Ucuntu n.82

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Il traditore I proprietari di Calabria Ora “dimissionano” il direttore perché fa troppe inchieste su mafia e politica. Al suo posto ne prendono un altro più docile. E chi è? Uno dei giornalisti più “di sinistra” d'Italia, Sansonetti... Antimafia Che Fare: Benny Colasanzio / Lorenzo Baldo/ Graziella Proto Jack Daniel Il ritorno del Ragionier Morizzi Sonia Giardina Impegno sociale e nonviolenza oggi

G.B.Scidà - Storia di Catania negli ultimi 30 anni || 28 luglio 2010 || anno III n.82 || www.ucuntu.org ||


Politica

Ma perchè non dovremmo fare discorsi “ideologici”? Penso con angoscia a tutti coloro che hanno perso il lavoro ed hanno una famiglia sulle spalle; penso a chi è in cassaintegrazione, precario, aspirante precario, disoccupato. Ai lavoratori della FIAT che hanno dovuto votare sotto ricatto, come quando i lavoratori nella zona industriale siciliana sono scesi in piazza a difendere il posto di lavoro anche a costo dell'aumento di tumori e malformazioni, perché senza quel lavoro non si può vivere; penso a tutti coloro che in TV dalla mattina alla sera parlano di lavoro e lavoratori senza sapere cosa significhi, né il lavoro né vivere con poco più di mille euro. La crisi, la crisi, la crisi, nazionale, internazionale... bla, bla, bla; sacrifici a destra, tagli a sinistra, sempre sulle spalle delle stesse persone. La famiglia di uno che guadagna milleduecento euro al mese, l'unico sacrificio che può fare, è quello di abituarsi a non

mangiare. L'esperimento si potrebbe fare. Si eviterebbero altri debiti. Lo so, "Sono caduta nell'ideologia!" Si, perché se vai un poco oltre il pensiero unico, ti si dice che sei ideologico - usando questo vocabolo come la peggiore delle offese - e tutti ci cascano. Perché non dovrei fare discorsi ideologici? Se uno mensilmente guadagna ventimila euro o molto di più e l'altro non riesce a sopravvivere e paga tutte le tasse prima che gli si consegni la busta paga, qualche piccola idea politica c'è? Se rispolverassimo l'ideologia (non si fa peccato...) ci ricorderemmo di tante altre cose, per esempio di tutte le fasce sociali. In particolare ci si potrebbe soffermare su quelle che si fanno il prestito finanziario per il supermercato; quelle che rinunciano ad un certo tipo di alimentazione per poter comprare le medicine...

Credo che chi ci amministra e ci governa, di fronte allo sfacelo economico di questi tempi, pensando a tutte le famiglie che non riescono a sbarcare il lunario dovrebbe avere molta più dignità e senza nemmeno pubblicizzarlo dovrebbe decidere di ridurre il proprio stipendio a quello di un metalmeccanico (non di un precario dei call center), almeno per sei mesi. Se lo possono permettere senza grossi rischi. Vedo già le facce indignate della casta politica: "si tratta di populismo". No, si tratta di rigore e severità. Di una proposta seria. E' un richiamo al ministro Tremonti che continua a spremere un limone già spremuto. E' un invito a tutti a ribellarsi ed organizzarsi in una lotta per la sopravvivenza. Graziella Proto direttrice di Casablanca fb casablanca storie dalle città di frontiera

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Sinistra

Gano, Jago e Sansonetti

(Un articolo umile, da uomo delle pulizie).

Gano di Maganza, politico di qualche rilievo tempo addietro, aveva le sue ragioni per odiare Orlando, Rinaldo e gli altri paladini, che pare che l'abbiano ingiustamente scavalcato in non so che intrallazzo governativo. Perciò, pur deprecando il tradimento con cui, alla fine, abbandonò Re Carlo per passare all'infedele, non possiamo fare a meno di riconoscergli qualche attenuante. Forse è stato eccessivo bollarlo come “Ganu 'u traituri”. E Jago? Povero Jago, innamorato cotto di Desdemona e inoltre giustamente incazzato con quel negraccio di Otello: altro che ammiraglio! a coltivare i campi lo dovevano mettere, quei maledetti senatori veneziani Questo nobile sentimento (che in fondo è lo stesso che il Corriere e quasi tutti i giornali “bianchi” nutrono per Obama) sarebbe stato più che compreso dai governanti veneti di ora. Ma allora purtroppo c'erano i dogi e il povero Jago è stato lasciato là a macerarsi con tutta la sua invidia e gelosia. Traditore anche lui alla fine, d'accordo: ma davvero, onestamente, lo potete condannare? Tutto questo per dire che siamo uomini di mondo, capiamo le umane debolezze e siamo ben lontani da quei furori ideologici che tanto hanno devastato il Novecento. Ma, e Sansonetti? Piero Sansonetti, giornalista rivoluzionario, guida del proletariato ribelle e nemico fierissimo di ogni padronato, è stato tempo fa, come sapete, al centro di una cause célebre nel suo tremendo partito, che era Rifondazione (ne dirigeva il giornale). I dirigenti a un certo punto, ritenendolo non del tutto in linea col partito, ne decisero la rimozione. Scoppiò un putiferio terribile (causa non ultima della scissione, o meglio dell'esplosione, di quel partito) a quale in qualche modo partecipai anch'io, indignandomi per la libertà violata di Sansonetti, per l'autoritarismo dei suoi capi e

L'incredibile storia di un giornalista “di sinistra” in Calabria per un sacco di altre belle cose. Sansonetti a questo punto fondò un suo quotidiano, che ebbe vita brevissima trasformandosi prima in un settimanale e poi in un sito, e destò qualche interesse solo per il fatto di essere distribuito in edicola da Mondadori, teoricamente “nemica”. Il gossip si occupò di Sansonetti anche per un paio di partecipazioni a Porta a Porta che dai malevoli vennero ritenute eccessivamente benevole verso Berlusconi. Ma tutto qui. Adesso invece la notizia è tragica, e riguarda non più i salotti romani, ma l'insanguinata Calabria, terra dove non si fa gossip ma si ammazza. Riguarda il “dimissionamento” in tronco del direttore e di nove giornalisti del quotidiano Calabria Ora, segnalatosi negli ultimi tempi (v. Roberto Rossi più avanti) per varie inchieste su politici e mafiosi. Cosa non tollerata dai proprietari, Fausto Aquino e Piero Citrigno, il secondo da pochi mesi condannato (il 9 febbraio a Cosenza) per reati legati all'usura. E chi chiamano, Citrigno e Aquino, a sostituire il direttore antimafia alla testa del giornale? Chiamano Sansonetti. E cosa fa Sansonetti? Si rifiuta indignato, s'incazza, li sfida a duello alla sciabola per la tremenda offesa? No, accetta docile, con un sorriso. Piero Sansonetti è il nuovo direttore di Calabria Ora, al posto di un direttore antimafioso. Un quarto di secolo fa, il 18 giugno 1984 Piero Ostellino si installò al Corriere (allora molto vicino alla P2) al posto di un direttore antipiduista, Cavallari. Lo sfascio del giornalismo italiano secondo molti incominciò da lì, da quell'obbedienza cieca e prona ai voleri di una proprietà quanto meno oscura, che aveva appena cacciato un giornalista perbene. Ovviamente, Sansonetti proclama ora

