Ucuntu n.76

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Internet e tv: più bavaglio. Perché? Quand'è stata l'ultima volta che hai visto parlare della crisi in tv? Eppure sta avanzando in tutta Europa. La Grecia non è poi così lontana...

Zittoepaga! Non è una crisi qualunque, sta proprio saltando il sistema. Per “risolverla” strozzeranno stipendi e spese. I privilegi dei Vip, ormai fuori controllo, invece continueranno ad aumentare. Ma come farà la Casta - a partire dal Capo – a farci digerire tutto ciò? Con la tv, con l' “informazione”. Che cosa possiamo fare per resistere? Mostrare la verità, fare informazione. Ma tutto si decide qui su internet: riusciranno a bloccarlo come in Cina? Gubitosa/ Avevano ragione i no global Jack Daniel/ Viva Verdi! C arlo Palermo/ Il piombo, l'oro e i pirati di stato Feola/ I Rosarnesi || 18 maggio 2010 || anno III n.76 || www.ucuntu.org ||


Politica: l'Italia ladrona

Come rubano ora non hanno rubato mai Quelli di Mani Pulite, al confronto, erano boy-scout. Questi sopravvivono solo perché non c'è più l'informazione (e vogliono imbavagliare quella poca che resiste, in internet). Così gli italiani li tollerano, o per ignoranza o perché gli piace... Se l'informazione fosse ancora quella dei tempi normali (non chiedo molto: quella di vent'anni fa) l'Italia oggi sarebbe percorsa da cortei di gente incazzata che chiederebbe conto al governo della catastrofe imminente e in parte già in corso. Invece “tutto ok”, “tutto sotto controllo”. Se esistesse una tv in Italia la gente assedierebbe i palazzi tempestando di monetine le auto blu. Altro che Mani Pulite: qua rubano infinitamente di più di tutti i ladroni di allora messi insieme. Mario Chiesa è un boyscout rispetto a un Bertolaso o a un Scajola. Mariuoli? Qua si parla di gente che si compra i Feltri come noccioline, altro che prime pagine coi cinghialoni. “Saviano - disse il procuratore del Re Emilio Fede (nel senso che al suo re gli procurava le tipe) - Saviano mi fa ridere, qua sono io, l'eroe!”. Una così non s'era mai sentita, sotto Craxi. “Craxi? Uno statista, un grand'uomo!” proclamò Sandra Milo, fedele nella catastrofe, ai reporter che la inseguivano nei giorni della disfatta. Ma quante resteranno fedeli, in circostanze analoghe, a Berlusconi? Diaco? Carfagna? La Noemi? E' in momenti del genere che si vede chi fu Napoleone e chi Cagliostro. Di ciò si potrebbe anche ridere, se alla fine non fossero soldi nostri. Soldi, vite, dolori: il fascismo c'è già, per un quarto abbondante degli italiani (poveri, neri, gay, disoccupati). I giovani, qua al sud, non lavorano più, tranne gli spacciatori. La mac-

china maciulla-ragazzi funziona selvaggiamente (qua comandano i vecchi, gli ultrasettantenni) e tutto l'avanspettacolo, tutte le facce da fratelli De Rege (ma guardali una buona volta i Bossi, i La Russa, i Bondi, i Calderoli) splende a corte. I democristiani rubavano, ma nessuno

per figli così scemi come il figlio di Bossi. I socialisti a Milano avranno grattato un poco, ma il duomo almeno l'hanno lasciato lì (c'è ancora? Non ci credo. Sarà un fotomontaggio). Un ministro, Tanassi, finì ai domiciliari e poi in galera per un intrallazzo da duecento milioni, nella vecchia Italia ladrona; un presidente, Leone, si dovette dimettere perché forse intrallazzavanno i suoi figli. Qua circola Bertolaso e circola Scajola. E sono ancora fra i migliori perchè nessuno (a differenza di altri colleghi, legati a mafia camorra e 'ndrangheta) li accusa di avere ammazzato nessuno. Questa è l'Italia che avete, miei nobili concittadini. Non ho ancora capito se l'accettiate per ignoranza, o perché proprio vi piace così. Nel primo caso (io debbo credere al primo caso, perché sono italiano), il nostro mestiere è di informarvi e qui, come in altri luoghi – per lo più eterei – facciamo il nostro lavoro. I vostri ladri ci cercano fin qui nell'internet, per metterci il bavaglio addosso e mantenervi ignoranti (o felici). “A signora donna Lionora/ che cantava 'ncoppa o teatro/ mo' abballa in mezzo o' mercato” dissero di una nostra collega che alla fine riuscirono a imbavagliare (e a impiccare in piazza mercato), molti anni fa. I Borboni, la plebe, l'Europa lontanissima, i Bossi e i La Russa di allora. Quanto tempo è passato, amici miei. E' passato? R.O.

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Economia: è crisi di sistema

Ma allora avevano ragione i no global! Da dieci anni chiedevano tasse sulla finanza selvaggia, e in risposta hanno avuto scherni e botte. Quasi tutti i giornalisti italiani hanno approvato gioiosamente il linciaggio degli unici che avevano visto giusto fin dall'inizio. Perché non chiedono scusa? L'economia europea va in malora per forze maligne e misteriosi disegni del fato oppure era tutto gia' previsto? Stamattina ascolto la rassegna stampa alla radio. Sui grandi giornali spiegano che il problema dell'Europa sono le speculazioni finanziarie, che c'è chi fa soldi a danno dell'economia di intere nazioni giocando al ribasso e che la Banca Centrale Europea deve comprare qualche cazzo di pezzo di carta, magari anche titoli di Stato resi carta straccia, il tutto per "impaurire gli speculatori"... non ci ho capito molto, ma se i problemi d'Europa arrivano dagli squali della finanza allora chiedete scusa ai NoGlobal. Sono dieci anni che i "No-Global", il "Popolo di Seattle", il "Movimento dei Movimenti", insomma i gruppi di gente incazzata si fanno schernire, deridere, denunciare, menare e perfino sparare addosso per dire che la finanza va fermata prima che sia troppo tardi, e che bisogna mettere una tassa sulle speculazioni finanziarie proprio per fare quello che ora i grandi cervelloni dell'economia vogliono tentare con ricette improbabili: impaurire gli speculatori, agganciare la roulette impazzita della finanza all'economia reale, scoraggiare i giochi d'azzardo con una leva fiscale che porterebbe soldi nelle casse degli stati sovrani senza dover muovere un dito. E allora voglio qui davanti a me tutti gli intellettuali stupidi o venduti che hanno

sparato minchiate a nove colonne, gli 007 che hanno scritto favole sui palloncini d'assalto pieni di sangue infetto e i lanci di frutta con le lamette dentro, gli opinionisti e i commentatori che hanno dato opinioni imbecilli a pagamento su gente che non conoscevano commentando cose che non capivano, i politici e sindacalisti di questa maledetta e finta sinistra che quando si è trattato di andare in piazza a Genova hanno ritirato in fretta e furia le adesioni delle loro parrocchiette impaurite e ignoranti, gli sbirri che sequestravano senza capirci nulla presunti piani di "attacco" contro lo stato, mentre erano solamente i volantini di ATTAC, l'Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie e per l'Aiuto ai Cittadin. E soprattutto voglio qui a rapporto tutti i vari ex-compagni che ieri leggevano le copertine dei libri di Marx per raccattare più figa e oggi si fanno le pippe con le copertine di Max e dimostrano tutta la loro ignoranza con la pancia piena e le bretelle tese, senza capire una beneamata cippa di tutta l'analisi economica realizzata dalla società civile in questi ultimi anni. Sì, sto parlando proprio di voi, che avete costruito la vostra piccola e meschina carriera camminando sul cadavere del PCI come oggi siete pronti a camminare sul cadavere di una società mandata al macello dai ricchi e potenti che se la sono comprata per due lire dai cittadini per poi rivendergliela a peso d'oro.

