Ucuntu n.78

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Stampa libera: Lavori in corso

GIORNALISTI

I Calabresi

C'è una regione d'Italia dove ancora si fa giornalismo vero. Non molto bravi a seguire gli intrighi di Palazzo, poco usi alle analisi complesse. Il loro semplice mestiere è di raccontare tutto quello che fanno i boss, nel posto in cui si trovano, che è il loro paese. Auto incendiate, proiettili fino a casa, isolamento , paura. Loro tengono duro. Chi è il giornalismo in Italia? Sono loro Jack Daniel/ L'ultimo dono Mauro Biani Carlo Gubitosa Riccardo De Gennaro Nando dalla Chiesa Bavaglio/ Lettera a Berlusconi da un giornalista di base || 11 giugno 2010 || anno III n.78 || www.ucuntu.org ||


Italia

Tutti nella stessa barca

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Lavori in corso

Vendere sogni o raccontare realtà Perché nessuno parla mai dei giornalisti calabresi? Sono i migliori d'Italia, ma raccontano – semplicemente – la verità. L'industria del consenso non sa proprio che far sene di loro. Sono i nostri naturali modelli, e interlocu tori. “Nostri”, di chi? Eh... Vespa, Lerner, Santoro, Feltri, Mauro, Belpietro... Li riconoscete? “Certo che li conosciamo! Sono i massimi giornalisti italiani, quelli che fanno le notizie, i maestri”. Benissimo. E ora vediamo questi: Inserra, Baldessarro, Cutrupi, Monteleone, Mobilio, Bozzo, Pistoia, Pantano, Agostino, Rizzo, Baglivo, Anastasi, D'Urso, Fresca. Chi sono? “Mah... una squadra di serie C? I prossimi candidati al Grande Fratello?”. Sono alcuni dei giornalisti calabresi minacciati dalla 'ndrangheta solo negli ultimi tre-quattro anni. L'informazione, per quanto riguarda la 'ndrangheta, la fanno loro. E dunque la politica, i rapporti sociali e tutto il resto. Eppure non li conosce nessuno. Né sono in molti a conoscere (emarginati come sono) ciò che vanno scrivendo. Ecco: il problema è dell'Italia tutto qui. Esiste un'Italia fasulla ed una vera. Una serve ai sogni e ai consensi, e alle paure. L'altra non serve a niente, cioè ai poveracci qualunque e alle loro banali vite. Le due Italie si scontrano, ogni tanto: lo scontro non è però principalmente, come rappresentazione di queste Italie, fra i Grandi Guru di destra e quelli di sinistra (che pure non sono uguali: ci mancherebbbe) ma fra plasmatori di sogni e cronisti di realtà. Questi ultimi, come abbiamo visto, son pochi, son marginali e rischiano spesso la pelle, nella generale abulìa, perché la realtà che narrano spesso è criminale. A volte, quando li ammazzano, se ne parla.

*** Diversi dei nostri amici “realisti” (e dunque, in quanto tali, sconosciuti) in questi giorni sono impegnati in scadenze importanti (che dunque non interessano nessuno) del loro lavoro. Vediamo un po'. A Catania, Lavori in Corso – sarebbe l'”editore” di questo “giornale” - sta come al solito agucchiando faticosamente alla rete: un'assemblea di giornalisti fra una settimana, un seminario operativo (in realtà un raduno tipo scout in una bicocca di montagna) due giorni. A Modica e Ragusa i ragazzi del Clandestino stanno organizzando quello che pomposamente chiamano un Festival di Giornalismo per fine estate (eppure, guarda un po': il Clandestino miliardario, quello di Roma, con famosi giornalisti e grandi editori, ha chiuso baracca inseguito dalla Finanza, mentre il Clandestino straccione, quello dei nostri ragazzi, è ancora qua più presuntuoso che mai). A Roma invece stasera c'è l'assemblea degli amici di Italiani.it, che dovrebbero per l'occasione presentare le loro (apprezzabili) iniziative in rete e il loro mensile cartaceo, bello e obsoleto come un brigantino. Fra Roma e Bologna, i redattori di Mamma (la rivista di satira, online e anche purtroppo – poiché costa - su carta) continuano a migliorare il loro giornale, che già ora raggruppa disordinatamente i migliori disegnatori e satiri d'Italia.

Dimentichiamo qualcuno? Sì, per fortuna: quelli di AmmazzateciTutti in Calabria, quelli di DaSud fra Calabria e Roma (in Calabria, come vedete, ci sono i ragazzi più intestarditi d'Italia), quelli di Dialogos, AdEst e Zetalab in Sicilia; e l'inaffondabile Telejato, e Step1, e Liberainformazione... *** E cosa mandiamo a dire a questi – e ai molti altri – valenti commilitoni di questa strana guerra? Niente, hanno tanto da fare che difficilmente avrebbero tempo di stare a sentire chiunque altro. Le cose importanti, comunque, sarebbero queste: 1) ogni tanto fermatevi per stare a sentire gli altri come voi, soprattutto quelli che non conoscete ; 2) non perdete tempo a fabbricare bei brigantini e non invidiate gli armatori dei clipper: avete già provveduto, invece, a fare un pdf veloce? L'avete standardizzato, e con chi? Che politica degli standard avete? E, soprattutto, quanti lettori pensate di avere l'anno prossimo con questo pdf (opportunamente parametrato) su e-book e/o i Pad? 3) non illludetevi neanche per un attimo che i signori dell'Elenco A (vedi inizio articolo) possano o vogliano minimamente risolvere i vostri problemi; non considerateli dei modelli. I vostri interlocutori, e modelli, invece, sono quelli dell'Elenco B (vedi sopra) e i loro simili. Fate rete! Riccardo Orioles

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Libertà

I Calabresi

Michele Inserra, Giuseppe Baldessarro, Filippo Cutrupi, Antonino Monteleone, Francesco Mobilio, Alessandro Bozzo, Fabio Pistoia, Agostino Pantano, Agostino D'Urso, Leonardo Rizzo, Giuseppe Baglivo, Antonio Anastasi, Lino Fresca: sono alcuni dei giornalisti calabresi minacciati dalla 'ndrangheta negli ultimi quattro anni. Sono là e tengono duro, per amore della loro terra

Non c’è una sede Rai a Reggio Calabria, né dell’Ansa, né di un giornale nazionale. In autostrada si va a 30 all’ora, sulla 106 se non stai attento finisci in mare. Non ci sono grosse città, ma centinaia di piccoli centri. Paesi che in alcuni casi sono abitati per un terzo da affiliati alla ‘ndrangheta. I negozi, in Calabria, il pizzo lo considerano un costo d’impresa. Le imprese sanno chi devono essere i loro fornitori. E sanno pure a chi devono rivolgersi per le assunzioni. I seggi elettorali, in Calabria, sono presidiati dai clan. Le persone sanno per chi devono votare. I politici sanno a chi devono chiedere i voti. Andare in Calabria, passarci del tempo, conoscere i giornalisti infami ci è servito per provare a capire quello che è successo, quello che sta succedendo e quello che forse non succederà mai. È accaduto che per più di un secolo, ininterrottamente, alcune dinastie mafiose hanno deciso i destini di un popolo. Nemmeno lontanamente sfiorati da un clamore mediatico attento solo al carnaio palermitano, sono cresciuti, sono diventati il gruppo criminale più autorevole nel mercato mondiale della droga, si sono infiltrati nella politica, nella magistratura, hanno infestato i mercati legali, hanno disegnato e realizzato una società a loro immagine. Un popolo

che manda baci a Tegano, una squadra di calcio che indossa il lutto per la morte di Pelle, un intero quartiere che scrive sui muri “resterai sempre nei nostri cuori” al boss Megna assassinato. I bambini alle elementari che portano rispetto al piccolo Piromalli, mentre additano il figlio di un cronista infame. Sta accadendo, in Calabria, che un gruppo di pazzi ha cominciato a mettersi di traverso. Che qualche giornalista si sia messo in testa di informare. Che qualche magistrato abbia cominciato a lavorare, così come qualche politico. Per questo cercano di fermarli. Prima con le intimidazioni, poi… «in Calabria le cose cambieranno quando verrà ammazzato qualcuno di noi», parola di magistrato. Può succedere che tutto rimarrà come è sempre stato, che le avanguardie rientrino nei ranghi. O che si alzi il tiro, e qualche rompicoglioni ci muoia. O può succedere che gli italiani conoscano almeno un po’ quello che accade nel pezzo di Italia racchiusa tra il Pollino e lo Stretto. E che salvino la vita ai custodi della democrazia d’Avamposto. Roberta Mani e Roberto Rossi

