanno le stesse possibilità. Se il sistema paese funziona tutti ne guadagniamo: i giovani diventeranno più competitivi, magari negli ospedali non moriranno più persone tra le mani di medici incompetenti e raccomandati, e magari col tempo arriveremo a non dover più andare via da qui, dal nostro paese e sognare posti come la Germania. Davide Siracusa

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Satira

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Autosatira

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Satira

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Satira

Parla la Politica (proprio lei) La politica è donna, no? Anche se, di 'sti tempi, non si direbbe. Vediamo cos'ha da dire... http://dajackdaniel.blogspot.com/ Eccellentissimi Monsignori, Donna fui, e di nobili natali. Non sien maraviglia le presenti mie condizioni, ché padre mio fu quell’ingegno che tra l’ eccelsi della mortal spezie primo è reputato. Di quell’Aristotile, parlo, che battezzommi e superno mi die’ rango intra l’umane cose. La Politica son io, e a me volsersi le menti migliori de’secoli andati. Reggitrice e ordinatrice del mondo fui, per cotanti sola ragione di vita e morte: non pochi, in fatto, me invocando e venerando, gl’occhi chiusero alla luce. Duci superbi dispersi, e umili innalzai e fui io che nell’animi oppressi recavo il ristoro della speranza e promettevo un domani migliore a chi l’oggi avea tristo. Scienza divenni, e non sol’Arte, dacché Ser Machiavelli la mia natura al mondo disvelò. Nei saecula e negli anni che seguirono l’idioma mio mutò, sì come cangiò il mondo. Avvenne che sempre più numerosi furono i miei amanti: non soltanto ne’ cerimoniosi e cortigiani appartamenti sedussi e fui invocata, ma, invero, spasimanti miei si ritrovavano, per cantar mie lodi, nei salotti de’ borghesi, nelle taverne e nei caffè. Fui io la musa di quanti eressero le barricate in quel luglio che a Parigi il mondo novellò e altra epoca dischiuse. Popoli intieri, servi delle rapaci cupidigie dei troni e delle dominazioni, s’avvidero allora dell’esistenza mia, e principiarono a corteggiarmi. Per amor mio, e di chi altri?, posate le vanghe e lasciati i telai, uomini resi duri dal lavoro rubavano ore all’agognato riposo per venir meco e sognare l’alba del sol dell’avvenire.

Impossibile enumerare le biblioteche a me dedicate, i libri scritti in mio onore e i copiosi amanti appassionati e fedeli che mi onorarono delle loro specialissime attenzioni.

“Non siete belli, e nemmeno tanto svegli...” Eppur non bastava, ché, più il tempo scorreva e più s’accorciavano le distanze nel mondo, popoli prima ignari l’uno dell’altro cominciarono ad apprendere della mutua esistenza, e soggetti deprivati di diritti e rappresentanza s’accorsero d’essere cittadini.L iberai lontani e immensi continenti dal giogo coloniale e molti impararono grazie a me tante parole sino ad allora ignote e di una in particolare, democrazia, si innamorarono.

Non c’era diva che rivaleggiasse con me per ammiratori: ero citata ovunque e da chiunque, occupavo le discussioni quotidiane nelle case, nelle scuole, nei campi e nelle officine.A ncora il mio linguaggio cambiava, mentre masse sterminate si levavano in mio nome, economie intere si fermavano e davo all’uomo e alla donna l’illusione di poter essere arbitri del proprio futuro, contro ogni sopruso e ogni ingiustizia. Nella misura in cui procedeva la coscientizzazione dei soggetti intrinsecamente antagonisti rappresentavo l’antitesi nella dialettica del potere innescando dinamiche di contro-reazione e\o contro-potere che smascheravano le falsità delle sovrastrutture minando la base stessa della struttura dominante. Ero arte, divenni scienza, poi tecnica ma, infine, oggi, mestiere e carriera. Non so, belli miei, perché persi i miei amanti migliori. Ricordo giovani bellissimi con lo sguardo limpido e sincero che per me avrebbero superato qualunque ostacolo, ricordo uomini meravigliosi, intelligenze superiori, a me tutti devoti e fedeli. Mi restate voi, ora, e, vi dico la verità, non siete belli e nemmeno tanto svegli. Non mi amate, lo so, mi usate: vi servo. Perché comunque piaccio sempre, vero? Lo so che nessuno muore più per me, ma per un mio pompino in tanti si fanno sotto. E allora venite, ne ho per tutti voi. E non mi costa nulla, ho imparato a farli senza pensare. O meglio, a pensare a quei giovani innamorati con gli occhi luminosi che ritorneranno, sì, ritorneranno, spero, e non mi lasceranno qui a succhiare per sempre i vostri flaccidi cazzi tirati su a viagra. Jack Daniel