Ce l'ho proprio con voi, cari Gad Lerner (ex Lotta Continua), Paolo Liguori (ex Lotta Continua), Paolo Mieli (ex Potere Operaio), Giuliano Ferrara (ex PCI), Sandro Bondi (ex PCI), Franco Frattini (ex collaboratore del "Manifesto"), Gianni Riotta (ex collaboratore del "Manifesto"), Carlo Rossella (ex PCI). Fatemi leggere gli articoli in cui avete difeso dai governi repressivi i movimenti della società civile a sostegno della Tobin tax sulle transazioni finanziarie, oppure vergognatevi per sempre di aver fatto carriera nei partiti del "potere al popolo" solo per diventare popolari e potenti. Vi voglio tutti qui davanti, mettetevi in fila, inginocchiatevi sui ceci, fate atto di dolore e ripetete in coro: "negli ultimi dieci anni, per ignoranza o tornaconto, abbiamo detto e fatto cazzate che hanno messo a rischio l'economia europea, favorendo gli speculatori e danneggiando una intera generazione di cittadini che ieri ha perso il futuro e oggi vede a rischio il suo presente. Ci impegnamo solennemente da oggi i npoi a capire di più e a demonizzare, ridicolizzare e contrastare di meno ogni movimento culturale, sociale e politico capace di trascinare in piazza centinaia di migliaia di persone, perché magari qualche ragione ce l'hanno anche gli altri". E anche così, non è detto che vi perdoni. Ulisse Acquaviva www.mamma.am

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Libertà di parola

Finchè questo è possibile Dopo molti rinvii, alla fine la stretta su internet sta arrivando. Berlusconi sa benissimo che la Rete è l'unico posto dove la censura non è ancora arrivata, e si attrezza di conse guenza. Vuole strozzare Facebook, Youtube, i blog e i giornali di rete come questo Il Senato ha approvato il cosiddetto pacchetto sicurezza (D.d..L. 733) tra gli altri con un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC) identificato dall'articolo 50-bis: /Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet; la prossima settimana il testo approderà alla Camera diventando l'articolo nr. 60. Il senatore Gianpiero D'Alia (Udc) non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della "Casta". In pratica in base a questo emendamento se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o a criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i /providers/ dovranno bloccare il blog. Questo provvedimento può far oscurare un sito ovunque si trovi, anche se all'estero; il Ministro dell'Interno, in seguito a comunicazione dell'autorità giudiziaria, può infatti disporre con proprio decreto l'interruzione della attività del blogger, ordinando ai fornitori di connettività alla rete internet di utilizzare gli appositi strumenti di filtraggio necessari a tal fine. L'attività di filtraggio imposta dovrebbe avvenire entro il termine di 24 ore; la violazione di tale obbligo comporta per i provider una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 50.000 a euro 250.000. Per i blogger è invece previsto il carcere da 1 a 5 anni per l'istigazione a delinquere e per l'apologia di reato oltre ad una pena ulteriore da 6 mesi a 5 anni per l'istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico o all'odio fra le classi sociali. Con questa legge verrebbero immediatamente ripuliti i motori di ricerca da tutti i link scomodi per la Casta!

In pratica il potere si sta dotando delle armi necessarie per bloccare in Italia Facebook, Youtube e *tutti i blog* che al momento rappresentano in Italia l'unica informazione non condizionata e/o censurata. Vi ricordo che il nostro è l'unico Paese al mondo dove una /media company/ ha citato YouTube per danni chiedendo 500 milioni euro di risarcimento. Il nome di questa /media company/, guarda caso, è Mediaset. Quindi il Governo interviene per l'ennesima volta, in una materia che, del tutto incidentalmente, vede coinvolta un'impresa del Presidente del Consiglio in un conflitto giudiziario e d'interessi. Dopo la proposta di legge Cassinelli e l'istituzione di una commissione contro la pirateria digitale e multimediale che tra poco meno di 60 giorni dovrà presentare al Parlamento un testo di legge su questa materia, questo emendamento al "pacchetto sicurezza" di fatto rende esplicito il progetto del

Governo di /normalizzare/ con leggi di repressione internet e tutto il sistema di relazioni e informazioni sempre più capillari che non si riesce a dominare. Tra breve non dovremmo stupirci se la delazione verrà premiata con buoni spesa! Mentre negli USA Obama ha vinto le elezioni grazie ad internet in Italia il governo si ispira per quanto riguarda la libertà di stampa alla Cina e alla Birmania. Oggi gli unici media che hanno fatto rimbalzare questa notizia sono stati il blog Beppe Grillo e la rivista specializzata Punto Informatico. Fate girare questa notizia il più possibile per cercare di svegliare le coscienze addormentate degli italiani perché dove non c'è libera informazione e diritto di critica il concetto di democrazia diventa un problema dialettico. Franco Berardi

Mercoledì 19 maggio, ore 17 Sala conferenze della biblioteca Ursino Recupero (Benedettini).

Media, democrazia e nuovo giornalismo

Il manifesto degli eretici digitali e l'esperimento Eleven Catania" Saranno presenti gli autori di "Eleven Catania", vincitori del premio Eretici digitali al Festival internazionale di Perugia. “Eleven Catania, inchiesta collettiva a 11 voci” è un reportage ipertestuale, coordinato da Rosa Maria Di Natale. sulla città e le sue contraddizioni: dalla Catania dei quartieri di periferia, dei cetri sociali e dell'antiracket, alla Catania illegale e mafiosa. Quella che l'informazione ufficiale tace.

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Libertà di parola

Informazione in Sicilia Bravi, coraggiosissimi ma tutti divisi fra loro: i giornalisti antimafiosi da noi non mancano, ma sono destinati a essere spazzati via ad uno ad uno. A meno che non rie scano miracolosamente a fare un salto di qualità, a coordinarsi fra loro in una rete libe ra e efficiente Esistono in Sicilia numerosi giornalisti liberi - per lo più non retribuiti, ma spesso ad elevato livello di professionalità - e numerose piccole testate indipendenti, sia su carta che su web. Nonostante ciò, il livello dell'inforzione in Sicilia è bassissimo e la grande maggioranza della popolazione vive completamente disinformata. Il motivo più evidente è il monopolio dell'editoria: i tre quotidiani dell'Isola, e quasi tutte le televisioni, appartengono o sono alleate a un unico editore, Mario Ciancio. Sia il Giornale di Sicilia di Palermo che La Sicilia di Catania hanno una solida tradizione, diciamo così, non antimafiosa. Il primo, in cinquant'anni di onorato servizio, ha coperto da Salvatore Giuliano ai banchieri Salvo; il secondo anche recentemente si è pregiato di ospitare opinioni dei Santapaola. Entrambi vendono pochissimo, molto sotto la media europea. Il secondo motivo è l'irresponsabilità, o peggio, degli imprenditori siciliani: che non hanno mai concesso, nè mai - probabilmente - concederanno pubblicità alle testate estranee al monopolio. Personalmente, ho fatto giornali in Sicilia per quasi trent'anni (i Siciliani, Casablanca, ora Ucuntu, passando per il versante siciliano di Avvenimenti) e non sono mai riuscito a vedere un soldo di pubblicità da un industriale siciliano, compresi quelli "progressisti". E' stato così che i Siciliani hanno dovuto chiudere, pur vendendo molto di più di qualunque loro omologo siciliano (e a volte nazionale). Il nostro giornalismo, di cui ora tutti riconoscono il valore professionale e civile, è stato alimentato a carne umana, coi sacrifici dei redattori e la loro condanna alla miseria. E anche oggi, ogni volta che chiedo qualcosa ai nostri giovani (e bravi)

redattori non posso esimermi dal provare un senso di colpa: non solo non riceveranno nulla in cambio del loro lavoro, ma dovranno anche pagarlo di persona. Non si sottraggono alla norma gli im-

prenditori finalmente antimafiosi di oggi. L'esempio più eclatante è quello della Confindustria siciliana (rielle al pizzo ecc. ecc.) che per fare uno speciale sull'economia siciliana non si rivolge alle testate o ai giornalisti dell'antimafia ma a Libero; col risultato di avere in prima pagina, come modello di imprenditore giovane e efficiente... un membro della famiglia Ercolano. Il terzo - e forse decisivo - motivo è l'immaturità politica dei pur coraggiosissimi antimafiosi siciliani; almeno di quelli che fanno informazione. Bravi professionalmente, riflessivi, devoti ma assolutamente privi di coordinamento fra loro, e non solo per fatto tecnico ma proprio per una cultura profonda (siciliana...) che nega l'unità. "Cu joca solu non perde mai", "A pignatta comune mai bollì"... Non sono proverbi mafiosi: sono

proverbi sicilaini, al cui senso pochissimi siciliani, e certo quasi nessun giornalista antimafioso, riesce in realtà a sottrarsi. Le non poche testate libere siciliane assomigliano così a tante valorosissime tribù indiane, ciascuna delle quali divende con coraggio e spesso con successo la propria valle, ma che rarissimamente riescono a unirsi - e anche allora per poco tempo - per affrontare insieme il nemico comune: che è invece ordinatamente inquadrato in plotoni, compagnie e reggimenti e per questo vince. L'unica eccezione, che io sappia, è la rete di Lavori in corso, a Catania e Ragusa (Ucuntu, il Clandestino, i Cordai, la Periferica e altri pochi) che eredita la cultura unitaria di Casablanca (i due convegni "Sbavaglio" fra le testate siciliane) che viene, a sua volta, dai tentativi unitari dei Siciliani (non tutti), da Siciliani Giovani, dalle testate locali che ruotavano attorno ad essi negli anni '90, dai gruppi locali di Avvenimenti e dell'Alba, ecc. Ma è una rete piccola e infelice, stretta fra l'ambizione dell'obiettivo (unire tutti) e la generosa avarizia degli intelocutori, disponibili nei momenti solenni o d'emergenza ma non nella banale (e decisiva) routine quotidiana. La Sicilia, fra le regioni d'Europa, è quella con gli editori peggiori (monopolio, collusioni) e i giornalisti migliori (otto caduti sul dovere, numerosissimi giovani venuti su, sul loro esempio, quasi ad ogni nuova generazione). Eppure in Sicilia il giornalismo libero continua ad essere sconfitto e isolato: un po' per colpa dei cattivi ma molto per irresponsabità dei buoni. Riccardo Orioles