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Roberta Mani, Roberto Rossi AVAMPOSTO nella Calabria dei giornalisti infami Marsilio, Gli Specchi


Libertà

2007-2010: CALABRIA, GIORNALISTI SOTTO TIRO 27 giugno 2007: Lino Fresca, "Gazzetta del Sud". A fuoco l’auto parcheggiata davanti alla casa al mare. Si stava occupando di attentati a San Gregorio d’Ippona, colline di Vibo Valentia, territorio della cosca Fiarè, satellite dei Mancuso. Aveva scritto di una gru incendiata durante i lavori di metanizzazione. 9 settembre 2009, Filadelfia: Antonio Sisca, "Gazzetta del Sud". «La lupara bianca te la metteremo in bocca, giornalista e sbirro di merda.» Si occupava dei desaparecidos del bacino dell’Angitola. La lettera arriva a casa due giorni dopo le botte prese per un altro articolo. 11 ottobre 2007, Crotone: Antonio Anastasi, "Il Quotidiano della Calabria". Bastonato da tre uomini incappucciati appena fuori dalla redazione. 31 ottobre 2007, Vibo Valentia: Giuseppe Baglivo, "Calabria Ora", e Francesco Mobilio, "Quotidiano della Calabria. Pallottole in redazione. Calibro 12. Per aver dato notizia di una mozione di esproprio del Palazzo della vergogna, crollato da vent’anni e mai ristrutturato. 17 gennaio 2008: Leonardo Rizzo, "Radio Centrale Cariati", "Gazzetta del Sud". Settant'anni, giornalista (radio e on-line) da più di trenta. Ex sindaco di Cariati (Cs), dove spadroneggiano i Farao-Marincola di Cirò. Quattro pallottole sul davanzale della redazione pochi anni fa. MInacciato per telefono. Due molotov contro casa.

7 giugno 2008, Crotone: Agostino D’Urso, "Quotidiano della Calabria". Sequestro lampo da parte di un sorvegliato speciale. Aveva fotografato le scritte inneggianti a un boss ucciso a Papanice. 25 luglio 2008, Gioia Tauro: Agostino Pantano, "Calabria Ora". Un punteruolo nel copertone dell’auto. Una testa di pesce sull’auto di un familiare. Aveva scritto sullo scontro Piromalli-Molè. 29 dicembre 2009, Cinquefrondi (Rc): Angela Corica, "Calabria Ora". Venticinque anni, corrispondente da Cinquefrondi nella piana di Gioia Tauro. Cinque colpi di pistolacontro l’auto sotto casa. Di era occupata di rifiuti e raccolta differenziata, e in particolare di una ex scuola del Comune adibita ufficialmente a riciclaggio-rifiuti e in realtà a discarica a cielo aperto (ma con finanziamenti e cotributi regionali). Dopo l'"avvertimento" la magistratura sequestra l'ex-scuola ma il sindaco Alfredo Roselli chiede e ottiene il dissequestro e la rimessa in funzione. 15 giugno 2009, Corigliano Calabro (Cs): Fabio Pistoia, "Calabria Ora" Una lettera a casa, fra il primo turno e il ballottaggio delle elezioni comunali: «Smetti di scrivere di politica o muori.» Il pezzo riguardava un sospetto di brogli. 15 ottobre 2009, Rende (Cs): Alessandro Bozzo, "Calabria Ora". Biglietto sulla dastiera del computer: «Finiscila a Cassano o ti facimu zumpa’ a capa». 27 dicembre 2009, Vibo Valentia: Francesco Mobilio, "Quotidiano della Calabria".

La macchina della sua compagna è saltata in aria sotto casa. Ha denunciato l'episodio ma ancora non l'hanno interrogato. 28 gennaio 2010, Polistena (Rc): Michele Albanese, "Quotidiano della Calabria" Lettera al direttore del giornale: «Dite ad Albanese di smetterla di scrivere di Rosarno.» E una croce a morto sul suo nome. 4 febbraio 2010, Reggio Calabria: Antonino Monteleone, Blogger e freelance Ventisei anni. Posteggia, sale a casa e dopo un paio di minuti la macchina va a fuoco. POche settimane prima l'avevano fermato per la strada. Si occupava delle “lavanderie” del clan De Stefano, negozi in centro e sul lungomare. 15 febbraio 2010, Reggio Calabria: Filippo Cutrupi, "La Stampa", "Il Giornale" e "Quotidiano Nazionale" Messaggii di morte a casa sua e di sua sorella, composti coi ritagli dei suoi articoli. Sul foglio la scritta "Non scrivere più". Si era occupato della bomba alla Procura. 22 febbraio 2010, Reggio Calabria: Giuseppe Baldessarro, "Quotidiano della Calabria" e "Repubblica" Lettera con tre pallottole, e la scritta "Andare oltre significa la morte". Cronista di giudiziaria. Segue i processi dell’antimafia reggina, tra cui quello sulla strage di Duisburg. 22 marzo 2010, Siderno (Rc): Michele Inserra, " Quotidiano della Calabria" Una cartuccia calibro 12 con incollata la sua firma, abbandonata all’ingresso della redazione. Il 4 febbraio una telefonata gli intima di non mettere piede a San Luca.

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Fantasy...

L'ultimo dono “Abbiamo racchiuso in questo scrigno tutto il sapere che siamo riusciti a raccogliere sul popolo della Terra”. “Gli umani non si mostrarono riconoscenti all’Immenso per il prezioso dono della Terra, e lo sciupa rono ingrati...”

Non erano più alti dei Terrestri, eppure costruirono il Tempio, questo eterno monumento esteso su due astri, sul Pianeta Sede e sul suo satellite più piccolo chiamato, ormai da millenni, semplicemente Tempio. A collegare il pianeta e il suo satellite, una serie di quattordici stazioni di purificazione nelle quali i pellegrini partiti da Sede che intendono visitare Tempio e scorgere, anche se solo per pochi attimi e da distanze incommensurabili, la Sacerdotessa Madre, devono sostare per elevare lo spirito e liberarsi dalle scorie dell’esistenza. Non erano più alti dei Terrestri, e si estinsero milioni di anni addietro, ma lasciarono in eredità a tutti i popoli la loro religione, la quale, nel corso delle ere successive, assorbì tutte le altre e divenne, di fatto, l’unica dell’universo esplorato, il Culto dell’Immenso. E, ovviamente, lasciarono il Tempio o, almeno, il primo nucleo che fu ristrutturato e ingrandito e ingigantito nei milioni di anni seguenti sino ad arrivare a ciò che è oggi. Non erano più alti dei Terrestri anzi, forse, addirittura un po’ più minuti, ma il loro nome è ricordato milioni di anni dopo la loro estinzione, e sarà ricordato sin quando nell’universo abiterà vita. Da molti giorni aveva lasciato la quattordicesima e ultima stazione di purificazione e ora attendeva il momento dell’udienza privata, raro onore riservato a pochi, in un salone contiguo alla sala degli omaggi. Era un Terrestre e aveva un bauletto vicino a sé al quale rivolgeva sovente lo sguardo, forse nell’assurdo timore che qualcuno potesse sottrarglielo, lì, in quel luogo. Un gruppo di pellegrini attendeva ormai da tempo, snoc-

ciolando i grani di un’antica corda di preghiera e salmodiando in coro mentre silenziosi automi scivolavano su cuscini d’aria con composta e frettolosa solerzia. Il Tempio è permeato di tecnologia, e non vi è nulla, dalle pulizie all’illuminazione, alla regolazione dell’atmosfera che non sia diretto centralmente dalle intelligenze sintetiche sottoposte ad un incessante mutuo controllo per evitare ogni sorta di errore. Può capitare, ma assai di rado, che per caso si generi un’istruzione sbagliata, seppure in routine di scarso rilievo, che non comprometta l’integrità del sistema che è salvaguardata da millenni, e ha resistito ad attacchi e attentati di ogni sorta provenienti dai più disparati e disperati gruppi caotici. Un errore, però, un errore insignificante, si generò proprio mentre il gruppo di pellegrini stava arrivando all’ultimo grado della corda, una minuscola disfunzione nel database dell’archivio, in una routine considerata di quinto livello, un livello per il quale non sono previsti i controlli più rigorosi. Si aprirono le pesanti e smisurate porte, senza un cigolio, senza sforzo apparente e si avvicinò il ciambellano, circondato da un gruppo di automi guardiani, che con gesto solenne, ma cortese, invitò il Terrestre a seguirlo all’interno. La Sacerdotessa Madre, minuta e diafana, quasi trasparente, era al centro della sala, vasta da contenere un’astronave. Era sospesa a una certa altezza dal pavimento, sostenuta da invisibili e delicate forze. Il Terrestre arrestò il suo trasportatore ad una certa distanza da lei e si inginocchiò portando la mano al petto, capo reclinato, in attesa, il