(come allora Ostellino) la propria indipendenza, la professionalità, la più assoluta autonomia. Va bene. Di fatto è là, a fare – lautamente pagato – quella parte infelice. *** Non stiamo parlando di giornalismo, ma di politica. Piero Ostellino, a quei tempi, era un giornalista liberale e “borghese” che, con la sua pessima azione, mise plasticamente in luce i limiti morali ed etici di quel giornalismo “liberal”, di quella borghesia. Ma Sansonetti è un “compagno”, a lungo riconosciuto come tale. Quella che lui mette in luce è la crisi morale ed etica di una sinistra sempre più molle e sbiadita, sempre più lontana. Che oggi, drammaticamente, nella sua persona scavalca l'antimafia e il Sud, si schiera con i padroni peggiori, tradisce. Ciascuno deve esprimersi, su questo. Prima di tutto debbono esprimersi i referenti politici – fra cui Vendola – di Sansonetti. Esprimersi in maniera netta e limpida, per esempio così: “Noi del nostro partito non abbiamo più nulla a che fare con quel mascalzone di Sansonetti”. E poi tutti gli altri. *** E basta così, come temi politici, per oggi. Ce ne sarebbero di drammatici, la Fiat prima di tutto, col suo attacco allo Stato – agli operai, all'Italia, alla Costituzione vigente, alle migliaia di vite bruciate a Mirafiori – non è molto inferiore, per gravità e insolenza, a quello dei brigatisti. Meriterebbe una risposta non inferiore, in termini di unità e determinazione, a quella data a costoro. Nazionalizzare d'autorità, ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione: non c'è altra risposta possibile – seria – a questo attacco. Ci sono forze politiche disposte a tanto? O tutto dev'essere sempre e solo polvere di discorsi, “por ablandarlos”, demagogia? Riccardo Orioles

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Promemoria

Contributo alla storia di Catania nell'ultimo trentennio Il giudice Giambattista Scidà, per molti anni presidente del Tribunale per i Minori, è stato dopo Giuseppe Fava il principale protagonista della lotta ai poteri mafiosi nella città di Catania. Fin dagli anni '80 le sue denunce cir costanziate e precise sono state l'incubo di imprenditori collusi e politici corrotti. E di non poche Eccellenze del Palazzo di Giustizia...

Ammantati, Catania, di luce e di giustizia! Giovanni Paolo II

Capitolo I La Pretura di via Crispi Alla fine degli anni ’70, la Giustizia di Catania continua ad essere disattenta ai reati contro la P.A. Come un giudice del Tribunale per i Minori oppone al Procuratore Generale, durante il dibattito di apertura dell’anno giudiziario 1981, proprio quei reati, che i registri dicono di diminuita frequenza, dilagano sfrontati: sono le denunce a calare di numero, per isfiducia dei cittadini nella repressione. Le cronache di quella giornata ignorano il suo lungo ed articolato intervento, nella grande sala strapiena. Speranze di rinnovamento vengono tuttavia nutrite, e tutte si concentrano sopra un gruppo di giovani magistrati – homines novi, per estrazione, censo, mentalità – che organizzati in corrente, operano nella Pretura del capoluogo; accanto al più in vista, Gennaro, c’è, con altri, D’Angelo. Nel corso dell’81, il CSM affida a quel tale giudice, a maggioranza, la direzione del TpM, balcone sulla città e le sue miserie, e tribuna dalla quale poterne fare denuncia nell’interesse dell’infanzia e dell’a-

dolescenza. Con la sua prima relazione al Procuratore Generale, largamente diffusa, Scidà solleva la questione degli insediamenti derelitti, e dà l’allarme per la congiuntura, in fatto di criminalità, sia minorile che adulta: quell’anno è “un anno svolta” che può preludere ad involuzioni catastrofiche. Non c’è tempo da perdere: i mesi contano come anni. Ma è proprio in quello stesso anno che uno dei grandi imprenditori catanesi, da tempo investitisi di una sorta di signoria sull’organismo urbano, stipula con la Giunta municipale di Catania, dalla composizione inquietante, un audace contratto, per la edificazione, in via Crispi, di una nuova sede per la Pretura. L’opera è inutilmente avversata da Giuseppe D’Urso (direttore del Dipartimento di Urbanistica dell’Università) da Adriana Laudani (storico ma isolato personaggio del PC catanese e siciliano) da Raffaele Lombardo (in Commissione edilizia ed in Consiglio Comunale), da un gruppo di giovani architetti e da giornalisti. In agosto il Prefetto di Palermo, Dalla Chiesa, insediatosi settanta giorni prima, affida a Giorgio Bocca, per La Repubblica, un’esplosiva intervista, che appare il 10 di quel mese: a Catania c’è mafia; ed è col suo consenso che gli imprenditori catanesi prendono appalti, anche a Palermo. Dalla Chiesa viene ucciso 23 giorni dopo,

dalla mafia, in quella città. Per Lombardo, il progetto Pretura offende l’ambiente con l’aspetto coloniale della facciata; lascia perplessi per l’ammontare della spesa; è stato irregolarmente finanziato; sfonda i limiti volumetrici di comparto previsti; ed implica l’abbattimento di edifici Liberty: allarmante è soprattutto che la Sovrintendenza ai beni culturali, preannunciatrice di vincoli a tutela, quando la proprietà di quegli stabili era di terzi, non ne abbia imposto nessuno dopo che questa è stata acquisita dall’imprenditore. Esposti e denunce giungono a tutti gli Uffici che avrebbero ragione di compiere accertamenti. E tutti gli occhi sono puntati, speranzosi, sui Pretori, specificatamente su Gennaro: non è possibile – scrive un giornalista – che proprio lui resti inattivo. Ma nessuno si muove. L’opera è portata a compimento con rapidità record; e l’inaugurazione, solenne, ha luogo un giorno di ottobre. Quando il Presidente del TM arriva sul luogo, con due colleghi a conoscenza del suo intento di chiedere che all’appaltatore non sia consentito di prendere la parola, il Cav. del Lavoro Finocchiaro ha già pronunciato un discorso di esaltazione dei meriti dell’imprenditoria catanese: insolente replica, da quel nuovo tempio della Giustizia, al caduto servitore della legalità.

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Promemoria

Capitolo II Ex pretori alla Procura della Repubblica

Appendice A Viale Africa

I primi a passare alla Procura furono, credo, Gennaro e D’Angelo. Il primo ad essere eletto al CSM fu Papa (1976). Rinuncio ad esporre qui gli avvenimenti che riempirono gli anni successivi all’ ’82 (il lettore ne troverà l’elenco in una interpagina non numerata) per seguire l’opera dei due Sostituti Procuratore. Nel nuovo Ufficio essi ebbero a collega la dottoressa Anna Finocchiaro, sinchè non eletta (1987) alla Camera dei Deputati. Negli ultimi tempi del suo servizio di magistrato essa aveva avuto in cura atti riguardanti una locazione passiva contratta dall’ospedale Garibaldi (USL32): quella che ancora nel 2006 è stata ricordata su MicroMega (Travaglio e Giustolisi). Sullo scorcio del decennio la Procura attese ad affari importanti: un processo di mafia, attorno al quale si fece presto silenzio, e che a nessuno piace oggi evocare; e un processo per un grande appalto-concorso, per il centro fieristico Le Ciminiere, lungo il Viale Africa.

