Ucuntu n.107

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Banalità del bene Di nuovo bisogna scegliere: i bambini hanno diritto di crescere, bianchi e neri, tutti; oppure tiriamo a sorte (“tu sì, tu no”). Di questo si tratta, non di altro. L'Europa deve scegliere. Di nuovo. Speriamo che questa volta scelga bene

e Scidà “Dateci un giudice estraneo ai poteri catanesi” e Caruso L'inerzia e il vuoto Milazzo Invece della guerra Inchiesta Mazzeo Il mercato delle armi italiane || 30 marzo 2011 || anno IV n.107 || www.ucuntu.org ||


Mediterraneo

L'inerzia, il vuoto - e la loro guerra Libia. Molti affari, poca solidarietà

Forse neanche i più esperti studiosi di geopolitica, avrebbero potuto immaginare ciò che sarebbe accaduto dal Magreb al nord Africa: che la storia, ciclicamente, avrebbe ancora una volta fatto capolino. E lo ha fatto in modo serio e tosto. La storia ci ha riproposto le rivoluzioni. Rivoluzioni con tanto di rivoltosi che assaltano i "palazzi d'inverno", che si scontrano con gli sgherri dei dittatori, che vengono uccisi, feriti e arrestati, ma che vincono nella speranza di realizzare un paese libero e democratico. Tutto inizia in Tunisia, tutto inizia da un disperato rogo umano. E giù il dittatore Ben Ali, sostenuto dall'Italia e dai governi occidentali liberi e democratici. La rivolta non si ferma e si allarga in Egitto, e giù il dittatore Mubarak, filoamericano. La rivoluzione si contagia e si estende, e arriva in Libia. Ma qui il dittatore Gheddafi, amico dell'Italia, non va giù e si fa scudo dei suoi mercenari, fa uscire i carri armati che fanno fuoco contro la popolazione - un massacro. E in tutto questo l'italia che fa? Sta a guardare, tace, non interviene neanche con una telefonata. Qualcuno fa il tifo per il Rais. L'Italia si preoccupa solo che i profughi del nord Africa possano invadere la nostra terra, e diffonde la paura del diverso e del terrorismo. D'altronde, "gli Italiani brava gente" avevano delegato il colonnello libico, col trattato Italia-Libia, per fermare a qualunque costo la migrazione che arrivava

dall'Africa. Trattato che trovò consenso anche dal centrosinistra. Ma questo non bastava, bisognava andare oltre! Ricevere in pompa magna il colonnello Gheddafi, bisognava, mettergli a disposizione i giardini della "città santa" per piantare la sua tenda, accogliere i suoi guerrieri e i cavalli arabi, e infine dare la possibilità al Rais del deserto di tenere una lezione sul Corano a cinquecento ragazze belle, silenziose e addestrate a tenere, bene in vista, un Corano in mano. Il tutto suggellato da un pubblico baciamano tributato, con eleganza servile, dal primo ministro italiano al dittatore libico. Ma quali sono le ragioni di questo comportamento, da parte del governo italiano? Gli affari, i soldi, e più di tutto il petrolio libico. Ma cosa fa la sinistra istituzionale, e quella antagonista, e i centri sociali, e il

movimento operaio e studentesco? Scelgono l'inerzia, creando un grave vuoto, il vuoto del nulla. Il 17 marzo, mentre l'Italia commemora i 150 anni della sua unità, il Consiglio di sicurezza dell'Onu dirama la risoluzione 1973 contro il regime Gheddafi, ed è la guerra. Americani, Nato e i "volenterosi europei" lanciano i jet armati verso la Libia. Non per il petrolio, si dice, o per gli affari, ma "per i diritti umani, per aiutare gli insorti, per una nuova democrazia". Sarkozy e Gordon Brown vogliono arrivare primi. Potrebbero essere loro a fare i primi contratti col nuovo governo. L'Italia sta a guardare: chissà, Gheddafi potrebbe vincere, e tornare a toglierci dalle balle tutti questi migranti sporchi e neri. E l'universo pacifista? Timidamente si muove, incomincia a svegliarsi da nord a sud, da Catania a Milano. "Dai ragazzi! sbrighiamoci! prendiamo le bandiere arcobaleno, e non dimenticare i volantini!". "Sì, ma sono quelli dell'altra guerra!". "Non fa niente, cambia la data, va bene lo stesso!". *** Spagna, anno1936. Il generale Franco arma un esercito fascista e attacca il legittimo governo eletto dal popolo. All'arrivo di questa notizia, tutti i compagni e le compagne del mondo danno vita alle brigate internazionali per difendere la repubblica spagnola. Giovanni Caruso i Cordai

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Politica

Banalità del bene e vecchia Europa Adesso dobbiamo scegliere, un'altra volta

Scoppia la guerra, salgono le Borse. Dimenticato il Giappone. La guerra fa volare i listini. Cernobyl è in pieno svolgimento. Ma sta nelle ultime notizie. “Terremoti punizione di Dio, come a Sodoma e Gomorra”. Di tutte queste notizie (moderno, postmoderno, medioevo) non è che il Sistema non vi informa: il Sistema non occulta più quasi niente. Ma ne nasconde il contesto, le affoga nel flusso indistinto del villaggio globale. Perciò, concretamente, ve le sta nascondendo. Al tuo bambino, non a un bambino qualunque dall'altro lato dello schermo, cominciano ad avvelenare il latte, nella “normalità”. La guerra è soldi, non nei regimi imperiali dell'Ottocento ma ora, nel soffice lieve mondo dei Nintendo e degli i-Pad. E Galileo Galilei (di “punizione di Dio” parla il vicecapo degli scienziati italiani, De Mattei del Cnr) se tornasse passerebbe i suoi guai anche oggi. E tutte queste cose succedono, ma ormai quasi nessuno ci fa caso. *** E' urgentissimo, è anzi la cosa più urgente e più vitale di tutte, ripristinare almeno un minimo di informazione. L'informazione non esiste più, è quasi tutta infotaiment o rumore di fondo. Oscura senza mentire apertamente, mescolando accortamente le priorità e i contesti, agendo cioè non più (come una volta) con la censura ma con una compatta egemonia culturale. (Certo, la censura c'è ancora: internet alla cinese è il sogno di tutti i governi, nostro compreso. Ma non è più essenziale). Il Grande Fratello ora è una cosa “simpatica”, da “consenso”; quello vecchio di Orwell, in confronto, era primitivo. Ma questo funziona assai meglio, ci separa ancor più dal mondo vero, illudendoci di starci dentro. I contenuti, in altri termini, sono sempre più “loro”. In questa situazione non è più la singola notizia strappata, lo scoop, che fa la differenza; né il giornalista singolo può illudersi di servire a qualcosa. Se scopre una verità,

lo applaudono e gliela usano (Saviano è un esempio) nel contesto loro. Controllando il contesto, tutto il resto – al massimo – diventa fiore all'occhiello. Vi mostrerei – se fossi Philip Dick - il guerriero apache che corre disperatamente contro il fortino, brandendo il suo arco e le frecce, con sovrumano coraggio; e a sua insaputa lo riprende una webcam, lo mette in rete, e un regista lo monta – a sua insaputa – nella fiction del Wild West che va in onda ogni sera su Fox: “che romantici gli indiani!”. E cade anelante ai piedi del fortino, felice di aver scagliato un'ultima freccia piumata, mentre negli schermi tv la sua figura ansante già sfuma nello spot del McDonald che chiude la puntata. *** Non basta essere giornalisti, bisogna fare i giornali. “Giornale” oggi è una parola larghissima, che va dall'Asahi Shinbun (il più grande quotidiano del mondo, che decontestualizza dodici milioni di giapponesi al giorno) all'ultimo filmato di Youtube, passando per tutti i modelli di media vecchi e nuovi (compreso il nostro), senza che ci sia più una tecnologia egemone a dargli un senso. “Giornale”, oggigiorno, è essenzialmente un contesto. Che per noi è umanistico, per gli altri è commerciale. “Ucuntu” (o un raduno di Libera, o un coro alpino) è un esempio di contesto. “Repubblica” (o una pubblicità di McDonald, o un master in economia aziendale) un altro. I primi son molto piccoli, “ininfluenti”; ma hanno radici umane. I secondi sono (qui ed era) egemoni; ma sono dei prodotti industriali. Ma nella storia è successo molte volte che dei contesti piccoli, “isolati”, siano alla fine confluiti in un contesto nuovo, generale. Questo è il nostro lavoro. Non diamo (solo) informazioni; apriamo soprattutto spiragli su qualcosa che intuiamo oscuramente, di cui sappiamo solo che è molto grande - e che è già in noi. Per questo crediamo tanto nella rete tanti contesti piccoli che confluiscono in un fiume solo - e nelle tecnologie, che ci danno la possibilità concreta ed economica di

diffondere dappertutto questa idea. Non si è mai data, nel corso della storia, una tale occasione. Non la possiamo sprecare. *** Così, nelle modeste cose che ci tocca ogni giorno di fare, non deve mai smarrirsi questa prospettiva. A Catania - ad esempio - noi lottiamo in questo momento sia per salvare le povere scuole dei bambini di quartiere (il Gapa, l'Experia, gli scout di Librino) che per imporre ai potenti di ritirare le mani dal Palazzo di giustizia, che di giustizia dev'essere e non di potenti. Abbiamo storie lunghissime, su entrambi i fronti; il Gapa di San Cristoforo lavora lì da oltre vent'anni; di una Procura estranea alla città dei poteri un uomo come Scidà parlava già – perseguitato già allora – da metà anni Novanta. Due lotte diversissime, di persone diverse, tipicamente “locali”. Eppure, vivendole insieme e collegandole alle decine di analoghe, alle centinaia e alle migliaia di persone che in qualche parte d'Italia si battono per esse, otterremo alla fine (e questa è l'unica via realistica, non certo quella giocata nei palazzi) qualcosa di largo e generale; intravediamo un'Italia ben diversa; un contesto. *** Esseri umani disperati, a migliaia; la fame, la paura. La soluzione? "La soluzione? Föra di ball!" sghignazza, con un gesto osceno, il politico numero uno. “Vengano nella mia terra: noi li accoglieremo” azzarda timidamente il politico numero due. Chi ha ragione dei due, e in che contesto? In uno, ma a forza di bombe, si può “mandar via”, e vivere tutti quanti nella paura. Nell'altro, con il lavoro e la carità, si può vivere stretti all'inizio, ma in modo sempre più accettabile e più umano. Possono crescere, i bambini, bianchi e neri; oppure tirare a sorte (“tu sì tu no tu no tu forse”) il loro eventuale avvenire. Fra i due contesti diversi, l'Europa ha già dovuto scegliere altre volte. Scelga di nuovo, adesso; sperando che stavolta possa vincere la banalità del bene. Riccardo Orioles e Fabio D'Urso