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Documenti

La casa editrice Einaudi minaccia di querelare il Centro di Documentazione Giuseppe Impastato Il Centro polemizza con alcune imprecisioni su Peppino ImpaImpastato contenute nell'ultimo libro di Saviano e chiede rettifiche o ritiro. ritiro. L'editore risponde minacciando un'azione legale. La lettera lettera dell'editore, la risposta di Giovanni Impastato

Torino, 26 ottobre 2010 Egregio Dottor Umberto Santino Oggetto. Vostra diffida del 4.10.2010 Riteniamo ingiustificate, gravi e diffamatorie, anche per le modalità con le quali sono state diffuse all'opinione pubblica, le affermazioni da Voi effettuate in ordine alla non correttezza e alla lesività di quanto dall'Autore e dalla nostra casa Editrice pubblicato, nonché l'accusa di "ricostruzione ...quantomeno grossolana e superficiale" e le ulteriori analoghe nella Vostra missiva riportate. Eppure, una semplice e attenta lettura del testo da Voi contestato e, soprattutto, del contesto nel quale esso è inserito, rende evidente che le affermazioni dell'autore nulla tolgono al ruolo svolto dal Centro siciliano di documentazione "G. Impastato", né tanto meno si propongono l'obiettivo di una ricostruzione storica del delitto Impastato e delle vicende processuali successive. L'obiettivo del testo "La parola contro la camorra" dal quale sono state estrapolate le frasi ritenute lesive dell'identità del vostro cliente, è evidentemente quello di sottolineare il ruolo rilevante che può avere un film e, in generale, ogni forma di media, rispetto al compito di riportare alla memoria dell'opinione pubblica episodi di cronaca di pruno piano. In conclusione, le affermazioni dell'autore Saviano non sono in alcun contrasto con la verità storica, ma stanno a testimoniare, a partire dall’'indubbio .successo del film "I cento passi" e dell'attenzione che ha destato a livello nazionale, l'importanza t i tutti i media nel ricordo delle vittime di mafia, tema dei resto dell'intero DVD e de! libro contestato. Appare peraltro singolare che l'ac-

cusa provenga in assunta difesa della dignità e dell'immagine di persone (peraltro non firmatarie della comunicazione e che, anzi, hanno manifestato la propria vicinanza all’Autore anche in occasioni pubbliche), quali amici e familiari, che, oltre tutto, sono state espressamente richiamate ne! medesimo testo, come da Lei stesso riconosciuto. Per tali motivi, non riteniamo dovuta alcuna rettifica né, tantomeno, il ritiro dell'Opera dal commercio e sin da ora Vi precisiamo che ulteriori iniziative diffamatorie nei confronti della nostra casa Editrice saranno perseguite nei termini di legge con Vostro aggravio di oneri e spese. Distinti saluti. Giulio Einaudi Editore S.p.a. L'Amministratore delegato (Antonio Baravalle)

*** Cinisi, 8 novembre 2010 Spett.le Giulio Einaudi spa Oggetto: Vostra del 26.10.2010 Io sottoscritto Giovanni Impastato dichiaro quanto segue: E’ vero, come da Voi scritto, che “anche in occasioni pubbliche, ho mostrato la mia vicinanza all’Autore” del libro in questione. Voglio però precisare che l’amicizia per una persona non pregiudica la richiesta che venga ristabilita la verità dei fatti, richiesta che non mi risulta abbia avuto, come da Voi affermato, “intenti diffamatori”. Non vedo come possa essere considerata “ingiustificata, grave e diffamatoria” l'affermazione secondo cui due pagine di un libro a larghissima diffusione cancellano di