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Anniversari

Viva V.E.R.D.I. «L'Italia periglia, Maestà». «Come sarebbe, Benso? L’Austria sta minacciando di nuovo il Lombardo Veneto?». «Stavolta l'Austria non c'entra, Maestà. Adesso è il Lombardo Veneto che minaccia l’Unità...». Un dialogo surreale - ma non tanto - fra personaggi dimenticati, in una “espressione geografica” che una volta ha provato ad essere una Nazione

L’ultimo usciere aveva spento l’ultima luce e l’oscurità era finalmente calata sul lungo corridoio del Palazzo. S’erano chiuse le pesanti massellate e istoriate porte, le dorate serrature erano scattate e la pace regnava ora sovrana, come è giusto che sia in un palazzo un tempo di Re. Un sussurro, un bisbiglio, una volta accertata la duratura quiete, si levò da uno degli angoli e, per quanto fosse appena intellegibile, suonava però imperioso, autoritario. E anche un po’ seccato. «Non furono, quest’anno, celebrazioni grandiose, nevvero? Ne convenite anche voi?». «Senza meno.». «Deludenti, invero.» «Invero sì.» «Mi chiedo qual sia la causa. Forse il vedermi accumunato a persone di lega, in verità, non sempre nobile può avermi arrecato un certo qual nocumento?». E qui il silenzio si fece spesso, perché palese era l’allusione ai presenti. «Temo non sia solo questo, Maestà. Ancor periglia, in questi dì, l’Unità della Nazione.». «Cosa dite mai, Benso? L’Austria ancor minaccia il Lombardo Veneto e l’integrità della Patria?». «Non propriamente, Maestà, è il Lombardo Veneto che minaccia l’Unità, e sanza che si periti l’Austria di profferir verbo»

«Ohibò e perché mai?». «Perché l’Italia nacque sotto cattiva stella – si unì allora una terza voce – stella d’oppressione e tirannide, stella monarchica, stella del (pausa minacciosa e un po’ disgustata) Savoia. Non sorprende che il Popolo non provi affezione per la cara Madre.». «Oh, ma il Mazzini è ancor là? Benso, non s’era decretata la dannasiun memoriae (damnatio, Maestà, damnatio) per quel becchino repubblicano?». «E’ la vostra presenza, Savoia, che in vero sorprende, giacché L’Italia ora è Una e repubblicana.» «E ben si vede che fine ha fatto la vostra Italia Una e repubblicana. Ricusavate la Maestà e ora v’inginocchiate a Pirlasconi (Berlusconi, Maestà). E taccio di rammentare di certe suddite (Oui! Meglio tacere, Maestà!)... Benso! Ma la mi dovete sempre correggere? Son pur sempre la Vostra Maestà, neh! Volevate la Repubblica? E ora l’avete, congratulassiun, tenetevi il Baracconi.». «Sotto il tallone della tirannide il popolo divien plebe e spregia la libertà medesima. Savoia, v’accuso! Nel far vostra l’Italia, avete fatto gl’ italiani servi! ». «Benso! Ma ancora mi cogliona quel Mazzini? Ma che ci fa qui? Ma non lo si era condannato? Non era riparato in Isvizzera o in Inghilterra? Caro il mio Mazzini, non ci fossimo resoluti noi, la vostra Italia

non l’avreste mai veduta, non da vivo, non da morto non da statua. Mercé chi, di grazia, la si voleva unire? Con quali armi? Col vostro Pisagatti? Coi vostri 300 giovanissimi e fortissimi che son però mortissimi?». Un colpetto di tosse, uno schiarirsi la voce «Giammai l’Italia sarebbe Una, non fusse pei miei 1000. Quando lor signori si baloccavano di astruserie diplomatiche, o quando taluno si perdeva in vaneggiamenti mistici e oppiacei o in atti tanto velleitari quanto inutili, fu solo in grazia dell’azione da noi intrapresa che si sciolse il gordiano nodo che avviluppata tenea la Penisola. Voi cianciavate, noi si seminava, voi discettavate d’Italia Una, noi la si faceva.». «Peut-être - ripose freddo Benso - Ma le scienze agricole, che mi capitò di frequentare, spiegano come merito precipuo del cultivatore sia l’assistere la crescita del raccolto più che lo sparger semenza. Forse Voi, Garibaldi, seminaste, ma noi curammo e noi impedimmo che la pianta deperisse anzitempo, fato ineluttabile s’avessimo lasciato a voi l’iniziative.». «E’ merito dei 1000, caro il mio Benso, se il vostro Re lo divenne di Napoli e Roma e non lo rimase di Pinerolo e Mondovì.». «Benso! Ma come osa quel villanzone?». «Nulla è ciò ch’egli dice, Savoia. Divenir l’Italia Regno, quella fu la jattura. Oh, foste restato a Mondovì!». «Ancora quel Mazzini? Ce l’ha ora la sua

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Anniversari

repubblica, ne sia felice, con Trafficoni Presidente e Pesciaroli Ministro. Oh sì, bell’affare, bell’affare veramente!». «Un Presidente iniquo e vizioso lo si può deporre, in Repubblica. Sub monarchia avremmo patito, sanza nulla speme, le ingiurie de’ vostri debosciati nipoti.». «Alludete, Mazzini?» «Alludo, Savoia.» «Colpa vostra: se i miei nipoti fossero vissuti a Corte e non nelle mollezze di un esilio repubblicano avrebbero certamente mostrato miglior riuscita. Benso, che ne dite voi?» «Dico, Maestà, e lor signori, che sarebbe il caso di por fine a tali querimonie e rammentarsi dell’imminente comune periglio.». «E sarebbe quale, il periglio?» «Udii voci, Maestà e lor Signori: pare vi sia l’intenzione di trasferirci in altro locale.». «Non istaremo ancor in questo largo corridoio? E dove ci menerebbero, di grazia? Forse nel salone panoramico dal quale si godrebbe mirabil vista?». «Parmi , Maestà, che l’intenzioni sien altre.». «Potrebbe darsi nello studiolo, ché la nostra figura possa suggerire alte e nobili scelte pel destino della Patria?». «Mi duole, Mazzini, ma non raccolsi tali propositi.». «Che sia nella balconata affacciata sulla

piazza d’Arme, in guisa che noi si possa ispirar le giovini reclute della Patria?». «Mai più, Garibaldi. Maestà, Signori, il parlottio cennava ad un sottoscala.». «Un sottoscala? Come osano! Ah, non fossi qui in effigie di busto e m’avessero almen serbato braccia e sciabola farei vedere io, farei vedere! Non basterebbero tutta la milizia e tutti i Prefetti del Ministro Coglioni!». «Maroni, Maestà.». «E va bin, sono pur sempre cose che si rompono. Ma quando avverrebbe, poi, questo trasferimento?». «Presto, dimane, di buon’ora.». «Ma perché mai, questa transumanza?» «Non compresi appieno. Cavi, nuova sala stampa . Ammodernamento. Di più ignoro.» Fu una notte greve quella che precedette l’arrivo dei traslocatori. Con molta dignità, senza lasciar trasparire emozione alcuna, gli augusti Padri della Patria si fecero imbracare, sollevare e portar giù. Solo Garibaldi, combattivo, oppose una strenua resistenza e si abbarbicò al suo piedistallo con tutte le forze che gli erano concesse. Tanto resistette che gli altri tre, ormai giunti al fondo del Palazzo, udirono un frastuono, uno schianto, che si propagò per tutti i saloni e tutti i corridoi. «Garibaldi fu fracassato.». «Meschino. In fondo l’era un bravo fi-

gliuolo. Idee un po’ balzane, ma non cattivo. Benso, pensate che sia questa la nostra nuova magione?». «Ritengo di sì, Maestà». «Non mi pare molto luminosa, nevvero?». «No di certo, Maestà.». «E neanche molto spaziosa, mi sembra.». «Oserei dire angusta, Maestà.» «Infatti avverto la vostra vicinanza, Benso. Visto che siete così prossimo, di grazia, potreste dirmi perché m’han posto questa veletta sul volto?». «Maestà, temo si tratti di una ragnatela.». «Ne siete sicuro, Benso?». «Temo di sì, Maestà.». «Ah.». … «Benso?». «Maestà.» «In finale, per i prossimi 50 anni si deve solo riposare, nevvero? e un locale quieto e silenzioso (molto silenzioso) può avere i suoi vantaggi. Ne convenite? Ora dobbiam solo attendere d’esser nuovamente destati.». «Bien sûr, Maestà, purché qualcheduno ancor ci desti.». Jack Daniel http://dajackdaniel.blogspot.com/ http://it-it.facebook.com/people/Jack-Daniel/100000731772371

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Stragi & Affari

Il piombo, l'oro e i pirati di Stato Cronaca di 20 anni Certo, la mafia non agiva da sola: adesso è normale dirlo, ma per lunghi anni furono pochissimi a intuire i legami fra gli uomini delle cosche e quelli dei servizi. Uno di questi pochi era il giudice Carlo Palermo