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Caso Catania Le associazioni sottoscritte,

nel momento in cui vengono da più parti riportati episodi sconcertanti che coinvolgono fra l'altro aspiranti al posto di procuratore capo al Tribunale di Catania, manifestano la propria preoccupazione per la nomina prevista in conseguenza del pensionamento del Dott. Vincenzo D’Agata e sottolineano la necessità che chi assumerà l’incarico riesca finalmente a disvelare e a rendere pubblico l’intreccio fra poteri economici, politici e mafiosi che, anche in campo nazionale, ormai è noto come il “ Caso Catania”. Come cittadini abbiamo il diritto di sperare in un futuro di legalità e giustizia per la nostra città. A questo scopo le Associazioni firmatarie del presente appello, così come già richiesto, auspicano che la nomina a procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Catania ricada su una personalità di alto spessore che eserciti l'autonomia della magistratura rispetto al potere politico, che sia capace di operare al di fuori delle logiche proprie del sistema politico-affaristico della città, che possibilmente sia del tutto estranea all'ambiente cittadino, che provenga cioè da realtà lontane dall’humus siciliano e catanese in particolare, una personalità che favorisca il riscatto civile della nostra città e che contribuisca a restituirle orgoglio e dignità. Associazione Centro Astalli, AS.A.A.E., Assoc.CittàInsieme”, Assoc. Domenicani Giustizia e Pace, Laboratorio della Politica Onlus, La Città Felice, Assoc. Studentesca e Culturale "Nike", Comitato NO-TRIV, Assoc. Oltre la Periferica, Librino, Punto Pace Pax Christi Catania, Sicilia e Futuro, Associazione Talità Kum

*** La Sicilia è la regione dove si trova la maggior economia sommersa del paese, come recenti e qualificati studi hanno evidenziato, e gran parte dell’imprenditoria cheopera nell’isola usufruisce di complicità o alleanze con le organizzazioni criminali. La mafia ha esteso da tempo i suoi interessi nell'economia “legale”, dove l'accumulazione della ricchezza avviene attraverso relazioni e attività costruite sulla base del coinvolgimento diretto e dei favori scambiati con potentati economici, politici, professionali. Si è creato così uno spazio dove lecito e illecito finiscono per entrare in commistione. L'epicentro di questa "area grigia", dove si intrecciano gli interessi di mafia ed economia, è oggi Catania, come ribadito anche dal Presidente di Confindustria Sicilia.

APPELLI PER LA GIUSTIZIA A CATANIA Al Vicepresidente del CSM Alla Commissione Uffici Direttivi e p.c. Al Presidente della Repubblica Una città dove, da anni, diversamente che a Palermo o Caltanissetta, l'azione di contrasto della Procura è stata assolutamente inefficace. Emblematica, da questo punto di vista, è apparsa la gestione dell’inchiesta che ha coinvolto il governatore Lombardo e il fratello Angelo. Gli inquirenti si sono divisi sui provvedimenti da assumere in merito all'esito delle indagini sul Presidente della Regione. Il Procuratore D'Agata, nelle prese di posizione pubbliche, ha dato l’impressione di un evidente imbarazzo e fastidio nei confronti dell’inchiesta; in un'intervista rilasciata a Zermo, sul quotidiano di Ciancio (a sua volta indagato in altro procedimento), sembra esprimere contrarietà per le considerazioni espresse da Ivan Lo Bello sul peso dell'imprenditoria mafiosa a Catania. Infine, una fotografia pubblicata in questi giorni ha riacceso i riflettori sul “caso Catania”, una vicenda giudiziaria nata dalla denunzia di Giambattista Scidà che lanciò l’allarme di contiguità tra criminalità mafiosa e frange della magistratura etnea. Alla luce di tutti questi fatti e alla vigilia della nomina del nuovo Procuratore della Repubblica, facciamo appello al Csm affinché la Procura di Catania abbia finalmente un Procuratore capo assolutamente estraneo ai giochi di Palazzo e all’intreccio delle poco chiare vicende catanesi. Un magistrato che non subisca le forti interferenze esterne che hanno condizionato da decenni la direzione della Procura catanese. Giolì Vindigni, Gabriele Centineo, Mimmo Cosentino, Angela Faro, Santa Giunta, Vincenza Venezia, Salvatore Cuccia, Luciano Carini, Giuseppe Di Filippo, Enrico Giuffrida, Lillo Venezia, Claudio Novembre, Massimo Blandini, Marzia Gelardi, Maria Concetta Siracusano, Francesco Duro, Margherita Ragusa, Antonella Inserra, Mario Pugliese, Giovanni Caruso, Elena Maiorana, Tuccio Giuffrè, Rosa Spataro, Paolo Parisi, Marcella Giammusso, Giuseppe Pappalardo, Raffaella Montalto, Giovanni Grasso, Federico Di Fazio, Claudio Gibilisco, Riccardo Orioles, Elio Impellizzeri, Ignazio Grima, Angelo Morales, Pippo Lamartina, Andrea Alba, Matteo Iannitti, Valerio Marletta,

Marcello Failla, Alberto Rotondo, Riccardo Gentile, Barbara Crivelli,Massimo Malerba, Enrico Mirabella, Maria Lucia Battiato, Mauro Viscuso, Sebastiano Gulisano, Aldo Toscano, Anna Bonforte, Grazia Loria, Pierpaolo Montalto, Toti Domina, Fabio Gaudioso, Giovanni Puglisi, Titta Prato, Maria Rosaria Boscotrecase, Lucia Aliffi, Fausta La Monica, Salvatore Pelligra, Anna Interdonato, Lucia Sardella, Federica Ragusa, Alfio Ferrara, Federico Urso, Paolo Castorina, Giusi Viglianisi, Laura Parisi, Gaetano Pace, Luigi Izzo, Alberta Dionisi, Carmelo Urzì, Pina De Gaetani, Giusi Mascali, Marcello Tringali, Daniela Carcò, Giulia D’Angelo, Alessandro Veroux, Ionella Paterniti, Francesco Schillirò, Francesco Fazio, Tony Fede, Antonio Presti, Luigi Savoca, Salvatore D’Antoni, Alessandro Barbera, Vito Fichera, Stefano Veneziano, Pinelda Garozzo, Francesca Scardino, Irina Cassaro, Carmelo Russo, Franco Barbuto, Maria Luisa Barcellona, Nicola Musumarra, Angela Maria Inferrera, Michele Spataro, Giuseppe Foti Rossitto, Irene Cummaudo, Carla Maria Puglisi, Milena Pizzo, Ada Mollica, Maria Ficara, Rosanna Aiello, Rosamaria Costanzo, Mario Iraci, Giuseppe Strazzulla, M. C. Pagana, Vincenzo Tedeschi, Nunzio Cinquemani, Francesco Giuffrida, Maria Concetta Tringali, Maria Laura Sultana, Giovanni Repetto, Giusi Santonocito, Marco Sciuto, Tiziana Cosentino, Emma Baeri, Renato Scifo, Luca Cangemi, Elisa Russo, Angela Ciccia, Alfio Fichera, Giampiero Gobbi, Domenico Stimolo, Piero Cannistraci, Roberto Visalli, Mario Bonica, Claudio Fava, Giancarlo Consoli, Maria Giovanna Italia, Riccardo Occhipinti, Giuseppe Gambera, Orazio Aloisi, Antonio Napoli, Giovanni Maria Consoli, Elsa Monteleone, Francesco Minnella, Antonia Cosentino, Sigismonda Bertini, Giusi D’Angelo, Lucia Coco, Fabrizio Frixa, Santina Sconza, Felice Rappazzo, Concetto De Luca, Maria Luisa Nocerino, Alessio Leonardi, Renato Camarda, Angelo Borzì, Chiara Arena, Alberto Frosina, Gianfranco Faillaci, Daniela Scalia, Lucia Lorella Lombardo, Pippo Impellizzeri, Giuseppe Malaponte, Antonio Mazzeo, Marco Luppi, Ezio Tancini, Aldo Cirmi, Luca Lecardane, Rocco Ministeri, Gabriele Savoca, Fulvia Privitera, Daniela Trombetta, Vanessa Marchese, Edoardo Boi, Stefano Leonardi, Ivano Luca, Maria Crivelli, Guglielmo Rappoccio, Grazia Rannisi, Elio Camilleri, Rosanna Fiume, Alfio Furnari, Claudia Urzi, Luigi Zaccaro, Daniela Di Dio, Gigi Cascone, Ettore Palazzolo, Nunzio Cosentino, Matilde Mangano, Andrea D'Urso, Daniela Pagana, Stefania Zingale, Concetta Calcerano, Luana Vita, Maria Scaccianoce, Costantino Laureanti, Pierangelo Spadaro, Paola Sardella, Luisa Gentile, Antonio Salemi, Antonino Sgroi...

