Stars 'N' Stripes Finals Edition

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il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano TU TTO S UL L’ATTO FI NAL E D EL C A MP IO NA T O N B A

IL MON DO D I LEBR ON

L a ru b r i c a c h e s e gu i ra ’ T he C ho s en O ne f ino al l a s c el t a d ef i n i t i v a


50

BRYANT: ...IO SONO LEGGENDA...

Il viaggio attraverso le sette partite dell’Mvp delle Finali Nba che lo hanno portato definitivamente nel libri delle leggende assolute in maglia Lakers


NBA FINALS GAME FIVE

30-35

NBA FINALS GAME SIX

36-41

NBA FINALS GAME SEVEN

42-47 80

IL P ERS ON AGGIO BE N G OR DO N

Stars ‘N’ Stripes ideato da: scritto da:

Domenico Pezzella Alessandro delli Paoli

Bennedetto Giardina

Raffaele Valentino Nicolò Fiumi

Domenico Landolfo

Stefano Panza

Vincenzo Di Guida Guglielmo Bifulco

info, contatti e collaborazioni:

Lorenzo De Santis

domenicopezzella@hotmail.it

NBA FINA LS GAME ONE

6-11

NBA FIN ALS GAME TWO

12-17

NBA FIN ALS GAME THREE

18-23

NBA FINALS G A ME FO UR

24-29

NBA FINALS RAY ALLEN

5 56 6

NBA FINALS RAJON RONDO

64

NBA FINALS DOC R IV ER S

7 70 0

NBA FINAL S P HIL JACKSON

7 72 2

NBA FINAL S D EREK FISHER

6 60 0

ROOKIE TIME STEPHEN CURRY

7 76 6

NBA FINAL S A RT ES T V S PIERCE

6 68 8

L’ANALISI CA RON BUTLER

8 82 2


4

S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S


Fonte foto: http://www.facebook.com/#!/photo.php?pid=4398380&id=8245623462&fbid=404581453462

S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

5


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

6

Il primo colpo è dei Lakers

NBA FINALS ‘GAME ONE’

S TEFANO TEFANO PANZA ANZA DI

C’è una statistica piuttosto singolare, e forse un po’ inquietante – almeno per tutti quelli che incrociano il coach dei Lakers sulla propria strada: nelle 47 occasioni in cui una squadra allenata da Phil Jackson ha vinto gara 1 di una serie playoff, 47 volte ha portato a casa la serie stessa. Boston ovviamente non dovrà credere alla scaramanzia, o meglio alla bravura di coach Zen, perché ci sono altre sei gare per ribaltare quella che è stata a tutti gli effetti una débacle senza scusanti.Boston ha però bisogno di una svolta. I Celtics visti alla prima uscita allo Staples non hanno nulla della squadra che lotta per il titolo. Lenti, impacciati, distratti, con Kevin

TEAM STAT COMPARISON

B OS TON @ L OS A NGEL ES

P OINT S 89 FG 29- 67 (.433) 3P 1- 10 (.100) FT 30- 36 (.833) REB. 8-31 ASSISTS 19 T URNOV ERS 1 4 STEALS 5 B LOC KS 5 FAST BREAK 5 F OUL S 2 8 (2/ 0) LARGEST LEAD 2

102 37-76 (. 487) 4-10 (. 400) 24-31 (. 774) 12-42 18 15 6 7 12 26 (1/0) 20

Garnett emblema della serata della sua squadra dopo una prestazione senz’altro tra le peggiori in carriera.I campioni in carica si sono dimostrato superiori in tutto: mentalità, schemi, grinta, oltre ovviamente alle singole giocate. Le cifre finali testimoniano il divario espresso dalle due squadre. I Lakers stravincono il confronto a rimbalzo (42-31, 14 solo di uno strepitoso Gasol) e al tiro (48.7%-43.3%), specialmente dall’arco (4/10-1/10). La partita è estremamente sentita da ambo le parti non solo perché ci si gioca il titolo 2010, ma anche perché sono di fronte le due squadre più titolate della lega (17 trionfi per i Lakers,

15 per i Celtics) ed i Lakers, storicamente vittime sacrificali dei bianco verdi nelle Finals, devono riscattare la bruciante sconfitta di due anni fa, quando i nuovi Celtics dei Big Three trafissero senza appello i gialloviola. Storie tese, però, anche tra i giocatori in campo, e come non citare Artest e Pierce, un confronto fatto di storici duelli, fatti di pantaloncini calati, sfottò televisivi fino ad arrivare alle recenti bizze già prima della palla a due nell’ultima sfida di regular season.Stavolta per vedere la prima battaglia tra i due abbiamo dovuto aspettare 27 secondi, quando in un’azione di rimbalzo Pierce e Artest mettono in


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

scena una presa da fare invidia ai migliori lottatori di sumo. Un tecnico a testa, e match infuocato già dalle primissime battute. Anche per gli arbitri c’è moltissimo da fare: il primo quarto è un costellato di interruzioni, al punto che dopo pochi minuti a Tony Allen sono già stati fischiati tre falli, uno in più del suo omonimo Ray. Sull’altra sponda, tre infrazioni per Lamar Odom all’inizio del secondo quarto. Anche per questo l’ex Heat sarà poco utilizzato da coach Jackson nel corso della gara.C’è Kobe Bryant sulle orme di Rajon Rondo per cercare di limitare il funambolico numero 9 dei Celtics, ma questo significa che il non freschissimo Fisher è dirottato su Ray Allen il quale, falli a parte, è uno dei primi ad entrare in partita per i suoi. Grazie anche ai problemi di marcatura dei Lakers, dunque, Boston riesce comunque a restare agganciata nel primo quarto nonostante una evidente inferiorità sotto canestro.È nella fase centrale della partita, però, che i Lakers mettono la freccia. Artest inizia a prendere seriamente le misure su

7

uno spento Pierce, Gasol e Bynum annientano su entrambi i lati del campo un irriconoscibile Garnett ed un Perkins mai entrato in partita. Bryant si avvia verso l’ennesima partita di questi playoff con almeno 30 punti segnati. Stavolta, però, poche triple e pochi piazzati: lavora in penetrazione, annichilendo ogni tentativo di raddoppio e di cambio mettendo in crisi il sistema difensivo ospite che tanto bene aveva retto in questi playoff anche contro avversari validissimo come Cavs e Magic. Con i Celtics completamente nel pallone, è uno scherzo per i campioni in carica allungare fino a 20 punti di vantaggio. Soltanto Rondo, per i biancoverdi, prova a cambiare l’inerzia della gara con i suoi soliti lampi. Tuttavia neanche un suo canestro da tre allo cadere del primo tempo riesce a risvegliare la proverbiale aggressività dei suoi compagni. Anche Wallace è sembrato subito in partita, ma coach Rivers lo ha tenuto in panchina per una trentina di minuti, forse un po’ troppi. Gli ha invece preferito un Kevin Garnett che, come detto, è sembrato davvero un pesce fuor d’acqua. Ha del clamoroso il mancato alley-oop nel quarto quarto, in cui anzichè schiacciare si è fatto sfuggire il pallone dalle mani come fosse sabbia. Gasol, davvero in versione extralusso, non ha concesso nulla al numero 5 avversario, ridicolizzandolo più di una volta. Gli opinionisti si sono scatenati sul confronto tra i due, etichettandolo come uno scontro tra il miglior lungo del passato e il miglior lungo del presente – e del futuro, hanno aggiunto altri. E poi c’è stato lui. Il Mamba, decisivo come sempre quando conta. 30 punti, molti dei quali nelle fasi decisive dell’incontro. È soprattutto lui che ha scavato il solco tra le due squadre. Decisivo anche in marcatura: quando è rimasto su Ray Allen, quest’ultimo non ha avuto sbocchi. Insomma, l’MVP di gara 1 è il numero 24, ben spalleggiato dallo spagnolo. Il primo passo è dunque compiuto per i campioni in carica e, stando alla statistica citata in apertura su Phil Jackson, è un passo molto lungo.


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

8

Game One press room

NBA FINALS ‘GAME ONE’

S TEFANO TEFANO PANZA ANZA DI

Paul Pierce: «Era strana l’atmosfera che si respirava negli spogliatoi dopo la partita. Alcuni di noi erano arrabbiati, e non l’hanno nascosto. I Lakers hanno spinto molto e ci hanno messo in ginocchio stasera. Loro sono una delle migliori squadre a rimbalzo di tutta la NBA. Noi dobbiamo fare molto meglio in questo senso, non concedendo facili opportunità. Ho guardato in alto e mi sono accorto che avevamo concesso più di 100 punti, ed era un po’ che non lo facevamo»

PAUL PIERCE Rajon Rondo: «Hanno fatto un gran lavoro difensivo in transizione. Si sono sempre chiusi bene quando cercavo di entrare in area, ma hanno difeso bene un po’ ovunque».

RAJON RONDO Rivers: «La nostra difesa stasera è’ stata pessima. Rispetto a due anni fa Gasol è più aggressivo. Per me è stato il migliore in campo. Penso che i Lakers siano stati molto più fisici di noi oggi. Sono stati più aggressivi, hanno attaccato tutta la partita. Penso che siano stati bravissimi in questo senso. Noi abbiamo giocato molto male, ma nonostante questo abbiamo avuto delle opportunità per tornare in partita»

DOC RIVERS


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

9

T o n y A l l e n : «Non avevamo quello spirito che abbiamo avuto fin qui nei playoff. Sono stati superiori in tutto stasera. Non abbiamo reagito bene alle prime avvisaglie in campo».

TTO ON NY Y A ALLLLEEN N

Bryant: «Partire bene è assolutamente la chiave. Gara 1 vuoi sempre vincerla. Adesso però c’è gara 2 e vogliamo vincere anche quella, e così via. La cosa importante alla fine è vincere la serie. La giocata di Ron su Glen Davis, quando i Celtics erano in rimonta, è stata importantissima per noi. È lui che ci detta il ritmo difensivo».

KOBE BRYANT

Jackson: «La gara successiva diventa sempre la più importante, è così che funziona. Tuttavia, questa partita è quella che dà una direzione alla serie, e questo è fondamentale».

Odom: «Penso che la gente a volte si dimentichi di quanto siamo forti in difesa».