Per procurarsi l’aggiudicazione di quell’appalto (spesa prevista circa 130 miliardi di lire) un imprenditore catanese da tempo molto noto aveva distribuito ingenti somme a burocrati ad amministratori elettivi ed a politici, inducendone molti a commettere, per vantaggio di lui, aperti abusi. La natura di questi ultimi, e il loro numero, rivelavano in maniera chiara e che si può dire sfrontata, la certezza del beneficiario di non correre rischi, per quanto vistosa fossa l’orma che quegli illeciti comportamenti stampavano sugli atti di pubblici uffici. Non si ingannava. Le cose andarono in realtà come egli si era mostrato certo che sarebbero andate. La Procura non lo perseguì: né quando perseguì per abuso generico, a vantaggio di lui, una dozzina di pubblici ufficiali, né successivamente alle rivelazioni che ad un certo punto egli fece, di somme date: ma date, asserì, solo perchè costrettovi, solo per non essere avversato, solo per poter lavorare. L’Ufficio fece suo quell’insostenibile costrutto, e mentre atterrò i percettori dei pagamenti sotto l’accusa di concussione, innalzò lui alla condizione di vittima, con l’effetto di attribuirgli titolo a riprendersi,

Giambattista Scidà scida.wordpress.com

in barba all’Erario, le somme sborsate per corrompere, che andavano soggette a confisca. L’enormità della conseguenza, pericolosa a molti, sul piano della responsabilità contabile, gli ispirò, pochi giorni dopo i primi arresti per concussione (fine maggio ’93), una lettera al Procuratore della Repubblica: non voleva quei danari, né risarcimento del danno; era pronto a collaborare perchè le somme sborsate potessero essere avviate dalla Procura ad altre destinazioni. Sarebbe un voler perdere tempo il soffermarsi sopra una tale rinuncia, che nessuna vera vittima di concussione farebbe mai. Allo scandalo amministrativo si era sovrapposto uno scandalo giudiziario, reso più alto, per molti catanesi, dalla identità dell’imprenditore e dalla provenienza del magistrato assegnatario dell’affare. L’imprenditore era Finocchiaro: il Finocchiaro della Pretura di Via Crispi: invulnerato allora, invulnerabile dopo di allora; e il magistrato era uno di quei pretori, passato a fare da Sostituto Procuratore della Repubblica; era il dottor D’Angelo: lui solo, sino a quando non ebbe preso a collaborare con lui un più giovane collega.

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Promemoria

Il giudice Giambattista Scidà.

“CASO CATANIA” LA CRONOLOGIA

Che cosa impediva alla magistratura di sfidare quell’imprenditore? I fatti di via Crispi tornarono sulla bocca di tutti e ripresero a circolare le vociferazioni di quel tempo non ancora lontano. Come scontato, Tribunale e Corte d’Appello smentirono la Procura della Repubblica (si trattava di corruzione aggravata e non di concussione). Ma l’imprenditore era morto già durante il dibattimento di primo grado, e a morte finirono per venire anche i reati, per prescrizione. La vicenda era ancora in corso quando il Procuratore della Repubblica, Alicata, ottenne di andare a presiedere la Corte d’Appello, e quando D’Angelo venne eletto al CSM (1998). Il tema Pretura di via Crispi-Centro Fieristico di viale Africa fu tabuizzato. Si vide sino a che punto quando qualcuno che nel ’96 aveva esposto i fatti al CSM per invocare in nomina di un Procuratore estraneo all’ambiente, ardì tornare (1999), sull’argomento proibito, dolendosi di non essere stato convocato.

1996 Alicata, che come Procuratore della Repubblica ha seguito il processo di viale Africa, gestito da D’Angelo, passa ad indossare toga di ermellino, da Presidente capo della Corte d’Appello di Catania. Fra poco, D’Angelo sarà premiato dalla corrente con l’elezione al CSM, per il quadriennio ’98 – 2002. Intanto il Consiglio riceve da Catania un motivato appello, per la nomina di un successore di Alicata estraneo all’ambiente: quanto ciò sia necessario è dimostrato proprio dall’affare del centro fieristico, e dall’antecedente della nuova Pretura. In CSM siede dal ’94 Gennaro; l’autore dello scritto non viene convocato, sebbene si trovi a capo di un Ufficio Giudiziario; e mentre la nomina cade sul meno estraneo degli aspiranti (il Procuratore Aggiunto, tale già da dieci anni) minacciosi annunci di ritorsione gli giungono per coperte vie. 1998 Sul finire di quella consiliatura il Gennaro, che ha già sistemato Catania, passa a cercare di tutelarla dal lato della Procura Repubblica di Messina, che è competente, ex articolo 11 cpp, per tutti gli affari riguardanti magistrati in servizio nel distretto etneo. Egli vuole che a capo di quell’Ufficio sia posto un veterano della procura catanese: il quale indagherebbe, all’occorrenza, su se stesso o sui propri compagni i lavoro. La manovra fallisce a causa di tempestive osservazioni critiche dello stesso ancora impunito, temerario autore del primo appello. 1999 Egli torna ora sul tema viale Africa: perchè non lo hanno voluto sentire?

Perchè non lo hanno sentito a proposito di altro affare (inconciliabili deposizio ni testimoniali di lui e di altro magistrato, ugualmente in servizio a Catania, all’udienza 09/02/1992 del Tribunale di Roma sez.VII, in processo Fava)? Ma ora, nel ’99, del Consiglio fa parte lo stesso D’Angelo, in persona. Sulla testa dell’incauto Presidente del TM si scatena una procella. La I Commissione viene persuasa a sospenderne la convocazione e a perseguirlo per incompatibilità con la funzione (è un pessimo capo dell’Ufficio) e con l’ambiente (non ha credibilità né prestigio). 2000 La proposta di trasferimento è del 10 novembre; il 21 (l’atto non è stato ancora notificato) i proponenti le si gettano sopra, ne arrestano il cammino verso il plenum, la ridomandano indietro, con un pretesto senza gambe. La rivolta della coscienza pubblica è stata immediata e unanime: a Roma (in Commissione Antimafia); presso i Giudici Minorili di tutta Italia (giusto in quei giorni riuniti in congresso); a Catania (assemblee straripanti; migliaia di firme di protesta; pioggia di comunicati); nell’isola.Un’ispezione ministeriale, voluta dai proponenti, porta a compimento il disastro: non c’è uno solo dei contestati addebiti che non risulti privo di fondamento. 2000 La valanga non si ferma. La Commissione Antimafia convoca l’interessato per il 7 dicembre. La situazione di Catania – egli dichiara – è tremenda.Un Procuratore Aggiunto ha comprato casa, mentre era Sostituto Procuratore, a S.Giovanni la Punta, da un mafioso, direttamente o per interposta persona; il mafioso (Rizzo Carmelo) è poi morto da tale, per mano di altri mafiosi.

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Libri

In libreria Luigi Politano Pippo Fava Lo spirito di un giornale

ROUND ROBIN

Edizioni

Round Robin

Catania 1980. Nella Milano del sud il clan di Nitto Santapaola domina, in una terra meravigliosa e maledetta, una città in cui coesistono cosa nostra e istituzioni in un gioco di potere fatto di morti ammazzati, grandi opere, corruzione e fiumi di denaro. A Catania vive e lavora un giornalista, Giuseppe Fava, che racconta la verità senza tralasciare nessun particolare. Amori, morte, disperazione e bellezza nelle parole di “Pippo” che diventa il pericolo da abbattere a tutti i costi. Dalla pittura, ai racconti, alle opere teatrali tutto di Pippo Fava è pieno dell'amore per la sua terra. Ed è proprio dopo un anno di pubblicazione de I Siciliani - un mensile di denuncia che farà storia nella lotta per la libertà di informazione - che il giornalista verrà ucciso con cinque proiettili sparati a sangue freddo da spietati killer che il 5 gennaio del 1984 decisero di giustiziare colui che non sarebbero mai riusciti a far tacere.

Il fumetto narra l'esperienza di un uomo che affronta a viso aperto, e con la sola forza delle parole, un sistema che nessuno ebbe il coraggio di denunciare. Nel 1981 Pippo Fava scriveva: “A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: 'Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, né la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!'”