bauletto accanto. «Alzati, Terrestre» lo invitò la Sacerdotessa, e la sua voce, un sussurro appena, era perfettamente udibile in ogni angolo della sala, senza eco. Quando si fu rialzato «Mi dicono che sei l’ultimo del tuo popolo. E’ vero?» «Sì, Veneranda Madre, è vero. Siamo rimasti per lungo tempo in due, ma la mia compagna è mancata da un anno. Ora sono io l’ultimo» «Qual è il tuo nome, Terrestre?» «Ha importanza, Veneranda Madre? Da chi dovrò distinguermi, ora?» «Comprendo la tua amarezza, Terrestre, giacché desideri essere così chiamato, ma il tuo non è il primo popolo che manca. Guarda questa sala, fu iniziata da mani estinte da milioni di anni. I popoli hanno vita, come gli individui, nascono, maturano, chi più a lungo, chi meno, ma un giorno muoiono. Altri popoli nascono e si evolvono in loro luogo, secondo leggi che solo l’Immenso conosce. Ma sai bene, Terrestre, che l’Immenso non dimentica, né i popoli né i singoli individui. So che ciò non risarcirà la tua perdita, ma mi auguro consoli il tuo animo.» «Sia fatta la volontà dell’Immenso, Veneranda Madre, ma il mio animo sarebbe meno esacerbato se non fossi consapevole che non fu la volontà dell’Immenso a decretare la nostra fine, quanto la scellerata condotta dei nostri avi sciagurati.» «Conosco. So che gli umani non si mostrarono riconoscenti all’Immenso per il prezioso dono della Terra, e che lo sciuparono ingrati.».

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Fantasy...

«Così fu, Veneranda Madre. E noi, peregrini su altri pianeti, lontani dalla nostra casa ormai inabitabile e infuocata, per millenni abbiamo maledetto l’insensatezza dei nostri padri. Per millenni abbiamo sognato di ritornare sulla Terra ma, come ben sai, il nostro popolo si è assottigliato sempre più col passare del tempo. Elementi forse non conosciuti del nostro Pianeta, elementi non presenti nelle atmosfere sintetiche per noi ricreate altrove, hanno reso sempre più sterili le generazioni che si succedevano. Sino a che siamo rimasti solo in due. E ora solo io, l’ultimo dei Terrestri.» Si fece silenzio nella grande sala, un silenzio rispettoso e partecipe che fu interrotto, con voce dolce, dalla Sacerdotessa Madre. «So che hai un dono per me, Terrestre…» «Sì, Veneranda Madre – l’uomo si riscosse dal suo breve torpore, si chinò verso il bauletto e lo sollevò – Eccolo, il lavoro di innumerevoli generazioni di esuli. Tutte le nostre fortune, tutto il tempo che ci è stato concesso, tutti i nostri sforzi sono qui, Veneranda Madre. Abbiamo racchiuso in questo scrigno tutto il sapere che siamo riusciti a raccogliere sul popolo della Terra. Non tutti, invero, furono dei folli incuranti e sprezzanti il futuro. Avemmo artisti, filosofi, scienziati, pensatori. Tutto ciò che ci è stato possibile raccogliere è qui, tradotto nei principali idiomi della Galassia, memorizzato in indistruttibili celle di cristalli di santeno, per acquistare i quali abbiamo devoluto tutte le nostre risorse. » «Ti ringrazio del tuo dono, Terrestre. Vi siete mostrati figli migliori dei padri. Cu-

stodiremo qui nel Tempio questo scrigno, nei nostri archivi, perché vi sia sempre memoria del tuo popolo.» Ad un cenno della Sacerdotessa, lo scrigno si sollevò e, scivolando nell’aria, fu diretto verso un lato della sala, là dove si apre un passaggio secondario che porta agli edifici di servizio. Superata la parete, lo scrigno continuò per un lungo cunicolo, sospinto e sorretto da atmosfere compresse, sino a quando giunse alla stazione di controllo dell’archivio dove sarebbe stato protocollato mediante un’incisione indelebile. E fu in quel momento che la disfunzione, del tutto insignificante per il generale funzionamento del Tempio, si manifestò, generando una differenza tra il codice inciso sullo scrigno e quello, che avrebbe dovuto essere uguale, memorizzato nei banchi di memoria dell’archivio. «E ora, Terrestre, cosa intendi fare? Puoi fermarti qui nel Tempio, se lo desideri, sino a quando l’Immenso ti donerà la vita. » «Ti ringrazio per l’offerta, Veneranda Madre, ma preferirei ricongiungermi al mio popolo, e alla mia compagna.» «Come preferisci, Terrestre. Verrai condotto nelle nostre stanze del sonno e presto rivedrai i tuoi. E non passerà molto che anche noi ci rivedremo, nella gloria dell’Immenso. Fa’ buon sonno, fratello Terrestre, e possa l’Immenso accoglierti benigno». L’uomo si inchinò ancora e si avviò, premurosamente diretto e scortato, attraverso una moltitudine di edifici e costruzioni, verso una delle stanze del sonno compatibili con la fisiologia umana. Si distese su un comodo giaciglio e gli vennero proposte

immagini e suoni dolci della sua Terra. Immagini che aveva visto innumerevoli volte e che conosceva a memoria, e che raccontavano un mondo che non aveva mai visto. Lo scrigno, mentre scorrevano nella mente del Terrestre visioni di tramonti su coste intatte, fu diretto non verso il cunicolo ad esso destinato dal codice memorizzato dai banchi ma, passando attraverso gli innumerevoli rilevatori che verificavano il codice che recava inciso, terminò la sua lunga corsa in una collocazione assai differente da quella stabilita in origine. Non era infatti, come previsto, collocato a fianco dell’estinto popolo dei fiori poeti di Stara, ma vicino a quello dei mai rimpianti vermi cannibali di Durti, in un angolo dell’archivio dove nessuno, per quanto ricercasse a lungo, avrebbe mai potuto riconoscerlo, neanche un ipotetico studioso di paleontologia a cui potesse sorgere, nei successivi millenni, il desiderio di effettuare una ricerca sul morto Pianeta Terra e sui suoi antichi abitanti. Una fiala di calmante era già stata delicatamente iniettata nelle vene del Terrestre, preludio ad un quieto sonnifero a cui poi sarebbe seguita una sostanza letale che, rapidamente e dolcemente, l’avrebbe riportato tra i suoi. I riflessi si facevano meno pronti, all’avanzare del sonnifero nel suo organismo, e intanto sognava il mare, e le onde che lentamente, molto lentamente, seempre piùù leentaameeente accaaarezzaaavaanooo laaa spiaaaaa… Jack Daniel http://dajackdaniel.blogspot.com/

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Giornalismo britannico

“I capi del mondo sono dei cacasotto senza palle” Parola di Robert Fisk, l'inviato britannico più esperto in materia di guerre e Medio Oriente. E noi gli crediamo

Nella nostra banale stampa di provincia, i recenti fatti di sangue che hanno coinvolto le forze militari israeliani e le organizzazioni internazionali determinate a rompere l'isolamento di Gaza sono stati commentati con la solita carità pelosa intrisa di viscida correttezza politica che impedisce di chiamare le cose col loro nome, e in casi estremi addirittura con applausi ed appoggio esplicito alla violenza armata. Ma fortunatamente oltremanica si respira una boccata d'ossigeno. Per scoprirlo basta leggere uno degli ultimi articoli di Robert Fisk intitolato "I leader occidentali sono troppo codardi per salvare delle vite", un pezzo che in Italia troverebbe spazio a fatica, ma che altrove si inserisce nel normale dibattito politico. Fisk parla del "gutless White House statement", letteralmente "la dichiarazione senza palle della Casa Bianca", che si è limitata a dichiarare di voler "capire le circostanze che circondano la tragedia", come se non fossero già chiare di per sè. Fisk ricorda che nel 1948, quando c'erano ancora leader che provavano a salvare vite umane, i tedeschi affamati di Berlino furono aiutati dall'Inghilterra e dagli Usa che forzarono dal cielo il blocco dei sovietici, decisi a conquistare la parte ovest della città prendendola per fame. Ma in quell'occasione i tedeschi non erano palestinesi, i russi non erano israeliani e l'occidente non era vigliacco.