PHIL JACKSON


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

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Il primo morso del ‘Mamba’

DI

Sono solo otto i giri di lancette che coach Phil Jackson gli concede come cambio degli esterni da mettere su lle p ist e d i Ray Allen. Finito indietro nel le rotaz ion i.

sv

RON ARTESR

7

8

Uno dei pochi a non avere sull e spalle quel fardello della sconfitta nel 2008 L’arma in più ris petto a due anni fa. Alla fine della serata sono 10 punti soli , ma una presenza fastidiosissima per i Cel tics.

6,5

E’ stato chiamato e voluto principalmente da Bryant per questo. Vince il primo confronto personale con Paul Pierce. Lo limita soprattutto nelle fasi decisive del match. Da copertina una giocata difensiva su Glen Davis.

Non decisi vo come in altre occasioni. Non è stato necess ario il suo apporto anche a causa dei troppi fal li i n apertura che ne hanno li mitato l’apporto. Insomma quel lo che fa basta ed avanza ai Lakers per portare a casa il success o.

I suoi Lakers sono in palla fin da subito. Neutralizza tutte le bocche da fuoco avversarie e crea un dominio sotto canestro che si rivelerà vinc en t e.

6

7,5

J.FARMAR, S.BROWN

SASHA VUJACIC

7,5

Continua la sua s triscia di partite con 30 punti o più. Onnipresente e deci sivo nei momenti più importanti. Da la svolta che fa pendere l’ago della bilancia dallaparte dei suoi Lakers , semplicemente: ‘Black Ma mb a ’ .

LAMAR ODOM

Ennesima doppia doppia per il catalano campione del mondo in carica, giocate fondamentali sia in attacco dove la tecnica resta sopraffinache in difesa. È chiaramente una spanna sopra gli altri, e non solo fisicamente.

KOBE BRYANT

6,5

ANDREW BYNUM

Quando l’esperienza ed il fatto di aver già vissuto certi momento contano per davvero. Nelle partite che contano il suo livello di gioco cresce esponenzialmente. Non ha la freschezza di un tempo, ma fa sempre la gioc at a giu st a.

PHIL JACKSON

PAU GASOL

DEREK FISHER

S TEFANO TEFANO PANZA ANZA

6-6

Alcuni canestri in momenti importanti. Sempre una garanzia dal pino. Farmar, invece, svolge il compito assegnatogli da coach Jackson. Ha risolto alcune situazioni spinose in attacco.


STAR S ‘N’ STR I PES

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Irriconoscibile Garnett

Tredici minuti, ma bastono ed avanzono per considerare rivedibile, tanto per usare un eufemismo, la sua prima apparizione in assoluto ina una partita di Finale. Zero punti e poi il nulla.

4

Inconcludente. Perde nettamente il duello con il pari ruolo e non sorprendentis simo Andrew Bynum. I 3 soli rimbalzi arpionati testimoniano le difficoltà patite sotto canestro da parte del talento proveniente dall’Hi gh Scholl.

5

RASHEED WALLACE

4

6

5,5

KENDRICK PERKINS

Dire spettarore non pagante è dire poco. Praticamente inesistente per tutto il match in cui ha letteralmente faticato prima di tutto dal punto di vista fisico. Non era lui. Si trattava chiaramente di un impostore con la casacca verde numero 5.

Praticamente inesistente nel secondo e terzo quarto, quando cioè i Lakers hanno vinto la partita. I punti vanno pesati, ed i 24 del capitano bianco verde non contano nulla. Visto che sono arrivata in gran parte nella fase finale.

A tratti sembrava il miglior Wallace, quello degli eventi importanti. Riverso lo butta in campo per provare a vedere sei può cavare un ragno dal buco o il classico coni glio dal cilindro. Peccato che s i a r i ma s t o i n campo cos ì poco.

Sembra parad ossale, ma nell'erordio della Finals i suoi Celtics sembravano avere la testa altrove. N o n è r i u s ci t o a t ro v a r e co n t ro m i s u r e a d e g u a t e allo strapotere di Bryant (ma qui è in buona comp agn ia ) e G as ol.

6

5

GLEN DAVIS, TONY ALLEN

6,5

La faccia faceva presagire tuoni e fulmini specie dopo quanto fatto vedere durante tutte le s erie precedenti. Bri llante l’avvio di He got Game, che però crol la alla distanza come il resto del la squadra prestando il fianco ai Lakers.

PAUL PIERCE

RAY ALLEN

Sembra quas i un paradosso dirl o, ma non c’è altra strada. Il numero 9 è più lucido dei suoi, come avviene un po’ troppo spes so da un po’ di tempo a questa parte. È l’unico a tentare di dare la sve glia ai c o mp a g n i , m a è m ale a ssist it o.

DOC RIVERS

NATE ROBINSON

KEVIN GARNETT

RAJON RONDO

NBA FINALS: Le pagelle

Per quanto riguarda il numero 42, dopo aver messo in tasca il nomignolo di ‘Lebron Stopper’ viene catapultato sul parquet con l’unico scopo di limitare Kobe. Rimandato. Un Big Baby sotto totno. Letteralmente dominato sotto canestro. Mai come in questa occasione si è sentita la mancanza di qualche centimetro in più.

5-5


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

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Ray Allen: simply The Best

NBA FINALS ‘GAME TWO’

N ICOLÒ ICOLÒ F IUMI IUMI DI

Attendevamo le scintille. E scintille furono. Gara 2 delle Finals 2010 si rivela una delle partite più belle, strane e appassionanti degli ultimi anni. Abbiamo visto di tutto. Kobe limitato a soli 34 minuti in campo dai falli, il record di triple di Ray Allen, 13 stoppate della coppia Bynum-Gasol, la tripla doppia di Rondo, l’impatto a sorpresa di Nate Robinson e le difficoltà persistenti di Kevin Garnett. In mezzo momenti di basket di altissimo livello. Le uscite dai blocchi di clamorosa pulizia tecnica e abbacinante bellezza di Ray Allen portano in dote 7 triple e 27 punti nel solo primo tempo, e si accompagnano a vantaggi in doppia cifra Celtici, con i Lakers che devono fare i conti con i tre falli molto prematuri di Kobe Bryant. Gasol e Bynum controllano il pitturato, ma senza il Mamba l’attacco dei giallo

TEAM STAT COMPARISON

B OS T ON @ L OS A NGEL E S

viola non gira. Un lampo del 24 però, con tripla pazzesca susseguente a un recupero a metà campo dopo un apertura sciagurata del povero Shelden Wiliams, infiamma nuovamente l’ambiente e a cavallo tra i due quarti centrali i Lakers sembrano riprendere in mano la partita. La premiata ditta Bryant – Gasol mette nel referto della partita un 16-2 di parziale che riporta avanti i padroni di casa, prima che il 4° fallo fermi di nuovo Bryant e forse anche i destini scritti della serie. Boston non perde l’occasione e anche il fato ci mette il suo (tripla di Rondo sulla sirena dei 24’’) per non far perdere agli uomini di Rivers la coincidenza col treno per rimanere aggrappati alla serie. Gasol risponde a Pierce e Wallace, mentre Allen riscrive il record di canestri dalla lunga distanza per una gara di Finale, e si entra

negli ultimi 12’ in parità. Ti aspetti i Bryant, i Gasol, i Pierce o i Garnett della situazione e, invece, per 6 lunghissimi minuti il proscenio se lo prende Nate Robinson. The Gadget, eroe di gara 6 contro Orlando, entra in partita per la prima volta all’inizio dell’ultimo periodo e segna 7 punti più preziosi dell’ossigeno, anche perché intanto Kobe, che sembra aver ritrovato il feeling col canestro, commette il 5° fallo, e, gioco forza, deve passare qualche minuto extra in panchina. I Lakers sono comunque in vantaggio, 90-87, a 5:20 dalla fine, ma a questo punto esce il cuore, il talento e l’esperienza di un gruppo come i Celtics, guidati però dal più giovane di tutti. Rajon Rondo segna 4 punti consecutivi per il sorpasso, Garnett lo imita segnando e assistendo Perkins, in mezzo altri due punti del numero 9 in bian-

POI NTS 103 FG 36 -8 4 ( .4 29 ) 3P 11-16 ( .688) FT 20 -2 6 ( .7 69 ) REB . 13-44 ASS IS T S 28 TU R N OV E RS 14 ST EAL S 6 BLOCKS 3 FA S T BREAK P. 11 FOUL S 29 ( 0 /0 ) LARGEST LEAD 14

94 29-71 (. 408) 5- 22 ( .227) 31-41 (. 756) 10-39 18 15 8 14 4 29 ( 0/ 0) 5


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

co verde. 10-0 Boston nel momento cruciale e più difficile. Il destino della partita, questa volta, è segnato e incontrovertibile. Boston è viva e vegeta, alla faccia dei detrattori. 1 a 1 e palla al centro per 3 partite nell’inferno del Boston Garden. LE CHIAVI DELLA PARTITA ATTACCARE IL MAMBA – Il primo aggiustamento che hanno proposto i Celtics per impattare la serie dopo una gara 1 che li aveva visti troppo passivi è stato quello di attaccare molto di più e con maggiore costanza Kobe Bryant. Ancora una volta il 24 è partito in difesa su Rajon Rondo, al quale Kobe può concedersi di lasciare due o tre metri viste le scarse propensioni del playmaker di Boston al tiro da fuori. Questa volta, però, Rondo non si è limitato ad accettare la situazione, ma ha attaccato il ferro lo stesso, nonostante gli spazi, costringendo Bryant e spendere falli e energie anche in difesa. La situazione, poi, è cambiata di poco quando Bryant è stato dirottato sull’indemoniato Ray Allen. La conseguenza è stata una minore lucidità sul campo del leader dei Lakers, innervosito dai falli precoci, da un trattamento arbitrale cui non è abituato ad essere soggetto e da Boston in serata di grazia al tiro. Kobe ha finito per sbagliare parecchio al tiro e, forzando alcune situazione situazioni in attacco, per commettere due falli offensivi molto pesanti, subendo la difesa di Tony Allen e le rotazioni difensive dei lunghi avversari. IT’S ALL ABOUT MAKING SHOTS – Prendete i tabellini di Boston