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La Round Robin nasce nell'autunno del 2004 dall'idea di giovani studenti universitari, con l'idea di costituire un nuovo soggetto editoriale indipendente in grado d entrare nel mondo dell'informazione con un giornale on line – rivistonline.com – e con la pubblicazioni di romanzi e saggi di giovani promesse della letteratura italiana e straniera. Costituitasi come società editrice nel maggioos 2005, vanta la produzione di un catalogo con titoli che riscuotono un discreto successo nelle librerie. Oltre alla produzione di romanzi e saggi, nelle collane “Parole inviaggio”, “Fuori rotta”, “Fari”, “Corsari”, la casa editrice continua a proporre ai suoi lettori temi di stretta attualità inaugurando la pubblicazione di una serie di Graphic novel, certi dell'importanza di sperimentare nuovi linguaggi. Fumetti dedicati agli eroi dell'antimafia prendono vita nella collana “Libeccio”, in collaborazione con l'associazione “DaSud onlus”.


Dibattito nell'antimafia/1

“La nostra rivoluzione con la forza dell'umiltà” Lorenzo Baldo, redattore di punta di Antimafia Duemila, da dieci anni segue sia i processi di mafia che le vicende dei movimenti antimafiosi. Gli abbiamo chiesto un parere sulla situazione attuale dei movimenti e sui problemi che li attraversano ora Palermo. Violenza intrisa nelle mura e nelle strade. Vita e morte in eterna contrapposizione. Città di rinascita, di resistenza e di rivoluzione. Culturale e spirituale. Le giornate del 18° anniversario della strage di via d'Amelio sono terminate. Un piccolo “esercito” di ragazzi e ragazze si appresta a rientrare nella propria lotta quotidiana. Molto spesso di sopravvivenza. Un “esercito” formato da tanti piccoli “Davide” ha osato sfidare “Golia” nella sua tana. Ma questa volta il gigante filisteo che terrorizzava gli ebrei sfidandoli a duello ha molte più facce. “Davide” si fa scudo con un'agenda rossa, “Golia” lo osserva vitreo dietro i vetri scuri di un'auto blu. O dietro il sorriso beffardo di qualche picciotto desideroso di fare carriera. Nel mezzo del guado l'ombra del popolino cinicamente indifferente o rassegnato. Il grido di Salvatore Borsellino echeggia sul cammino verso il Castello Utveggio. “Davide” è dietro di lui. Lo sguardo di Salvatore si perde all'orizzonte. Sa. E' consapevole del tempo che gli resta. La sua “milizia” aspetta. Lo osserva e da lui aspetta un cenno. Alla richiesta di verità incarnata dal fratello di Paolo Borsellino molti di questo popolo delle agende rosse rispondono con un nuovo senso di responsabilità. Una nuova forma di lotta alla mafia passa anche

attraverso di loro. Molti di essi hanno grandi potenzialità. Faranno la differenza. Lo percepisci dalla loro serietà. Dal loro modo di affrontare quella che alcuni sentono come una “causa” di vita. Una dedizione scevra di eccentricità o smania di protagonismo. Ragazzi dalla ferrea volontà di capire come stanno le cose. Ansiosi di comprendere giorno dopo giorno quel “gioco grande” dove il bianco e il nero si fondono sempre di più in una striscia grigia. Desiderosi di sapere chi c'era prima di loro e chi è rimasto. Delle primavere palermitane, dei coordinamenti antimafia e delle catene umane poco sanno.

Ma nei loro occhi ritrovi quell'entusiasmo e quella passione civile troppo spesso scomparsi dai volti di alcuni “vecchi” dell'antimafia sopraffatti dalle divisioni o dalle competizioni, o semplicemente eclissati. La posta in gioco è molto alta. Il momento storico che stiamo vivendo è delicatissimo. La presenza di un'opinione pubblica cosciente può contribuire enormemente al raggiungimento della verità. Di contro la politica continuerà a sferrare attacchi violentissimi nei confronti di quella magistratura che vuole fare luce sui buchi neri del nostro Paese. E quella stessa politica tenterà ancora una volta di insinuarsi nelle pieghe di questi nuovi movimenti per svuotarli dall'interno rendendoli così inoffensivi. A loro, ai tanti “Davide” dall'agenda rossa incontrati in questi giorni, l'appello a mantenersi saldi con l'obiettivo da raggiungere bene in testa. Con la forza dell'umiltà e della perseveranza si potrà realmente fare quella “rivoluzione culturale” di cui Palermo, la Sicilia, l'Italia intera necessitano come dell'ossigeno. Solamente unendo le forze con chi è rimasto sul campo a combattere, anche se diverso da noi, avremo una possibilità di vittoria. “Golia” scalpita, sente il terreno sotto i piedi diventare friabile, ma la guerra contro Cosa Nostra è tutt'altro che vinta. Lorenzo Baldo

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Dibattito nell'antimafia/2

“Noi militanti semplici ci dobbiamo unire” Benny Colasanzio, uno degli organizzatori delle “Agende Rosse”, è un tipico esponente della generazione generazione di mezzo del movimento antimafia. Anche a lui abbiamo chiesto un'opinione sui limiti limiti e problemi attuali del movimento e, naturalmente, sul “che fare” La diagnosi è spietata e non lascia molte speranze; non so quanto tempo gli rimanga da vivere. Certo se non si fa qualcosa il movimento o i movimenti antimafia hanno i giorni contati. “Un mese, un anno, chi lo sa”, dice la suora al capezzale col rosario in mano. Un organismo eccellente, composto da persone di altissimo livello, lacerato sempre dallo stesso virus, dallo stesso male oscuro che ormai ciclicamente affossa quanto di buono negli anni si è costruito. La nostra situazione è tra le più paradossali: a fronte di una mafia unica e compatta, della camorra che si allea con la ‘ndrangheta che a sua volta stringe legami coi narcos colombiani, c'è un'antimafia spaccata, frazionata e lacerata fino in fondo, senza più nemmeno la voglia di provare a ricucirsi. Una tendenza all’autodissoluzione. Perchè questo? E’ un interrogativo secolare che certo non può avere una risposta assoluta, in particolare da parte di un giovanotto che poi è parte in causa. Qualche riflessione però si può ancora fare. Quei due, leader di quelle due associazioni, non si possono vedere, come si dice in Sicilia. Perchè una volta ad una conferenza lui non lo ha invitato. E allora nemmeno l’altro lo invita alla tavola rotonda sulla mafia dal titolo, per esempio, “unità nell’antimafia”. Tutti e due però non sopportano quell’altra, perchè una volta ha stretto la mano a quel politico; l’antimafia non deve guardare in faccia a nessuno, e nemmeno in mano. Ad accomunare i nostri leader antimafia è il cattivo sangue che scorre verso quell’altro dell’associazione contro il pizzo, perchè una volta hanno detto che le altre associazioni fanno poco, e allora noi ora gliela facciamo vedere. Mancanza di dialogo, caratteri difficili, orgoglio eccessivo e incapacità di guardare oltre il proprio orto, seppur ben curato e in fioritura. Difficoltà a percepire la mafia come il problema comune in assoluto, piuttosto che qualcosa ormai relegato in secondo piano a favore di polemiche politiche o

peggio ancora personali. Siamo qui tutti per lo stesso motivo, no? E se per caso qualcuno delle seconde file alza la mano e suggerisce che siamo fuori strada, che le critiche possono migliorare il tutto e il fine, beh, molto probabilmente verrà preso e portato di fronte al tribunale dell'unità, che ne decreterà l'esilio per alto tradimento. Io credo di averle tutte queste pecche, tanto per cominciare. Solo qualche giorno fa, all’anniversario di Via D’Amelio, ho capito quanto possa essere devastante tutto ciò; l'ho capito stando nelle retrovie, cogliendo umori e sguardi. Sto lavorando, innanzitutto su me stesso, per tornare sulla buona strada. Una strada che se tenuta bene sarebbe un’autostrada, una rampa di lancio che tornerebbe a far paura ai quattro quaraquaquà rimasti in Cosa nostra tutelati da altri quattro quaraqualà che siedono nelle istituzioni e che lentamente vengono denudati oggi dalla magistratura. E invece no. Abbiamo le antimafie, le antipatie, le incomprensioni. E mai che qualcosa scappi, per carità. In questo la memoria ci assiste. Provate. Chiedete al presidente di questa associazione perchè non organizzano più manifestazioni, conferenze e convegni assieme a quell’altra: “perchè due anni tre mesi e un giorno e mezzo fa all’an-