I recenti articoli di Attilio Bolzoni su Repubblica e di Alfio Caruso sul Corriere della Sera relativi all’attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone del giugno del 1989 offrono spunti di riflessione sullo stato delle indagini attualmente svolte in particolare da taluni magistrati in Sicilia, che tentano oggi di decifrare e comprendere alcuni episodi che solo apparentemente riguardano “affari” di Sicilia, ma che forse costituiscono chiavi di lettura di attività più complesse, trovanti origine e motivazione in centri di potere più complessi. Esponendosi gli esiti delle nuove attività investigative, si evidenzia oggi che l’episodio dell’Addaura può essere considerato come punto di inizio e chiave di lettura delle stragi del ’92, rilevandosi così che siamo in ritardo di 20 anni con le indagini in conseguenza degli occultamenti e dei depistaggi intenzionali che avrebbero oscurato così a lungo la ricostruzione della verità. In merito non posso che concordare con tale attuale impostazione dei magistrati, anche se ritengo che il connubio tra poteri occulti, mafia e terrorismo risalga a molto tempo prima, e come tale vada esaminato nella sua globalità storica per essere poi individuato e decifrato in ogni singolo episodio che ne ha costituito espressione. Per comprendere a fondo la genesi e le più complesse responsabilità delle stragi del ’92 è forse opportuno ricordare che poco dopo i due attentati di Capaci e di via d’Amelio, a Milano, vennero sequestrati armi e plastico per attentati: dietro l’organizzazione sembra esservi stato il clan mafioso della famiglia Fidanzati, operante da un ventennio sull’asse Palermo - Milano, in connessione con le organizzazioni della mafia turca e con i terroristi libanesi. In questo ricorrente asse - forse poco ap-

profondito nel comune convincimento che la mafia operi solo in Sicilia - possono rinvenirsi indizi che riconducono a fatti vecchi e nuovi (al caso Calvi, alla P2, al sistema delle corruzioni politiche, ecc.), tutti ruotanti attorno a rilevanti operazioni bancarie e finanziarie, che - come noto - costituisce il necessario sistematico legante di tutte le attività illecite. La riflessione ci riporta (come ho da tanti anni ricordato in miei scritti) a vicende in qualche modo collegate a due conti bancari “famosi” per Giovanni Falcone, come anche per i magistrati di Milano: il “Conto Protezione, rif. Martelli per conto Craxi”, sulla banca Ubs di Lugano (che risaliva ai lontani anni 1979-80), e il meno noto Conto “rif. Roberto”, sul Banco di Roma, sede di Lugano. Su questi nomi e su questi conti si incentrarono e poi si bloccarono le ricerche di Giovanni Falcone quando era giudice istruttore a Palermo. Sul Conto Protezione pe r tanto tempo (e sino al ’93) si bloccarono a Milano le indagini della magistratura sul Banco Ambrosiano. Sul Conto rif. Roberto si fermarono Falcone e Borsellino nelle loro inchieste di mafia. Su entrambi i conti, in Svizzera iniziò a indagare, su richiesta di Falcone, il magistrato elvetico Carla Del Ponte, che si trovava a Palermo all’Addaura insieme a Falcone nel giorno dell’attentato del 1989 all’Addaura. Io incontrai Carla Del Ponte il giorno prima che costei partisse per la Sicilia, per vedersi con Falcone a Palermo. Sui conti elvetici poi, dopo l’eliminazione di Falcone e Borsellino, si sono nuovamente imbattuti, dal ’92 i magistrati di Milano e inquirenti siciliani (di Palermo, Caltanisetta e Catania) in varie inchieste sulla corruzione e sui fondi occulti all’estero.

Per Falcone e Borsellino, quei conti rimasero però un mistero. Per dipanare la matassa, andiamo ancora più indietro e spostiamo l’attenzione su personaggi a lungo trascurati, Florio Fiorini e Giancarlo Parretti, recentemente al centro di scandali finanziari internazionali; in passato, legati alle vecchie storie del Banco Ambrosiano, della P2, delle forniture di petrolio Eni-Petromin: si potranno notare le strette connessioni di questi fatti (tipicamente “economici” e bancari) con altri piú propriamente “mafiosi”. Agli inizi degli anni Settanta, Parretti arrivò a Siracusa e il suo cammino si incrociò con quello di un uomo politico che contava nella Sicilia dell’epoca, il senatore democristiano Graziano Verzotto. Nativo del nord, Verzotto, ancora nel 1953, aveva svolto in Sicilia il doppio ruolo di funzionario dell’Agip (antenata dell’Eni) e di commissario provinciale della Dc. Divenne rapidamente padrone incontestato di Siracusa, poi di tutta l’isola, anche se i suoi rapporti con il leggendario presidente dell’Agip-Eni, Enrico Mattei, presto si raffreddarono. Verzotto fu l’ultimo a salutare Mattei quando, la sera del 27 ottobre 1962, questi prese a Catania l’aereo privato che si sarebbe schiantato poco dopo a Bescape, a qualche decina di chilometri dall’aeroporto di Milano-Linate: fu forse il primo episodio terroristico in cui si mescolarono insieme gli emergenti interessi di Stato, legati ai commerci internazionali di petrolio, e la mafia. Lo stesso Verzotto nel 1967 divenne segretario generale della Dc siciliana e poi presidente dell’Ente minerario siciliano (Ems), organismo che raggruppava diciotto società, con disponibilità sugli enormi fondi del Mezzogiorno.

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Stragi & Affari

I suoi intrecci con la mafia furono molteplici: fu amico di Frank Coppola e Giuseppe de Cristina, uno dei principali protagonisti della seconda guerra di mafia. La posta principale, in quel momento, era il controllo del mercato immobiliare dell’isola attraverso il triunvirato Stefano Bontade, Gaetano Badalamenti, Salvatore Riina, uomo di fiducia di Luciano Liggio, allora capo dei corleonesi. De Cristina venne assassinato a Palermo il 30 maggio 1978. L’omicidio scatenò quella che poi venne chiamata la “mattanza”, una strage totale che raggiunse il culmine negli anni 1981-82. Frattanto, Fiorini - alleato di Parretti come direttore finanziario dell’Eni (diresse l’ente dal 1975 al 1982, data della sua forzata separazione dall’Eni, conseguente agli scandali dell’epoca), guidava allora le finanze della compagnia petrolifera in collegamento con i socialisti di Craxi, piduisti e il leader libico Gheddafi. In quel periodo si infittirono gli investimenti e le partecipazioni internazionali: Parretti (socio di Verzotto) e Fiorini, attraverso il gruppo finanziario spagnolo Melia International, acquisirono il controllo sulla società belga Bebel, che possedeva a sua volta oltre il 7% della Banque Bruxelles Lambert. Questa banca – negli ultimi anni Settanta – comparve nelle trattative tra Fiorini e Antony Gabriel Tannoury, graccio destro di Gheddafy, nella cessione delle azioni delle Assicurazioni Generali in relazione ai tentativi del leader libico di acquisire tecnologie nucleari. E, sempre alla stessa banca, si ricollegarono altri commerci di armi (come ad esempio quelli relativi alle forniture al Belgio degli elicotteri Agusta) in connessione con altri personaggi operanti nel settore finanziario internazionale al massimo livello. Nel 1978 venne anche aperto, a Lugano, presso l’Union Banques Suisses, il Conto Protezione intestato a Silvano Larini: “I dirigenti dell’Ubs erano degli amici”, disse Fiorini, con riferimento ai rapporti tra la

banca svizzera e l’Ambrosiano. Sui conti dell’istituto elvetico – che custodí i segreti di Craxi una quindicina di anni – a piú riprese si svolsero operazioni finanziarie del piú vario genere: versamenti di tangenti connesse a transazioni petrolifere (EniPetromin), pagamenti di partite di droga (in particolare per il clan mafioso dei Cuntrera-Caruana), finanziamenti illeciti dei partiti, creazioni di fondi occulti, operazioni di riciclaggio. L’Ubs, inoltre, tramite banche controllate – in particolare la Banque de Commerce et de Placements (la Bcp) – fu in stretti rapporti con il pachistano Abedi e la Bcci. Sempre nel 1978, il 17 aprile, iniziò un’importante ispezione della Banca d’Italia sul Banco Ambrosiano in conseguenza della gravissima situazione debitoria in cui questa versava per le spericolate operazioni del suo presidente Roberto Calvi. Nel novembre, il dossier passò al giudice di Milano, Emilio Alessandrini, che conduceva le indagini su Calvi. Dopo circa tre anni, il 29 gennaio 1979, egli fu ucciso da un commando di Prima linea. Dopo il sequestro Moro e lo scandalo Lockheed, gli anni 1979-80 trascorsero tra i tentativi trasversali di occupazione di potere incentrati nelle operazioni Rizzoli-Corriere della Sera, commesse petrolifere Eni-Petromin, finanziamenti al Psi di Craxi, nonché tra i misteri legati alla strage di Bologna e a quella di Ustica: tutti questi episodi evidenziarono depistaggi, connessioni occulte con il terrorismo, collegamenti tra i servizi segreti italiani e quelli americani, in una situazione politica condizionata dalla guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, e tra gli Stati Uniti e l’Iran rivoluzionario di Khomeyni con un equivoco ruolo svolto dal leader libico Gheddafi. Alla fine di quell’anno (1980), mentre a Trento iniziava l’inchiesta sulle connessioni tra mafia siciliana e mafia turca, e sui rapporti tra Trento e Trapani, il turco Ali Agka ebbe, verso il 20 dicembre, misteriosi