Fisk se la prende anche con il "ridicolo Ban Ki-moon" messo a capo delle Nazioni Unite che non hanno il coraggio di trattare l'occupazione israeliana di territori non suoi con la stessa determinazione dimostrata quando Saddam Hussein occupava il Kuwait, e per giocare in casa si chiede dove sono il premier Cameron e il suo vice Clegg, visto che l'unico a balbettare qualcosa è stato "il caro Mr Blair". Secondo Fisk "è ormai un dato di fatto che persone ordinarie, chiamateli attivisti o come vi pare, sono quelli che oggi prendono decisioni per cambiare gli eventi I nostri politici sono troppo privi di spina dorsale e troppo vigliacchi per prendere decisioni in grado di salvare delle vite". Se degli europei fossero stati uccisi da qualunque altro esercito del Medio Oriente diverso da quello di Israele, ci sarebbero state ondate di sdegno, ma ormai siamo abituati alle uccisioni dell'esercito israeliano. Il problema, rileva Fisk, è che "siamo nati e cresciuti abituandoci a vedere israeliani che uccidevano arabi, e forse gli israeliani si sono abituati anche loro a ucciderli. Ma ora uccidono anche turchi ed europei. Qualcosa è cambiato in Medio Oriente nelle ultime ventiquattro ore, e dalla stupidità della reazione politica israeliana sembra che non abbiano afferrato cosa è successo. Il mondo è stanco di questi oltraggi. Solo i politici restano zitti". Caro Fisk, non ti lamentare e guarda il

bicchiere mezzo pieno: tu hai soltanto i politici che stanno zitti, da noi stanno muti anche i giornalisti, sempre pronti a pizzicare chi ruba in Italia ma più clementi con chi uccide all'estero in nome di qualunque idea di patria, per quanto distorta possa essere. Furio Colombo, che ricordo per i suoi eccezionali corsivi con l'elmetto quando di trattava di benedire le bombe dalemiane sulla Serbia dalle pagine dell'"Unità", oggi parla sul "Fatto" di "scontro" tra Turchia e Israele, ma non mi risulta che in questa vicenda l'esercito Turco abbia ucciso cittadini israeliani su navi israeliane. E in virtù dei meriti acquisiti sul campo, in terra cielo e mare, Colombo rilancia "la proposta dei Radicali così facilmente respinta di accogliere Israele nell’Unione europea", come se di per sè bastasse ad assicurare da parte del governo Israeliano il rispetto di tutte le risoluzioni ONU che condannano l'occupazione di territori altrui. E da Colombo in giù, sono in pochissimi ad aver chiamato strage o aggressione unilaterale quello che viene spacciato nei migliori dei casi come uno "scontro" e nei peggiori come un legittimo esercizio di autodifesa. Vabbè, meno male che c'è l'Independent. Così almeno qualcuno ci racconta quanto sono vigliacchi i nostri grandi capi del mondo. Peccato che nessuno ci aiuti a capire quanto lo sono anche certi giornalisti italiani. Ulisse Acquaviva

|| 11 giugno 2010 || pagina 08 || www.ucuntu.org ||


Misteri d'Italia

Strage dei trans: cercare in alto Corruzione, conflitto d'interessi, stampa asservita e, sullo sfondo, l'ombra inquietante di una strage di testimoni. Non si può intervenire dall'alto. E neppure parlarne troppo

Continua la strage dei trans a Roma. Un altro “suicidio”. E in più anche la celebre Natalie che per un pelo non è stata uccisa in quella che doveva apparire come l’aggressione di un cliente. Questa sta diventando in assoluto una delle più sordide storie della Repubblica, e ce ne vuole. Il “povero” Marrazzo (si fa per dire...) non c’entra più, lo abbiamo capito tutti. Qui c’è molto di peggio, c’è la putrefazione di certi settori istituzionali. L’uso e l’abuso sessuale dei soggetti marginali (ufficiali della Finanza denunciati per avere fatto scrivere il falso a un loro sottoposto sugli stupri di gruppo commessi ai danni di prostitute di colore). La commistione con la droga e il ricatto. La sensazione di uomini in divisa di essere liberi da ogni vincolo di legge. Soprattutto di essere impuniti. Le testimonianze giudiziarie che vengono trasmesse come niente agli imputati. La disponibilità a uccidere, a sopprimere i testimoni scomodi, da mafiosi.

Sbaglierò, ma quel po’ di esperienza che ho accumulato mi porta a dire due cose. La prima è che o l’Arma si spiccia, ma per davvero, a punire (e con pubblico rilievo) i responsabili del capitolo trans-drogaMarrazzo o finirà risucchiata in uno dei più grandi scandali della sua (gloriosa) storia. E si accrediterà la voce che non si possa intervenire dall’alto perché c’è qualcuno sotto ricatto. La seconda è che un personaggio (o più di uno) molto, ma molto in alto coinvolto in questa storia c’è di sicuro. Lo stato di marginalità delle vittime fa sentire forti gli assassini. Ma è un’illusione. Io se fossi al posto degli investigatori cercherei tra qualche papavero in prima fila nella difesa della famiglia, tra qualche crociato della pubblica moralità. Non capitò forse a Milano qualche anno fa che quel consigliere comunale di destra che tirava filippiche contro i trans venne trovato all’alba seminudo in un’auto con un viado? Disse che lo voleva redimere… La

vicenda comunque è sconvolgente. Sconvolgente è anche lo stato in cui versa la stampa fedele a mister B. Un amico (o amica) giornalista mi ha rivelato come si stia diffondendo l’abitudine di fare scrivere pezzi di inchiesta su qualcuno o qualcosa per non pubblicarli. Per rivenderli invece ad altri o tenerli nel cassetto, in un gioco infinito di ricatti di palazzo. E come le notizie scomode raccolte con il lavoro del giornalista vero vengano prontamente fatte conoscere agli interessati per tenerli al guinzaglio (tipo la telefonata di B. a Marrazzo, per tornare al caso precedente). E’ basso, bassissimo impero. Perché il conflitto di interessi, amici, esiste per davvero. E accidenti a chi, per supposto tornaconto personale, non ha voluto risolverlo quando si poteva. Ora produrrà tutti i suoi effetti devastanti. Nando dalla Chiesa www.nandodallachiesa.it

|| 11 giugno 2010 || pagina 09 || www.ucuntu.org ||


Libri

In libreria Luigi Politano Pippo Fava Lo spirito di un giornale Edizioni

Round Robin

Catania 1980. Nella Milano del sud il clan di Nitto Santapaola domina, in una terra meravigliosa e maledetta, una città in cui coesistono cosa nostra e istituzioni in un gioco di potere fatto di morti ammazzati, grandi opere, corruzione e fiumi di denaro. A Catania vive e lavora un giornalista, Giuseppe Fava, che racconta la verità senza tralasciare nessun particolare. Amori, morte, disperazione e bellezza nelle parole di “Pippo” che diventa il pericolo da abbattere a tutti i costi. Dalla pittura, ai racconti, alle opere teatrali tutto di Pippo Fava è pieno dell'amore per la sua terra. Ed è proprio dopo un anno di pubblicazione de I Siciliani - un mensile di denuncia che farà storia nella lotta per la libertà di informazione - che il giornalista verrà ucciso con cinque proiettili sparati a sangue freddo da spietati killer che il 5 gennaio del 1984 decisero di giustiziare colui che non sarebbero mai riusciti a far tacere.

Il fumetto narra l'esperienza di un uomo che affronta a viso aperto, e con la sola forza delle parole, un sistema che nessuno ebbe il coraggio di denunciare. Nel 1981 Pippo Fava scriveva: “A coloro che stavano intanati, senza il coraggio di impedire la sopraffazione e la violenza, qualcuno disse: 'Il giorno in cui toccherà a voi non riuscirete più a fuggire, né la vostra voce sarà così alta che qualcuno possa venire a salvarvi!'”

|| 11 giugno 2010 || pagina 10 || www.ucuntu.org ||

ROUND ROBIN La Round Robin nasce nell'autunno del 2004 dall'idea di giovani studenti universitari, con l'idea di costituire un nuovo soggetto editoriale indipendente in grado d entrare nel mondo dell'informazione con un giornale on line – rivistonline.com – e con la pubblicazioni di romanzi e saggi di giovani promesse della letteratura italiana e straniera. Costituitasi come società editrice nel maggio del 2005, vanta la produzione di un catalogo con titoli che riscuotono un discreto successo nelle librerie. Oltre alla produzione di romanzi e saggi, nelle collane “Parole in viaggio”, “Fuori rotta”, “Fari”, “Corsari”, la casa editrice continua a proporre ai suoi lettori temi di stretta attualità inaugurando la pubblicazione di una serie di Graphic novel, certi dell'importanza di sperimentare nuovi linguaggi. Fumetti dedicati agli eroi dell'antimafia prendono vita nella collana “Libeccio”, in collaborazione con l'associazione “DaSud onlus”.