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in gara 1 e gara 2 e trovate la prima differenza lampante. Qualcuno ha detto la percentuale al tiro da 3? 1/10 nei primi 48’ minuti della serie, 11/16 nel secondo atto. Al netto sono 30 punti di differenza. Certo la prestazione balistica di Ray Allen ha influito non poco su questo dato, e al conto và aggiunto anche un canestro fortunoso di Rondo. Ma quando i Celtics sono così pericolosi da dietro la linea del tiro pesante la musica cambia parecchio. Le difficoltà dei lunghi bianco verdi sotto il canestro avversario sono state lampanti. Davis non ha i centimetri, Garnett, come sentenziato dopo gara 1 da Gasol, le gambe di una volta, mentre Wallace viene centellinato nel suo utilizzo. Perkins è stato positivo, ma da solo può poco. Bynum e Gasol hanno allungato stoppate a mò di veloci pallavolistiche e a quel punto le alte percentuali da 3 punti hanno permesso agli uomini di Doc Rivers di comandare una partita che, altrimenti, avrebbe preso altre pieghe. RITMO, RITMO, RITMO - Come cambiano i tempi. Due anni fa i Celtics erano la squadra dei Big Three, Pierce, Allen e Garnett. I giovani Rondo e Perkins dovevano solo stare dietro a loro, senza uscire troppo dallo spartito. Oggi, invece, la situazione si è ribaltata. Se in attacco la front line di Boston ha faticato, sotto i propri tabelloni, invece, ha fatto un lavoro egregio controllando il 75% dei palloni disponibili (contro solo il 60% da parte dei Lakers). In questo modo Rondo ha avuto più palloni a disposizione per far correre la squadra. Se due anni fa i Celtics erano un gruppo predicato sull’attacco a metà campo, oggi acquistano quel quid in più quando il proprio playmaker può scatenare i cavalli in contropiede. Da lì sono nati punti facili e diverse triple di Allen. LAMAR DOVE SEI? – Seconda partita enigmatica di Lamar Odom, che dopo i 5 punti in 21 minuti di gara 1, riesce nell’impresa di far peggio , con 3 punti e soli 14 minuti di impiego. L’andamento di Odom è una delle discriminanti principali del gioco dei Lakers. Se dalla panchina l’ex Miami Heat entra con costanza di rendimento come fatto contro i Suns (14 punti e 12 rimbalzi di media), allora i Lakers sono una squadra semi imbattibile. Se invece, al campo, si presenta in versione spettatore non pagante allora sono dolori, perché Phil Jackson perde l’unico vero punto di riferimento di una panchina che, per il resto, dispone di giocatori che entrano solo per dare minuti di riposo ai titolari e difficilmente possono girare una partita a questi livelli.


S TAR S ‘N’ STR I PES

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Game T wo press room

NBA FINALS ‘GAME TWO’

«Ray Allen ha avuto una grande serata, ma bisogna anche dire che il metro arbitrale lo ha favorito. Gli è stato concesso di mettere le mani addosso al difensore per creare separazione prima di arrivare sui blocchi. In questo modo Derek (Fisher) non ha mai potuto realmente difendere su di lui e, anzi, talvolta si è visto fischiare contro dei falli. Ora dobbiamo vedere quale sarà il metro arbitrale nel resto della serie, perché se il difensore non può seguirlo o tagliare i blocchi allora Allen può diventare inarrestabile. Non sono contento delle chiamate arbitrali. Ci sono stati fischi inusuali. Kobe ha provato a giocare in maniera aggressiva, a guadagnarsi dei falli. Ha dovuto limitare il suo gioco un po’, perché c’era sempre un difensore pronto a prendere sfondamento e questo ha reso la partita ancora più complessa la partita».

KOBE BRYANT «In gara 1 avevo faticato in attacco, quindi mi aspettavo di avere tiri aperti, con spazio. Ma è stato in difesa che abbiamo fatto un grande lavoro. Nel primo tempo Ray (Allen) ci ha sorretti con le triple, poi abbiamo avuto un passaggio a vuoto nel secondo tempo, ma non ci siamo disuniti. Siamo stati molto più pronti e duri mentalmente, non abbiamo mai accettato di smettere di lottare e abbiamo giocato una grande partita di squadra»

N ICOLO ICOLO’ F IUMI IUMI DI

PHIL JACKSON «Abbiamo fatto un grande sforzo per tornare in partita, e quando ci siamo riusciti, l’abbiamo lasciata scappare un’altra volta. La chiave sono state le palle perse. Continueremo a giocare la palla sotto canestro, ma non possiamo permetterci di subire tutti quei punti in contropiede. Per quanto riguarda gli arbitri, uno non deve pensarci. Devi solo pensare a giocare la tua partita e passare sopra ai fischi. E anche come squadra dobbiamo essere bravi ora a non abbatterci per la sconfitta, come dovremo essere bravi a non esaltarci troppo per una vittoria in futuro».

RAJON RONDO


STAR S ‘N’ STR I PES

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«Giocare con il tuo miglior giocatore con problemi di falli può essere pericoloso, perché mette in difficoltà la squadra sotto diversi punti di vista. Lui ha provato a giocare nonostante i falli, ma ovviamente è stato limitato nel suo gioco e nei minuti che ha potuto passare in campo».

PAU GASOL «Non ci possono essere posti o momenti migliori per vincere una partita e farlo in questo modo. Ancora non so bene quale sia il record, ma è davvero esaltante sapere di averlo fatto qua, in occasione delle Finali. E’ assolutamente il nostro momento. Molti magari non si rendono conto di come faccio a liberarmi per arrivare al tiro da 3, ma dietro c’è un lavoro enorme. Prendere il blocco posizionato al punto giusto, disorientare il difensore con delle finte. Credo che la loro difesa abbia fatto il possibile per impedirmi di tirare, ma noi abbiamo lavorato senza sosta per creare quei tiri».

DOC RIVERS

RAY ALLEN «Nel momento in cui Ray (Allen) è entrato in ritmo tutta la squadra lo ha cercato. Primo fra tutti Rajon (Rondo). Ci siamo detti che dovevamo fermarli in difesa, fermare tutte le opzioni del loro attacco, non solo una, per poter andare in contropiede. A quel punto Rondo è molto bravo a trovare Ray e così ha fatto permettendogli di tirare libero e in ritmo da 3 punti. Avevamo bisogno di punti visti i problemi di Garnett e Pierce, e Allen ce li ha dati. E’ la seconda partita consecutiva in cui abbiamo problemi di falli. Garnett ha giocato solo 6 minuti nel primo tempo, ma abbiamo chiuso comunque in vantaggio. Ed è stato frutto di un grande sforzo, perché per noi è difficile prendere ritmo in attacco quando i nostri lunghi hanno problemi di falli. Abbiamo una rotazione predeterminata, ed è due partita che salta dopo pochi minuti per via dei falli. Rasheed, nonostante i problemi alla schiena, e Baby (Davis) sono stati fondamentali. Ho sentito che i ragazzi in panchina parlavano dei problemi di falli di Kobe Bryant. Ho detto loro di pensare solo al nostro attacco e di non curarsi di queste cose. Quando cominci a giocare per far spendere un fallo a un giocatore finisci per fermare la palla, interrompere la circolazione. Così non segni e nemmeno ottieni falli. Certo, ci avrebbe fatto comodo il suo 6° fallo, ma non volevo modificare il nostro attacco solo in funzione di quello».


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

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Odom è un ‘desaparecidos’

DI

But tato nella mischia all’inizio del qua rto periodo per non perdere di vista Ray Allen, t r o v a a nc he i l t e m po pe r una tripla e un rimba l z o i n a t t a c co con assists per Farmar. Utile a piccole do s i .

6,5

RON ARTESR

5

5,5

Senza ogni dubbio la sua miglior partita a livello di Finali NBA, forse una delle sue migliori in carriera, al di là delle cifre, per la maturità con cui sta campo e chiude ogni varco in difesa provando anche a mettere qualche pezza sul perimetro.

7,5

Sarebbe da sufficienza per il clamoroso lavoro difensivo che toglie completamente dalla partita Paul Pierce. Peccato che ci sia anche l’attacco. Dove arriva un 1/10 al tiro, 3 palle perse e una serie di decisioni che nemmeno gli stregoni Maya avrebbero potuto decriptare.

Fratello dove sei??? La sens azione che alle prime due parti te sia arrivato suo fratello gemello è forte. Come si fa a trasformarsi da giocatore da doppia doppia e ectoplasma nel breve volgere di una decina d i gior n i lo sà s olo lu i.

Subisce Ray Allen per tutto il pri mo tempo, trovando un rimedi o s olo quando He Got Game ha già mes so 27 punti in saccoccia e poi deve fare l’acrobata con le rotazioni: i falli di Bryant e Bynum e la pres tazione imbarazzante di Odom non gli rendono il compito più semplice.

4

5,5

J.FARMAR, S.BROWN

SASHA VUJACIC

7,5

Quasi un atto di lesa maestà un insufficienza , ma in questa gara 2 ci capisce pochino, almeno per i suoi standard. Inizia giocando per i compagni, poi sbatte contro i falli e le difesa dei Celtics. Si innervosisce. Rientra, ma commette 4° e 5° in un amen partita. Per una volta esce sconfitto su tutto il fronte.

LAMAR ODOM

Altra carne al fuoco per chi lo vuole insignire del titolo di lungo più forte al mondo. Con una semplicità spaventosa mette a referto 25 punti, 8 rimbalzi e 6 stoppate. Dopo due partite ha surclassato, dentro e fuori dal campo, Kevin Garnett, alla faccia di chi lo considerava un giocatore “soft”.

KOBE BRYANT

5

ANDREW BYNUM

Brutalizzato da Ray Allen che se lo porta a spasso sui blocchi per tutto il primo tempo. In attacco non ha la stessa vena realizzativa di gara 1 (2/8 dal campo), prova allora a sbattersi a rimbalzo, ma alla lunga non riesce mai a trovare il modo di dare una scossa decisiva.

PHIL JACKSON

PAU GASOL

DEREK FISHER

N IIC CO OL LO O’ F I IU UM MI I

Come detto, tolto Odom, i Lakers non hanno giocatori che possono cambiare la partita uscendo dalla panchina. Da qui, però, al quarto d’ora da comparsa di Brown ce ne passa. Jordan Farmar . Onesto lavoro da comprimario. Dirige il traffico discretamente e trova anche la retina in 3 occasioni. La sua gara 2 finisce nel momento in cui subisce i 5 minuti di follia di Robinson.

5-6


STAR S ‘N’ STR I PES

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‘He got Game’ una furia

6 minuti di follia agonistica, come solo Nate The Great ci può regalare. Il giocatore che centra meno di tutti con questi livelli, entra nel quarto periodo e segna da 3, in contropiede e dai liberi. Poi torna a sedersi, perché Rivers ha già rischiato l’infarto troppe volte.