contatti attorno a Palermo, forse proprio a Trapani. All’inizio del 1981 (il 17 marzo) venne scoperto dagli inquirenti l’elenco degli appartenenti alla loggia P2. Il successivo 8 maggio, a Trapani, venne creata la loggia coperta C. Qualche giorno dopo (il 13 maggio), Ali Agka tentò, in piazza San Pietro, di uccidere il Papa: sulla base di connessioni bancarie, il killer turco apparve in qualche modo collegato con il massone di rito scozzese Thurn und Taxis e con sette integraliste ispirate al culto di Fatima. Esattamente un anno dopo (il 13 maggio 1982) e sempre con connessioni massoniche, un secondo attentato al Papa veniva consumato a Fatima, in Portogallo, mentre infuriava la guerra tra l’Argentina e l’Inghilterra per le isole Falkland. Un mese dopo, a Londra, Calvi si “suicidava”. Nella lista degli iscritti alla P2 stranamente non comparvero i nomi dei partner di Gelli presenti nel governo di Washington. Numerosissimi, invece – quasi seguendo un piano prestabilito –, furono quelli di generali e militari argentini compresi nell’elenco. In Argentina, a Buenos Aires, in via Cerrito 1136, il capo della P2 – si ricorderà – disponeva di un appartamento, al nono piano: vi si trovavano gli uffici di una ditta, Las Acacias. In quello stesso edificio aveva avuto sede il Banco Ambrosiano. La società Acacias (panamense e con sede a Lugano) risultò al centro di operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da traffici di stupefacenti, tra il Brasile, gli Usa, l’Italia e la Svizzera. Fondata da Vito Palazzolo, venne utilizzata per il trasferimento di milioni di dollari manovrati dal clan Bonanno tra gli Usa e la Svizzera. Questi fatti riguardavano le connessioni “argentine” del clan Fidanzati, sulle quali indagò, negli anni Ottanta, Giovanni Falcone. Per una strana ricorrenza, solo un anno prima di essere ucciso a Capaci, lo stesso Falcone si recò a Buenos Aires per una rogatoria: in un burrascoso incontro con il

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Stragi & Affari

boss Gaetano Fidanzati – arrestato in quel paese –, questo ultimo minacciò di farlo saltare in aria. Ritornando al 1982, nella settimana di Pasqua – e cioè poco prima della uccisione di Calvi, avvenuta il 17 giugno – davanti agli uffici di una società collegata alla Acacias (la Traex), avvennero incontri tra importanti operatori finanziari internazionali, il fornitore turco di droga Yasar Musullulu e, con ogni probabilità, Pippo Calò. Yasar Musullulu, capo della mafia turca, era probabilmente il fornitore della morfina base della raffineria di Alcamo, scoperta nell’aprile del 1985, trenta giorni dopo l’attentato di Pizzolungo, non molto lontano dai luoghi ove era stato ucciso, due anni prima, il sostituto procuratore Giacomo Ciaccio Montalto. Negli stessi giorni erano state eseguite indagini sui rapporti di mafia esistenti tra Trapani e Trento. In America, il principale destinatario delle forniture di droga dalla Sicilia era allora il clan mafioso agrigentino dei Cuntrera e Caruana. Uno dei loro soci piú importanti, Francesco di Carlo, venne in seguito indicato come uno dei killer di Roberto Calvi. Probabilmente la somma per pagare i killer venne ricavata dal tesoro segreto della P2, occultato in una banca sconosciuta e forse transitato sull’istituto Rothschild. Mentre magistrati e investigatori siciliani indagavano sui Cuntrera, sul Musullulu e sulle operazioni bancarie che li collegavano in Svizzera, alla fine del luglio 1985, venne ucciso il commissario Giuseppe Montana, della squadra della Questura di Palermo preposta alla cattura dei latitanti. Frattanto Francesco di Carlo veniva arrestato in Inghilterra, dove lo raggiungeva immediatamente il vice questore Cassarà. Pochi giorni dopo, il 6 di agosto, al suo ritorno a Palermo, Cassarà venne ucciso. Minacce di morte costringevano Falcone e Borsellino a nascondersi in un’isoletta per scrivere l’ordinanza di rinvio a giudizio del primo maxiprocesso di mafia. Nell’aprile del 1986, veniva intanto scoperto a Trapani il Centro studi Scontrino, le sue logge massoniche, i legami filoarabi con Gheddafi. Nel 1987, nel corso di indagini svolte a Palermo da Giovanni Falcone, a seguito di accertamenti in Svizzera sui rapporti presso istituti elvetici, emersero tracce di versamenti di centinaia di migliaia di dollari su un conto chiamato “Rif. Roberto” del Banco di Roma, sede di Lugano, i cui benefi-

ciari non vennero mai individuati con certezza. Quel denaro – come risultò in seguito – costituiva un diretto provento di forniture di stupefacenti effettuate al clan CuntreraCaruana. Il Banco di Roma di Lugano, ovvero la Svirobank, era di proprietà al 51% dello Ior, la banca del Vaticano, di cui era presidente Marcinkus, che era stato in stretto rapporto con Roberto Calvi . A Trapani, nel settembre dello stesso anno 1987, in apparente controtendenza rispetto alla chiusura delle strutture Gladio, veniva creato il Centro Scorpione, dalla VII divisione del Sismi: avrebbe dovuto essere una propaggine di Stay Behind. Doveva probabilmente servire per ingrandire e potenziare alcune unità clandestine operanti sul territorio: le Rac e le Udg (Rete agenti coperti e Unità di guerriglia). Questo centro era dotato di un aereo di piccole dimensioni. La mafia, in quella zona (Castellammare del Golfo), si serví proprio di un velivolo di quelle caratteristiche, per un enorme trasferimento di droga (565 kg di eroina) eseguito con una nave, la Big John. Sempre in quell’anno, a fronte di aiuti a paesi sottosviluppati, il Perú ricevette dall’Italia mezzi sofisticatissimi: ponti radio, sensori a raggi infrarossi, giubbotti antiproiettile e una quantità imprecisata di pistole Beretta imbarcati su un aereo partito da Roma, coperto dal segreto militare. Si trattò dell’operazione “Lima”, un piano di aiuti, deciso nel 1987, a sostegno del governo peruviano del presidente García, allora impegnatissimo nella caccia al professor Guzmán, il leader di Sendero luminoso, già condannato all’ergastolo. L’ammiraglio Fulvio Martini, direttore dei nostri servizi segreti, raccontò ai magistrati che l’operazione era stata organizzata dall’allora presidente del Consiglio Craxi. Era previsto l’addestramento della guardia peruviana con personale della VII divisione del Sismi, la stessa che aveva creato a Trapani, sempre nel 1987, il Centro Scorpione. L’anno seguente, il 1988, dopo aver forse assistito nelle campagne di Trapani a un trasbordo di armi dirette alla Somalia su un aereo militare operante per conto dei nostri servizi segreti, veniva ucciso, in prossimità della comunità di Saman, Mauro Rostagno, sulle tracce delle piste massoniche della Loggia “C”, delle sacerdotesse sufi “Arcobaleno” e forse di alcuni traffici... anche più vicini a lui. Era sui fatti finanziari sopraindicati che indagava il giudice Falcone nel giugno del

1989, mentre inutilmente cercava di capire cosa fosse il Centro Scorpione di Trapani. In quei giorni, sugli scogli vicini alla sua abitazione vennero rinvenuti due sacchi di esplosivo: un segno minaccioso cui subito non parvero estranee presenze di cellule deviate dei servizi segreti. Lo stesso Giovanni Falcone, parlando di questi fatti, non esternò sospetti sulla mafia, ma su “menti raffinatissime”. Vennero trovati i candelotti sugli scogli della sua villa all’Addaura, mentre si occupava delle connessioni bancarie svizzere dei narcotrafficanti siculo-americani. Lo stesso magistrato, nel 1991, prima di lasciare Palermo per i suoi incarichi ministeriali a Roma, svolse indagini su un ultimo processo riguardante rapporti tra mafiosi, società svizzere (in particolare di Chiasso) e istituti bancari elvetici, nodi di smistamento di narcodollari. Il processo, noto come Big John, prendeva il nome della nave sulla quale era stato sequestrato l’enorme carico di eroina vicino Trapani nel 1987. Nel giugno 1992, anche l’ultimo fascicolo passato per le mani di Giovanni Falcone al ministero, per una rogatoria all’estero, era siglato “Big John”. Dopo la morte di Falcone, un imputato di quel processo, legato al ruolo centrale del riciclaggio del denaro sporco, fu in contatto dalla Svizzera con il giudice Borsellino, poco prima che questi saltasse in aria a Palermo: forse intendeva “parlare”... Poi non parlò piú! Dopo il 1992 apparirono cessate le stragi mafiose, forse per le reazioni investigative della magistratura che, per la prima volta, riuscì a identificare esecutori e mandanti mafiosi, forse per le concomitanti indagini di Mani pulite che, scavando nelle corruzioni degli appalti e dei finanziamenti illeciti ai partiti, travolgevano personaggi politici di primo piano, ma non “toccavano” gli aspetti occulti. Poi vi furono gli attentati del ’93-‘94 (accomunati ai precedenti dalla identica tipica tipologia - di provenienza militare - degli esplosivi utilizzati), i quali, tramite “utili” indicazioni di collaboratori di giustizia mafiosi, vennero definite e qualificate anch’esse, pur se avvenute fuori dalla Sicilia, “di matrice mafiosa”. Ecco, è in questo contesto storico, che ritengo vadano ricomposte le giuste luci. Dal passato al presente. Passando per l’Addaura: “tra” le ombre... luci. \Carlo Palermo (da facebook)