niversario di un cristo ucciso dalla mafia lui mi ha guardato di tre quarti e non mi ha salutato abbastanza”. Ovvio, qui voliamo bassi, siamo banali e stereotipizzati. Un motivo per avercela con noi, visto quanto basta poco. Una possibile soluzione, però, la voglio suggerire: i militanti semplici, i soldati senza medaglie, quelli dall’altra parte del tavolo dei relatori una cosa la possono fare. Si possono unire, sul web magari, e chiedere che una volta per tutte la smettessero gli opinion leader, i capi popolo, i portavoce, di perdere tempo a starsi sulle palle l’un l’altro, che poi è anche un peso e una fatica oggettiva. E costringerli ad incontrarsi, agli stati generali dell’antimafia. Un grande incontro a cui invitare ogni associazione, gruppo o movimento che condivide il fine di schiacciare mafia e mafiosi. E poi obbligarli a promettere solennemente che da quel momento in poi sarebbe iniziata un’altra epoca, fatta di dialogo costante e di motivazioni univoche. L’Antimafia 2.0. Forse sono andato troppo oltre. L’ottimismo crea questi effetti perversi. Ti fa pensare che davvero tutto ciò sia possibile. Che nessuno se la sentirebbe di sottrarsi a questo obbligo morale. Rimetto via sogni e speranze, e torno a fare il mio lavoro di testimonianza civile nelle scuole, nelle associazioni. Torno a raccontare, da solo e con il dolore di una famiglia, una piccola storia di uomini qualunque, come tanti in Sicilia, uccisi per quella testa tenuta eccessivamente alta. E finisco un articolo scritto per un caro amico come mai si dovrebbe fare: una soluzione, riflettendoci, purtroppo non ce l’ho, e l’ottimismo l’ho esaurito poco sopra. Forse è ora che i “leader” stiano fermi: lasciamo spazio a quelli che stanno davanti al tavolo dei relatori, a quelli in seconda fila, che forse qualcosa da dire ce l’hanno anche loro, che forse il diritto all'unità ce l'hanno anche loro. Benny Calasanzio

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Giornalisti coraggiosi, editori vili

Calabria Ora, Calabria mai In basso: il direttore di Calabria Ora, Paolo Pollichieni.

Pollichieni, Comito, Pantano, Talarico, Graziadio, Vetere, Petrasso, Furia, Mazzuca e Ricchio: ecco dieci calabresi coraggiosi che amano la loro terra e l'hanno servita con coraggio e onore dalle pagine del loro giornale. Fausto Aquino e Piero Citrigno, invece, sono due calabresi poveracci (d'animo, non di soldi: sono infatti i padroni del giornale) che non hanno avuto le palle di sostenere i loro giornalisti e li hanno fatti andar via. Altri dieci cronisti in mezzo alla strada, poveri, abbandonati e minacciati dai mafiosi «Io, con i carabinieri e polizia sotto casa, metto in strada la mia famiglia». E’ appena finita l’assemblea di redazione a Calabria Ora. Pietro Comito ha le dimissionsi nel cassetto, ci dice, e gli anno intensificato la sorveglianza. E’ sotto tutela perché lo scorso cinque luglio un picciotto per telefono gli ha detto che per lui è già pronto il posto al cimitero. Aveva pubblicato un pezzo sull’avanzata delle nuove leve del clan Soriano di Vibo Valentia. Agostino Pantano, responsabile della redazione di Gioia Tauro, se n’è già andato. Lui di minacce ne ha ricevute due. L’Ora della Piana, il dorso che realizza assieme a pochi collaboratori, un paio di anni fa è finito nelle conversazioni intercettate in carcere tra il boss Pino Piromalli e il figlio Antonio: «Calabria Ora continua a rompere i coglioni», diceva il patriarca al 41bis. Agostino nel mirino e ora senza più un lavoro. Ha seguito il direttore Paolo Pollichieni che il 20 luglio ha salutato i lettori con un editoriale che lascia poco spazio alla fantasia: «Sapevo che raccontando le inchieste giudiziarie delle ultime settimane, che scrivendo dei rapporti tra la mafia e la politica, raccontando anche i retroscena più inquietanti di quella zona grigia che è il vero capitale sociale della ‘ndrangheta, avremmo pagato dei prezzi altissimi.» Lo stesso gior-

no sono andati via il caporedattore centrale Barbara Talarico, i vicecaporedattori Francesco Graziadio e Stefano Vetere, il caposervizio di Cosenza Pablo Petrasso, quello della Cultura Eugenio Furia e il responsabile delle Cronache politiche Antonio Ricchio. Dopo alcuni giorni anche Gaetano Mazzuca, caposervizio di Catanzaro.Tutti si sono dimessi. Otto giornalisti, l’ossatura del quotidiano.

«Un segnale sicuramente negativo – ha dichiarato il procuratore nazionale antimafia aggiunto Vincenzo Macrì – che dimostra la forza di intimidazione e di condizionamento che la ‘ndrangheta sa esercitare non solo direttamente (come dimostrano le numerose minacce dirette ai redattori del giornale ed allo stesso direttore), ma anche attraverso i suoi esponenti e referenti politici e istituzionali». Ma cosa è accaduto? E accaduto che il direttore ha lasciato nel giorno in cui, in prima pagina, il titolo strilla: «E Peppe incontrò il mafioso. A Milano Scopelliti vide più volte Martino, “ambasciatore” del clan De Stefano». Giuseppe Scopelliti, il governatore della Regione eletto lo scorso marzo. Pollichieni lascia mentre il giornale ha picchi di vendita di quindicimila copie (quando lo prese, tre anni fa, non arrivava a quattromila). Lascia al culmine di una campagna di stampa che da alcune settimane scava incessantemente nelle pieghe del potere politico mafioso calabrese. In un momento in cui sono sul piatto due inchieste della magistratura, Meta e Il Crimine, cha hanno avuto un impatto devastante sul tessuto criminale di Reggio città. E Scopelliti a Reggio città è stato sindaco per sette anni, rieletto nel 2007 col 70% dei voti. E così si scopre, e si pubblica, che il 15

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Giornalisti coraggiosi, editori vili

ottobre del 2006 l’attuale governatore partecipò, assieme a ‘ndranghetisti del calibro di Cosimo Alvaro, alle nozze d’oro dei genitori di compare Mimmo Barbieri, imprenditore arricchitosi con i pubblici appalti, arrestato per mafia lo scorso 23 giugno. E così si scopre, e si pubblica, che l’allora sindaco Scopelliti avrebbe ripetutamente incontrato a Milano Paolo Martino, «cugino dei De Stefano e a loro legatissimo al punto di essere arrestato e condannato per associazione mafiosa, traffico di armi e riciclaggio». «Al centro delle indagini – pubblica il giorno del terremoto, Calabria Ora – il vorticoso giro di appalti che alcune imprese reggine vicino ai clan avrebbero ottenuto in Lombardia con l’intermediazione di grossi esponenti politici lombardi del centrodestra attivati dai loro colleghi reggini.» «La cosa incredibile – ci dice l’ex direttore – è la fretta con cui si è sviluppata questa rottura. Da settimane ormai seguivamo questo filone senza ricevere nessun tipo di avvertimento, né smentite, né minacce di querele. Gli editori sapevano che l’altro ieri saremmo usciti con questa notizia e hanno cercato il pretesto. Uno di loro, Pietro Citrigno (condannato in secondo grado per usura, ndr), mi ha chiesto di avere rapporti più frequenti con la redazione. Un’ingerenza che non potevo accettare e per questo mi