7

Partita di estrema solidità per Perk che si ritrova a lottare quasi solo contro le lunghe leve di Bynum e Gasol. Riesce ad essere sempre pungente in attacco, senza far mancare di imporre la sua stazza nel pitturato. Un segnale molto positivo per Doc Rivers.

7

RASHEED WALLACE

5

5,5

8

KENDRICK PERKINS

Vedere vacillare in questo modo un giocatore della sua durezza mentale e fisica fà un certo effetto. Lo scontro diretto con Gasol è impietoso, lui è il primo a rendersene conto mentre i falli lo perseguitano e le gambe non lo assistono. Di talento segna due punti importanti nel finale per il resto è sofferenza pura.

La cura Artest lo destabilizza e in attacco gioca una partita con cifre apocalittiche (2/11 al tiro). Però riesce sempre a non scomporsi, a non uscire con la testa dalla partita. E’ capace così di guadagnare falli e tiri liberi importanti, mentre chi è più in serata di lui mette i cesti che impattano la serie.

Con lui in campo Boston è a +15. Fino a gara 2 si è visto il vero Rasheed Wallace, quello che fa ancora l a differenza nonostante l’età. Rivers nei final i continua a preferirgli Davis e Garnett, però. Mistero.

7

Mostruosa la preparazione a questa partita. A 72 ore da una gara 1 dove i suoi erano stati surclassati rigenera una squadra dove Pierce e Garnett sono comunque ancora in difficoltà. Beneficia delle seratone di Ray Allen e Rajon Rondo, ma tiene comunque fuori dalla partita Kobe Bryant, oltre a ruotare molto bene i lunghi, limitando il gap in pitturato nonostante i problemi di falli. Il time out chiamato per evitare una pericolosa infrazione di 8 secondi al suo playmaker, sul finire della partita con i Lakers ancora a contatto, è la ciliegina sulla torta di una serata perfetta.

7,5

G. DAVIS, T.ALLEN, S.WILLIAMS

9

Come le triple mandate a segno (su 11 tentativi), record assoluto per le Finals, meglio anche di sua Maestà MJ, che fa tornare in mente nella serie contro i Blazers dopo il 7/7 con cui apre le danze e indirizza la partita. Nel secondo tempo la difesa gli prende le misure e segna solo 5 punti, ma ormai il grosso del lavoro è fatto.

PAUL PIERCE

RAY ALLEN

Immenso. Per spiegare le dimensioni della sua prestazione basta aggiungere che il suo 19+12+10 è solo una parte di quello che fa in campo. Tiene in piedi Boston nei momenti di difficoltà, in apertura di partita e a cavallo tra secondo e terzo quarto. Arma la mano torrida di Allen nel secondo periodo e finisce col segnare i canestri della staffa nel break decisivo.

DOC RIVERS

NATE ROBINSON

KEVIN GARNETT

RAJON RONDO

NBA FINALS: Le pagelle

Tony Allen 6 – Super lavoro su Kobe Bryant. Sa che il suo compito è quello, entra e lo fa diligentemente, ringhiando come un mastino sul 24. Gli arbitri lo aiutano un po’. In attacco cerca di non scalpellare. Glen Davis 7 – Se solo potessi avere 10 centimetri in più! Lotta come un leone, in difesa è sempre nel posto giusto al momento giusto, ma quando si tirano le somme ti accorgi che madre natura è stata un po’ avara. E allora Gasol può segnargli in testa nonostante la difesa e divertirsi con Bynum a fargli stabilire il record di stoppate subite in una partita. Però… Però… Alla fine Boston vince, e bisogna dargli i meriti che gli spettano. Shelden Williams 4 – Più danni della grandine. Non ha neanche tutte le colpe. Entra a freddo in una serie impraticabile per il 99% del genere umano, ma le uniche cose che riesce a fare sono due falli, altrettante perse e un assists al contrario per la tripla di Kobe Bryant allo scadere del primo tempo.

6-7-4


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

18

Fisher espugna il Garden

NBA FINALS ‘GAME THREE’

V INCENZO INCENZO D I I G UIDA UIDA DI

Il primo pivot al game della serie è dei Los Angeles Lakers. L’urlo di Kevin Garnett in presentazione non ha spaventato i Lakers, che grazie all’eroismo di Fisher, sbancano Boston e si riprendono il vantaggio nella serie. I Celtics traditi dal protagonista principale della vittoria in gara 2, Ray Allen, in una serata da incubo, chiusa con soli 2 punti un irreale 0/13 al tiro, si leccano le ferite e preparano la riscossa in gara -4 che si annuncia decisiva per gli equilibri della serie. 1° quarto. L’inizio è tutto di Kevin Garnett. Il leone biancoverde aggredisce la partita e i Lakers, spazzando via con 6 punti di fila gli incubi delle due gare losangeline. Gli ospiti faticano inizialmente a recupera-

TEAM STAT COMPARISON

LOS ANGE LE S @ BOS TON

P OINT S 91 84 FG 34- 76 (.447) 32-73 (.438) 3P 2-15 ( .133) 4-18 ( .222) FT 21- 24 (.875) 16-24 (.667) REB. 11- 43 8-35 ASSISTS 13 20 T U RNOV ERS 9 10 STEALS 2 4 B LOC KS 7 2 FAST BREAK P. 8 12 F OUL S 20 (0/ 0) 27 ( 0/0) LARGEST LEAD 1 7 7

re lo svantaggio, ma riescono comunque ad avvicinarsi a metà primo quarto fino a portarsi in vantaggio grazie ad un parziale 8-0 firmato Bryant e Gasol. Nei minuti finali i Lakers riescono anche ad allungare con le seconde linee, e nell'ultimo minuto sono Shannon Brown e Lamar Odom a costruire un mini parziale 5-0 che permette ai californiani di chiudere il primo quarto in vantaggio 26-17. I Lakers hanno dalla loro parte l’inerzia tecnica ed emotiva del match. Un altro parziale di 5-0 porta gli uomini di Phil Jackson sul +14. Boston continua a fare fatica. Si attende come una liberazione il primo canestro dal campo di Ray

Allen, che non arriva. Garnett non viene servito con continuità da Rondo e Pierce latita. Con l’orgoglio del Capitano (4 punti nel quarto) e l’energia di Big Baby Davis, i bianco verdi tornano con uno svantaggio al di sotto della doppia cifra (-8). Dall’altra parte Bryant forza troppo, ma riesce comunque a metterne quattro di fila e recuperandop alla grandissima un pallone serve Bynum, che segnerà i suoi ultimi punti nel match, porta i Lakers all'intervallo lungo sul +12. Al rientro in campo la musica non cambia. L’attacco dei Celtics è in fase di stallo (34% dal campo). Pierce con una grandiosa tripla prova a dare la scossa, Ray<Allen


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

segna i suoi unici due punti dalla lunetta, ma la difesa dei Lakers, gli assoli di Kobe e qualche pennellata di Lamar Odom tengono i Lakers avanti. Gli uomini di Jackson mantengono i 7 punti di vantaggio fino ai minuti conclusivi del quarto, quando Tony Allen e Rasheed Wallace (destatosi dal torpore) riescono a riportare Boston in linea di galleggiamento (61-65 al 35”). L’ultimo possesso del quarto è dei Lakers, che cercano un Gasol in post basso e il catalano li ripaga con un canestro da campione che vale il 61-67 alla fine del terzo periodo. Gli ultimi dodici giri di lancette sono d’intensità selvaggia. Boston da fondo a tutte le sue energie. Allen però proprio non c’è. Ci pensano Pierce, Garnett (indomito) e Rondo. In meno di tre minuti i ragazzi di Rivers si portano sul -1 (67-68), grazie anche al contributo di Davis. La rimonta sembrerebbe cosa fatta, ma i Celtics non avevano fatto i conti con Derek Fisher. Il veterano (11 punti sui 16 finali nell’ultimo quarto) gialloviola prima porta i Lakers sul + 6 (70-76) praticamente da solo, poi, dopo un'altra mini

19

rimonta dei Celtics griffata Garnett-Pierce, chiude il match in contropiede, dopo aver raccolto un rimbalzo figlio dell'ennesimo errore di Ray Allen. I liberi di Vujacic e Bryant (29 punti ma con 10/29 dal campo) mettono il sigillo definitivo a gara 3. Finisce 91-84, Los Angeles conduce 2-1. Focus on the court. Los Angeles. La palla passa in mano a Kobe. Deve coinvolgere di più i compagni, che si chiamino Derek Fisher, Ron Artest e soprattutto Pau Gasol. Il catalano però non deve incappare in quegli atteggiamenti da prima donna offesa, che azzoppano letteralmente i Lakers in particolare dal punto di vista difensivo. In gara -3 i Lakers hanno sofferto l’aggressività in vernice di Kevin Garnett. KG è stato troppo solo, ma se in gara -4 dovesse essere supportato da Perkins e da Wallace allora potrebbero iniziare i problemi. In difesa L.A. proverà ancora a togliere ritmo al duo Allen-Pierce, scoprendosi magari di più su Rondo (Kobe a tratti non lo guarda nemmeno), un rischio tutto sommato calcolato da Phil Jackson. L’impattto della panchina sinora è stato ondivago. Indiziato principale è Lamar Odom. Con lui in campo l’attacco a triangolo dei Lakers si sviluppa in modo molto più fluido. Per questo è mille altri motivi deve essere più aggressivo. Boston. Due assunti chiave. Finora è non si è visto il vero Pierce e in gara -2 Allen ha fatto solo danni. Se guardiamo l’altro lato della medaglia sono notizie positive. Prima o poi “The Truth” prenderà il proscenio e “He Got Game” tornerà ad essere il più grande tiratore della storia del gioco, magari non quello dell’8/11 da tre, ma neppure quello dello 0/13 dal campo di gara -3. Rondo deve coinvolgere di più Pierce, in particolare all’inizio dell’azione, prima che Artest gli prenda le misure. Rajon sta giocando ancora con le marce basse. Le non esaltanti percentuali ai liberi ne limitano l’esplosività in campo aperto. Rasheed dove sei? Wallace deve avere più impatto in attacco. In difesa è un professore della Sorbona che spiega Platone ai suoi studenti, ma con quel talento non può limitarsi solo a fugaci apparizioni dietro la linea dei tre punti. Last but not least, la difesa dei Celtics deve tornare quella di gara -2.