UNA SPIEGAZIONE NECESSARIA Non è divertente pubblicare una lettera contro Einaudi - ma in effetti, in un certo senso anche contro Saviano - in un momento in cui Saviano è impegnato in uno scontro, con Maroni e con altri, dal lato dell'antimafia contro il potere. Ma è nostro dovere farlo per i seguenti motivi: 1) Riteniamo che,in generale, il Centro e la famiglia Impastato “abbiano ragione” sul fatto. Saviano, occupandosi della storia di Peppino Impastato, se n'è occupato - una volta tanto superficialmente. E' stato ingiusto con alcuni dei protagonisti di questa storia. E' giusto ristabilire la verità, anche se - personalmente avremmo preferito evitare, anche "avendo ragione, ogni polemica fra antimafiosi. 2) Saviano è un esponente dell'antimafia che ha corso e corre molti rischi, con cui siamo solidali. Ma Umberto Santino e Giovanni Impastato non ne hanno corso di meno. Sia gli uni che gli altri meritano amicizia e rispetto, nessuno di più e nessuno di meno. 3) Nella polemica in questione, mediaticamente, il Centro e la famiglia Impastato sono di gran lunga la parte più debole, e corrono dunque il rischio di essere silenziati. La polemica, per la stampa italiana, non è fra l'antimafioso Saviano e l'antimafioso Impastato, ma semplicemente fra un Vip e un non-Vip: e dunque nemmeno esiste. Noi non siamo d'accordo. Consideriamo diritto dei nostri lettori, e dovere nostro, l'accesso alle argomentazioni di entrambe le parti. trattandosi di parti importanti del movimento antimafioso. 4) La stima che professiamo per Saviano, e che ci rende penoso prendere posizione - in questo caso - contro un suo libro, non si estende affatto al suo editore, che è Giulio Einaudi Editore cioè tout-court Berlusconi. Per un tale editore no n vi è alcuna attenuante: sta semplicemente cercando di intimidire, minacciando querele, esponenti del movimento antimafia come Umberto Santino e la famiglia Impastato. Questo non può essere ammesso. Riccardo Orioles

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Documenti

fatto 24 anni (tanti decorrono dalla morte di mio fratello alle condanne dei mandanti del suo assassinio) di impegno di mia madre, mio e di mia moglie, del Centro (di cui, tengo a dirlo, facciamo anche noi parte) e dei compagni rimasti, per avere giustizia per Peppino. A tali considerazioni, ampiamente motivate, non poteva non seguire la richiesta di una rettifica. A tal proposito affermo che: 1. Non è vero che “la memoria di Impastato” fosse “conservata solo da pochi amici, dal fratello e dalla mamma”. Il Centro siciliano di documentazione (che era stato fondato nel 1977) non era formato da amici di Impastato e non è stato, nell’80, a lui dedicato per amicizia ma perché mio fratello è stato riconosciuto come una figura unica nella lunga storia delle lotte alla mafia, avendo iniziato con la rottura con la nostra famiglia mafiosa. Noi come famiglia, i compagni di Peppino rimasti e il Centro Impastato, non ci siamo limitati a conservarne la memoria, ma, come già scritto nella diffida, fin dal primo giorno dopo il funerale ci siamo attivati per denunciare il depistaggio e dare alla magistratura tutte le notizie sull’attività di Peppino che indicavano chiaramente la matrice mafiosa dell’assassinio. In particolare l’11 maggio 1978 il Centro siciliano di documentazione presentò un esposto alla Procura e il 16 maggio mia madre, Felicia Bartolotta Impastato, chiese la costituzione di parte civile, atto allora possibile già in fase di istruttoria. Una scelta che prima era stata fatta soltanto da Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale ucciso nel 1955. In seguito noi familiari e il Centro abbiamo organizzato, assieme ad alcuni compagni di militanza, ogni anno numerose iniziative nel nome di Peppino (a cominciare dalla manifestazione nazionale contro la mafia del 9 maggio 1979 a Cinisi, la prima della storia d’Italia). E ogni volta che è stata chiusa l’inchiesta abbiamo cercato di dare alla magistratura altri elementi per farla riaprire: nel 1984, in seguito all’ordinanza-sentenza del maggio dello stesso anno, predisposta dal consigliere Chinnici, assassinato il 29 luglio 1983, e completata dal suo successore Antonino Caponnetto, in cui si affermava la matrice mafiosa del delitto attribuendolo a ignoti, abbiamo presentato il dossier Notissimi