Economia

Altro che mercato, questo è un macello Di “macelleria sociale” parla addirittura il governatore della Banca d'Italia. Lo scontro è fra i grandi evasori fiscali e i giovani disoccupati e precari: i furbi e i sacrificati

Non s’era mai sentito un governatore della Banca d’Italia ricorrere a un’espressione così cruda come “macelleria sociale”. Pronunciata da un personaggio così parco e misurato nelle parole, l’espressione ha rievocato a qualcuno la “macelleria messicana” del vicequestore Fournier durante la sua deposizione in tribunale sui fatti della Diaz. Lo stesso Mario Draghi l’ha definita “rozza”, ma “efficace”. Si riferiva alle conseguenze dell’evasione fiscale, dove gli evasori sono i macellai e i giovani, “le vere vittime di questa crisi”, i macellati. Affinché i giovani, fino a poco tempo fa “bamboccioni”, escano dal tritacarne prima di esserne tritati è necessario, dice Draghi, un nuovo mercato del lavoro. Draghi suggerisce il “completamento della riforma del mercato del lavoro” e si spera che l’esecutivo non la interpreti come la richiesta di ulteriore flessibilità, poiché è ormai noto che tanto più il mercato è flessibile tanto più sono rigidi i salari d’ingresso, bloccati – come ha riconosciuto lo stesso

governatore – da quindici anni. Il problema è che la “macelleria sociale” non sembra vicina a fermare gli impianti. A ridosso della manovra da 24 miliardi di euro, il presidente Berlusconi, che con queste cose non si sporca le mani, ha mandato avanti il suo “ambasciatore” Letta per dire che la crisi è dura davvero, che prima ci si era sbagliati, che in Italia non è sempre festa come in televisione. Poi, il primo giugno, alla vigilia della parata militare dei Fori Imperiali, ha preso la parola anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per dire - come se mancasse la sua firma sotto il concetto testé espresso - che “occorre un grande sforzo, fatto anche di sacrifici, per aprire all'Italia una prospettiva di sviluppo più sicuro e più forte”. Questo “sviluppo più forte e sicuro” viene evocato da almeno vent’anni ma resta sempre a eguale distanza, se non più lontano, come dimostra la realtà quotidiana di un paese che attualmente è più vicino alla peggiore Argentina che a una nazione civile

e democratica. Che cos’è, d’altronde, se non la tentazione di una svolta autoritaria da parte del regime Berlusconi quel continuo evocare una riforma della Costituzione, l’insistenza sul presidenzialismo, addirittura l’elogio pubblico, a Parigi, di Benito Mussolini? Il recupero dell’evasione serve a poco se non è accompagnato da misure di redistribuzione del reddito, il che significa che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, non sono garantiti eguali punti di partenza per chi studia, i lavoratori non possono contare su un minimo di stabilità e certezza del reddito. L’Italia è al bivio finale tra lavoro e malaffare. Non suscita ottimismo l’emergere di una situazione di corruzione endemica, come ai tempi di Tangentopoli. Quello che è certo è che gli italiani non possono essere più divisi in due gruppi: di qua i soliti che fanno i sacrifici e di là i soliti che fanno i furbi. Riccardo De Gennaro

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Poesia

“V” come Visitors Visitors Vegas Vulcano Vulcania

Sopra, sotto, attorno a noi Vulcania. Vuoto.

Il primo centro commerciale a Catania Il centro commerciale anni '80 Per grandi e piccini Il primo Il precursore Un grosso meteorite di cemento In pieno centro città Un quartiere moderno con grandi vie Palazzi e rampe e garage dappertutto E lui al centro Con tutti quei balconi tinteggiati di arancione come lava

Quando ha cominciato a fallire Dissero cose del genere "questo tipo di negozi non attecchirà mai da noi" A sentirla adesso che siamo nell'era dei centri commerciali Questa cosa fa persino ridere Centri commerciali ovunque, come funghi Vulcania è stato il primo E' arrivato solo 15 anni in anticipo Forse troppi Adesso è là Che siede come un fungo In mezzo alla città

Vulcania Ho ricordi vaghi di com'era all'interno Ci andavo tutto eccitato come fossi drogato Avevo circa dodici anni Ci comprai una cassetta di Tracy Chapman una volta Guardavo i vestiti dei paninari E ascoltavo musica diggeiara tipo Jovanotti Che usciva dai negozi di musica nuovi fluorescenti Al primo piano c'era un grande bar Ci andavano i fighi degli anni 80 con le loro moto fiche Il bar era immenso con un grande banco, una fila di sedili Le scale mobili si partivano da dentro al bar E arrivavano dentro le viscere Di Vulcania

Mentre tutto attorno in periferia i centri commerciali operativi vendono, vengono, spendono, spandono Ci macdonaldizziamo? Ci spizzichiamo? Ci multisalizziamo? Allegramente Forse Vulcania è un avamposto alieno L'hanno costruito loro, di nascosto E hanno scelto la Catania degli anni '80 per mettercelo Invece della solita Manhattan Probabilmente un giorno da alpha centauri digiteranno quattro comandi E Vulcania diventerà un radiofaro per le navicelle extraterrestri Oppure un grande disco volante, chessò. Si librerà in volo. Con i graffiti di 61 sui fianchi.

Scenderà l'ambasciatore degli alieni In quel quartiere deserto Guarderà me e Bishop mentre ci Il bar c'è ancora beviamo una birra Ogni tanto io e Bishop ci andiamo Lo guarderemo di rimando indecisi A prendere una birra "Raudi" è una raccolta di racconti e poesie realizzata e auto- sul da farsi Fanno un'ottima cipollina finanziata da sei giovani scrittori catanesi - Francesco Busce- E a questo punto io mi farò avanti e La consiglio mi, Davide Pappalardo, Alessando Puglisi, Fabio Stancanel- dirò li, Salvo Vecchio ed Emiliano Zappalà. Sei stili e sei conce- All'ambasciatore galattico Ci sediamo dentro uno dei tanti sedili zioni diverse della scrittura, sei diverse maniere di raccontare "Le posso consigliare un'ottima vuoti cipollina?" e raccontarsi, ma con un interesse ed un forte obiettivo coE ci mettiamo a parlare mune. Una raccolta che è assieme un urlo ed un appello. Vulcania

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Società civile

Catania alla deriva tra faide e “stati generali” Città Insieme: “E’ necessario gettare uno sguardo complessivo sulle vicende della città per leggere le logiche interne che collegano fatti apparentemente slegati”

Il primo dato che salta subito agli occhi, è la deriva politica della amministrazione della città. Faide, interessi, lotte fra partiti e fazioni si proiettano da Palermo a Catania, eliminando di fatto qualunque intesa e rendendo impossibile ogni progetto politico. Il sindaco, che galleggia sui detriti della maggioranza, ha licenziato in blocco e in tronco la giunta, nominando otto assessori “tecnici”, i quali (caso assolutamente inedito sia a Catania che altrove) hanno come compito principale quello di permettere al sindaco di non dimettersi e di sopravvivere in attesa che si plachino le acque e si accordino gli interessi della maggioranza che lo sostiene. Al di là del valore dei singoli “esperti” chiamati ad amministrare la città, è chiaro a tutti che la loro presenza serve solo da “maquillage” al fallimento di questa amministrazione, ed altro non potrà fare che confermare, complice la vicina calura estiva, la sua totale impotenza. Impotenza anzitutto politica. Un governo tecnico è sempre un governo di emergenza,