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Caso Catania Questo articolo, pubblicato vari anni fa su Centonove, è di qualche interesse per chi vuole ricostruire oggi la genesi del caso Catania e le sue implicazioni. Fu scritto in risposta a un pesante attacco de La Sicilia (Zermo) all'ipotesi di un Procuratore estraneo ai tradizionali gruppi di potere del Palazzo di giustizia cittadino. Questa ipotesi, avanzata da Scidà e dagli osservatori più attenti già dal '96, ancor oggi è pesantemente osteggiata dai poteri imprenditoriali e politici della città; e per gli stessi motivi che si leggono in questo “vecchio” e attualissimo intervento. In esso sono perfettamente riassunti, con lucida premonizione, i motivi e i valori della battaglia per l'indipendenza del Palazzo di giustizia catanese, iniziata sedici anni fa e tuttora in corso. (R.O.) Nel '96 un motivato appello al Consiglio Superiore della Magistratura auspicò che a dirigere la Procura della Repubblica di Catania venisse chiamato un estraneo all'ambiente. La criminalità dei minori - un primato nazionale - e quella degli adulti eran discese per varie trafile dal sistematico abuso delle risorse pubbliche, e quest'ultimo aveva trovato e trovava condizioni permlttenti nelle patologie della funzione repressiva. Autore dello scritto ero io, a quel tempo presidente del Tribunale per i Minori, e adducevo in appoggio, come un esempio, il processo per il centro fieristico: opera pubblica imposta, a forza di tangenti, da un imprenditore non mai perseguito, né per corruzione (come il tribunale e la corte d'appello ritennero poi dovesse essere;; ma egli era già morto), né per altro, ed anzi innalzato a vittima di concussione, con diritto a riprendersi, in barba all'Erario, quanto distribuito per corrompere. L'appello fu vano. Il Consiglio, nel quale sedeva un requirente catanese, nominò il più intraneo degli aspiranti. Mesi prima era stato ucciso, qui, il pentito Ilardo, le cui rivelazioni avrebbero avuto ad oggetto - si afferma tuttora - parecchi "santuari siciliani"; e sei mesi dopo lo fu un affiliato ai Laudani, che era in procinto di pentirsi, e avrebbe potuto svelar tutto dek "sistema"

“DATECI UN PROCURATORE ESTRANEO AI POTERI CATANESI” G.B. SCIDÀ di San Giovanni La Punta ((il comune di radicato, storico insediamento del clan): personaggi, ruoli, connessioni con l'esterno, e riciclaggi. Era stato per almeno quindici anni manager o prestanome prestanome di quei boss, nel campo dell'edilizia, ed aveva Generale). Durate di tale entità tramutano la funzione in un avuto rapporti con pubblici ufficiali, anche magistrati. Delle indagini sull'omicidio di Ilardo - del quale sono tuttora ignoti gli autori - nulla si può dire, dato il segreto che continua a coprirle; mentre ad osservazioni, e critiche, si è prestato il trattamento dell'altro affare, giunto infine alla pubblica udienza, grazie ad un pentito, esecutore confesso del delitto e denunciatore dei mandanti. Intanto la gestione sregolata del Municipio - qualunque parte politica l'abbia avuto in mano - ha prodotto irreversibili conseguenze: il comune decotto; incombente, da presso, la minaccia di formale dichiarazione di dissesto; comproper evitarla, di gran parte del patrimonio edilizio dell'ente, offerta in garanzia a chi voglia risolversi, finalmente, a prestar denaro, se non destinata alla vendita; insoddisfatti i bisogni pubblici; in pericolo le retribuzioni; manipolato il territorio. Sono passati undici anni da quella inu¬tile invocazione; e II Consiglio superiore della magistratura toma a coprire il posto di Procuratore Capo a Catania, va¬ cante da un anno. Con quattro voti su sei, la competente Commissione propone un magistrato di altro ambiente (un voto va al più anziano degli Aggiunti; il sesto componente si astiene); ma subito irrompe nel campo, con accese de¬ plorazioni, il quotidiano locale: che è come dire il

monopo¬lio locale dell'informazione: grande forza economica, po¬derosamente presente con altre sue articolazioni nella pia¬nificazione urbanistica e nel campo dei lavori pubblici. Per¬ché quei voti non sono andati a magistrati più anziani, a qualcuno degli aspiranti In servizio nella Procura, ad uno dei cinque Procuratori Aggiunti? Il giornale ne preannuncia i ricorsi (alTar); descrive la designazione quaìe frutto dicon¬ torte intese tra correnti, e con ciò stesso lavora, in sostanza, alla delegittimazione del designato. Lo combatte perché preferito a concorrenti di maggiore anzianità, o perché vuole il perpetuarsi dell'attuale situazionem senza intrusione di presenze nuove nel territorio giudiziario delle inchieste e richieste e accuse? C'è, in questa appassionata mobilitazione, la prova migliore della plausibilità dei criteri ai quali la maggioranza della Commissione si è ispirata; ragionevole riserva nei confronti di quanti sono (in una Procura come questa) da lunghissimo tempo o lunghissimo tempo (qualcuno di opera da trent'anni, se non da quasi quaranta, qualcun altro da venticinque; e i restanti ne han trascorsi pressocchè altrettanti tra Procura e spazi giudiziari contingui: Pretura e Procura Generale). Durate di tale entità tramutano la funzione in un appannaggio personale: personale e vitalizio; richiamano istituti dell'Antico Regime; inducono a chiedersi quanto manchi all'introduzione di una "paulette", sulla ereditarietà. Oltre che la giustezza del principio, il no del giornale sembra confermare, sempre senza volerlo, l'effettiva indipendenza del designato dal contesto locale. Ma per quanto giovevole - paradossalmente giovevole- alla soluzione contestata e attaccata, l'interferenza è inammissibile. Imprese ed aziende non debbono cercar di influire, attraverso i media dei quali hano il possesso, sulla scelta del nuovo Procuratore della Repubblica. E non possono far passare per informazione ciò che è stato, in questi giorni, belligerante attivismo. Giambattista Scidà dicembre 2007

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Libera

|| 30 marzo 2011 || pagina 06 || www.ucuntu.org ||


Squilibrio dei popoli

Invece della guerra: le soluzioni reali La guerra in atto viene presentata come la strada più giusta, più inevitabile, più necessaria, per salvare la vita dei civili libici. Ma appare ormai chiaro a tutti che la Risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza Onu, è stata usata per altri fini che, ormai, esplicitamente, vengono definiti come la necessità di cacciare Gheddafi dal potere. Non si può salvare dei civili, bombardandone altri. Non esiste e non può esistere una guerra umanitaria. Le esperienze di oltre dieci anni, dai Balcani all'Afghanistan, ce l'hanno ampiamente dimostrato. Le guerre non solo non hanno risolto nessuno dei problemi per le quali erano state promosse, ma semmai li hanno aggravati, destabilizzando sempre più vaste aree del mondo e provocando un numero altissimo di vittime civili e di distruzioni. Inoltre è quanto meno strano che ci si erga, attraverso lo strumento dell'intervento armato, a difensori dei diritti di libertà dei popoli, dopo che in questi 10 anni i governi hanno preferito fare accordi con i dittatori per affrontare la questione dei migranti e dopo aver lasciato compiere massacri e crimini contro l'umanità, a Gaza come in Barhein, Yemen, Arabia Saudita senza dire neppure una parola. Si sono organizzati criminali respingimenti collettivi verso il deserto libico, si è esternalizzato il controllo delle frontiere, si è chiuso gli occhi sulle continue violazioni dei diritti umani che avvenivano in questi paesi ai danni dei soggetti deboli. Ora si passa la parola alla guerra ed ai bombardamenti e, in forma estremamente ipocrita, si organizza un blocco navale, anche per vigilare su quei mari e per fermare o almeno limitare l'arrivo delle stesse persone che si dice di voler liberare, negando loro il diritto di fuga, e quando essi riescono ad arrivare, in mezzo a mille disagi, pericoli, e fatiche nel nostro paese, negando loro il diritto di asilo. Ora l'emergenza immigrazione, ovviamente, esplode in tutta la sua drammaticità e come la si vuole affrontare? Tenendo oltre 6000 migranti a Lampedusa,isola di 5000 abitanti, senza alcun supporto logistico adeguato, molti,addirittura, all'aperto, senza coperte, scarpe, generi di prima necessità. E' stata la popolazione di Lampedusa a supplire con la solidarietà

popolare diretta all'assenza di intervento pubblico adeguato. E poi? Si pensa di ridurre la pressione sull'isola, portando i migranti sulla terraferma e mantenendoli dentro strutture concentratarie, come potenziali nemici e terroristi: il famoso modello accoglienza rappresentato dalla cittadella di Mineo. Diciamo No a tutto questo. Noi siamo perché venga riconosciuto a coloro che provengono da quell'area di crisi uno stato di necessità che autorizzi la concessione di un permesso di soggiorno provvisorio, per ragioni di tutela umanitarie e che gli consenta non essere chiusi nella morsa tra clandestinità - respingimento coatto o clandestinità per fuga e dispersione irregolare sul territorio nazionale. Il riconoscimento della condizione di straordinarietà per chi viene da tutta quell'area di crisi, indipendentemente se vi siano in corso guerre, serve a risolvere l'enorme questione della sistemazione logistica presso strutture protette e vigilate che siano Mineo, piuttosto che le aree militari dismesse messe a disposizione da La Russa o, peggio ancora, zone portuali militarizzate o strutture, dallo statuto improprio e indefinito, come gli accampamenti provvisori di Pozzallo o Porto Empedocle. Essere contro la guerra oggi vuol dire più che mai stare dalla parte di chi sta in mezzo. Da chi sta sotto i bombardamenti (orientali ed occidentali) e di chi è fuggito e adesso si trova detenuto in un campo di concentramento, non chiamato così, ma non per questo meno tale, a Mineo o a Lampedusa. Per noi siciliani la guerra purtroppo è già arrivata a casa nostra, con le basi militari sul nostro territorio da cui partono missioni di morte e con la presenza di tante/i nostri fratelli migranti ai quali dobbiamo garantire libertà a partire dal far sì che il Mediterraneo sia uno spazio di libera circolazione, e, ancora, con il prodursi di danni concreti che tutti questi processi negativi stanno arrecando alla già difficile situazione economica e sociale del nostro territorio, pensiamo ad esempio alla chiusura dell'aeroporto civile di Birgi o ai gravi colpi inferti all'economia legata al turismo. Pietro Milazzo Cgil Sicilia