sono dimesso.» Un pretesto, dice Pollichieni, «il vero motivo è scritto nero su bianco nel mio editoriale». «Sapevamo – c’è scritto – che il potere avrebbe esercitato tutte le pressioni possibili per chiedere la testa del direttore di questo giornale, per normalizzare, per avere un giornale meno impiccione che anche quando parla di mafia non lo fa riempiendo le pagine della mafia folk, quella di Osso, Matrosso e Carcagnosso.» Quell’editoriale (e il pezzo su Scopelliti) in edicola lo hanno trovato in pochi. Calabria Ora il 20 luglio è arrivata puntuale solo a Cosenza, a Reggio dopo le undici, in tutte le altre province non è mai arrivato. Guasti alle rotative, hanno dichiarato gli editori. Il giorno dopo era firmato da uno di loro, Fausto Aquino. In pagina, i fondi europei che Scopelliti è riuscito a portare in Calabria, dell’inchiesta sulle frequentazioni coi De Stefano nemmeno l’ombra. Così come nei giorni successivi. Ai calabresi non è dato sapere. Ai redattori rimasti, Aquino ha detto che sarà assicurata la loro autonomia, che la linea sarà garantita dal nuovo direttore, Piero Sansonetti, ex direttore di Liberazione e de L’Altro, e che forse avrà messo piede in Calabria giusto da turista. Calabria Ora aggressiva, colorata, rompi-

coglioni, ha di fatto vivacizzato nei suoi quattro anni di vita il panorama dell’informazione calabrese. Un corpo redazionale composto per lo più da giovani, mediamente trentenni. La necessità di imporsi e quindi di crescere in un mercato pubblicitario asfittico, in un regione dove il tasso di lettura è il più basso d’Italia. In queste condizioni, il giornale, negli ultimi tre anni ha raddoppiato le copie. E lo ha fatto dando notizie. Non poteva fare altrimenti. Puntando sulla giudiziaria, strillando a volte, ma andando a fondo, vivisezionando il territorio, raccontandolo in tutte le sue contraddizioni. Per farlo ha pagato un prezzo altissimo in termini di serenità dei suoi redattori. In questi tre anni, una decina i giornalisti, come Pietro Comito e Agostino Pantano, sono stati pesantemente minacciati dalla ‘ndrangheta. Alcuni di loro oggi vivono drammi personali e professionali altissimi, alcuni perdono il posto di lavoro, fanno «il salto nel buio», altri continueranno a lottare dal di dentro: «Voglio provare a vedere cosa succede – dice Alessandro Bozzo, padre di famiglia minacciato lo scorso ottobre – voglio crederci ancora, ché se in questa regione anche per il 20% si riesce a fare informazione, io in quel 20% voglio restare.» Roberto Rossi

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Giornalisti coraggiosi, editori vili

“Cari lettori, vi dico addio” L'ultimo editoriale di Paolo Pollichieni, il giornalista cacciato perché denunciava i rapporti fra politici e mafiosi Cari lettori, questo è l’ultimo editoriale che firmo su Calabria Ora. Lascio la direzione del giornale per motivi indipendenti dalla mia volontà. Ieri mi è arrivata una richiesta dagli editori: intendono avere una presenza più forte nella fattura del giornale. Una richiesta certamente rispettabile, ma che non esiste in natura: l’editore fa l’editore, sceglie un direttore che risponde della linea politica e dei contenuti del giornale, il rapporto tra le due figure è fiduciario, quando la fiducia viene meno l’editore sceglie un altro direttore. Tutto qui, così si fa in Italia, in altre realtà (Corea del Nord?) è l’editore stesso a dettare linea politica e contenuti. Lascio un giornale – e con me lo lasciano anche il caporedattore, i due vicecaporedattori, il caposervizio di Cultura e Spettacoli, quello di Cosenza e il responsabile delle cronache politiche – che avevo preso più di tre anni fa, quando nelle edicole calabresi vendeva quasi quattromila copie. Oggi le copie vendute (il più importante riferimento, anche se non l’unico, che può certificare il successo o meno di una iniziativa editoriale) sono in media ottomila con picchi di quindicimila. Il merito è tutto intero della Redazione, delle giornaliste e dei giornalisti che in questi anni hanno condiviso l’esperienza di CalabriaOra. Gli errori commessi, le sottovalutazioni, i giudizi sbagliati dati su alcune vicende della vita politica e sociale calabrese, sono tutti miei. Ma sarei poco sincero se non dicessi che quello che è accaduto era prevedibile. Sapevo, e con me i colleghi che hanno firmato gli articoli, che raccontando le inchieste giudiziarie delle ultime settimane, che scrivendo dei rapporti tra la mafia e la politica,

non limitandoci al doveroso applauso verso le forze dell’ordine e i magistrati, ma raccontando anche i retroscena più inquietanti di quella zona grigia che è il vero capitale sociale della ‘ndrangheta, avremmo pagato dei prezzi altissimi. Sapevamo che nessun politico importante di questa regione poteva rimanere indifferente agli articoli che parlavano delle sue equivoche frequentazioni, dei ricevimenti organizzati da imprenditori oggi arrestati per mafia, di quei banchetti dove con i mafiosi brindavano politici eccellenti. Storie che solo Calabria Ora ha raccontato. Sapevamo che il potere avrebbe esercitato tutte le pressioni possibili per chiedere la testa del direttore di questo giornale, per

normalizzare, per avere un giornale meno impiccione che anche quando parla di mafia non lo fa riempiendo le pagine della mafia folk, quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Quella che indigna tutti, anche chi va ai banchetti dei mafiosi e chi dalla mafia prende voti. Se questa fosse una partita, da sportivo non avrei difficoltà a dire che il potere ha vinto, almeno per il momento. Uno a zero a palla al centro. Anche se sul campo i giocatori che giocano la partita giusta sono pochi in questa regione. La stampa è debole, l’opposizione inesistente, divisa com’è tra lobby e vecchi gruppi di potere. La società civile è sola, mille fermenti, moltissimi positivi, soprattutto tra i giovani, milioni di divisioni e di gelosie. Non raccontiamoci frottole, non inganniamo i lettori: hanno vinto loro, ma è solo il primo tempo della partita. Vado via con la soddisfazione di aver costruito una Redazione meravigliosa, di giovani giornalisti che hanno saputo coniugare la loro freschezza con l’esperienza dei più anziani, uomini e donne dalla schiena rigida, curiosi, preparati, attenti, colti, coraggiosi. Nessuno di loro si è fatto mai intimidire dalle minacce, e sono tante, ricevute dalla ‘ndrangheta. E’ stato un impagabile privilegio lavorare con gente così. Li potrei nominare uno ad uno, di ognuno elencare i pregi, come si fa con i figli che hai amato e che ti sono stati vicini sempre. Di fronte a persone così in molti dovrebbero togliersi il cappello. Questa è la Calabria migliore, a loro devo molto e solo a loro e ai miei lettori devo dire grazie. Ci rivedremo presto. E sempre con la schiena diritta. Paolo Pollichieni