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

20

Game Three press room

NBA FINALS ‘GAME THREE’

V INCENZO INCENZO

DI

DI DI

G UIDA UIDA

Un uomo solo al comando. Derek Fisher è il protagonista assoluto di gara -3. «Nonostante la sconfitta subito in gara -2 eravamo convinti di poter venire a vincere su questo campo. Nel terzo quarto abbiamo cercato troppo spesso Kobe e non abbiamo mosso la palla bene, Boston così è riuscita a tornare sotto. Poi nell’ultimo periodo ho cercato di essere aggressivo, anche perché spesso loro mi concedevano qualcosa sul gioco a due con Bryant. Siamo contenti di questa vittoria ma sappiamo che ci sono cose che possiamo e dobbiamo migliorare, perché in gara-4 sicuramente anche loro giocheranno al loro massimo»

DEREK FISHER

KOBE BRYANT

Anche il 24 non può far altro che inchinarsi alla leadership di Fisher. «Lui è il nostro leader in campo e negli spogliatoi, ha sempre una parola d’incoraggiamento per tutti. Io, invece, sono l’opposto. La verità è che Fisher e l’unico compagno che ascolto veramente. Sono anni che giochiamo insieme e da lui accetto qualsiasi critica”. Kobe si sofferma sulla sua prestazione. “ Sono soddisfatto, nel terzo periodo ho forzato qualche tiro, ma volevo essere aggressivo. I miei compagni si sono fatti trovare pronti quando raddoppiavano su di me, l’attacco era più fluido e abbiamo preso tiri in ritmo e con fiducia».

Non certo una sorpresa la conferenza stampa del coach gialloviola che praticamente è quasi ermetico nel commentare la prova cinque stelle lusso del suo numero 2: «La chiave è stata l’approccio difensivo. Derek in attacco ha fatto la differenza nel quarto periodo, ma è da sottolineare in modo in cui ha tolto dalla partita Ray Allen. Qualcosa da rivedere sotto canestro. Stasera Garnett ci ha creato molti problemi».

PHIL JACKSON


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

21

KEVIN GARNETT Non poteva non partire da quello che è stato il bruciante risultato finale al TDBankNorth Garden di Boston, l’analisi di The Truth: «E’ una sconfitta che brucia, perché qui nel 2008 non avevamo mai vinto». Stuzzicato sulla frase pronunciata dopo gara -2, il Capitano risponde. «E’ un modo per caricare l’ambiente, tutto qua, ci state ricamando troppo sopra». Sulla sua prestazione ha invece le idee chiare. «Devo essere più aggressivo all’inizio dell’azione, ma anche i compagni devono cercarmi con maggiore frequenza».

The Big Ticket ha lasciato la sua brutta copia sul volo che lo ho portato via da Los Angeles dopo una brutta gara2. A Boston si è visto il vero Garnette, quello dominate del 2008. «In attacco ho trovato ritmo e fiducia, ma non è bastato a vincere. Preferisco molto di più giocare malissimo, come ho fatto in gara-2, ma vincere. Quella è l’unica cosa che conta. I Lakers conducono 21, ma sarà una serie molto lunga. Gli arbitri? No comment».

PAUL PIERCE

Difficile, davvero difficile il ruolo di Doc Rivers in sala stampa, visto che dopo un timido accenno a voler parlare solo ed esclusivamente della sfida in se per se e della sconfitta, sono arrivate inesorabili le domande su di una possibile spiegazione quanto meno plausibile su cosa fosse successo alla mano rovente di Allen in gara2 trasformatasi in ghiaccio puro a Boston: «Ci si aspettavamo dei Lakers aggressivi e così è stato. Noi non siamo stati da meno, ma in attacco qualcosa non ha funzionato. Abbiamo letto male certe situazioni, dovevamo insistere di più nel dare la palla in post a Kevin. Di certo era difficile immaginare un Allen da 0/13 dopo gara -2. Ray è un campione e sono sicuro che saprà reagire da par suo».

DOC RIVERS


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

22

DI

‘Impalpabile’ Ron Ar test

Scongelato da Jackson, prova a non pagare dazio in difesa su Pierce. In parte ci riesce, pi ù per demeriti di “The Truth”, che per meriti propri.

5,5

RON ARTESR

4,5

8

S f io r a la d o p p i a d op p ia ( 9 p u n t i e 1 0 r im b a lz i ) . At t i v a t o s o p r a t t u t t o a d i n i z io q u a r t o , d a u n ot t i m o c on t r ib u t o i n v e r n i c e . Po i l a s c i a sp a z i o a u n d e c is iv o L am a r O d o m.

6

Impalbabile. In attacco fa da comparsa (2 punti con 1-4). In difesa è “normale”. Non riesce mai ad entrare in partita e con lui in campo i Lakers fanno fatica (-12 di plus/minutes). Che ti succede Ron?

L ’ ag o d e ll a b i la n c ia d e i L a k e r s . Co n l u i i n c a m p o i g i al lo - vi o la g io c an o c o n b e n a l t r a f lu i d it à o f f e n s iv a. L am a r ve l ou s d is p u t a la p ar t i t a p e r f e t ta : 1 2 punti c on 5/ 5 d al c am p o . U n fa tto re.

I l m ae s t r o z e n n on s b a g li a u n a m os s a . I s u o i L a k e r s m u o va n o l a p a l l a in m od o d iv e r s o r i s p e t t o in g a r a - 2 , e i n d i f e s a a t r at t i s e m b r a n o i C e lt i c s .

7

8

J.FARMAR, S.BROWN

LUKE WALTON

6

24 è furente dopo lo smacco subito a Los Angeles in gara 2. Ne mette 29 (anche se con 10-29 dal campo), azzannando alla giugulare dei Celtics. Il Mamba è tornato più avvelenato di prima. Fossimo stati in Pierce (“Noi ad L.A. non ci torniamo”) avremmo usato più ritegno.

LAMAR ODOM

Non inganni la doppia doppia da 13 punti e 10 rimbalzi. Il catalano in attacco è un po’ ignorato dai compagni e da principe qual è, li ripaga con un atteggiamento soft in difesa. Garnett è indemoniato e lo domina letteralmente. Per portare a casa il titolo serve un altro Gasol.

KOBE BRYANT

8,5

ANDREW BYNUM

Una sola parola: immenso. Chiude con 16 punti a referto e nel quarto periodo il veterano gialloviola prima porta i Lakers sul + 6 praticamente da solo, poi, dopo un'altra mini rimonta dei Celtics griffata Garnett-Pierce, chiude il match in contropiede, dopo aver raccolto un rimbalzo figlio dell'ennesimo errore di Ray Allen.

PHIL JACKSON

PAU GASOL

DEREK FISHER

V INCENZO D I G UIDA

Shannon Brown 6. Dalla panchina prova ad alzare il ritmo e in parte ci riesce. Non è ancora ai livelli della serie Phoenix. Jordan Farmar 5.5. L’attacco a triangolo non è adatto al prodotto di Ucla. Relegato ormai ai margini della rotazione.

5,5-6


STAR S ‘N’ STR I PES

23

Il ritorno di Kevin Garnett

KryptoNate ha poco spazio, ma in quei cinque minuti prova a dare un po’ d’ossigeno all’asfittico attacco dei Celtics. Tony Allen 6.5. In attacco è essenziale per usare un eufemismo. Il suo lavoro in difesa, in particolare su Kobe è invece assolutamente strepitoso.

6

La suffici enza è per in lavoro che fa in difes a su Gasol e per la mole di rimbalzi catturati (11). Sol o due punti a referto con quattro tiri, deve e può fare di più.

6

RASHEED WALLACE

8

5,5

4,5

KENDRICK PERKINS

Dominante sui due lati del campo. Il vero KG si riscatta e spazza via gli incubi losangelini. Chiude con 25 punti (11/16 dal campo) e 6 rimbalzi. Un leone, peccato che alcuni suoi compagni sono scesi in campo nelle vesti di agnellini.

Il Capitano non incide. I suoi 15 punti (5/12 dal campo) sono troppo pochi, soprattutto perché Artest gli ha lasciato più spazio del solito, ma Double P non lo ha saputo sfruttare. La c o l pa è a nc he d i R o ndo c he l’ha cercato poco insistendo t r o ppo s u Allen.

Chiude con 2 punti e 4 rimbalzi in 18’. Con quel talento che si porta appres so è lecito attendersi di più. E’ l a f i n a l e Nb a Rasheed, non u n gar a d i prestazione.

Po c o d a i m p u t a r e a R i v e r s . I l p i a n o p a r t i t a è p e r f e t t o ma v i e n e t r a d i t o d a i ma g g i o r i i n t e r p r e t i . F o r s e l ’ u n i c a p e c c a è a v e r d a t o t r o p p o c a mp o a d u n R a y A l l e n i n s e r a t a d a i n c u b o . E m a g a r i q u a l c h e mi n u t i n o i n p i ù a S h e e d i n c e r t i f r a n g e n t i n o n f a r e b b e m a le .

5

6,5

GLEN DAVIS

5

Il fatturato di He Got Game: 2 punti con 0/13 dal campo (0/8 da tre) in 42”. A soli due giorni di distanza dalla clamorosa prestazione di gara -2 (32 punti, 8/11 nelle triple). La difesa dei Lakers è cambiata, ma non basta a spiegare una partita del genere. Speriamo sia solo un episodio.

PAUL PIERCE

RAY ALLEN

C h i n on av e s se vi st o l a p ar t i t a, le g g e le st a t s e v e d e : 1 1 p u n t i e 8 as si st . B e n e . A n z i m a l e . Ra j o n s i è f a t t o s c h e r z a r e d a l ve t e r a n o F is h e r . L a s u a n on d i f e sa è st a t a a t r a t t i a l lu c i n an t e .

DOC RIVERS

NATE ROBINSON

KEVIN GARNETT

RAJON RONDO

NBA FINALS: Le pagelle

B ig B a b y e s c e d a ll a p an c h in a e p or t a i n d o t e ag gr e s s iv it à e b e n 1 2 p u n t i , c h e n e ll ’ e c o n om i a d e ll a p ar t i t a a v r e b b e r o p e s a t o c o m e u n ma c i gn o s e P ie r c e e s op r a t t u t t o A ll e n av e ss e r o d a t o il lo r o s ol it o c o n t r ib u t o.