CRONACHE DISPERATE

E IN SICILIA Si CONTINUA A SBARCARE E A MORIRE

Il 28 marzo verso le 22 e 15 è stato avvistato nei pressi di Punta Regilione, nelle coste modicane, un barcone con a bordo più di 500 persone. Tra questi, alcuni non c'è l'hanno fatta a toccare gli scogli della costa iblea. Il numero preciso delle vittime non è ancora chiaro. I morti pare si aggirino tra i due e i cinque. Sull'imbarcazione lunga circa 20 metri si suppone ci siano 400 eritrei, alcuni somali e qualche nigeriano. Molti i bambini, tra cui diversi neonati, e anche delle donne. L'età media pare si aggiri intorno ai 20 anni. Le condizioni di salute di alcuni immigrati sono parse, fin dall'inizio, preoccupanti. I bambini e alcune donne sono state trasferite per accertamenti all'Ospedale Maggiore di Modica. I primi a giungere sul posto sono stati i Vigili del Fuoco di Modica, seguiti dagli uomini del 118 e dalle forze dell'ordine. Durante le operazioni erano presenti il Questore Filippo Barboso e il dirigente della squadra mobile di Ragusa Francesco Marino. Il barcone, da quanto raccontano i migranti, è partito dal porto di Tripoli 40 ore prima di arrivare nelle coste modicane. Alcuni dei migranti hanno toccato la terra ferma abbandonando subito l'imbarcazione e alcuni di loro sono riusciti a fuggire, disperdendosi nelle zone limitrofe. La gran parte dei passeggeri è rimasta sul barcone per poi essere trasferita, tramite un mezzo della Capitaneria di Porto, nel centro di prima accoglienza di Pozzallo, in cui la Protezione Civile si è subito attivata. Al momento le autorità non rilasciano dichiarazioni. Intanto nella struttura di Pozzallo sono arrivati alcuni amministratori locali per trovare una soluzione all'emergenza. Giorgio Ruta e Francesco Ruta Il Clandestino

|| 30 marzo 2011 || pagina 07 || www.ucuntu.org ||


Armi

Il mercato criminale dell'industria italiana

Dal Belpaese partono (e aumentano sempre più) traffici giganteschi per tutto il mondo. Chi sono i mercanti d'armi e dove fanno affari, dai tempi di Carlo Palermo a ora Cannoni, missili, carri armati, fucili, pistole, caccia e bombardieri. Produciamo strumenti di guerra di ogni tipologia per il mercato globale, finanche braccialetti e manette che produco scariche elettriche da 50.000 volt, veri e propri sistemi di tortura per detenuti e migranti. Un business che non conosce crisi e che consente all’industria militare di affermarsi tra le prime cinque produttrici al mondo. Tra il 2008 e il 2009, quando tutti i settori produttivi del made in Italy registravano tassi di crescita negativi, l’export di armamenti è cresciuto del 74%. Un mercato che si caratterizza per essere tre volte criminale e criminogeno. Perché genera morti in ogni angolo della terra, orami quasi sempre e solo vittime civili ed innocenti, donne, bambini. Perché divora enormi risorse economiche-finanziarie e naturali, depauperando il pianeta e condannando inesorabilmente miliardi di persone alla fame e al sottosviluppo. Perché gli immensi profitti si dividono tra una ristretta minoranza di attori, manager, industriali, generali, politici, trafficanti (o più prosaicamente “mediatori”) e l’immancabile corte di faccendieri in odor di mafia. Una zona grigia di illegalità in cui le potenti lobby dei mercanti prosperano aggirando la legge 185 del 1990 che disciplina il commercio delle armi e che vieta in particolare, le vendite ai paesi belligeranti, a quelli sottoposti ad embargo Onu e dell’Unione Europea e a quelli i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. La lista dei destinatari dei gioielli di morte del complesso militare industriale italiano è proprio “nera”: al primo posto c’è la petromonarchia dell’Arabia Saudita (commesse per 1.100 milioni di euro), poi il Qatar (317), l’India (242), gli Emirati Arabi Uniti (176), il Marocco (112), la Libia (59), la Nigeria (50), la Colombia (44), l’Oman (37). Sembra più un elenco della geopolitica della guerra totale e permanente, dei diritti violati e negati e delle discriminazioni di genere e minoranze nazionali. Ma nel Belpaese vige l’indifferenza e il cinismo. Così i parlamentari e i politici che protestano per Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata a morte

per lapidazione, restano in perfetto silenzio di fronte al fatto che tra gli stati lapidatori compaiono proprio quattro dei principali partner dell’industria di morte italiana. È a loro che sono state esportate nel 2009 più del 50% delle armi prodotte da Finmeccanica, la holding del settore a capitale in parte pubblico. Con gli emiri in particolare, si profilano all’orizzonte affari a nove zeri. Dopo il voto unanime del Parlamento italiano - il 28 ottobre 2009 - che ha ratificato l’accordo di “cooperazione nel settore della sicurezza” firmato sei anni prima dall’allora ministro della difesa Martino e dal principe ereditario di Dubai e ministro della difesa degli EAU, sceicco Mohamed Bin Rashid Al Maktoum, sono state esemplificate le procedure di trasferimento di armamenti, munizionamenti, mine, propellenti, satelliti, sistemi tecnologici di comunicazione e per la guerra elettronica. Scambi che potranno avvenire anche in deroga alla legge 185 e che consentiranno la triangolazione di armi «a Paesi terzi senza il preventivo benestare del Paese cedente». E l’accordo di mutua cooperazione è stato prontamente festeggiato da Finmeccanica con una maxi-commessa da due miliardi di dollari: gli Emirati hanno affidato alla controllata Alenia Aermacchi la fornitura di 48 bimotori M-346 “Master” che saranno utilizzati per l’“attacco leggero” (sganciamento di bombe sino a 3.000 kg) e l’addestramento avanzato dei piloti destinati ai cacciabombardieri Eurofighter, Rafale, F-16, F-22 ed F-35 “Joint Strike Fighter”, acquistati di recente dall’aeronautica militare EAU. Quando non è possibile mettere nero su bianco su triangolazioni e trasferimenti a paesi in guerra c’è sempre pronto a dare una mano l’alleato d’oltreoceano. Qualche mese fa il comandante della coalizione Usa-Nato in Afghanistan, generale Stanley McChrystal, ha rivelato all’agenzia Reuters la consegna alle forze armate afgane di due aerei da trasporto C-27A “Spartan” in dotazione dell’US Air Force, mentre altri 18 velivoli dello stesso modello saranno consegnati entro il 2011. Come dichiarato dall’alto ufficiale statunitense, «questo programma consentirà all’aviazione militare afgana di raddoppiare

le proprie dimensioni per operare con efficacia dopo essere rapidamente caduta in disgrazia con l’avvento dei talebani». Velivoli prodotti nelle corporation a stelle e a strisce? Assolutamente no. I due biturboelica C-27A erano stati acquistati nel 1990 in Italia all’allora Aeritalia, oggi Alenia Aeronautica (Finmeccanica). Si tratta di una versione leggermente modificata degli aerei da trasporto G.222, in dotazione sino al 2005 alla 46^ Aerobrigata dell’Aeronautica militare di Pisa. Si dà poi il caso che il 19 settembre del 2008, proprio 18 G.222 ex AMI erano stati ceduti dal ministero della difesa italiano agli Stati Uniti in cambio di 287 milioni di dollari. Inutile aggiungere che si tratta proprio degli “Spartan” che il Pentagono consegnerà all’Afghan National Army Corps dopo che saranno conclusi i lavori di ricondizionamento delle apparecchiature di bordo, probabilmente proprio negli stabilimenti di Alenia. Anche stavolta da registrare l’imbarazzato no-comment del ministero della difesa e dei parlamentari di destra, centrodestra e centrosinistra. Con un altro accordo di “cooperazione” sottoscritto da Silvio Berlusconi e dal colonnello Gheddafi, Italia e Libia hanno chiuso la lunga contesa post-coloniale. In nome della comune lotta all’immigrazione “irregolare”, si è dato il via ai pattugliamenti navali congiunti e alla realizzazione in pieno deserto di carceri-lager per richiedenti asilo in fuga dagli inferni del Corno d’Africa, Iraq e Afghanistan. Ma il vero cuore dell’intesa sta negli affari e nelle commesse per le fabbriche di armi. Con il disgelo italo-libico l’AgustaWestland ha trasferito alle forze armate locali 10 elicotteri A109 Power, valore 80 milioni di euro, che saranno utilizzati per il «controllo delle frontiere». La stessa società italiana, da tempo immemorabile al centro di inchieste giudiziarie, scandali e mazzette, ha pure sottoscritto un accordo con la Libyan Company for Aviation Industry per costituire una joint venture per lo sviluppo di attività nel settore aeronautico e dei sistemi di sicurezza.

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Armi

Finmeccanica, la holding che detiene il controllo di AgustaWestland, ha invece firmato un accordo con Tripoli per la creazione di una joint venture nel campo dell’elettronica e dei sistemi militari di telecomunicazione. Nel gennaio 2008, è stata la volta di Alenia Aeronautica a siglare con il ministero dell’Interno libico un contratto del valore di oltre 31 milioni di euro per la fornitura del velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP “Surveyor”. Sempre nel campo della “homeland security” (o della militarizzazione in funzione anti-migranti), Selex Sistemi Integrati realizzerà un grande sistema di protezione e sicurezza dei confini della Libia e fornirà direttamente sul campo l’addestramento degli operatori e dei manutentori. Altro pozzo di San Patrizio dell’export di guerra italiano è un altro paese leader della lotta ai migranti, il Marocco. Dal 1973 occupa militarmente l’ex Sahara spagnolo, massacrando attivisti indipendentisti, deportando intere comunità, disseminando di mine anti-uomo il muro-frontiera di oltre 3.000 chilometri realizzato per isolare i territori occupati. Per numerose organizzazioni non governative internazionali, il Marocco ha collaborato attivamente con gli Stati Uniti d’America nelle extraordinary rendition, i sequestri di presunti terroristi islamici, poi deportati nelle supercarceri di Medio oriente e Guantanamo, ed ospiterebbe ancora un centro di detenzione segreto per vecchi e nuovi desaparecidos. Amnesty International denuncia che in Marocco «sono aumentati nel 2009 gli attacchi alla libertà di espressione, di associazione e di riunione» e che «difensori dei diritti umani e giornalisti fautori dell’autodeterminazione del Sahara Occidentale sono incorsi in vessazioni, arresti e perseguimenti giudiziari». «Le autorità hanno continuato ad arrestare ed espellere cittadini stranieri sospettati

di essere migranti irregolari senza prendere in considerazione le loro singole necessità di protezione o permettere loro di contestare l’espulsione», aggiunge Amnesty International. «Alcuni sarebbero stati scaricati al confine con l’Algeria o la Mauritania, senza adeguate quantità di cibo e acqua». Per rendersi conto che aria si respira in uno dei principali partner dell’establishment politico-militare industriale italiano, si pensi a quanto accaduto lo scorso 8 novembre, quando le forze armate marocchine attaccarono e distrussero il campo rifugiati di Gdeim Izik, nella capitale sahrawi di Al Aaiun. Per il Fronte Polisario si è trattato di un massacro senza precedenti: 21 i morti civili, 723 i feriti e 159 i “dispersi”. Le più importanti commesse al Marocco? A fine 2008 l’immancabile Alenia Aeronautica ha siglato un contratto del valore di circa 130 milioni di euro per la fornitura di quattro velivoli C-27J, lo stesso aereo da trasporto e per il lancio di paracadutisti girato all’Afghanistan via Washington. In joint venture con Eads, Alenia Aeronautica consegnerà pure due Atr 42-600 e quattro Atr 72-600 alla compagnia di bandiera Royal Air Maroc. Apparecchiature integrate per comunicazioni e controllo terrestri prodotte da Selex Communications finiranno al FAR du Maroc, le forze armate marocchine che non mancheranno di utilizzarle in funzione antiPolisario e anti-migranti. La marina militare marocchina si doterà invece delle nuove fregate multimissione FREMM co-prodotte da Francia (Thales e DCNS) e Italia (Fincantieri e Finmeccanica). Le fregate saranno superarmate: siluri MU90, missili Exocet MM40 e Aster 15 ed i cannoni 76/62 SR stealth della OTO Melara, altra società Finmeccanica. Con le autorità marocchine starebbe per essere avviato pure un programma per insediare a Casablanca un polo aeronautico per