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Informazione

Caso Lombardo: è guerra L'informazione fra le vittime Lo scontro pro e contro l'anomalo governo sici liano di Lombardo rischia di travolgere anche i giornalisti. Spaccature nel centro-sinistra, guer ra intestina nella destra: narrarle dall'esterno o prendere parte ad esse? Dunque, ricapitoliamo. "Repubblica" colleziona una figura barbina di dimensioni planetarie strombazzando una inesistente richiesta d’arresto nei confronti di Raffaele Lombardo, presidente della Regione Siciliana, prontamente smentita dalla Procura di Catania: «L’ufficio non ha avanzato alcuna richiesta nei confronti del governatore Lombardo o di altri politici; ogni differente notizia al riguardo, comunque diffusa e a qualsiasi personaggio politico riferita è pertanto del tutto priva di ogni fondamento». I giornalisti e il direttore del quotidiano di via Colombo, invece di chiedere scusa ai praopri lettori e provare a ragionare pubblicamente – in privato di certo lo stanno facendo, ché saranno scorretti ma non cretini – sul fatto che siano stati usati per disinformare, si nascondono dietro un ridicolo «ne avevamo già parlato un mese fa senza essere smentiti». La vicenda ne ricorda una di vent’anni fa a danno dell’allora presidente della Regione Rino Nicolosi. Solo che, nel 1990, invece di rifilare un falso scoop al secondo quotidiano italiano, l’avvertimento arrivò sotto forma di necrologio sulle pagine del "Giornale di Sicilia". Ché Lombardo non è destinatario di una richiesta d’arresto, ma di un avvertimento, di una intimidazione, di una minaccia: c’è che invia lettere minatorie, chi spedisce proiettili, chi pubblica annunci mortuari e chi rifila polpette avvelenate a due bravi professionisti della carta stampata. Avvertimento. Intimidazione. Minaccia. Ecco cos’è l’articolo di "Repubblica".

Resta da capire chi e perché abbia voluto intimidire Lombardo in maniera così plateale. Potrebbero dircelo i due giornalisti protagonisti dell’infortunio giornalistico che poteva capitare a chiunque - nonché il loro direttore, Ezio Mauro, ma preferiscono negare l’errore, imbrogliare l’opinione pubblica, rendersi complici di chi inquina la vita democratica. Non c’è dubbio che una tale bufala abbia potuto rifilargliela solo una fonte più che fidata, quasi certamente la stessa che a fine marzo gli aveva lo scoop sull’inchiesta catanese a carico di Lombardo, del fratello deputato Angelo e di altri politici siciliani. La rivelazione fece infuriare il procuratore D’Agata, che, con una nota, denunciò la «matrice politica» della fuga di notizie. Viene da pensare che oggi ci troviamo di fronte alla medesima «matrice politica» che un mese e mezzo fa rese pubblica l’inchiesta etnea. Inutile azzardare ipotesi. Però si può tentare di capire anche mettendo in fila alcuni fatti. Raffaele Lombardo, leader e fondatore del Movimento per l’Autonomia, è stato candidato due anni fa alla presidenza della Regione dall’intero centrodestra siciliano ed eletto a furor di popolo. Da subito sono nate delle frizioni all’interno della maggioranza che hanno portato alla spaccatura del Pdl isolano, con l’asse Schifani-Alfano contro il governatore e quello MiccichéDell’Utri alleato. Fino ad arrivare all’attuale giunta che si regge in piedi col sostegno del Pd isolano. Dalla maggioranza, inoltre,

s’è sfilato anche l’Udc di Totò Cuffaro, il predecessore di Lombardo a Palazzo d’Orleans. In questi due anni, Lombardo ha letteralmente smantellato buona parte delle scelte di Cuffaro: basti pensare alla bocciatura dei quattro termovalorizzatori – un business miliardario – e, soprattutto, al sistema della sanità, dove il nuovo presidente ha sostituito tutti i fedelissimi di “Vasa vasa” con propri uomini di fiducia, rompendo un patto durato sette anni che assegnava all’ex governatore la Sicilia occidentale e al politico catanese quella orientale. Cosa ciò significhi in termini affaristici, di interessi mafiosi e di clientele è facilmente intuibile. In termini politici, Lombardo ha destabilizzato il sistema siciliano. E quello nazionale. Non ci scordiamo, infatti, che la Sicilia è, insieme al Nord, fondamentale bacino elettorale del centrodestra e spaccare il Pdl vuol dire dare uno scossone al governo Berlusconi, accentuarne l’instabilità, aggiungere un’altra mina a quella già piazzata dal presidente della Camera. Lo scenario è questo. La guerra è tutta interna al centrodestra e ai poteri – palesi e occulti, criminali e non – che ad esso fanno riferimento. È in atto una guerra. E non è detto che Lombardo ne esca sconfitto. Una guerra di cui le sole vittime certe sono i cittadini siciliani e, per ora in misura minore, quelli del resto d’Italia. E l’informazione, naturalmente. Sebastiano Gulisano

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Libri

in rete Sebastiano Gulisano Porcilandia/ La vera storia di Sua Innocenza 96 pagine 12 euro

Vi si racconta di un Paese che somiglia all’Italia, ma è Porcilandia. Un Presidente che ricorda Silvio Berlusconi, ma è Giuliocesare Cavaliere detto “Il Dottore” «ché il suo gioco preferito, fin dalla più tenera età, è sempre stato "il medico e la malata": lui fa il medico, la malata è sempre una bambina possibilmente ogni volta diversa. Ché con le bambine l'innocenza del gioco è garantita. Senza malizia. Proprio l'innata predisposizione del Dottore a prendersi cura degli altri, specie delle altre, ha spinto i media "più sensibili e avvertiti" di Porcilandia, tutti di sua proprietà, a cucirgli addosso un altro soprannome: Sua Innocenza». Cosa collega un singolare corteo di bambine fra i 6 e gli 8 anni, nel 1943 a Maduninadabere, con una loro coetanea sverigese che, tre anni dopo, molesta sessualmente un compagno di classe e subito si sente così male da essere ricoverata in ospedale? E cosa c’entrano questi due fatti con una fabbrica di caramelle nata in un paesino della neutrale Elvezia durante il Grande Conflitto Globale? Cos’è il “Cartello delle caramelle mou” e cosa ha da spartire con Giuliocesare Cavaliere, che dal 2000 al 2040 è Presidente della Libera Repubblica Telecratica di Porcilandia? Un giornalista insegue lo scoop della vita e decide di indagare, scavando in un secolo di storia di Porcilandia, districandosi fra esponenti della Chiesa Ufficiale, banchieri, mafiosi, incappucciati, Maialini e Maialoni, con ricco contorno di Zoccolette («il mestiere più ambito dalle nuove generazioni di giovani donne che intendono affrancarsi da secoli, anzi millenni di anonimato»).