7


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

24

Davis-Robinson show, Lakers ko

NBA FINALS ‘GAME FOUR’

D OMENICO OMENICO P EZZELLA EZZELLA DI

‘Sherek e Ciuchino’, al secolo Glen Davis e Nate Robinson. Cosi si sono definiti i due principali protagonisti della vittoria dei Celtics in gara4, quella del definitivo pareggio prima dell’exploit dell’ultima uscita al TDBankNorth Garden di Boston. «I feel like a beast». Mi sentivo come una bestia. Questa la dichiarazione principale di Big Baby in una sala stampa praticamente anomala con i due attori non protagonisti a rispondere alle varie domande dei curiosi e dei giornalisti che invece non credevano ancora ai loro occhi di dover titolare un pezzo, un articolo sul piccolo grande uomo proveniente da New York e con il quale Doc Rivers al suo arrivo aveva proibito ogni tipo di parola o contatto minacciando addirittura l’esclusione dal campo, ed uno sull’urlo disumano di ‘Big

TEAM STAT COMPARISON

L O S A N G E LE S @ B OS T O N

Baby’ che non avrà terrorizzato tutto l’occidente, ma il gialloviola dei Lakers assolutamente si, dal momento che sono stati praticamente tramortiti dall’ingresso in campo dell’energico numero 11 in maglia biancoverde. La vittoria della panchina, la vittoria degli outsider, la vittoria di cuore e di un ‘mantra’, quello di Rivers, che per la prima volta ha avuto estensione assoluta anche nei confronti di tutto il resto della panchina, nei confronti del resto della squadra e non solo a quello che ovviamente è stato definito come il quintetto mai battuto durante i playoff, ovvero quello titolare. Al rintocco dell’ultima sirena sono stati 18 i punti di un Glen Davis letteralmente scatenato; già cosi potrebbe bastare, ma non è cosi nella maniera più assoluta. Il talento da Lousiana State ci

mette parecchia mostarda con 5 rimbalzi, 2 rubate 7/10 dal campo e 4/4 ai liberi per un ‘hot dog’ difficile da digerire per i Lakers che invece sognavano, dopo una brutta gara3 da parte dei padroni di casa, il colpo nelle tre partite centrali della serie o magari tornare a casa con il punto del match point della racchetta. Ancora una volta potrebbe bastare, sarebbe bastato, ma quando si suol dire piove sul bagnato ci si è messo anche Nate Robinson. In campo per ordine di Rivers principalmente nei finali di primo e secondo quarto. In campo per gestire possessi (anche se ‘gestire’ non è certo un verbo che si concilia tantissimo con Nate The Great ndr) e per dare riposo a Rondo, l’ex Knicks ha svolto alla sua maniera il compitino che gli è stato affidato: 12 punti 4/8 dal campo

POI NTS 89 FG 32 -7 1 ( .4 51 ) 3P 7- 20 (.350) FT 18 -2 2 ( .8 18 ) REB . 8- 34 ASS I ST S 13 TU R N OV E RS 16 ST EAL S 6 BLOCKS 3 FA S T BREAK P. 2 FOUL S 23 ( 0 /0 ) LARGEST LEAD 8

96 37-83 (. 446) 3- 12 ( .250) 19-23 (. 826) 16-41 15 12 12 2 15 21 ( 2/ 0) 11


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

con 2/4 da tre (la maggior parte dei punti che non sono arrivati da dietro l’arco dei tre punti sono arrivati da gioco di pick and roll e lay up alla sua maniera con tanto di dedica ed urla sparate in faccia ai vari Fisher e compagnia ndr), 2 assist e due rimbalzi per un totale di +8 nella particolare statistica del plus/minus. Energia. Questo è quello che i due protagonisti della sala stampa di cui sopra, hanno messo in campo in un finale di terzo ed inizio di quarto periodo che prima ha condotto la rimonta, e poi come il classico ‘treno’ del ciclismo ha spianato la strada nella maniera migliore possibile per la volata sul traguardo e la zampata vincente degli uomini fidati di Rivers. Energia allo stato puro. Adrenalina che solo giocatori imprevedibili come Davis e Robinson possono dare, ma alla fine mancava qualcosa. Non eravamo ad Hollywood ma in una sceneggiatura dove gli outsider l’hanno fatta da padrona in una vittoria fondamentale, non poteva mancare lui, l’outsider (almeno per questa stagione ndr) per eccellenza; colui che è stato chiamato a raccolta dal Michigan quest’estate per giocare momenti di partita come questi e piazzare la zampata vincente per la conquista magari di un titolo, cosi come soleva fare negli ultimi anni della sua carriera

25

un altro giocatore, Robert Horry. Il numero di maglia è il 30 sulle spalle c’è Wallace e di nome fa Rasheed. Tre punti dice il tabellino con l’unica fucilata mandata a bersaglio dalla lunga distanza, ma una difesa enciclopedica su Pau Gasol alla quale come contorno c’ha anche aggiunto un tecnico, il sesto (al settimo è prevista la squalifica ndr), altrimenti che Robinson sarebbe stato. Ma proprio grazie alla follia alla sregolatezza di Robinson, all’energia dell’undersized puro di Davis ed al genio, nella buona e nella cattiva sorte, di Wallace i Celtics pareggiano una serie messasi male nemmeno qualche giorno prima. FOCUS ON THE COURT. ‘Box and elbows’. Questa la difesa che sin dalla gara1, anche se poi effettivamente più accennata dalla gara2 in poi, I Celtics hanno utilizzato per difendere negli attacchi in isolamento, negli attacchi in pitch post di Kobe Bryant. La stessa, per intenderci, che un anno fa usarono i Denver Nuggets nello stesso disperato tentativo di frenare le spin zone del numero 24. Una specie di box and one, ma mascherata solo per il semplice fatto che la difesa a zona nella sua essenza non è permessa al di là dell’oceano. Ed allora il flottaggio l’arma più utile. Allen, Tony, o Rondo pronti a marcare il figlio di Jelly Bean faccia a faccia ed altri che a mo’ di rettangolo sulle tacche della linea del tiro libero per intasare l’area per le eventuali penetrazioni. La difesa su Ray Allen. Lo show di He got Game in gara2 è stato d’aiuto nel bene e nel male. Nessun Lakers, Derek Fisher per primo, non ha tagliato più un blocco sulle uscite dell’ex Sonics. Niente più passo indietro e provare a contenere con lo ‘show’ del lungo, ma la scelta, giusta, è stata quella di inseguire Allen sui blocchi e mettergli una mano in faccia appena possibile. Scelta difensiva che ha funzionato dal momento che il protagonista del film diretto da Spike Lee ha chiuso con 4/11 dal campo di cui 0/4 da tre costringendolo a giocare in penetrazione sulle uscite ed in anticipo o con passaggi lob sotto le plance dove non è stato certo impeccabile. Il pick and roll. Usato spesso e volentieri da una parte e dall’altra. Quello tra piccolo, tra esterni quello maggiormente utilizzato dai Lakers con Bryant e Fisher protagonisti (con il chiaro intento di attaccare un giocatore in velocità o sui centimetri in caso di cambio sul blocco ndr), quello con Paul Pierce da palleggiatore e con scelte variegate a secondo del bloccante.


STAR S ‘N’ STR I PES

26

Game Four press room

D OMENICO OMENICO P EZZELLA EZZELLA DI

NBA FINALS ‘GAME FOUR’

Ovviamente loro i protagonisti della conferenza stampa che ha seguito la gara4 in quel di Boston. Ovviamente si parte dall’urlo che ha fatto il giro del mondo in pochissimi secondi ovviamente si parte da quella che è stata l’esultanza che è stata sintomo di un’energia, la stessa di cui parlerà poi lo stesso Nate Robinson, che ha deciso il match: «E’ una questione di momento. Sinceramente non era programmato, vivi delle emozioni, vivi dei momento sei gasato e non pensi a quello che fai agisci d’istinto. Quindi chiedo scusa se ho esagerato ma ovviamente era quello che provavo in quel momento. L’abbraccio di Nate??» «Eravamo come Shrek e Ciuchino…» la risposta di Nate The Great che in precedenza aveva anche avuto modo di parlare in modo abbastanza serio sul decisivo intervento della panchina: «Abbiamo dato energia. E’ questo che il coach si aspetta, è questo che i nostri compagni si aspettano, che entriamo diamo energia alla partita e a tutta la squadra». Lo stesso grado di serietà con il quale Davis, invece, ha commentato la sua prestazione: «E’ quell che devo fare. Entro in campo e devo lottare con le unghie e con i denti. Devo lottare per prendere un rimbalzo, devo lottare per segnare un canestro, devo lottare per difendere e non far rimpiangere i miei compagni. E’ il mio lavoro tutto qua. Ci vuole poco per creare delle leggende. Basta giocare con energia».

NATE ROBINSON

KOBE BRYANT

GLAN DAVIS

Elegante e fashion come al solito. Cosi come non contentissimo e loquace come al solito quando in sala stampa ci finisce dopo aver perso una partita, specie se quella in questione è una come quella del quarto episodio della serie. Vicinissimo all’essere praticamente epistolare, i presenti in sala provano a strappargli di bocca qualche parola in più a quelle classiche di chi propria tanta voglia di parlare non ne ha: «Hanno avuto energia, punti da situazioni di energia, hanno avuto punti da seconde opportunità, da palle perse nostro e questo ha girato la partita nel momento più importante. Per quanto ci riguarda abbiamo avuto un buon momento nella fase centrale del match poi abbiamo commesso qualche errore, mentre la panchina di Boston è salita di livello». Dal mazzo, con faccia molto timida dell’atro interlocutore, viene fuori anche la questione della difesa di Tony Allen. Questione sulla quale il figlio di Jelly Bean non glissa lasciando anche qualche complimento qua e la: «Ha svolto davvero un ottimo lavoro. E’ un giocatore che ha una buona anima difensiva, è li per questo, è uno competitivo e ha svolto un buon lavoro.


S T A R S ‘ N ’ S T RI P E S

27

PAU GASOL «Questo sono io. Oggi ho provato ad essere aggressivo sin dall’inizio del match e ci sono riusciti avendo giochi per me per attaccare uno contro uno il mio difensore ed essere molto più aggressivo rispetto alle altre partite. Ho continuato ad attaccare dal pick and roll che con tiri dall’arco, tutto come faccio di solito ma provando ad essere molto più aggressivo». Da capitano, però P-Square non vuole certo attirare l’attenzione su di se, ma da vero generale da merito alle proprie truppe per quello che hanno fatto in campo: «Sinceramente, però, in questo momento credo che gran parte dei meriti vadano alla nostra panchina. E’ anche e soprattutto merito loro se abbiamo portato a casa vittoria e pareggio della serie». Panchina e mazzo dal quale esce ancora una volta il nome di Tony Allen da parte dello stesso addetto ai lavori che aveva stuzzicato Bryant. Ancora una volta il punto in questione è al difesa, ancora una volta il punto in questione è la difesa di Tony Allen: «Abbiamo difeso bene non c’è che dire. Sia in situazioni di uno contro uno che in situazioni di squadra con rotazioni, cambi sistematici e mettendo in difficoltà i nostri avversari. Se vogliamo vincere ed essere una grande squadra non possiamo non giocare bene in difesa e questo vale anche per Tony che questa sera ha fatto davvero un gran lavoro».