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Libera informazione

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Interviste

Nonviolenza oggi fra impegno sociale e non accettazione E' in corso un dibattito fra i pacifisti italiani sul significato della nonviolenza nel drammatico e violento mondo (e Paese) in cui viviamo. Solo “un dire di no” o anche un lottare attivamente per qualcosa? L'hanno chiesto anche alla nostra Sonia Giardina, che gli amici del nostro piccolo giro (Ucuntu, Lavori in Corso, Periferica, Cordai...) conoscono bene. Ed ecco le sue risposte Come è avvenuto il suo accostamento alla nonviolenza? Mio padre era un ambientalista e un militante di sinistra. All’età di cinque anni mi portava alle manifestazioni contro l’installazione dei missili Cruise nella base Nato di Comiso (in provincia di Ragusa). Erano i primi anni '80. Ho pochi ricordi di quel periodo. Conservo soprattutto delle immagini e delle sensazioni. Mi piaceva sventolare la bandiera italiana fatta da mio padre in carta velina. Avevo capito poco di quello che stava accadendo, ma sapevo che c’erano due schieramenti: delle persone disposte a qualsiasi forma di violenza, pronte a uccidere pur di realizzare i propri interessi, ed altre che sognavano e lottavano per un mondo senza guerra nè odio... Poi, penso che non ci sia stato un evento o un incontro scatenante a spingermi verso la nonviolenza. È stata piuttosto una lenta maturazione, la crescita di un modo di pensare e di agire in cui la nonviolenza è una necessità e un valore da portare avanti quotidianamente. Quali personalità della nonviolenza hanno contato di più per lei, e perché? Non ho figure elette di riferimento, perché innumerevoli sono i tentativi di impegno nonviolento sino ad oggi. Piccoli pezzi di lotta per un mondo diverso, con metodi e forme spesso contrastanti. Ognuno dà il suo apporto, secondo il suo percorso, la sua tradizione e la sua visione del mondo. Alcuni hanno spesso operato distaccandosi dal

concetto più diffuso e riduttivo di nonviolenza. Anche Malcolm X rappresenta una tappa importante della nonviolenza, se con questo termine si intende la lotta contro la violenza che un Stato, un sistema o un singolo possono esercitare sugli uomini. Quali libri consiglierebbe di leggere a un giovane che si accostasse oggi alla nonviolenza? E quali libri sarebbe opportuno che a tal fine fossero presenti in ogni biblioteca pubblica e scolastica? Le Lettere dei condannati a morte della Resistenza e Se questo è un uomo. Quali iniziative nonviolente in corso oggi nel mondo e in Italia le sembrano particolarmente significative e degne di essere sostenute con più impegno? Tutti i percorsi di resistenza e lotta che mirano a un mondo migliore e alla difesa dei diritti fondamentali dell’uomo, il diritto alla vita e quello all’autodeterminazione primi fra tutti. In quali campi ritiene più necessario ed urgente un impegno nonviolento? La nostra società si basa sull’oppressione purtroppo. L’impegno nonviolento deve abbracciare tutti i campi. Non ci sono ambiti privilegiati, anche se ci sono individui che subiscono una violenza maggiore rispetto ad altri. Ovunque deve nascere o deve continuare a crescere un impegno di resistenza perché senza la resistenza si rinuncia ad un mondo di libertà e di democrazia, basato sul rispetto degli altri.

Quali centri, organizzazioni, campagne segnalerebbe a un giovane che volesse entrare in contatto con la nonviolenza organizzata oggi in Italia? Consiglio semplicemente un impegno quotidiano per il bene del singolo e dell’intera collettività. Ognuno può scegliere il gruppo o l’associazione che porta avanti il progetto più vicino al proprio modo di pensare ed agire. Come definirebbe la nonviolenza, e quali sono le sue caratteristiche fondamentali? Per me non si può dissociare la nonviolenza dalla resistenza. Perché se la violenza in un paese pseudo-democratico o meno corrisponde all’indifferenza e al cinismo, alla prevaricazione e all’affermazione degli interessi di una minoranza sui diritti della maggioranza (in primo luogo il diritto ad un tetto, alla libera espressione, all’istruzione, al lavoro e alla sanità), l’unica nostra risposta è la resistenza. Resistere, anche se questo può significare restare fuori posto. Ma non concepisco l’accettazione passiva, l’essere costretti ad una vita o a qualcosa che mai avremmo voluto. Ogni giorno si subisce la violenza di un sistema in cui non ci si ritrova, che non si riconosce come proprio. E allora è necessaria la lotta per un mondo migliore. Per molti potrebbe sembrare un sogno, una follia. Ma è pur sempre un piccolo tassello nella costruzione di un mondo migliore. Insomma, io non credo

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Interviste

in una nonviolenza intesa come accettazione, come non-risposta, sarebbe una rinuncia alla libertà di tutti. Cosa apporta la nonviolenza alla riflessione sull’educazione? L’importanza di far acquisire a ciascuno di noi la consapevolezza della propria responsabilità nella lotta verso la liberazione, nel non farci soggiogare, nel perseverare nel cammino della nonviolenza e nella costruzione di un mondo per l’uomo in cui la libertà di ognuno sia la base della libertà dell’altro. Tra le tecniche deliberative nonviolente ha una grande importanza il metodo del consenso: come lo caratterizzerebbe? Come condivisione delle scelte. Credo profondamente nella democrazia partecipata. Quali mezzi d'informazione e quali esperienze editoriali le sembra che più adeguatamente contribuiscano a far conoscere o a promuovere la nonviolenza? Voglio parlare della nonviolenza nell’ambito dell’informazione a Catania, la città in cui vivo. Tante piccole testate ("UCuntu", "La periferica", "Catania possibile", "I Cordai", ecc.) promuovono un’informazione libera contro la violenza delle falsità e delle manipolazioni imposte dai grandi quotidiani locali e nazionali. Qui da noi quasi tutte le testate locali appartengono ad un unico imprenditore che controlla tv, radio e pubblicità. Si chiama Mario Ciancio ed è il pic-

colo Berlusconi del sud. Io faccio parte di "UCuntu" (e non solo), magazine online che prosegue l’esperienza di Giuseppe Fava, giornalista ucciso dalla mafia negli anni '80. "Ucuntu" non è l’unica l’esperienza a Catania, tanti altri giornali lottano contro un sistema informativo che schiaccia e violenta il diritto dei cittadini ad essere informati e il dovere dei giornalisti ad informare. Questa è la nostra lotta, raccontiamo la Catania che i media nascondono, facciamo informazione dal basso. Resistiamo assieme, condividendo gli obiettivi anche se ricorrendo a forme e pratiche diverse. Ogni giorno facciamo rete, perché solo se si è uniti le forze si moltiplicano e si può creare una vera alternativa. Quali rapporti vede tra nonviolenza e femminismo? L’impegno nonviolento è uno solo, poi si declina in molteplici ambiti con forme diverse. Non bisogna mai perdere di vista l’insieme, l’importanza di una risposta collettiva alla violenza esercitata dal sistema. Non bisogna procedere per compartimenti stagni: antirazzismo, femminismo, ambientalismo sono forme di opposizione al sistema. Se non vengono inquadrati in un’ottica complessiva, perdono di significato diventando delle lotte con rivendicazioni prive di una progettualità ampia. Tale progettualità può nascere solo da una duplice consapevolezza: cioè che stiamo subendo la violenza di un sistema e che senza un fronte comune

imbocchiamo un vicolo cieco. Quali rapporti vede tra nonviolenza ed ecologia? È la stessa risposta data alla domanda precedente. Potrebbe presentare la sua stessa persona (dati biografici, esperienze significative, opere e scritti...) a un lettore che non la conoscesse affatto? Come dicevo prima, cerco di fare informazione scrivendo su diversi giornali. Ma non solo. Sono una regista cinematografica e la forma espressiva da me prediletta è quella documentaristica. Sento il bisogno di raccontare tutti gli sforzi di resistenza dell’uomo; la videocamera è il prolungamento del mio occhio, fa parte del mio corpo perché registra attraverso le immagini il mio modo d\i interagire con gli altri, i miei sussulti, i miei gridi, la mia ricerca. Con la camera esploro i meccanismi nascosti sotto l’apparenza delle cose. Mi interessano gli uomini, cosa essi sentono di fronte ai soprusi del sistema e come rispondono a tali violenze. Nel mio piccolo è quello che faccio quando filmo e poi quando monto. Insegno anche cinema a bambini, ragazzi e adulti. E con loro cerco di fare lo stesso percorso tentando di sviluppare capacità critiche verso le immagini che ci bombardano ogni giorno e di esplorare il mondo raccontandolo per immagini. Paolo Arena e Marco Graziotti, Viterbo oltre il muro