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La linea della palma

A Milano, i politici: “Qui di mafia non ce n'è!” “Milano capitale della 'ndrangheta”, dicono i giudici. Ma fra i politici non c'è allarme. Anzi... «Milano è oggi la vera capitale della 'Ndrangheta», assicura uno che se ne intende, il magistrato calabrese Vincenzo Macrì, della Direzione nazionale antimafia, uno che la fotografa tutti i giorni questa edera omessa ma mai dimessa che sembra non si riesca a raccontare. Ma anche Cosa nostra e Camorra si danno fare sotto la Madonnina. E la politica? Non crede, non vede, non sente. E quando parla, parla ma nega, nega che la mafia ci sia, a Milano, Lodi, Monza, Lombardia, da noi su al nord. Eppure le mosse del risiko criminale sono già cominciate. E sono manovre, fatti, facce e nomi. Come se la storia irraccontabile cominciasse a sparare. Oggi i boss stanno a cento passi da Palazzo Marino, dove il sindaco di Milano Letizia Moratti lavora e prepara l'Expo 2015. O metti che li hanno già fatti, quei cento passi che li separano dal palazzo della politica e dell'amministrazione. Certo hanno già provato a entrare nei municipi, a Milano e nell’hinterland hanno già stretto buoni rapporti con gli uomini dei partiti. Qualcuno si è allarmato? per questo incesto tra uomini della politica e uomini delle cosche? No. A Milano l'emergenza è quella dei rom. O dei furti e scippi (che pure le statistiche indicano in calo). La mafia a Milano non esiste, come diceva già negli anni Ottanta il sindaco Paolo Pillitteri. “Non appartiene a questa città” come dice l’appunto lieta Letizia Moratti sindaco in carica. A Milano che “la mafia non esiste” ormai la sindachessa ha provato a ripeterlo ovunque dai consigli comunali, alle televisioni in prima serata fino ad abusarne favoleggiandoselo (probabilmente) la sera per addormentarsi. Non soddisfatta ha poi lancia-

to comunque la commissione comunale antimafia, che è durata poco meno di uno starnuto per rimangiarsela subito dopo adducendo competenze prefettizie che non andavano scavalcate. Saputo nello scorso Agosto che nella “Milanoland delle fiabe” un’intera cittadella è in mano alla criminalità organizzata come segnalato dal pm Nicola Gratteri, la sindachessa e la politica milanese tutta rimbalza responsabilità di intervento a non precisati enti o ruoli. Mentre La Russa si ridesta invocando l’esercito. Intanto tutti felici e contenti concordano nel ritenere i 6 caseggiati popolari di Viale Sarca e via Fulvio Testi in mano agli onomatopeici fratelli Porcino (legati alle cosche di Melito di Porto Salvo), i nomadi Hudorovich e i Braidic semplicemente un “neo”, una pozzanghera piccola piccola in quel placido, enorme e ligresteo tappeto di cemento che è il capoluogo lombardo spiato dall’alto. Stupirebbe questo atteggiamento impermeabile in un paese normale, dove normalmente i politici dovrebbero essere eletti per prendere posizione, dare segnali forti e non solo per banalmente amministrare capitoli di spesa e distribuire (scaricandosene) ruoli e responsabilità. Qui non si tratta di disquisire i ruoli di governo e ordine pubblico come stabilito dalla legge; qui si rimane a supplicare un segnale, un lampo in cui ci si illuda che Marcello Paparo non possa sentirsi “libero” di collezionare bazooka come nei peggiori scenari di desolazione metropolitana post industriale, o Morabito non sfrecci impunito a parcheggiare il ferrarino in un posteggio dell’Ortomercato con l’arroganza di uno zorro a quattro ruote.

L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ‘ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa Nostra in Lombardia è una responsabilità politica, risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma. Ma c’è un tempo che è quello della memoria che supera le circostanze brevi della politica tutta a parare i colpi mungendo voti: la memoria sulla pelle dei nostri figli, delle prossime generazioni, quella che non entra nei libri di storia ma rimane sotto pelle come una traversata nella stiva mai raccontata. E allora pagheranno pegno davanti alla storia tutti i politici pavidi, cravattari amministratori tra la casetta in centro e l’incenso delle sciantose; pagheranno i sindaci dell’ “insabbia et impera” e i tranquillanti per professione. Pagheranno l’ignoranza e la persecuzione di uno stuolo di attivisti messi al muro per discolparsi di uno sguardo fatto di fatti. Sorrideranno a leggere che qualcuno, metti per caso un politico di una città qualsiasi, calpestando i cadaveri delle antiestetiche vittime milanesi delle mafie, sia riuscito a mettersi nella situazione di dover essere smentito per un allarme che da decenni è già rientrato perchè metabolizzato: endovena, silenzioso. Impunito, appunto. Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità. Giulio Cavalli

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Libri

In libreria Antonio Mazzeo I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina Prefazione di Umberto Santino

Dall’Introduzione: Speculatori locali o d’oltreoceano; faccendieri di tutte le latitudini; piccoli, medi e grandi trafficanti; sovrani o aspiranti tali; amanti incalliti del gioco d’azzardo; accumulatori e dilapidatori di insperate fortune; frammassoni e cavalieri d’ogni ordine e grado; conservatori, liberali e finanche ex comunisti; banchieri, ingegneri ed editori; traghettatori di anime e costruttori di nefandezze. I portavoce del progresso, i signori dell’acciaio e del cemento, mantengono intatta la loro furia devastatrice di territori e ambiente. Manifestazioni di protesta, indagini e processi non sono serviti a vanificarne sogni e aspirazioni di grandezza. I padrini del Ponte, i mille affari di cosche e ’ndrine, animeranno ancora gli incubi di coloro che credono sia possibile comunicare senza cementificare, vivere senza distruggere, condividere senza dividere.

Agli artefici più o meno occulti del pluridecennale piano di trasformazione territoriale, urbana, ambientale e paesaggistica dello Stretto di Messina, abbiamo dedicato questo volume che, ne siamo consapevoli, esce con eccessivo ritardo. Ricostruire le trame e gli interessi, le alleanze e le complicità dei più chiacchierati fautori della megaopera, ci è sembrato tuttavia doveroso anche perché l’oblio genera mostri e di ecomostri nello Stretto ce ne sono già abbastanza. E perché non è possibile dimenticare che in vista dei flussi finanziari promessi ad

una delle aree più fragili del pianeta, si sono potuti riorganizzare segmenti strategici della borghesia mafiosa in Calabria, Sicilia e nord America. Forse perché speriamo ancora, ingenuamente, che alla fine qualcuno

avvii una vera inchiesta sull’intero iter del Ponte, ricostruendo innanzitutto le trame criminali che l’opera ha alimentato. Chiarendo, inoltre, l’entità degli sprechi perpetrati dalla società Stretto di Messina. Esaminando, infine, i gravi conflitti d’interesse nelle gare d’appalto ed i condizionamenti ideologici, leciti ed illeciti, esercitati dalle due-tre famiglie che governano le opere pubbliche in Italia. Forse il recuperare alla memoria vicende complesse, più o meno lontane, potrà contribuire a fornire ulteriori spunti di riflessione a chi è chiamato a difendere il territorio dai saccheggi ricorrenti. Forse permetterà di comprendere meglio l’identità e la forza degli avversari e scoprire, magari, che dietro certi sponsor di dissennate cattedrali nel deserto troppo spesso si nascondono mercanti d’armi e condottieri delle guerre che insanguinano il mondo. È il volto moderno del capitale. Ribellarsi non è solo giusto. È una chance di sopravvivenza.

Scheda autore Antonio Mazzeo, militante ecopacifista ed antimilitarista, ha pubblicato alcuni saggi sui temi della pace e della militarizzazione del territorio, sulla presenza mafiosa in Sicilia e sulle lotte internazionali a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. Ha inoltre scritto numerose inchieste sull’interesse suscitato dal Ponte in Cosa Nostra, ricostruendo pure i gravi conflitti d’interesse che hanno caratterizzato l’intero iter progettuale. Con Antonello Mangano, ha pubblicato nel 2006 Il mostro sullo Stretto. Sette ottimi motivi per non costruire il Ponte (Edizioni Punto L, Ragusa).

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Legalità

Una storia banale che forse non è banale affatto A Vittoria, una città “difficile” in provincia di Ragusa, un dipendente comunale ne aggredisce un altro. Che c'è di straordinario, direte? Niente: tranne parenti e storie di aggredito e aggressore. E il fatto che il sindaco tace

Negli ultimi giorni di aprile nei pressi della villa comunale di Vittoria - città ad alta densità criminale in provincia di Ragusa - succede un fatto che ha dello sconcertante. Sembra che un dipendente a progetto dell'azienda municipale per i rifiuti, Amiu, abbia aggredito un perito agrario dipendente della Manutenzione comunale. Il motivo della lita non è ancora chiaro, forse per questioni di lavoro. Fin qua potrebbe sembrare una lite banale, ma la vicenda ha dei risvolti preoccupanti. Infatti, il dipendente Amiu è un certo Claudio Muscia, ex consigliere comunale vicino al sindaco di Vittoria Giuseppe Nicosia, esponente locale del Partito Democratico. Muscia negli anni ‘90 fu eletto al consiglio comunale nella lista civica PUCI. Questa fu citata nella relazione del 2006, dalla minoranza della Commissione nazio-

nale antimafia, in quanto fu fondata dall’ormai defunto Francesco D’Agosta, malavitoso locale arrestato nell’operazione “mammasantissima”. Oltre a lui lo seguirono in carcere pure i figli. Ma tutto ciò non basta per togliere dalla politica Muscia che viene riciclato in una lista che appoggiò nelle ultime elezioni il sindaco democratico Nicosia. Ma dopo un po’ Muscia, pare sotto pressione, lascia i banchi della pubblica assise per far posto all’avv. Antonella Brancoforte, più competente e negli intenti potenzialmente più fedele al sindaco. In cambio Muscia approda all’Amiu. Con questo non termina la storia, infatti ad esser picchiato è tale Salerno, fratello di un ragazzo che perse la vita, nel ’99, nella strage di San Basilio in un bar Esso, alle porte di Vittoria. Fu una vittima innocente della violenza criminale dei gelesi Emmanuello rivolta contro i Carbonaro – Dominante di Vittoria. La lite tra Muscia e Salerno ha risvolti politici. Il sindaco, invece di prendere una posi-