Ignoti (redatto da mia moglie Felicia Vitale, che firma con me questa lettera, e da Salvo Vitale e pubblicato dal Centro) e il libro La mafia in casa mia, con la storia di vita di mia madre, che ha fatto riaprire ancora una volta le indagini. In seguito all’archiviazione disposta dal sostituto procuratore De Francisci (febbraio 1992) abbiamo ribadito la responsabilità di Badalamenti e nel 1994 abbiamo chiesto che venisse ascoltato il collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, della famiglia mafiosa di Badalamenti. La richiesta è stata accolta e nel febbraio del 1996 le indagini sono state riaperte. Si arriva così alla richiesta di rinvio a giudizio di Badalamenti e del suo vice Vito Palazzolo e ai processi con le condanne di entrambi come mandanti dell’omicidio. Torno a sottolineare le date: quello con rito abbreviato contro Vito Palazzolo, è cominciato nel marzo del 1999 e si è concluso nel marzo del 2001 con la condanna a trent’anni di reclusione; l’altro, quello contro Gaetano Badalamenti, in rito ordinario e in videoconferenza si è aperto nel gennaio del 2000 e si è concluso nell’aprile del 2002 con la condanna all’ergastolo. Il film è stato presentato a Venezia nel settembre del 2000 e nelle sale è uscito qualche mese dopo. 2. Pertanto non risponde a verità l’affermazione contenuta a pagina 7 del libro La parola contro la camorra, secondo cui “dopo più di venti anni, nasce un film, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato […] ma arriva a far riaprire un processo […] Un film riapre un processo”, perché, come già ampiamente dimostrato, date alla mano, i processi (due, non uno) contro i responsabili dell’omicidio erano aperti già da tempo e la Commissione parlamentare antimafia aveva costituito il Comitato Impastato, per indagare sul depistaggio delle indagini, già nel 1998. Le affermazioni del libro non sono veritiere e oscurano il nostro impegno, in primo luogo quello di mia madre, e poi il mio, di mia moglie e del Centro (in particolare nelle persone del suo presidente Umberto Santino e di Anna Puglisi). 3. Mi è chiaro che l’obbiettivo del testo fosse (come da Voi scritto nella lettera del 4 ottobre 2010) quello di “sottolineare il ruolo rilevante che può avere un film e, in generale ogni forma di media, rispetto al compito di riportare alla memoria dell’opi-

nione pubblica episodi di cronaca di primo piano”. Voglio, però, in primo luogo farVi presente, che la vicenda di mio fratello non è un episodio di cronaca, ma un fatto gravissimo che colpisce una delle figure più significative della lotta alla mafia negli ultimi decenni. Non posso che ribadirlo ancora una volta, l’affermazione “un film arriva a far riaprire un processo”, non risponde a verità. In ogni caso si tratta di un esempio sbagliato. Quindi, al contrario di quanto si legge nella Vostra lettera, le affermazioni di Saviano sono in contrasto con la verità storica. Il film ha avuto certamente un ruolo importante nel fare conoscere la figura di mio fratello, più di quanto abbiamo potuto fare noi e il Centro Impastato, per la limitatezza delle nostre risorse, ma non ha avuto nessuna influenza dal punto di vista giudiziario. E voglio sottolineare che il film non è nato per caso e non ci sarebbe stato senza il nostro impegno incessante. 4. Voglio infine far presente che, durante un dibattito, con la partecipazione di Roberto Saviano, tenutosi nell’agosto 2009, a Villagrazia di Carini presso la mia pizzeria, in occasione della presentazione del mio libro, con Franco Vassia, Resistere a Mafiopoli. La storia di mio fratello Peppino Impastato, con la prefazione di Umberto Santino, in cui vengono ricostruite tutte le vicende riguardanti mio fratello, comprese quelle giudiziarie, il giornalista Francesco La Licata aveva sottolineato il ruolo dei familiari e del Centro Impastato per l’accertamento della verità. Purtroppo non abbiamo potuto registrare tale iniziativa (come invece è sempre successo qualunque siano stati i relatori) perché c’è stato detto che c’era l’esclusiva di una rete televisiva. Malgrado sia stato informato, Saviano ha ritenuto di pubblicare il libro ancora con quelle affermazioni. Dopo il lancio su Repubblica il 25 marzo 2010, è stata inviata al giornale dal presidente del Centro, e firmata anche da me, una lettera di precisazioni, pubblicata soltanto dopo nostra insistenza e malamente tagliata, il 3 aprile. Faccio mia, pertanto, la richiesta di rettifica di quanto riportato nel libro in questione. Distinti saluti Giovanni Impastato Felicia Vitale

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Noi

mardiponente

Siamo partiti da tanti luoghi diversi, noi del sessantotto. Il nostro sta gi첫 in Sicilia, su una delle due rive della penisola di Milazzo. La sera, se ti sdrai sulla spiaggia, vedi calare il sole immenso e rosso. Ci sono isole all'orizzonte. Passano navi. Ci sono tanti posti dove andare, in treno o in autostop, per un'estate o per sempre. Non siamo stati i peggiori, noi di mardiponente. Buoni compagni, buoni amici. Ciao, Antonio.

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