DOC RIVERS

«Sono stati aggressivi per tutto il match. Ci hanno impedito sia i nostri normali e soliti giochi in uno contro uno che nelle penetrazioni dove hanno chiuso molto bene l’area, senza contare che hanno forzato tutte le nostre linee di passaggio intercettandone abbastanza da scavare un solco. Sinceramente non credo che sia un qualcosa di particolarmente grave dal nostro punto di vista. Quello che dobbiamo fare e continuare ad eseguire i nostri giochi, i nostri schemi senza troppa paura, ma eseguirli meglio di quanto abbiamo fatto stasera puntando principalmente su quelli che sono i nostri punti di forza». Su quanto può contare l’esperienza e la crescita di un gruppo che negli ultimi tre anni ha raggiunto tre finali in fila la domanda successiva per un Gasol che ormai potrebbe, per accento e inglese parlato, anche insegnare in un liceo losangelino: «Conta molto, l’esperienza che abbiamo adesso ci da la possibilità di sapere cosa bisogna fare in questi momento e la fiducia per farla. Gara5 è alle porte quello che dobbiamo fare è restare ‘in the game’ sia fisicamente che mentalmente e noi siamo pronti».

PAUL PIERCE Un po’ di pepe non guasta mai ed allora la parte principale delle interviste di coach Doc Rivers è stata incentrata sulla scelta di tenere tre quinti del quintetto base in panchina e andare in un momento cruciale del match con le riserve. Una scelta per la quale lo stesso Doc Rivers ha avuto la possibilità di parlarne nella maniera più tranquilla possibile, dal momento che il risultato finale gli ha dato ragione: «Non si sono certo lamentati. Hanno fatto il tifo. Non penso che i ragazzi si preoccupino di stare l'uno più dell'altro sotto i riflettori e questo è sicuramente uno dei motivi per cui siamo arrivati fino a qui. Rajon Rondo e gli altri mi hanno apertamente chiesto di lasciare dentro i ragazzi della panchina che tanto bene stavano facendo: 'Non toglierli! Non toglierli!' Erano tutti lì a strillare ed è stato fantastico. Non avevo mai sentito tanto casino arrivare dalla panchina ed il bello è che erano i titolari a farlo! Penso sia stato un caso più unico che raro». Dulcis in fundo l’ennesimo elogio a quella che è stata la chiave della vittoria: la difesa. L’ennesimo elogio ad un sistema che ha mandati letteralmente all’aria il piano offensivo dei Lakers: «Una difesa del genere l’avevamo già fatto durante la stagione regolare, certo che queste sono le finali e che giocare così contro una squadra di questo calibro è sicuramente diverso».


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

28

Un ‘fantasma’ Lamar Odom

DI

Poco e niente. In campo su fiducia di Jackson per tenere sulla corsa le sfuriate di Ray Allen sui blocchi, ma non riesce certo a fare me g l i o d i Fisher. In attacco spara a salve.

5

RON ARTESR

5

7,5

E’ stato l’argomento principal e di tutto il pre-partita. Il ginocchio malandato andava testato e alla fi ne coach Jackson gli ha regalato i primi sei minuti di gioco per poi scampoli di partita. Alla fine solo due punti in 12’ striminziti minuti

sv

Un passo indietro rispetto alla gara precedente. Sempre in ritardo nelle uscite ed in generale fuori dai giochi dei Lakers specie dal triangolo. Nel primo quarto e nel finale fa salire il motore di ‘PSquare’. Alla fine 9 punti e 4/10 dal campo.

Entra in campo e cambia i l volto ai Los Angeles Lakers s u tutti i ventotto metri di campo. Poi nel la si spegne e nella seconda parte di gara s ubisce l’ondata biancoverde che porta il nome di Glen Davis che gli mangia praticamente in testa.

5

Ci prova in tutti i modi a cambiare volto all a partita. Parte già con l’handicap di avere un Andrew Bynum a mezzo servi zio, tanto epr usare un eufemismo, e quindi un uomo in meno all’interno della propria normale rotazione. In difesa mette a segno gli opportuni accorgimenti con l’ordine di non tagliare mai un blocco s u Ray Allen, mentre in attacco si affida al pick and roll tra gli esterni come alternativa al classi co ‘triangle offense’. Alla fine però non riesce a trovare la soluzi one giusta, l a chimica giusta per tenere a bada l’energia della panchina dei Celtics.

5,5

J.FARMAR, S.BROWN

SASHA VUJACIC

5

Nel bene o nel male il migliore dei Lakers . Sempre convinto di non marcare Rondo in difesa, in attacco mette a ferro e fuoco la di fesa dei Celtics con una serie di canestri di stordente bellezza, ma che alla fine non bas tano per la vittoria.

LAMAR ODOM

Imposs ibile criticare la tecnica sorpaffina che il catalano si ritrova per le mani. L’ex Barça soffre tremendamente la difesa fisica e diabolica di Rasheed Wallace. Spento ed eclis sato nel finale di partita nonostante i 21 punti finali.

KOBE BRYANT

6

ANDREW BYNUM

Cambia registro in difesa su Ray Allen inseguendolo s ui blocchi e facendo s entire il fisico ed il corpo quando He Got Game si è avvici nato al canestro. Molto meno bene nella s furi ata d i Na t e Ro b i n s o n subendone l’energia dal p alle ggio.

PHIL JACKSON

PAU GASOL

DEREK FISHER

D OMENICO P EZZELLA

5-5

Poco e niente. Uno (Jordan Farmar) in campo per provare a contenere Robinson e gesti re l’atttacco, l’altro (Sasha Vujacic) per provare a seguire Allen s ui blocchi. Alla fine 8 punti e 3/7 dal campo, ma compless ivamente.


STAR S ‘N’ STR I PES

29

L’urlo di ‘Big Beast Baby’

Fa tutte le cose giuste al momento giusto. Sfrutta egregiamente l’occasione concessagli da Rivers, giocando a due con Wallace e mettendo punti pesanti sul tabellone sia da tre che in penetrazione nel cuore dell’aria avversaria.

7,5

Quando i numeri e le cifre dicono davvero poco o addirittura niente. Tanta difesa, tanta energia e tanti tocchi che non finiscono nell o score, ma che sono fondamentali ai Celtics. Bravo a non cadere nel le provocazioni di Pau G asol.

7

RASHEED WALLACE

7

6

6

KENDRICK PERKINS

In panchina nel momento di Glen Davis, ma in generale tutt’altro giocatore da quando la serie ha messo piede a Boston. Ci mette praticamente un quarto per riattaccare il canestro con continuità come in gara3 e nel finale guida i suoi al successo.

Era il grnade assente della serie. Parte con le marce alte ingranate, tre possessi tutti per lui e 10 punti nel primo quarto. Nell’allungo Lakers sparisce inspiegabilmente, ma nel finale piazza la zampata con 5 punti in fila che chiudono il match.

Ventidue minuti, 3 punti, due rimbalzi e una serata da protagonista. Anniente praticamente da solo, nel finale di aprtita, il catalano gialloviola costri ngendolo alla resa. Si becca anche un tecnico, ma il +7 di plaus/minus parl a per lui.

7

Ha il coraggio di rischiare e lo s i s a l a fortuna aiuta gli audaci. Nel momento del bisogno, nel momento della rimonta mette in panchina Pierce, Rondo e Garnett per dare spazio a Robinson, Wallace e Glen Davis. Scel ta giusta ed inaspettata da Jackson e che alla fine fa tutta la differenza di questo mondo. Ottima anche la scelta di tempo nel rimettere in campo i suoi ‘starter’ che poi chiudono definitivamente in conti lanciando i titoli di coda.

7,5

GLEN DAVIS

6,5

Il tiro dalla lunga distanza continua ad essere un incubo dopo essere stato la del izia di gara2. L’ex Sonics quindi cambia registro e attacca Fisher ed il canestro (4/7 da due e 0/4 da tre e 5/5 ai liberi) dando anche u n a m an o a rimbalzo (5).

PAUL PIERCE

RAY ALLEN

Accende e spegne a piacimento. In attacco sempre lasciato libero da Bryant, mette con continuità il jumper, mentre le sfuriate in velocità ed in transizione restano il pane quotid ian o. I n difesa importante l a rubata nel finale.

DOC RIVERS

NATE ROBINSON

KEVIN GARNETT

RAJON RONDO

NBA FINALS: Le pagelle

L’urlo che ha terrorizzato i Lakers. Tutto in quel gesto può essere racchiusa la partita di Glen Davis che è nella maniera più assoluta il match winner di gara4. Una presenza costante s u entrambi i lati del campo con energia a rimbalzi e nel finalizzare le palle vaganti . Annienta Odom nello scontro diretto e guida da solo la rimonta di Boston per una notte da l eone, da re della giungla quell a del TDBankNorth Garden di Boston.