la fabbricazione di componenti meccaniche destinate a velivoli civili e militari che vedrebbe la compartecipazione (o forse meglio la terziarizzazione e delocalizzazione) di alcune delle maggiori imprese aeronautiche italiane. La lobby filo-marocchina è assai potente tra parlamentari, ministri e industriali nostrani e non c’è stata inchiesta giudiziaria negli ultimi decenni che non abbia individuato transazioni più che sospette sulla rotta Roma-Rabat. Nel 1992 erano state le Procure della Repubblica di Messina a Catania a indagare su un gruppo di faccendieri in stretto contatto con una delle più potenti cosche mafiose siciliane (quella etnea capeggiata da Benedetto “Nitto” Santapaola), che stava mediando la fornitura di armamenti prodotti dalla Breda Meccaniche Bresciane alla marina, all’esercito e all’aviazione del Marocco. L’inchiesta, come buona parte di quelle che tentano di colpire i santuari dei mercanti di morte, si concluse nel nulla. Quattro anni dopo però la Guardia di finanza di Firenze recuperò le montagne di intercettazioni telefoniche ed ambientali prodotte e inviò un’informativa alla Procura di La Spezia che indagava su quella che era stata definita la “nuova P-2”, l’ennesima organizzazione paramassonica in grado di “deviare” il funzionamento di istituzioni, istituti bancari ed holding industriali dell’Italia a sovranità assai limitata. Utilissimo rileggere alcuni dei passi dedicati al funzionamento del sistema criminale tessuto dai mercanti di morte, basati sulle risultanze delle indagini su mafie, droga ed armi condotte nei primi anni ’80 dall’allora giudice istruttore di Trento, Carlo Palermo. «La fusione tra interessi pubblici e interessi commerciali e la compenetrazione di uomini, istituzioni e risorse appartenenti alla sfera statale e al mercato rende difficile distinguere confini e responsabilità», scrivono i militari della GdF.

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Armi

«La visibilità di tali gruppi di potere emerge solo in circostanze eccezionali, come le inchieste parlamentari e della magistratura, oppure in occasione di fatti di cronaca particolarmente eclatanti come lo “scandalo Lockeed” in Europa all’inizio degli anni ’70, o l’emergere della loggia P2 in Italia all’inizio degli anni ’80». In particolare, il giudice Palermo era giunto a definire tre «diverse costellazioni» di poteri collegate alla produzione e al commercio delle armi. La prima comprende gli apparati imprenditoriali e finanziari delle industrie produttrici di armamenti, operanti in strettissimo collegamento con l’establishment militare ed i vertici dei servizi di sicurezza di quasi tutti i paesi. «I circoli in questione costituiscono l’elemento di continuità nel business dell’esportazione di armi, e la loro particolare collocazione li rende nello stesso tempo “fedeli al sistema” ed autonomi dal potere politico del momento, specie nei paesi caratterizzati da un tasso elevato di instabilità governativa. La tendenza di tali gruppi è quella di accrescere la propria coesione ed impermeabilità tramite la costituzione di associazioni segrete o semiclandestine, e di collegarsi a singoli esponenti politici di rilievo piuttosto che a partiti o correnti politiche». Il secondo gruppo di potere comprende i mediatori e i commercianti all’ingrosso e al minuto, quasi sempre alle dipendenze dirette o in stretto collegamento con le industrie produttrici. «È presso tale categoria che troviamo gli

“incroci”, molto frequenti con il mondo della droga e della finanza clandestina», prosegue l’informativa. «Si tratta della naturale tendenza ad usare circuiti di scambio semisegreti attivati per la circolazione di una data merce e per il commercio di altre merci: oggi le armi, domani gli stupefacenti, poi le informazioni politico-militari, l’alta tecnologia ecc. I motori del tutto sono quelli di sempre. Profitto economico ed ambizioni di potenza. Con l’aggiunta di una componente sempre più rilevante di “professionismo illegale”, causato dalla moltiplicazione dei soggetti e dei canali del mercato illecito». Infine il terzo tipo di coalizione di potere interessata all’esportazione di armi, composta da personalità politiche ai vertici istituzionali, in grado di percepire tangenti sulle vendite o sugli acquisti. Un vero e proprio di blocco di potere i cui contorni sono stati ben delineati dalle indagini sui traffici gestiti dal pool di operatori vicini alle cosche siciliane e ai grandi manager militar-industriali. Oltre alla fornitura di materiali di armamento al Marocco, l’organizzazione stava seguendo freneticamente l’affare relativo alla vendita alla Guardia nazionale dell’Arabia Saudita di dodici elicotteri CH47 per il trasporto truppe ed armamenti, di produzione “Agusta SpA”. Il trasferimento dei mezzi da guerra vide scendere in campo le massime autorità saudite. Nel corso di una telefonata del 15 giugno 1992 tra un faccendiere siciliano e l’allora direttore generale dell’industria bellica, il primo forniva l’identità del suo

diretto interlocutore: «È lo sceicco Hassan Hennany a tenere le fila con re Fahd. Hennany è il segretario del principe Feisal ben Fahd, il figlio del sovrano d’Arabia, e può darci una mano a vendere elicotteri anche al Marocco». Il mese precedente, lo stesso faccendiere e alcuni personaggi in contatto con i clan mafiosi erano stati ospiti del saudita a bordo del suo yacht ormeggiato a Cannes. I particolari di quell’incontro erano stati raccontati dal responsabile per le relazioni estere di Forza Italia al direttore commerciale di Pubblitalia-Fininvest, Alberto Dell’Utri. «In questi giorni sapremo le date, te le comunico e ci incontriamo. Ok?», dichiarava l’alto dirigente di Forza Italia. Poi aggiungeva: «Se per caso il tuo presidente, se potesse venire per dire... un incontro. Perché c’è pure in grande pompa magna quell’Hennany. Alberto, io non ci sto dormendo la notte!». L’identità del “presidente” prendeva forma nel corso di una telefonata intercorsa il 3 giugno 1992 tra due delle persone sottoposte ad indagine. «Scusami Aldo, noi lunedì c’incontriamo. Possiamo parlare con questo Berlusconi o no?», domandava uno di essi. «Gioia mia, mi auguro di sì. Io non te lo posso dire in questo momento e neanche lui me lo sa dire», la risposta. Antonio Mazzeo

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Eserciti

Us Africom e marines per la guerra africana Washington cede alla Nato la leadership nella conduzione dell'intervento in Libia ma potenzia intanto il proprio dispositivo militare nel Mediterraneo La forza anfibia di pronto intervento Bataan ARG è salpata dalla costa atlantica degli Stati Uniti d’America per raggiungere le unità navali già impegnate nelle operazioni di bombardamento contro il regime di Gheddafi. “La task force sarà attiva al più presto”, ha affermato il portavoce del comando della II Flotta della marina militare statunitense. “La Bataan ARG opererà a supporto del piano d’intervento USA ed internazionale associato alla crisi in Libia ed è preparata a condurre missioni che vanno dalla presenza navale avanzata alle operazioni di sicurezza marittima, alla cooperazione di teatro e all’assistenza umanitaria”. Della forza di pronto intervento faranno parte la nave d’assalto Bataan, una delle unità maggiormente impegnate in questi anni nelle operazioni di guerra in Iraq, la nave da trasporto Mesa Verde e la portaelicotteri Whidbey Island. Le unità imbarcano complessivamente 3.200 marines, una decina di nuovi aerei multimissione a decollo verticale V-22 “Ospreys”, una ventina di elicotteri d’assalto CH-46 “Sea Knight” e CH-53E “Super Stallion” e un imprecisato numero di sofisticati sistemi missilistici e cannoni navali. Prima di salpare per il viaggio attraver-

so l’oceano, sulle unità della task force sono stati imbarcati gli uomini e i mezzi della 22nd Marine Expeditionary Unit di stanza nella base di Camp Lejeune, North Carolina, unità di pronto intervento più volte operativa negli scacchieri di guerra mediorientali e in Africa orientale e occidentale. Con i marines viaggeranno pure il Tactical Air Control Squadron 22 dell’US Air Force con base a Davis-Monthan, Arizona, l’Helicopter Sea Combat Squadron 28 della US Navy di San Diego, California e il Fleet Surgical Team 8 di Little Creek, Virginia. Sempre secondo il Comando della II Flotta USA, “l’installazione della forza anfibia è stata accelerata per aiutare le unità del Kearsarge Amphibious Ready Group che opera nel Mediterraneo dall’agosto 2010” e che è uno dei maggiori protagonisti del conflitto scatenato contro la Libia. Di questo gruppo anfibio fanno parte la nave d’assalto “Kearsarge” (1.893 marines, 27 aerei V-22, 6 elicotteri SH-60F più una serie di batterie missilistiche “Sea Sparrow” e “Rolling Airframe”), l’unità da trasporto “Ponce” (516 uomini e una dozzina di elicotteri d’assalto) e la nave da sbarco “Carter Hall” (419 marinai).

A bordo sono ospitati pure l’Helicopter Sea Combat Squadron 22 della United States Navy Riserve, dotato di elicotteri MH-60S “Knight Hawk” e la 26th Marine Expeditionary Unit del corpo dei marines, che con i propri aerei a decollo verticale “AV-8B Harrier II” ha tempestato i target terrestri libici con bombe a caduta libera Mk 82 e 83 e con missili aria-superficie AGM-65 “Maverick” e AGM-88 “HARM”. Le altre unità impegnate sono la navecomando della VI Flotta “Mount Whitney”, i cacciatorpedinieri della classe “Arleigh Burke” Mason, Barry e Stout (quest’ultimo più volte approdato a Palermo ed Augusta), armati con i sistemi a lancio verticale “ASROC” e con i micidiali missili da crociera per l’attaccato a terra “Tomahawk” con un raggio di azione di 1.700 miglia nautiche, 120 dei quali utilizzati nelle prime 24 ore di conflitto. Secondo quanto denunciato dal ricercatore Massimo Zucchetti, del Politecnico di Torino, i “Tomahawk” conterrebbero al proprio interno uranio impoverito per perforare le corazze dei mezzi blindati, con la conseguenza che si ripeta in Libia l’inquinamento radioattivo scatenato con l’intervento “umanitario” in Kosovo nel 1999.