è sempre un governo a tempo, a breve termine. Non può elaborare alcun progetto a lungo termine. Ma l’impotenza di fondo è economica. Le disponibilità del comune sono ridotte al lumicino. Nonostante la berlusconiana respirazione bocca a bocca, nessuna iniziativa valida, strutturale, profonda, può in queste condizioni essere non solo attuata ma pensata. Il tutto viene condito dagli “Stati Generali”. I due fenomeni: impotenza politica da un lato e “Stati Generali” dall’altro non sono separabili, ma da leggere come facce della stessa medaglia e della medesima strategia. Non essendo possibile agire... si parla! In assemblee chilometriche si dicono anche delle cose interessanti, destinate però a restare solo ottime intenzioni, che ricalcano progetti in parte già elaborati in questa città e rimasti sempre lettera morta. Noi cittadini, invitati a farne parte, ci prestiamo a questo gioco con piena coscienza, anzitutto perché non vogliamo essere tacciati di disinteresse nei confronti dei pro-

blemi di questa città. Anzi, partecipiamo con entusiasmo: un entusiasmo non ingenuo ma critico e, purtroppo, intriso di scetticismo. Sappiamo bene infatti di offrire suggerimenti ad amministratori che sembra ci ascoltino con interesse, ma che sono pienamente coscienti della loro impotenza. Ci sostiene la speranza che cambi questo deludente quadro politico, perché la soluzione di problemi di Catania non può essere che politica, come solo politica può essere la soluzione dei problemi della regione. Lombardo e Stancanelli altro non sono che sintomi dello stesso male. La disgregazione degli interessi all’interno del PDL, l’incapacità della opposizione di offrire valide alternative politiche serve solo ad avallare questa situazione. Una cosa è certa: che la società civile non può fare da stampella alla politica zoppa come quella che governa oggi la nostra regione e la nostra città! CittàInsieme info@cittainsieme.it

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Schegge di storia siciliana

Come la mafia saccheggiò Palermo ”Cari tutti, a causa dello squallore di questo periodo preferisco rifarmi alla Storia e quindi avrò il piacere di inviarvi settimanalmente schegge di storia siciliana. Croce diceva che la Storia è viva e la cronaca è morta, e aveva ragione. La cronaca vale un giorno, mentre la storia vale sempre...”. Così l'autore, che è un vecchio militante del movimento anti mafia: ma forse non siamo d'accordo. La storia è un insieme di cronache di tante perso ne comuni. E tutte le cose diventano anch'esse storia, prima o poi. Comun que, ecco le storie che Elio Camilleri sta facendo girare per l'internet. Antiche e attualis sime, siciliane

IL SACCO DI PALERMO Il miraggio del boom economico, i modelli del nuovo vivere, del consumismo, nonché le speculazioni connesse all’edilizia attrassero in città tutto quel personale agrario-mafioso che ne occupò tutti i settori, assicurandosi appalti, sub appalti, concessioni, licenze. Una moltitudine di gente si trasferì a Palermo, in una città che non li riconobbe come suoi abitanti e che neppure quella moltitudine volle riconoscere e rispettare. Scomparvero centinaia di ville, interi quartieri e tutto fu sommerso dal cemento di anonimi palazzoni che resero Palermo un città essa stessa anonima. Il “sacco di Palermo” rappresentò la prima tappa del processo di sviluppo dell’illegalità istituzionalizzata di cui si scriveva prima: migliaia di licenze edilizie furono rilasciate a pochissimi prestanome, si scatenò una feroce concorrenza per lo sfruttamento di aree. Il piano regolatore fu modificato numerose volte per soddisfare particolari esigenze politiche e quelle del “padrino” o del “capo famiglia” da tenere buono. Si era costituito, infatti, e si rafforzò un comitato d’affari a forma triangolare tra imprese (Vassallo e altri), alcuni capifamiglia (Torretta e altri) e amministratori (Ciancimino e altri). “Il tutto era molto di più di un sistema di potere soltanto contiguo alla mafia. Si trat-

tava, piuttosto, di un sistema che coincideva tout court con la mafia, al più alto grado della sua avvenuta modernizzazione. “Cosa nostra” ne costituiva la necessaria ed indivisibile componente criminale” (Commissione Parl. Antimafia. Rel. Cattanei, 1972) Il danno architettonico e strutturale fu irreparabile; il danno politico in termini di degrado , cioè di corruzione e clientelismo raggiunse livelli mai raggiunti prima. La mafia democristiana e la DC mafiosa imposero su Palermo e la Sicilia il loro potere praticamente assoluto ed incontrastato. LA FINE DI CANEPA Sulla strada per Randazzo il motocarro Guzzi, guidato da Pippo Amato, con a bordo Antonio Canepa, Carmelo Rosano, Antonio Velis, Armando Romano e Giuseppe Lo Giudice, fu intercettato da una pattuglia di carabinieri composta dal maresciallo Salvatore Rizzotto, dal brigadiere Rosario Cicciò e dal carabiniere Carmelo Calabrese. Pippo Amato, all’alt dei carabinieri, rallentò la corsa, ma poi accelerò bruscamente; risulterebbe che fu sparato un colpo in aria a scopo intimidatorio e i carabinieri rincorsero l’autocarro che si fermò. Seguì una sparatoria; Canepa e Rosano furono feriti gravemente dalle schegge di una bomba a mano esplosa nella tasca dei pantaloni di Canepa, Lo Giudice fu tirato giù dal cassone e

ferito mortalmente all’addome, Romano fu ferito al femore, Velis riuscì a scappare e Pippo Amato riprese la corsa per raggiungere Randazzo e portare i feriti nei pressi dell’ospedale. Abbandonò il motocarro all’ingresso del paese, chiedendo alle persone che nel frattempo erano accorse di trasportare i feriti all’ospedale ed anche lui si dette alla fuga. Canepa e Rosano morirono in ospedale. Il giorno dopo i carabinieri, in gran segreto, trasportarono al cimitero su quattro barelle Canepa, Rosano, Lo Giudice e Romano e le sistemarono nella camera mortuaria in attesa dell’autopsia e della sepoltura. A questo punto il custode del cimitero si accorse che uno dei quattro non era morto e che seguiva con lo sguardo i suoi movimenti; avvertì immediatamente il comandante della scorta che lo rassicurò che, qualora non fosse morto, non sarebbe stato seppellito (!). Non si sa bene se Canepa fu più indipendentista o comunista, ma, forse, il latifondista Tasca, il "politico" Finocchiaro Aprile e il capo della mafia don Calò Vizzini lo considerarono più comunista e forse anche per questo fu tolto di mezzo a Murazzu ruttu il 17 giugno 1945.

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Schegge di storia siciliana

IMBROGLIO INDIPENDENTISTA Il 2 giugno 1946, giorno della svolta, stava arrivando, finalmente. La sera del 28 maggio a Palermo, l’ingegnere Giacomo Vacca Todaro organizzò nella sua splendida dimora un ricevimento assolutamente imperdibile cui partecipò, infatti, la crème della città al gran completo. Mentre dame e cavalieri si dondolavano in un ballo dopo l’altro, in un rosolio dopo l’altro per bagnare i deliziosi cannoli alla ricotta di Piana degli Albanesi, un gruppetto di signori si ritirò in un salottino per discutere di “cose serie ed importanti”. Se il 2 giugno avesse vinto la Repubblica, Umberto di Savoia sarebbe stato acclamato re di una Sicilia indipendente dall’Italia.Il generale Schiavo-Campo, aiutante di campo (nomina sunt conseguentia rerum) di Umberto presentò tale incredibile piano e propose il generale Fiumara come Ministro della Guerra e l’ispettore Messana Ministro dell’Interno. Il conte Lucio Tasca rilanciò e propose Concetto Gallo alla Guerra e Antonino Varvaro agli Interni. Quest’ultimo ci rise sopra e capì subito che le aspettative indipendentistiche dei siciliani, o, quanto meno, dei siciliani presenti a quella riunione, sarebbero andate, in ogni caso, deluse. Se avesse vinto la Monarchia, infatti,