zione ferma a favore dell’aggredito non spiccica parola e a Vittoria si alza un polverone, grazie a Rifondazione Comunista e ad una successiva nota inviata alla cittadinanza e alla stampa dal coordinatore provinciale di Libera, Gianluca Floridia. A questo punto il sindaco e l’assessore alla legalità Malignaggi rispondono con una nota in cui si lascia alla magistratura il compito di dare giudizi, ma soprattutto – è questa la parte preoccupante – si pongono sullo stesso piano i due protagonisti dell’increscioso fatto. Tutto ciò porta a chiedersi perché il sindaco - fautore da un lato di battaglie di legalità ma soggetto dall'altro di molti interrogativi - non abbia preso le distanze dal Muscia. “Non ci eravamo espressi fino ad oggi per due motivi: innanzitutto, perché la vicenda, per quanto incresciosa, riguarda una lite tra due dipendenti, ed è del tutto inusuale intervenire, visto che la materia è regolata dal contratto collettivo nazionale di lavoro. L’altro motivo che ci aveva indotto ad astenerci dal commentare era legato ad un interrogativo: vediamo quanto resistono alcuni a fare sciacallaggio su una materia che non ha nulla di politico? ” risponde il sindaco. Ma per Libera la risposta non è soddisfacente. “Nicosia - chiede al sindaco l'associazione di don Ciotti - da che parte stai?”. Vale a dire: con la legalità o col silenzio? Giorgio Ruta, Il Clandestino

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Schegge di storia siciliana

La guerra di Peppino e la pietra di Portella ”Cari tutti, a causa dello squallore di questo periodo preferisco rifarmi alla Storia e quindi avrò il piacere di inviarvi settimanalmente schegge di storia siciliana. Croce diceva che la Storia è viva e la cronaca è morta, e aveva ragione. La cronaca vale un giorno, mentre la storia vale sempre...”. Così l'autore, che è un vecchio militante del movimento anti mafia: ma forse non siamo d'accordo. La storia è un insieme di cronache di tante perso ne comuni. E tutte le cose diventano anch'esse storia, prima o poi. Comun que, ecco le storie che Elio Camilleri sta facendo girare per l'internet. Antiche e attualis sime, siciliane

PIANO STELLA Gli americani arrivarono in località Piano Stella nel pomeriggio del 13 luglio 1943 per cercare militari italiani e tedeschi, fecero uscire i civili dalle abitazioni e le perquisirono ma non trovarono nessun soldato. Altri soldati americani tornarono dopo qualche ora e questa volta obbligarono sei sventurati a seguirli. “C’era una casa rurale con una pianta di gelso, gli americani ci portarono in questa casetta, ci fecero segno di sederci, e ci sedemmo sotto la pianta di gelso, a questo punto i soldati imbracciarono delle armi, oggi posso dire che si trattava di fucili mitragliatori, si misero ad angolo, ricordo che il signor Curciullo disse :”compari Pippinu, haiu ‘mpressioni che ci vogliono uccidere” a questo punto mentre parlavano mi sentii prendere per il bavero della camicia e qualcuno mi tirava su, girandomi vidi l’americano che voleva dirmi di allontanarmi, appena mi allontanai 20, 30 passi circa, sentii una raffica di mitra e le urla di mio padre, del mio amico e degli altri. E così li uccisero!”. (Ciriacono, 2003) Morirono Giuseppe Ciriacono, nonno di Gianfranco Ciriacono, autore del libro “Le stragi dimenticate” da cui ho tratto le righe riportate in nota, Giovanni Curciullo e il figlio Sebastiano, Giuseppe Alba e

Salvatore Sentina. Unico superstite Giuseppe Ciriacono figlio di una delle vittime e padre di Gianfranco, autore del libro il quale esprime tutto il suo sdegno per la cappa di silenzio che ha avvolto le stragi degli Alleati con le seguenti note: “Che la storia la scrivano i vincitori è fatto noto e ciò può trovare una spiegazione, seppure perversa, laddove si tratti di storici appartenenti alla Nazione vincitrice, ma nel nostro caso ciò che ripugna è il silenzio degli Storici di casa nostra, di quelli che per quasi sessant’anni non hanno ritenuto importante studiare, indagare, informarsi ed informare sugli accadimenti di quei giorni del luglio 1943”. (Ciriacono, 2003) PORTELLA DELLE GINESTRE Lì, a Portella della Ginestra, erano giunti contadini con le loro famiglie da Piana degli Albanesi, San Cipirrello, San Giuseppe Jato; avevano affollato il pianoro, festosamente. Avevano una gran voglia di festeggiare, una voglia cresciuta da sessant’anni, da quando quel raduno, inaugurato da Barbato al tempo dei Fasci dei lavoratori, non si era più potuto organizzare. Ne avevano voglia per la caduta del fascismo, della monarchia, per la libertà riconquistata, per la vittoria nelle elezioni dell’Assemblea Regionale , per

tutte le speranze che si stavano realizzando. Intorno alle 10, nell’attesa dell’oratore ufficiale (Francesco Renda), mentre stava parlando Giuseppe Schirò, segretario socialista della sezione di San Giuseppe Jato, si udirono dei colpi secchi, scambiati per un attimo per fuochi d’artificio; ed invece erano botti d’arma da fuoco. Undici morti e ventisette feriti. Esattamente nello stesso giorno, 1 maggio 1947, il Segretario di Stato USA, George Marshall, inviava all’ambasciatore a Roma, James Dunn, un messaggio personale e segreto in cui, tra l’altro, si chiedeva se De Gasperi fosse disposto a “scaricare” i comunisti dal governo, al fine di permettere alla DC un pronto recupero elettorale. Ovviamente tale coincidenza non poteva essere colta allora, ma permette oggi di valutare il massacro di Portella nel contesto non solo siciliano, ove gli interessi agrario mafiosi si manifestarono con violentissimi colpi di coda, ma anche nel contesto del governo nazionale ove arrivavano da parte dei democristiani siciliani a De Gasperi pressanti richieste di mollare i comunisti dal governo. Gli esecutori materiali della strage di Portella della Ginestra furono considerati Salvatore Giuliano e i suoi banditi, braccio armato della mafia agraria.

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Schegge di storia siciliana

Secondo gli storici Giuseppe Casarubea e Nicola Tranfaglia agirono la mafia, un pezzo di Dc e i servizi segreti statunitensi per bloccare l’avanzata delle sinistre. In conclusione si può dire che Portella della Ginestra rappresenta il manifestarsi del gene della strategia della tensione, dei depistaggi, delle trame e dei conflitti tra apparati dello Stato e dell’ingerenza degli USA nella sovranità italiana.

LA GUERRA DI PEPPINO Mafiopoli dormiva da secoli e quando cominciò a comandare la tribù di Tano Seduto i suoi abitanti si guardarono bene dal tentare un qualsiasi risveglio. Poi Tano Seduto si alleò con Totò u curtu e allora a Mafiopoli bisognava costruire un aeroporto ancora più grande perché proprio lì doveva essere il crocevia del traffico mondiale della droga. Peppino Impastato cominciò la guerra contro Tano Seduto già in famiglia contro il padre, andandosene via da casa e lontano da mamma Felicia che lo amava ogni giorno di più ed ogni giorno di più temeva di perderlo. Furono gli anni della militanza politica nella sinistra extraparlamentare e delle lotte in difesa dei contadini di Cinisi espropriati delle terre per

l’ampliamento dell’aeroporto, dei lavoratori e dei disoccupati. Nella prima metà degli anni 70, Peppino curò un’intensa attività culturale e politica organizzando cineforum, dibattiti, poi Radio Aut sul corso principale di Terrasini. In quegli anni le radio “libere” spopolavano e la trasmissione “Onda pazza” in cui si denunciavano i traffici di droga, le collusioni con gli amministratori, gli intrallazzi sulle opere pubbliche, faceva letteralmente imbestialire la tribù mafiosa di Mafiopoli ed il suo capo Tano Seduto. Alle elezioni amministrative del 1978 Peppino si presentò candidato per Democrazia Proletaria, fece la sua campagna elettorale, ma non ebbe la sorte di andare a votare, perché fu imbottito di tritolo e fatto saltare per aria sulla ferrovia. I giornali il giorno dopo riportarono in prima pagina la notizia dell’assassinio di Aldo Moro e in un trafiletto si diceva di un terrorista rimasto ucciso in un attentato alla linea ferroviaria. Venticinque anni dopo e dopo un lungo e colpevole depistaggio arrivò la condanna per Gaetano Badalamenti, ex Tano Seduto, amico di Salvatore Riina, detto Totò u curtu.

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visto da francesco

I Rosarnesi

(Francesco Feola, 2010)

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visto da francesco

(Francesco Feola, 2010)

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Movimenti

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