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Eserciti

Il Dipartimento della difesa ha schierato nel Mediterraneo pure due sottomarini a propulsione nucleare della classe “Los Angeles” (Providence e Scranton) e uno della classe “Ohio” (Florida), anch’essi dotati di “Tomahawk”. Alle operazioni di guerra parteciperebbe pure la portaerei nucleare USS Enterprise, la più lunga al mondo (393 metri, 66 caccia e un equipaggio composto da 3.500 marinai e 1.500 aviatori), dislocata da una decina di giorni nelle acque del Mar Rosso. Sino ad oggi, il comando delle operazioni statunitensi è stato attribuito dal presidente Obama e dal segretario alla difesa Gates al generale Carter Ham, responsabile di US Africom, il comando per le operazioni USA nel continente africano basato a Stoccarda. Dal punto di vista operativo, la joint task force Odissey Dawn è posta sotto il comando dell’ammiraglio Samuel J. Locklear III a capo di US Naval Forces Europe and Africa (Napoli). La forza d’intervento è supportata da due componenti, una per le operazioni marittime (il comando è a bordo della nave Mount Whitney), e unaa per le operazioni aeree, con base a Ramstein (Germania). Il bombardamento contro la Libia è un vero e proprio battesimo di fuoco per Africom. Nei primi giorni di marzo, il comando statunitense aveva pure coordi-

nato le operazioni di trasporto aereo al Cairo di oltre un migliaio di lavoratori egiziani fuggiti in Tunisia dalla Libia. Nel corso di un briefing, il vice-ammiraglio Bill Gortney, direttore dello staff congiunto di Odissey Dawn, ha dichiarato che ai bombardamenti hanno già partecipato 15 cacciabombardieri dell’US Air Force (tre aerei invisibili B-2 “Spirit Bomber”, quattro F-15 ed otto F-16. L’alto ufficiale non ha voluto rivelare le basi da cui sarebbero partiti gli aerei, ma ha ammesso che alcuni di essi “hanno richiesto il rifornimento in volo da parte di alcuni aerei cisterna”. “Durante le loro missioni – ha specificato Gortney – tutti i velivoli da guerra hanno sganciato bombe a guida GPS”. È presumibile che buona parte dei caccia siano partiti dalla base aerea di Aviano (Pordenone), sede di due squadroni della 31esima fighter wing dell’aeronautica militare statunitense e dove - secondo fonti ufficiali del Pentagono - nella gior-

nata del 18 marzo sono stati trasferiti cinque caccia F-18, due aerei da trasporto C-17 e un C-130 USA. Agli attacchi contro target libici hanno poi partecipato gli AV-8B “Harrier II” del Corpo dei marines, decollati dalla nave d’assalto Kearsarge, i velivoli EA-18G “Growlers” dell’US Navy per la guerra elettronica e il rilevamento dei segnali radar, gli aerei-spia RC-135 “Rivet Joint”, dotati di apparecchiature per la raccolta dati e l’intelligence, e gli EC-130H “Compass Call” in grado di disturbare le comunicazioni nemiche. Sempre nel campo delle nuove tecnologie elettroniche, all’azione contro la Libia partecipano i velivoli senza pilota “Global Hawks” dell’US Air Force, operativi nella base siciliana di Sigonella dallo scorso mese di ottobre. Il Pentagono starebbe pure utilizzando altri velivoli UAV di minori dimensioni, come i “Reaper” e i “Predator”, armati con i missili per l’attacco terrestre “Hellfire”. È prevedibile, infine, che gli Stranamore d’oltreoceano non si lascino sfuggire l’occasione di utilizzare il territorio libico per sperimentare i nuovi caccia supersonici “per la superiorità aerea” F-22 “Raptor”, con capacità stealth. L’inferno a Tripoli e Bengasi è un’ottima vetrina per i prodotti di morte del complesso militare industriale degli Stati Uniti d’America. Antonio Mazzeo

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Appelli

Fermiamo la guerra e il razzismo Sosteniamo il diritto all’autodeterminazione dei popoli La risoluzione ONU n. 1973 ha portato altre sofferenze al popolo libico oltre quelle già inferte dal regime di Gheddafi. L’obiettivo degli Stati Uniti e delle potenze europee non è la difesa dei diritti umani, ma le risorse energetiche (giacimenti di petrolio e gas), rese ancora più preziose di fronte all’acutizzazione della crisi economica internazionale e dalla inevitabile escalation dei prezzi. Di fronte agli aerei e alle navi militari che stanno bombardando la Libia, non ci si può che indignare ricordando come niente di tutto questo fu messo in campo mentre le forze armate israeliane bombardavano la popolazione palestinese rinchiusa a Gaza tra il 2008 e il 2009 (1.400 i morti, la metà civili inermi). Due pesi e due misure? No, complicità con i crimini di guerra e interessi strategici che prevalgono sistematicamente su ogni diritto umano e dei popoli. L’intervento militare NATO in Libia suona inoltre come minaccia anche contro i movimenti popolari in Tunisia, Egitto, Algeria, i quali hanno avviato processi di cambiamento importanti, ma i cui esiti rappresentano ancora un’incognita per gli interessi delle transnazionali occidentali.

La Sicilia è la regione d’Italia maggiormente coinvolta dalle scellerate scelte governative di guerra: le basi militari USA, italiane e Nato di Trapani-Birgi, Sigonella, Augusta, Pantelleria e Niscemi stanno contribuendo direttamente ai bombardamenti. In particolare da Sigonella operano i cacciabombardieri NATO e i micidiali Global Hawks dell’US Air Force, gli aerei senza pilota che decollano a pochi km dal terzo aeroporto italiano per traffico passeggeri (Catania-Fontanarossa), mentre da TrapaniBirgi vengono scatenati i bombardamenti dei caccia italiani e di altri partner alleati. Intanto nell’isola a Lampedusa si sperimentano le nuove politiche segregazioniste del ministro Maroni: il Villaggio degli aranci (abbandonato dai mili-

tari USA di stanza a Sigonella) a Mineo, di proprietà di una delle principali società di costruzioni (la Pizzarotti Spa di Parma) è stato trasformato in un lager dove recludere 2000 tra richiedenti asilo (sradicati dai Cara del resto d’Italia e lì deportati) e migranti fuggiti dalla Tunisia. Il governo, dopo avere esasperato volutamente la situazione a Lampedusa per sperimentare nuove guerre fra poveri, affida alle unità da sbarco della Marina militare la deportazione a Mineo, nelle ex caserme e negli altri centri di detenzione italiani dei migranti che sono riusciti a raggiungere l’isola. Dalla Sicilia, dove 30 anni fa nacque il movimento contro gli euromissili a Comiso, bisogna ricostruire la solidarietà internazionalista fra tutte le vittime della globalizzazione e le sue devastanti politiche di guerra, razzismo e morte, imparando dall’esempio delle rivolte popolari in Nordafrica. La Sicilia non è zona di guerra, via le basi militari dalla nostra terra Sì all’accoglienza dei migranti ed alla smilitarizzazione della Sicilia Contro la guerra ed il razzismo, con il popolo libico senza se e senza ma Nessuna complicità con l’intervento militare contro la Libia No al lager per richiedenti asilo di Mineo Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella, Arci(Ct), Cobas(Ct), Centro Popolare Experia, Giovani Comunisti, Red Militant, Rete Antirazzista, Rete dei Comunisti, Rifondazion Comunista, Sinistra Critica, USB, Ucuntu Domenica 3 aprile assemblea

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a Mineo


Catania/ Quartieri

E' tornata l'Experia per la città che spera "E' stata aperta e occupata la palestra comunale di via Verginelle inutilizzata ormai da troppi mesi da un Comune che, dopo aver sprecato per anni risorse economiche, oggi non riesce a più garantire e dimostrare un piano politico di rivolto al mantenimento di risorse sociali che garantiscono una qualità della vita dignitosa per gli abitanti dei quartieri"

Una città, Catania, in crisi e un quartiere, l'Antico Corso, abbandonato. Promesse, parole e nessun atto concreto dallo sgombero e dalla chiusura del Centro Popolare Experia il 30 ottobre 2009. Le promesse di questa amministrazione e del consiglio comunale sull'intervento e l'attenzione da porre ai quariteri popolari catanesi e in particolare modo al quartiere Antico Corso sono rimaste appese nel vuoto totale della politica istituzionale cittadina. A distanza di un anno e mezzo il degrado sta divorando questo quartiere e questa città! Gli edifici del centro popolare Experia e tanti altri evidenziati in città durante mesi di lotta sono ancora inutilizzati, vuoti o abbandonati. Vogliono chiudere l'intera città? Una città che è allo stremo delle forze perchè in questi ultimi 20 anni intere classi politiche e affaristiche hanno saccheggiato risorse che avrebbero dovuto essere di tutti, con l'unico scopo di incrementare il loro potere politico ed economico. Per questo motivo oggi migliaia di lavoratori sono ridotti alla precarietà (pensate alle cooperative sociali, e a quelle dei pulizieri per esempio); per questo motivo il comune non riesce più a pagare nemmeno i suoi dipendenti, per questo motivo il consiglio comunale rimane paralizzato da una maggioranza che non ha uno straccio di progettualità politica e che non riesce a de-