Umberto di Savoia sarebbe diventato re d’Italia e non avrebbe mai accettato la corona di re di una Sicilia indipendente dal “suo” Regno d’Italia.. Se avesse vinto la Repubblica, la Sicilia si sarebbe posta come base per un colpo di Stato per la restaurazione violenta della Monarchia su tutta l’Italia con tanti saluti alla fondazione di un Regno di Sicilia... Il progetto di una Sicilia indipendente sarebbe stato, quindi, comunque stritolato da "superiori" esigenze unitarie. Per completare, va detto che Umberto di tutto questo fantasioso piano dall’esito assolutamente improbabile non ne sapeva niente, proprio come quelle dame e quei cavalieri che nei saloni attigui si dondolavano in un ballo dopo l’altro, in un rosolio dopo l’altro per bagnare i deliziosi cannoli alla ricotta di Piana degli Albanesi. CAMPOREALE ATTO PRIMO La notte del 26 maggio 1946 la porta della canonica del parroco, don Vincenzo Ferrante, fu crivellata da decine di colpi di mitra dagli scagnozzi di Vanni Sacco. Ma perché incutere terrore ad una persona mite, buona, così amata dai suoi parrocchiani? Don Vincenzo, animato da autentico spirito cristiano aveva organizzato i fedeli nell’Azione Cattolica, senza trascurare il diret-

to impegno dei cattolici nel sociale e nella politica. La sezione della Democrazia Cristiana fu praticamente la palestra in cui le energie più sane del paese trovarono il modo di esibirsi, impedendo, fra l’altro, l’infiltrazione mafiosa nel partito. Vanni Sacco non intese tollerare tale ostruzionismo perché gli impediva l’accesso al nuovo e formidabile strumento di potere costituito dalla DC, un partito cattolico e di massa e, inoltre, anticomunista, l’ideale per combattere le sinistre impegnate per l’attuazione dei Decreti Gullo. Il povero Don Vincenzo, tramortito dalla paura, chiese consiglio e protezione all’Arcivescovo S. E. Monsignor Eugenio Filippi che “pro bono pacis”, lo costrinse ad accettare le seguenti condizioni imposte da Vanni Sacco: “Il parroco doveva rientrare a Camporeale in compagnia del “padrino”, anzi, addirittura al suo fianco, su un’automobile scoperta, in più il parroco avrebbe dovuto annunziare che la figlia prediletta del “padrino” sarebbe stata l’ufficiale madrina dell’inaugurazione delle campane nuove, desistendo definitivamente dal proposito di immischiarsi nelle cose della politica”. (Paternostro, 2007) Osarono resistere Calogero Cangelosi e Pasquale Almerico e furono gli altri due atti della stessa tragedia di Camporeale. Elio Camilleri

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Dibattito

Il male della satira: una risposta aperta "Cari big della satira, avete avuto 30 anni per fare in modo che la voce satirica del nostro paese diventasse forte ed indipendente ed invece vi siete accontentati di collaborazioni laterali e dipendenti dai direttori di giornali..." Questa mattina mi è arrivata una mail di Massimo Caviglia che mi chiede di collaborare al numero 0 del Male assieme a Vauro, Vincino, Scozzari, Liberatore, Mannelli, Perini, Bucchi, Riondino, Willem, Luttazzi (senza però parlare di contratti o prezzi, tu invia e basta!). Ho deciso di rispondere pubblicamente, non me ne voglia Massimo, ma ho bisogno queste cose di esternarle e so bene che facendolo mi farò terreno bruciato per eventuali collaborazioni e commissioni future nel settore. Ma va bene così, se devo fare questo mestiere voglio farlo in un ambiente che mi piace. Di fare la comparsata accanto a dei grandi artisti e poi ogni giorno continuare a rodermi il fegato per portare il pane a casa, non me ne viene niente. (F.A.)

Caro Massimo, ti ringrazio, sono lusingato ed onorato di avere la possibilità di pubblicare accanto a cotanti e cotali maestri. Io con i fumetti tuoi e di Disegni su Comix e Totem ci sono cresciuto ed anche con i favolosi ritratti sgradevoli di Mannelli e le genialate di Scozzari e Liberatore. È da li che viene la mia passione per il fumetto, è li che si è costruito il mio senso dell’umorismo ed anche il mio pensiero critico. Sono stati anni fantastici, voi, Bergonzoni, Luttazzi, Fazio, Guccini, Totaro e tutti gli altri. Ma sono passati anni, tanti, ed oggi la satira versa in uno stato pietoso. Nenache il Fatto è riuscito a risollevarne le sorti, pur avendone la possibilità, con il suo inserto satirico ha ripiegato su una comicità sciacquata. Di chi è la colpa di tutto questo? Di Berlusconi? Del PD? Della censura? No, la colpa per me è vostra! Avete avuto 30 anni a disposizione per fare in modo che la voce satirica del nostro paese diventasse forte ed indipendente ed invece vi siete accontentati di collaborazioni laterali e dipendenti dai direttori di giornali. Emme è stata l’ultima vittima illustre, eppure Vincino, Staino, Vauro e tutti i soliti noti continuano a saturare qualsiasi media, giornali, televisione, addirittura diari e quaderni per la scuola. Non schioda nessuno! E a quanto vedo non c’è neanche la voglia di farlo in futuro. Allora non siete poi così diversi dai nostri governanti che tanto critichiamo e che sono li mandato dopo mandato sempre gli stessi, a fare e dire sempre le stesse cose. Le iniziative di satira ad oggi ci sono,

Mamma e Scaricabile per fare due nomi tra i migliori, ci collabora un parco autori numeroso e pieno di spirito d’iniziativa, c’è voglia di fare e di innovarsi. E voi che avete la possibilità in quanto personalità del settore cosa fate? Invece di promuovere ed aiutare queste iniziative mi andate a riesumare una rivista morta e sepolta da anni? Ma che bisogno ce n’è? Per puntare sui nomi conosciuti e vendere copie in più? È questo lo scopo della satira? Vi dico una cosa, per un Bucchi (non me ne voglia, prendo a caso) che viene strapagato dai giornali ci sono 50 altri vignettisti che non vengono pagati, a cui si chiede collaborazioni “a buon rendere”, che sono costretti a lavorare nei call center o come commessi ma che nel tempo libero si dedicano con passione alla satira, perché è qualcosa più forte di loro e non gliene frega un cazzo di non essere pagati. Quello che ci vuole oggi non è il Male, quello che ci vuole oggi è innovazione, freschezza, cattiveria tanta, quella di chi la crisi se la vive sulla gobba non di certo di chi presenzia ai salotti di viale Mazzini o di chi si è comprato case su case con i cachè dell’Unità, di Repubblica, del Foglio. E c’è bisogno che voi alziate la voce per sostenerci e promuoverci, non di certo per farci ombra, fin quando sarà così non ci sarà possibilità di crescita per la satira. Un abbraccio ed un in bocca al lupo per la vostra nuova avventura. Flaviano Armentaro www.mamma.am

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Bavaglio

Lettera aperta di un giornale locale a Silvio Berlusconi “Se ci volete zitti dovete spararci, dicemmo tanti anni fa a uno scagnozzo mafioso che ci intimava di tacere. Lo ripetiamo a Lei, che con l'aureola della legalità vuole imporci lo stesso mafioso silenzio...” Signor Presidente, Le scrivo in rappresentanza delle centinaia di testate locali che ogni giorno, nel nostro paese, si battono per la libertà d’espressione. Piccoli “nidi di ragno” innestati in territori spesso difficili o come, nel nostro caso, in terra di mafia, clientelismo e corruzione. Gentilissimo Presidente, ogni giorno “giornalisti per amore” vengono pestati, minacciati, intimiditi per l’unica colpa di volere raccontare la verità, di tentare di rendere onore ai padri costituenti che ci regalarono l’Articolo 21 della Costituzione ed, insieme ad esso, la democrazia e la libertà col costo di migliaia di vite umane. Siamo carne da macello, signor Presidente, alla mercé di mafiosi, politici corrotti e scagnozzi che vogliono rendersi belli agli occhi dei capi. Spesso soli nelle nostre battaglie, nelle denunce da Trento a Trapani. Siamo anche quelli che conoscono meglio il territorio, perché lo viviamo ogni giorno. Perché col mafioso o col politico corrotto che denunciamo spesso ci tocca dividere il bancone dello stesso bar. Siamo anticorpi democratici di un paese che, anche grazie al suo governo, sta andando in cancrena. Abbiamo mille volti e mille mezzi. Siamo blogger, speaker, redattori, scriviamo via web, parliamo via etere, raccontiamo su carta. Non siamo giornalisti ma veniamo perseguitati come tali. Abbiamo i nostri eroi, alcuni scolpiti nella storia come Peppino Impastato, altri fortunatamente ancora liberi di esprimere il loro pensiero come Carlo Ruta o Pino Maniaci. Ma soprattutto gentilissimo Presidente abbiamo fatto la nostra scelta: la nostra libertà vale molto di più delle nostra vita. Dove non hanno potuto i bossoli, le lettere intimidatorie, le minacce, le denuncie, le querele mirate, dove non ha potuto la più potente ed influente famiglia politico/ma-