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Memoria

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Interventi

Come onorare Falcone e Borsellino Non credo che il modo migliore di onorare la memoria di Falcone, Morvillo, Borsellino e degli agenti di scorta caduti con loro sia collocare due statue in una panchina di via Libertà. Non solo perché la mancanza di senso civico di gran parte degli abitanti di Palermo le esporrebbe al continuo vilipendio riservato al patrimonio monumentale cittadino (si veda come è ridotto il piedistallo della statua di Ruggero Settimo nella centralissima piazza Politeama) ma soprattutto perché ci sono tanti altri modi, molto più significativi, di costruire memoria e fare antimafia. Da anni il Centro Impastato pone il problema di una legge regionale che regoli con criteri oggettivi l'erogazione di fondi pubblici per attività culturali e antimafia in particolare. Una battaglia finora perduta perché nessun altro ha voluto sostenere la nostra richiesta e parecchi continuano a ricevere soldi pubblici con metodi personalistici e clientelari. E' rimasta ugualmente isolata la nostra proposta di costituire un Memoriale della lotta alla mafia che sia insieme percorso storico, biblioteca-videoteca-emeroteca e luogo di incontro ed elaborazione di pro-

On.Napoli, si ricorda di Pignataro? getti comuni. A settembre sarà pronta l'Agenda dell'antimafia 2011, che vuole far rivivere quotidianamente la memoria delle lotte contro la mafia e per la democrazia nel nostro Paese, una grande storia collettiva e non l'impegno solitario di singoli eroi. Su questi terreni dovrebbero concentrarsi gli sforzi di chi crede che l'antimafia sia un progetto di società e di vita quotidiana, in un contesto in larga parte legato alle varie forme di illegalità, e non un monumento come quello, bruttissimo e non per caso dimenticato, in piazza 13 vittime, o quest'altro, oltretutto non di particolare pregio artistico. Umberto Santino Presidente del Centro Impastato www.centroimpastato.it

Caro Orioles, appena puoi chiedi all'on. Angela Napoli notizie sulla relazione di maggioranza dell'antimafia del 2006, dove si scriveva che a Pignataro Maggiore (Caserta), in un immobile confiscato al boss Raffaele Ligato, c'erano due caserme: una della Finanza e un'altra dei Carabinieri. Notizia falsa: nel bunker Ligato non c'erano e non ci sono caserme; anzi l'immobile era rtornato nella piena disponibilità della camorra. La notizia falsa forse servì al sindaco Giorgio Magliocca (An) per accreditarsi in qualche ambiente sedicente antimafia. Il paese in questione l'on. Napoli se lo ricorda sicuramente bene: alle elezioni europee del 2004 aveva preso una valanga di preferenze dalla sezione di An con a capo il sindaco Giorgio Magliocca. In quale altra parte d'Italia possono far arrivare notizie false alla Commissione antimafia e farle prendere per buone? Solo a Pignataro Maggiore, la "Svizzera dei clan". Enzo Palmesano Comitato Anticamorra comitato_anticamorra@virgilio.it

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Satira

Morizzi Capitolo ventisette Riassunto delle puntate preceden... Beh, l'ultima volta eravamo ancora nel Novecento

«Prego, può entrare». La segretaria, con vellutato fare da Gran Sacerdotessa dei Misteri, annuì severa in direzione della porta. Il momento era arrivato, l’incontro col Gran Capo. Il Ragioniere, abituato a stanze affollate e sudate si sentì minuto e sciocco al cospetto della grande scrivania che, da sola, occupava lo spazio a disposizione sua, del Ragionier Perella e del Geometra Bertenghi. La pianta, poi, una palma degna dell’orto botanico, avrebbe potuto accogliere sotto le sue ampie chiome persino il Dr. Velluri al quale, come si sa, piacciono molto i dolci. E poi ci sarebbe anche da considerare la D.ssa Martesano, in effetti, ma lei era, invece, molto attenta alla linea. Da poco aveva dovuto lasciare la sua stanza singola, la Dott.ssa, per precipitare nella loro promiscuità. Esigenze di spazio, disse l’Azienda, gli affitti costano, i locali devono ridursi e bisogna fare un sacrificio. La Dott.ssa non se n’era data pace, la poverina, e fu in quelle settimane che cominciò ad interessarsi di filosofie orientali sino a partire, qualche tempo dopo, per andare a santoneggiare in India. Ingrassando pure, peraltro; ma nel momento in cui il Ragiozniere varcò la dirigenzial soglia la Dott.ssa ancora studiava testi di marketing in inglese, era molto attenta alla linea e sarebbe potuta entrare comodamente nel vaso della gran palma. «Ragioniere, proprio lei» lo accolse affabile il Capo. Lo affascinò di discorsi confidenziali sui massimi sistemi economici e aziendali, lo mise a parte di inconfessabili segreti in realtà noti a tutti e poi gli comunicò che gli offrivano una nuova opportuni-

tà. Generalmente quando il Capo o il Responsabile del Personale parlano di nuove opportunità alludono alla possibilità di trovare sufficienti argomenti per scrivere il ventisettesimo, il ventottesimo e il ventinovesimo capitolo del saggio “Tagliarsi le

vene e morire in allegria”. Ma questa era un’opportunità sfidante, e allora si poteva arrivare con nonchsalance a trentasei capitoli. Stava quasi per comunicagliela quando dei colpi secchi si abbatterono sulla porta. La Gran Sacerdotessa strillò al vilipendio e al sacrilegio ed entrarono facce giuste di sindacalisti arrabbiati. Tesa l’atmosfera, Il Ragioniere avrebbe voluto (e anche potuto, in effetti, date le dimensioni) nascondersi dietro la palma, ma il primo di quei sindacalisti si precipitò contro il tavolo salmodiando a gran voce “inaccettabile”. Si riferiva, s’apprese poi, all’ultimo ordine di servizio emanato dal Personale.

«Venti! E’ fuori discussione» sbraitava paonazzo, lacrime agli occhi, muscoli contratti del collo, spalleggiato dal non meno esasperato compagno che annuiva e controcantava “inaccettabile!” in ottava superiore. Il Capo annuiva e si rendeva conto, ma erano esigenze di servizio. «E’ fuori discussione» barrivano i sindacalisti. «In Cina hanno accettato le cinquanta» constatò il Capo col tono che non sarebbe per nulla sfigurato anche in caso di “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio”. «Ma noi non siamo in Cina» cercò di obiettare il sindacalista, evidentemente ferrato in Geografia. «E allora vuol dire che ci trasferiremo in Cina» annuì comprensivo il Capo, con quella severa autorevolezza che fa dire al bravo chirurgo che sì, è necessario operare, è necessario per salvare la vita, è deontologico. «Tre, non una di più» rilanciò il sindacalista. Alla fine mediarono: dodici, non più di dodici staffilate per turno nel caso di mancato rispetto dei tempi di lavoro. Ma il Capo era convinto che di questo passo nulla sarebbe poi rimasto in Italia. Non si era al passo coi tempi, e con il mercato globale. I sindacati, oltretutto, non avevano compreso la modernità . «Dicevamo?- riprese quando i sindacalisti si congedarono per stilare un comunicato grondante senso di responsabilità – Ah sì! un’opportunità sfidante». Jack Daniel http://dajackdaniel.blogspot.com/

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