liberare sulla gestione degli impianti sportivi comunali, molti dei quali in uno stato vergognoso di abbandono, come il S. Teodoro di Librino. E questi sono solo alcuni esempi che le cronache delle ultime settimane hanno portato alla ribalta. Quanto costa alla nostra città l'abbandono di stabili del patrimonio pubblico? Quale costo sociale ed economico si ripercuote sulla città quando un luogo viene abbandonato per anni o sotto utilizzato? (vedi il Centro Popolare Experia, l'ex istituto d'arte in via Crociferi, villa Fazio aLibrino, l’edificio di piazza Santo Spirito, E il villino di via Rametta, ect). Ma chi paga il prezzo di tutto questo degrado? Lo paghiamo noi! Lo pagano gli abitanti del quartiere Antico Corso che con la chiusura del Centro Popolare Experia hanno visto cancellati una palestra popolare, un doposcuola gestito dalle famiglie del quartiere, uno spazio di socialità, un luogo unico in tutta la città. In questi lunghi mesi dallo sgombero, con lo slogan "Qui siamo e qui restiamo" abbiamo dimostrato attraverso le nostre iniziative e le nostre proposte alla città e alla sua classe politica che le nostre idee sono ancora valide e sostenute dalla maggioranza dei cittadini che vive nei nostri quartieri, e che nessuno ha dimenticato la cieca ingiustizia commessa con lo sgombero. Il capriccio di una parte politica di questa

città, allergica alla proposta culturale e di aggregazione sociale che il Centro ha saputo fornire in 17 anni di occupazione rivalutando uno spazio lasciato al degrado. Un pezzo di Catania, importante per migliaia di giovani generazioni che vogliono riprendersi questa città offesa dall'arroganza e dall'incompetenza politica. Il Doposcuola Popolare Experia non è ancora ripartito per la mancanza di una sede idonea ad ospitare dei bambini, l'anno scolastico è arrivato a un punto cruciale e poichè le famiglie non possono permettersi costose lezioni private, il rischio di abbandono degli studi è altissimo, in quartieri che già soffrono gravi tassi di dispersione scolastica e persino casi di analfabetismo e lavoro minorile. Tocca quindi a coloro che hanno ben pensato di chiudere l'Experia e con esso il suo doposcuola il compito di trovare una sede che ne permetta la ripresa. *** Questa nostra occupazione è una denuncia pubblica alla Giunta e il Consiglio Comunale perchè responsabili diretti di questo ennesimo disastro sociale e culturale che la nostra città sta subendo. Invitiamo tutti a sostenere la lotta del Centro Popolare Experia. Invitiamo tutti a partecipare alle nostre iniziative presso la Palestra Comunale "Verginelle" Centro Popolare Experia Catania

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|| 30 marzo 2011 || pagina 16 || www.ucuntu.org ||


Società civile

La nuova generazione e il nuovo approccio all'antimafia Addiopizzo Catania incontra tanti giovani durante le sue attività, durante i banchetti, a scuola e nelle università. Vi proponiamo una riflessione di Davide, un nostro socio In questi quattro anni di attività con Addiopizzo ho osservato tanto i cambiamenti, piccoli, a volte impercettibili nella mentalità delle nuove generazioni, cambiamenti che a volte sono grandi iniezioni di fiducia perché sono la conferma del fatto che non è vero che le cose non cambiano e mai cambieranno. Provate ad immaginare un’assemblea di istituto circa 20 anni fa, penso che pochi ragazzi al mondo avrebbero pensato di organizzarla sull’antimafia, di parlare di mafia, di fare nomi e cognomi di boss senza avere paura, ed invece ora lo fanno, parlano di loro, li sfidano, cercano di cambiare. Anche nei nostri banchetti informativi in giro nelle università e nelle piazze ci siamo spesso imbattuti in ragazzi molto giovani, eppure tanto informati, che seguono i giornali, che si arrabbiano per ciò che gli succede attorno. Al contrario, ed è anche abbastanza normale, abbiamo sempre riscontrato il tipico atteggiamento vittimista e fatalista nelle persone più grandi, quelle di qualche generazione fa. Questo nuovo approccio dei giovani non riguarda solo l’antimafia ma la legalità in generale, il senso civico ed il rapporto con la società. Nel mio lavoro mi capita di sentire i ragazzi parlare di ciò che gli succede a scuola, oppure durante le loro attività sportive. L’altro giorno mi hanno raccontato un episodio che mi ha dato il segno di come qualche ragazzo abbia capito qual è la strada da seguire.

In una scuola tre ragazzi hanno dato fuoco ad una cestino dell’immondizia di una classe, questo si è propagato alla lavagna rischiando di allargarsi ancora, alcune ragazze che passavano da lì hanno visto tutto e, chiamate dal preside a fare i nomi delle persone che avevano visto, non hanno avuto timore di dire al preside chi fossero. Naturalmente, come succede nella società di tutti i giorni, questi tizi sono andati poi a cercare le ragazze minacciandole per quello che avevano fatto, ma la loro risposta è stata subito pronta: non si sono fatte intimorire ed hanno detto in faccia a chi le minacciava che avrebbero fatto la stessa cosa altre cento volte. Questo è un semplice esempio, non è sicuramente paragonabile alla situazione di chi denuncia una estorsione, che naturalmente comporta rischi maggiori e molto più pesanti, è ovvio, ma come quando si parla di bullismo tra i giovani e si dice che sia l’anticamera della delinquenza, allo stesso modo questo tipo di atteggiamento

potrebbe benissimo essere un esempio di anticamera della legalità. Ho voluto citare questi esempi positivi nella normale consapevolezza che, a fare da controparte a questa grossa fetta di ragazzi che cambiano, ce ne sono molti che purtroppo nella mentalità mafiosa, nella illegalità ci vivono, e ci vivono a volte anche bene, perché l’illegalità sembra facile, porta soldi e fa avere a 18 anni quello che una persona normalmente non potrebbe mai avere a quella età. Mi fa piacere però sottolineare che le cose stanno comunque cambiando, che molti ragazzi, sensibilizzati da chi gli sta attorno, con un grosso apporto della scuola, portano avanti la cultura della legalità, nonostante i modelli sbagliati e una tv che fa passare continuamente esempi negativi, con le fiction, con i programmi che mostrano personaggi che nell’illegalità vivono che vengono quasi idolatrati e che parlano di giustizia, di esempi e di cosa è giusto o sbagliato. Dobbiamo ammettere che in una società così, il comportamento di questi ragazzi è un segno positivo, che noi dobbiamo appoggiare e sostenere con forza e fiducia, fiducia nel futuro, nei nostri mezzi, nelle nostre parole ed esempi che hanno contribuito a cambiare in meglio la nostra società e che col tempo porteranno a cambiarla in tutti i settori. Io ci credo, è questa la mia speranza e penso sia la speranza di ogni onesto cittadino. Davide Siracusa

|| 30 marzo 2011 || pagina 17 || www.ucuntu.org ||


Altri sud

Napoli fuori mercato Uno dei due racconti vincitori del premio Napoli Monitor, indetto dalla rivista di scritture e immagini che esce a Napoli, con redazione a Vico Sanità Sono in ritardo di cinque minuti, ho un appuntamento per distribuire volantini nella zona della stazione Centrale. Uscendo da Corso Umberto, vedo un nutrito gruppo di persone intorno alla statua di Garibaldi, un centinaio, forse di più. Da lontano, solo i loro corpi. Non capisco cosa facciano, né quali lingue parlino. Mi avvicino. Di Nasser, A. e F. nemmeno l’ombra. Per fortuna, qui, cinque minuti di ritardo sull’orario ufficiale sono venticinque di anticipo su quello reale. Gli africani, sia arabi sia subsahariani, sono tutti uomini. Tra i rom, invece, ci sono anche molte donne. Chi mi vede o mi fa ciao bella -bellissima principessa beautiful lady e tutte queste cazzate qua-, oppure mi lancia un’occhiata storta, come a dire e tu che ci fai, che c’entri. Inutile dire chi fa cosa, dopo poco mi abituo, loro pure. Guardo le lenzuola sdrucite e i teli stesi a terra e, sopra di quelli, scarpe, vestiti, aggeggi elettronici anni ‘90, chincaglieria, un po’ di tutto. Cose rimediate nella spazzatura, come documenta anche (e solo) un video amatoriale su youtube e come posso constatare, subito dopo, con i miei occhi, vedendo parecchie persone intente a raccattare roba dai cassonetti. Mentre siedo sui gradini intorno alla statua, mi torna in mente l’uomo di origini marocchine che, nella primavera del 2009, si arrampicò sopra la testa di Garibaldi, dopo aver perso il lavoro, minacciando il suicidio. Riuscirono a farlo scendere solo dopo dieci ore, tra i commenti non proprio benevoli della gente, spazientita per l’ingorgo stradale che quella situazione, con l’arrivo di polizia, carabinieri e vigili del fuoco, aveva provocato. Un ragazzo in piedi, poco lontano da me, guarda fisso davanti a sé, mormorando qualcosa che non so. Venerdì, mezzogiorno, i musulmani pregano. A un certo punto passano due agenti della Municipale. –Forza! Jamm’ bell’ jamm’!- alluccano contro gli ambulanti. Senza fare un passo dalle loro postazioni, gli uomini e le donne del mercatino si avvicinano alla loro roba, accennando il gesto di chiudere i teli per farne dei fagotti. Per circa un minuto tutto rimane immobile, gli ambulanti accovacciati, con i lembi

dei teli tra le dita, i curiosi e gli acquirenti in piedi, immobili come in un fermo immagine. Pause. Solo i poliziotti continuano a camminare tra la folla. Appena i due hanno dato le spalle alla statua, tutto torna come prima. Play. Il ragazzo vicino a me ha smesso di pregare. Davanti a lui un uomo che, a giudicare dal colore della pelle, viene da un posto a sud del Sahara, urla qualcosa in una lingua che non riconosco a una vecchia signora zingara. Lui è fuori di testa, si crea un po’ di parapiglia. Nel frattempo sono arrivati Nasser, F. e A. con i volantini. Per domani il Comitato di sostegno al popolo egiziano e l’associazione 3 febbraio hanno organizzato una manifestazione in favore del movimento dei giovani egiziani che da settimane occupano piazza Tahrir. Non ci aspettiamo nulla di paragonabile ai cortei indetti a Roma e Milano, dove la comunità egiziana è molto più numerosa e organizzata, e, con il comitato Hurria-libertà per l’Egitto, ha portato in piazza anche mille persone. Ma per domani, 12 febbraio, Amnesty e altre organizzazioni hanno indetto una giornata di solidarietà internazionale per il popolo egiziano. Ieri il presidente Hosni Mubarak ha ribadito di voler rimanere in carica fino alla fine del suo mandato e guidare la transizione. Ci sono state già molte centinaia di morti per la repressione, ma piazza Tahrir non si arrende. Se, in questo momento, una piccola manifestazione a Napoli non migliora le cose, l’indifferenza le peggiora di sicuro. Nasser è un ragazzo tunisino che vive qui da poco e già parla un discreto italiano, ma è molto contento di potermi parlare in un inglese ricco e veloce ed essere, più o meno, capito. Noi gireremo nei dintorni di Piazza Garibaldi per terminare il volantinaggio all’uscita della moschea di Piazza Mercato, alla fine della preghiera delle 14.00. A. e F., invece, faranno un altro giro, per finire all’uscita della moschea di Corso Lucci. Alcune strade già le conosco, altre non le ho mai viste. Giriamo prima sul lato più interno della piazza, via Bologna e le sue pa-