fiosa della Sicilia, non potrà una legge canaglia come quella sulle intercettazioni. Lei e il suo fido Alfano v’illudete che una norma moralmente illegale possa diventare prassi solo perché vergata su crismi di burocratica legalità. Signor Presidente noi continueremo a fare il nostro lavoro, raccontando quello che avviene, anticipando la notizia, veicolando le news e se il caso, scrivendo quello che (secondo voi) non si deve raccontare. “Disonorare i mascalzoni è cosa giusta, perché, a ben vedere, è onorare gli onesti”. Sa perché gentilissimo Presidente non potrà mai batterci? Perché giochiamo su un terreno a Lei sconosciuto. Quello della libertà individuale che diventa patrimonio collettivo. Non siamo in vendita e sappiamo “resistere” a tutto. Siamo liberi e quello che facciamo lo facciamo di tasca nostra, rischiando di nostro. Perché è facile dire per una grande testata “noi resisteremo” dall’alto d’avvocati ben pagati e gruppi editoriali forti ma è ben più difficile farlo quando quel poco che hai in soldi di carta e rabbia ti serve anche per mangiare ogni giorno. Ma lo facciamo in tutta Italia, da classici signor nessuno, senza enfasi o protagonismi. Perché amiamo il bello del nostro paese e ogni muro amico che ci ha visto piangere o sognare. Perché diciamo ogni giorno di voler mollare ed ogni giorno troviamo la forza di andare avanti. Perché amiamo le nostre donne e ci perdiamo negli occhi dei nostri figli a cui vorremmo consegnare qualcosa di più bello del paese attuale. Ed abbiamo riferimenti etici alti: Pietro Ingrao, Vittoria Giunti, Luigi Ciotti, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e quel Piero Calamandrei che dei partigiani italiani diceva così:” Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se

si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile: quella di morire, di testimoniare con la fede e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole: quello di tradurre in leggi chiare, stabili ed oneste il loro sogno di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”. Non li tradiremo signor Presidente. “Se ci volete silenti dovete spararci” dicemmo da ragazzini, di un piccolo giornale locale (Ad Est) di un piccolo paese dell’entroterra agrigentino, ad uno scagnozzo mafioso che ci intimava di tacere. Lo ripetiamo a Lei che con l’aureola della legalità vuole imporci lo stesso mafioso silenzio. Non taceremo e non molleremo neppure un centimetro. Quindi signor Presidente non ha altra scelta: ritiri la legge o prepari tanti proiettili, perché siamo in molti. Indietro non torniamo…neanche per prendere la rincorsa. Gaetano Alessi, articolo 21 - Ad Est http://gaetanoalessi.blogspot.com/

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Modica

Il festival del giornalismo con permesso di soggiorno Informazione in Sicilia: se ne parlerà ad agosto a Modica, per iniziativa del gruppo de “Il Clandestino”. Uno dei gior nali liberi siciliani, pratagonisti con Ucuntu, la Peri ferica, i Cordai e altri ancora della rete di “Lavori in corso”

Modica, una piccola città incastonata nella provincia di Ragusa. Ci troviamo nel profondo sud d’Italia, nel profondo sud della Sicilia, nella cosiddetta provincia “babba” (stupida). “Babba” perché tra questi luoghi coperti dal barocco e ricchi di petrolio sembra che la mafia non ci sia. Sembra. Ed è proprio in questi posti che, più di quattro anni fa, alcuni ragazzi, liceali, ci riunimmo in un garage, uno di quei garage che sanno di musica e sporcizia, e fondammo un giornalino da distribuire nelle scuole. “Come lo chiamiamo?” , “Il clandestino”, tutti d’accordo e via con articoli e impaginazione. Avevamo deciso di dar vita a quelle sei piccole pagine, bruttine e mal fotocopiate, perché avevamo l’esigenza di raccontare la nostra terra. Però la volevamo raccontare davvero, dicendo quello che vedevamo, che vivevamo. Cosa molto semplice, ma che dalle nostre parti i giornali “non clandestini” non fanno. Abbiamo cominciato a parlare subito dei poteri forti, delle ombre e delle nefandezze locali. Abbiamo soprattutto parlato di acqua e lo abbiamo fatto sostenendo le ragioni del movimento contro la privatizzazione. Siamo diventati una sorta di giornale di movimento e questo ci ha fatto crescere. Ma intanto il tempo passava e decidemmo di compiere un gran passo in avanti; un passo che non ci aspettavamo di compiere quando abbiamo cominciato questa esperienza: abbiamo deciso di registrare il giornale, darci una struttura più organizzata con

un direttore responsabile, Pippo Gurrieri (direttore di Sicilialibertaria) e abbandonare le fotocopie per approdare alla tipografia. Era il febbraio 2009 e assieme a noi c’era Rosario Crocetta e molti cittadini curiosi e pieni di speranza per questa nuova realtà editoriale. Così è nata la seconda vita del Clandestino che da allora è diventato “con permesso di soggiorno”. Siamo cresciuti ma la voglia di raccontare la nostra realtà in maniera libera e indipendente non è mutata. Abbiamo continuato a farlo e assieme a molti compagni di viaggio come: “Libera”, Carlo Ruta, Riccardo Orioles, l’Associazione “Lavori in corso” che riunisce varie testate di base. Abbiamo cercato di fare inchieste sui vari malaffari: dalla cementificazione ai rifiuti. C’è chi ha gradito (per fortuna molti) e chi no. Dalle pagine del nostro giornale è nata pure un’idea: fare un festival del giornalismo. Festeggiare il giornalismo con le “pezze al culo” ma con la schiena dritta; il giornalismo che scende ogni giorno per strada e fa nomi e cognomi. Questa idea ha preso corpo nel settembre del 2009. Abbiamo parlato del presente e del futuro del giornalismo; abbiamo discusso dell’informazione nel nostro territorio di “confine” e lo abbiamo fatto assieme a tanti ospiti come: Luciano Mirone, Riccardo Orioles, Pino Maniaci, Carlo Ruta. Non volevamo solo parlare, volevamo pure trasformare il festival in una buona occasione per tessere reti e allora abbiamo dato vita al forum dei giornali giovanili: da “U Cuntu” a

“Siciliantagonista”, passando per “Scicli press” e “Libera Informazione”. Ci abbiamo preso gusto e quest’anno daremo vita alla seconda edizione del festival, l’ultima settimana di Agosto, sempre a Modica. Parleremo di Giovanni Spampinato; del futuro del giornalismo in Sicilia; di Giustizia. Parleremo di questo e tant’altro, non tralasciando i momenti di confronto e formazione. Rifaremo il forum e daremo vita a vari Workshop, oltre alla presenza di numerosi artisti. Lo sogniamo, il festival, come un luogo di incontro e di confronto tra le varie realtà che ogni giorno si sporcano le mani per informare. E dobbiamo pure tanto a questo evento perché ci ha arricchito, ci ha fatto crescere, ci ha fatto incontrare tanti compagni di strada e ci ha spalancato gli occhi sul futuro. Un futuro in cui vogliamo ancora provare, con i nostri tanti limiti, a raccontare la nostra bellissima terra martoriata da clientelismo e arroganza. Il futuro di noi giovani che ben presto vorremmo parlare al passato delle nefandezze che non ci fanno crescere. Scusate ora dobbiamo scappare, andiamo a preparare il nuovo numero. A presto. Giorgio Ruta Per dare una mano all’organizzazione: Iban: IT02F0503684500Dr0234432992 Causale: FESTIVAL Intest: Associazione Il Clandestino Modica Per conferma inviare mail a: ilclandestino1@gmail.com

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Libera informazione

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associazione

lavori in corso

Catania, 17 giugno 2010 FACOLTÀ DI LINGUE

Giornalismo a Sud/ Strumenti di lavoro ore 11.00 - L'inchiesta di mafia Piero Cimaglia (Lavori in corso) Marco Benanti (Isola possibile) Antonio Mazzeo Pino Maniaci (Telejato) Pino Finocchiaro (RaiNews24) Coordina: Giuseppe Scatà ore 15.30 - L'inchiesta storica Carlo Ruta Giuseppe Restifo Luciano Granozzi. Coordina: Fabio D'Urso ore 18.30 - L'inchiesta sociale Giovanni Abbagnato (Antimafia sociale Palermo) Giovanni Caruso (I Cordai), Nino De Cristoforo Massimiliano Nicosia (La Periferica) Rosa Maria Di Natale (Step 1) Coordina: Mirko Viola

“A che serve vivere, se non c'è il soraggio di lottare?” Giuseppe Fava

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