rallele. In tutti i locali gestiti da arabi la tv è sintonizzata su canali di informazione dei loro paesi, Al-Jazeera su tutti. “Cosa dice la tv?” chiedo. “Mubarak ha annunciato un discorso nel pomeriggio”. Ci spostiamo nel lato meridionale della piazza, quello più vicino a via Marina e piazza Mercato, dove riscopro strade che ho visto solo una volta o due nella vita, da dietro il finestrino di una macchina, o che forse non ho visto mai. Qui i napoletani d’origine non sono molti, le donne ancora meno. L’impressione, comunque, non è quella del ghetto. Tutti, senza distinzioni di razza o religione, sono indaffaratissimi con il mercato. Qualche giorno dopo, intravedo in quella zona l’inizio di una rissa, niente di diverso da quello che si può vedere in altri quartieri della città. E’ un paese nuovo, un quartiere Mondo in una Napoli altra, lontana, diversa e uguale alla Napoli a cui sono abituata. Come il resto della città ha le sue leggi, non scritte, ma certamente più diffuse e più reali di quelle ufficiali, e i suoi codici. Dialetti arabi, inglese, napoletano, francese, hindi, singalese, gesti e altri linguaggi che non riesco nemmeno a riconoscere. E’ impossibile stabilire quale sia la lingua e quale il gergo. Una cosa, comunque, è facile capirla subito: l’italiano è superato, fuori luogo, minoritario. “Ora ti faccio un po’ vedere la parte povera della città” dice Nasser. Conosce molto meglio di me i rapporti economici tra Italia e Tunisia, mi parla dell’Eni, di Craxi e Ben Ali. Accenna anche alla manifestazione “se non ora, quando?” che ci sarà domenica –Avete una situazione difficile, voi donne, in Italia!- commenta. Giriamo un po’ tra le bancarelle affollate e i negozi. Arrivati alle spalle di piazza Mercato, in via Piazza larga al Mercato, ci fermiamo. Davanti a noi, una piccola insegna: “Associazione culturale islamica Zayd Ibn Thabit”. Non ci faccio quasi caso, immagino che la moschea, dove dobbiamo distribuire il grosso dei volantini, sia proprio sulla piazza, o da qualche altra parte. A Napoli ci sono più di 20.000 musulmani e la sede dell’associazione, da fuori, sembra molto più piccola di qualsiasi chiesa o altro luogo di culto che mi sia mai capitato di vedere.

|| 30 marzo 2011 || pagina 18 || www.ucuntu.org ||


Altri sud IL REPORTAGE Il reportage è il genere che pratichiamo più assiduamente. Per chi dispone di pochi mezzi il modo migliore per raccontare una storia è quello di fidarsi dei propri sensi: andare a vedere con i propri occhi, ascoltare con le proprie orecchie, toccare con mano. Per noi il reportage è quella cosa a metà tra giornalismo e letteratura che ci consente di descrivere la realtà con sufficiente libertà e ci chiede in cambio responsabilità, precisione e profondità. Napoli Monitor

Sono circa le 14.00. Prima che io possa domandare a Nasser se non sia ora di raggiungere la moschea, i fedeli iniziano ad arrivare. Cento, duecento. Stendono la loro sajjada, la stuoia per pregare, direttamente sulla strada, di fronte al centro islamico. Trecento, quattrocento. Alcuni usano un cartone da imballaggio, altri, invece, hanno portato appositi tappetini decorati. Qualcuno addirittura prega senza niente, in ginocchio sulla pavimentazione stradale. Cinquecento, seicento. Qualche tempo dopo parlo con Hareth, 18 anni, napoletano di nascita e coordinatore dell’associazione dei Giovani Musulmani di Napoli. Mi spiega che è da più di vent’anni che la comunità musulmana si rivolge alle istituzioni pubbliche per ottenere uno spazio per pregare ed un luogo di sepoltura. Fino ad ora, ha ottenuto solo parole. –Vedi,- mi dice Hareth, mettendo a posto una sedia su una pila appoggiata contro una parete della moschea di Corso Arnaldo Lucci -nel fine settimana siamo costretti a mettere da parte tutti i mobili della scuola, per fare più spazio possibile ai fedeli che vengono qui a pregare il venerdì. Pregano in ogni angolo della moschea, moltissimi sono costretti a farlo per strada. Ogni anno siamo di più, avevamo fatto un progetto per chiedere uno spazio in Via Bologna. Prima ci hanno fatto dei problemi, poi, dopo averci conosciuto bene, sia le istituzioni che la chiesa avevano accolto il progetto con favore. La gente del rione, però, bombardata dall’immagine negativa che i media danno dell’Islam, ha protestato, facendo sottoscrivere anche una petizione antimoschea-. Ziad, giordano, anche lui membro dell’associazione -questa è tra le cose che mi fanno piangere il cuore- mi scrive in chat -l’Italia secondo me non è un paese tollerante verso i musulmani. Le moschee in Italia sono in maggior parte fatte nei garage, preghiamo nei posti sottoterra, i musulmani hanno cercato di comprare un palazzo nel centro, a via Bologna, un palazzo abbandonato, ma moltissimi giornalisti hanno fatto propaganda contro l’iniziativa-. Non so a che punto sia oggi il progetto, ma è un fatto che oggi la preghiera islamica si tenga

ancora in strada e che, sul web, non si trovi nulla, in proposito, se non articoli su presunti affiliati ad Al Qaeda che frequenterebbero la moschea di Corso Arnaldo Lucci, la più grande. A via Piazza larga al Mercato continuano ad arrivare fedeli. Conto le file, solo qui ci sono sicuramente più di ottocento persone, forse anche mille. Non ho mai visto tanta gente pregare insieme. “Sei l’unica donna” mi fa notare Nasser. Do un’occhiata in giro. Tutti uomini. “Mi sa che sono pure l’unica napoletana” rispondo. “No, i napoletani ci sono… ma sei l’unica donna, quindi è ancora di più…” le donne sono diverse dagli uomini ancora di più di quanto gli autoctoni lo siano dagli immigrati, come ho fatto a non pensarci. Anche Nasser è ateo, ne parliamo un po’ e mi dice -Hai mai letto Freud?- che la religione è come una droga per il popolo. Il silenzio surreale della preghiera è rotto solo da qualche commerciante napoletano che parla a voce alta. Sì, ci sono un po’ di napoletani, non più di quattro o cinque, seduti fuori dai loro negozi. La preghiera durerà circa venti minuti, al termine dei quali andiamo a distribuire i volantini, che sono solo in arabo. Anche chi sembra avere la pelle troppo scura per un arabo si avvicina per chiedermene uno. Esito - do you speak arabic? - ma alla fine non so rifiutare, chi ha fatto un po’ di volantinaggio in centro città può capire perché. Giorni dopo, noto che a pochi passi dall’associazione islamica c’è un circolo del Pdl. Prima era una sezione di Alleanza Nazionale intitolata, ironia della sorte, ad un certo L. Belleré, presumibilmente Luciano, neanche quelli della sede me lo sanno dire con precisione. ll cognome, comunque, è lo stesso di quel Giovanni consigliere comunale vicino a Casapound e sempre in prima linea nella lotta all’immigrazione. Anche nella sede Pdl, tutti uomini. Ma qui non ci sono mille persone, come alla preghiera del venerdì, ma cinque. -Il venerdì la strada è la loro. Noi vorremmo scendere in piazza per cacciarli ma nessuno ci appoggia politicamente- si lamenta un frequentatore del circolo che mi chiede di re-

stare anonimo. Nel resto della zona, comunque, il rapporto con gli immigrati è disteso. In una stradina defilata un uomo sulla cinquantina corteggia una coetanea dai tratti orientali, forse filippina. Tra piazza Mercato e corso Umberto, la loquacità delle signore napoletane non risparmia i maghrebini e gli asiatici che vendono bijoux made in China. In un negozio gestito da srilankesi, in Via Nolana, una signora insiste per pagare 5 euro una collana di pasta di turchese che ne costerebbe 20. –Tu sei diventato troppo caro!- protesta, mentre racconta di suo figlio, Francesco, che è dovuto andare a fare il poliziotto a Milano -a Napoli non si può stare, per lavorare bisogna andarsene-. Il ragazzo che gestisce il negozio e che, evidentemente, non era dello stesso avviso quando è partito per venire qui, annuisce, comprensivo: - Sì, lavoro importante-. Tornando dalla moschea, entriamo in un locale tunisino per mangiare. Pure qui, né donne, né autoctoni. Piazza Tahrir è in televisione, nei discorsi delle persone, nell’aria, dappertutto, come l’odore forte di cibo e spezie. Mangiamo tanto a prezzi inverosimili. Nasser è rimasto molto sorpreso dallo scandalo delle primarie del Pd in Campania. Non pensava che “pure qua...”. Vorrebbe girare un documentario, ha già in mente il titolo, “Il paradiso che ti aspetti”. -Quando parti per l’Italia- dice -sai che troverai soldi, una donna bionda, un bel lavoro, poi arrivi e niente è come te lo aspettavi-. I volantini sono quasi finiti. Lasciamo quelli rimasti al ristorante. Ormai sono le tre passate. Torno a casa sotto la pioggia, tra i negozi scintillanti e tutti uguali del Rettifilo, alias Corso Umberto, e penso all’Italia - qui non sarebbe possibile una cosa come nel mondo arabo, siete troppo divisi tra di voi - mi ha detto Nasser, poco fa. Al corteo di domani non ci saranno neanche cento persone. Più o meno altrettante parteciperanno a quello, contemporaneo, del “popolo Viola”. A casa trovo mia madre sulla porta, la tv accesa. - Hai sentito? - mi dice - Mubarak si è dimesso!-. Giulia Beatrice Filpi

|| 30 marzo 2011 || pagina 19 || www.ucuntu.org ||


SpubblicitĂ

Gianluca Costantini

|| 30 marzo 2011 || pagina 20 || www.ucuntu.org ||


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