9


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

30

Lakers al palo, Celtics d’autore

NBA FINALS ‘GAME FIVE’

N ICOLO ICOLO’ F IUMI IUMI DI

Ribaltare una serie in 12 giorni. Per informazioni citofonare al TDBankNorth Garden di Boston, Massachussets e chiedere di uno a scelta tra Paul Pierce, Kevin Garnett, Rajon Rondo o Glen Davis. O uno qualsiasi degli altri compagni di squadra. Perché a questo punto della Finale sarebbe ingiusto concentrarsi solo su uno o due giocatori di Boston, che dopo gara 3 sembrava spacciata e, invece, se ne torna a L.A. a 48 minuti dall’anello. Frutto di un’altra partita fatta di cuore, grinta, voglia e finalmente lucidità in attacco. Colpa anche dei Lakers, rientrati dagli spogliatoi nel secondo tempo con 12 minuti di ritardo, eccezion fatta per un fulgido Kobe Bryant, autore di quelli che potrebbero entrare nella sto-

TEAM STAT COMPARISON

LOS ANGE LE S @ BOS TON

P OINT S 86 92 FG 31- 78 (.397) 40-71 (.563) 3P 7-19 ( .368) 3-12 ( .250) FT 17- 26 (.654) 9-13 ( .692) REB. 16- 34 7-35 ASSISTS 12 21 T URNOV ERS 1 4 17 STEALS 9 8 B LOC KS 1 7 FAST BREAK P. 3 14 F OUL S 22 (1/ 0) 23 ( 3/0) LARGEST LEAD 2 13

ria come i più spettacolari e al contempo inutili 5 minuti di basket mai visti sulla faccia del pianeta. Tra l’inizio del terzo quarto e il quinto minuto di questo, il numero 24, constatata l’assenza mentale dei compagni sul parquet, si è messo in proprio griffando 17 clamorosi punti consecutivi con 7/7 dal campo. 7 canestri uno più bello dell’altro. Resi vani da un supporting cast apatico, nullo in attacco, svogliato in difesa, dove è stato concesso ai Celtics di rispondere colpo su colpo alle bordate del Mamba. Il Kobe contro tutti è in sostanza proseguito anche nell’ultimo periodo, con nessuno dei suoi compagni di squadra capace di dare un contributo continuativo (solo Gasol in doppia cifra oltre a

Bryant). E da solo, Kobe ha riportato in partita i suoi, prima che gli eventi si scatenassero, sotto forma di uno 0/4 ai liberi di Ron Artest e di una successiva rocambolesca rimessa dei Celtics, a un nulla dal trasformarsi i n una palla persa, prima di diventare miracolosamente il possesso del +7 a 35’’ dalla sirena finale. Lancio lungo avventato di Garnett per evitare l’infrazione di 5’’, Fisher manca l’intercetto, Pierce riceve il pallone inspiegabilmente coi piedi in campo. La difesa, convinta di averlo recuperato quel pallone, nel frattempo perde un giro. E il più lesto di tutti è Rajon Rondo, con sorpresa di nessuno, che si invola, riceve da Pierce fuori equilibrio e segna il lay up rovesciato. Sono


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

gli scherzi del destino. Di un destino che i Lakers si sono creati scavandosi la fossa con le proprie mani nel momento in cui sembravano invece tenere saldamente in pugno la serie. I Celtics hanno cavalcato uno straordinario Paul Pierce, autore di una partita più rassomigliante a un clinic offensivo. Il suo palleggio arresto e tiro sulla faccia del difensore è stato una sentenza per tutta la notte, mentre Garnett ha confermato la super prestazione di gara 3 e le buone cose di gara 4, chiudendo con 18 punti, 10 rimbalzi, 5 recuperi, 3 assists e una serie di piccole cose assolutamente inclassificabili. Tutto per ovviare a un Ray Allen incapace di segnare da 3 nelle gare casalinghe e a un Rajon Rondo più che mai croce e delizia: 18 punti, 8 assists ma 7 palle perse, arrivate con una varietà sorprendente. L E C H I A V I DE L L A P A RT I T A UN A S ERIE RIBA LT AT A – Se fino a gara 2 erano i Celtics quelli che volevano correre, mentre i Lakers preferivano schierare l’attacco per servire i lunghi sotto canestro, le tre gare di Boston hanno completamente ribaltato il concetto. Gara 5 ha messo a nudo più che mai la volontà dei Lakers di cercare un tiro nel minor tempo possibile per non finire inghiottiti nella morsa avvolgente della difesa Celtica, tornata

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quella dominante del 2008. Boston, dal canto suo, ha potuto gestire l’attacco a piacimento, sfruttando la miglior partita finora di Pierce e la presenza, tornata troneggiante, di Kevin Garnett. I Lakers, salvo il momento di estasi cestistica di Kobe Bryant nel terzo quarto, hanno sbattuto nuovamente il muso contro la difesa di Rivers e Thibodeau, perdendo 14 palloni che hanno portato ad altrettanti punti in contropiede di Boston, con i Lakers fermi a soli 3 miseri punti. I F A N T A S M I D I R O N R O N – 6 punti di media, 8/33 dal campo, 5 palle perse. Questo lo score di Ron Artest nella serie, tolta gara 1. Il numero 37 è diventato un problema serio per i Lakers, e le cifre non sono nemmeno il primo dei problemi. Il grosso problema, evidente anche in gara 5, è la scarsissima comprensione dell’attacco triangolo dell’uomo da Queensbridge. Spessissimo lo si è visto svagato per il campo senza sapere dove andare, tentare un taglio rivelatosi costantemente fuori luogo e fuori tempo. E anche palla in mano le cose non sono migliorate. Con tiri privi di senso, passaggi agli uomini sbagliati. Metteteci anche la difficile serata difensiva su un Pierce immarcabile e avete un problema con la P maiuscola per coach Zen. KG IS BACK! – Se Artest sembra un fantasma, a Boston, invece, hanno salutato il rientro nella serie di un pezzo fondamentale del puzzle Celtico come Kevin Garnett. Le 3 partite giocate fra le mura amiche ci hanno riconsegnato il numero 5 che conoscevamo e in gara 5 ha mostrato il meglio di sé. Le cifre le avete già viste, ma fondamentale è stata la sua presenza durante tutta la partita, sia come riferimento offensivo, che come cardine difensivo. Gasol nelle ultime 3 partite è sembrato spaurito ed è andato via via spegnendosi dopo un inizio di serie che faceva presagire al massacro dell’attempato Big Ticket. L’influenza fisica e psicologica di Garnett ne è la causa prima. NO BYNUM, NO PARTY – Le condizioni fisiche di Andrew Bynum continuano ad essere tutto tranne che ottimali. In campo si vede e i Lakers ne hanno risentito parecchio, mancando di un big man di impatto sotto canestro (cosa che Odom non è) da schierare al suo posto. Il giovane centro ha giocato sì 32 minuti, ma ha palesato scarsa esplosività, e alla lunga è finito fuori dai ritmi forsennati della partita, lasciando i suoi senza un importante punto di riferimento sotto le plance (solo 1 rimbalzo catturato).


32

S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

Game Five press room

NBA FINALS ‘GAME FIVE’

PHIL JACKSON

N ICOLO ICOLO’ F IUMI IUMI DI

«Hanno spezzato la partita all’inizio del terzo quarto e per noi, lo sforzo di tornare in gara, è stato troppo grande. Siamo riusciti a tornare vicini nel punteggio, ma poi una serie di azioni con palle perse e tiri liberi sbagliati ci hanno impedito di andare davanti. Siamo stati comunque bravi a non farci demoralizzare dal loro terzo quarto offensivo. Siamo stati lì, non ci siamo fatti staccare. L’avevo detto ai ragazzi prima della partita, che Boston avrebbe avuto una serata, su questo campo, dove avrebbe tirato molto bene. Semplicemente non dovevamo farci abbattere o demoralizzare, continuando a fare le nostre cose. A questo punto è come se fossero stati rispettati i fattori campo. Siamo 3-2 per loro, ma adesso si torna a casa nostra. Penso che la serie sia dove dovrebbe essere».

«Pierce ha giocato una grande partita. E’ stato più intenso di noi nel terzo quarto, quando abbiamo provato a pareggiare la partita noi non siamo riusciti a difendere su di lui, ed è una cosa da sistemare in vista di gara 6. L’attacco durante una serie può andare e venire, ma il nostro problema è stata la difesa. Non ci siamo applicati abbastanza. Nel quarto periodo di gara 4 e nel terzo di gara 5 non li abbiamo mai impensieriti difensivamente. Abbiamo concesso un lay up dopo l’altro, e non puoi battere i Celtics se li lasci tirare col 56% dal campo».

K KO OB BEE B BR RY YA AN NTT

RAJON RONDO

«Anche se siamo avanti 3 a 2 ora dobbiamo concentrarci solo sulla prossima partita per giocarla al meglio. Dobbiamo essere vicini alla perfezione per tutti e 48 i minuti. E’ una serie diversa da tutte le altre perché è contro i Lakers. Per la storia di queste due squadre negli ultimi 50 anni, ogni partita di questa serie è diversa dalle altre. Garnett sta giocando alla grande, anche se nelle prime due partite aveva avuto qualche problema. Sta facendo quello che ha fatto durante tutta la stagione. Gioca con un intensità da NCAA, è su tutti i palloni, difende aggressivo, fa tante cose che magari da fuori non si vedono, ma che per noi cambiano la partita. Magari non segnerà 28 o 30 punti, ma lui è consapevole del suo ruolo e lo svolge al meglio».


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

33

«Abbiamo fatto un ottimo lavoro sotto canestro. Perkins è stato importante perché ha giocato con energia e intensità, ma in generale è stato uno sforzo collettivo per vincere la lotta a rimbalzo. Ora sono fiducioso, come lo è Kobe, di poter andare a Los Angeles e vincere una partita. Da parte mia avrò sempre una parola per i miei compagni di squadra. Se posso aiutare con una parola, con un consiglio, con un incitamento, allora lo farò. Anche se magari il coach dice che rendo nervosi i miei compagni di squadra».

KEVIN GARNETT «E’ stata la partita più importante della n o s tr a s t a g i o n e . O r a s i a m o i n u n a buona posizione. Abbiamo due partite a Los Angeles. Dobbiamo andare là e vincerne una. Con Kobe è stato un bel duello, anche se durante la partita non mi sono reso bene conto del fatto che ci stessimo rispondendo canestro su canestro perché ero troppo concentrato. Comunque lui è quel tipo di giocatore. Lo conoscete. E’ un duro. Sul lancio di Garnett, ho mostrato sia il mio lato Randy Moss che il mio lato Tom Brady. E’ stata la degna di conclusione di una partita cominciata col piede giusto. Siamo stati aggressivi dalla palla due. Doc ha chiamato il primo gioco per me. Dal pick and roll ho trovato spazio per segnare subito, e poi ho cercato di portare questa situazione avanti per tutta la gara».

DOC RIVERS

PAUL PIERCE «Paul è stato pazzesco. Ha attaccato il canestro per tutta la partita. Lo ha fatto sia all’interno dei giochi, che da situazioni di isolamento o pick and roll. Ha segnato canestri importanti. E’ in ritmo in questo momento. E noi ne abbiamo bisogno. Sul lancio di Garnett ha fatto una grande ricezione. Sono anni che mi dice che potrebbe giocare per i Patriots! E a q u a n t o p a r e h a r a gi o n e… . C o mu n q u e a v e v a m o u n t i m e o u t , e quando ho visto che Kevin non trovava nessuno libero stavo per chiamarlo, ma è partito il passaggio. Poi la ricezione e il canestro di Rondo è stata ancora più importante. E sono stato contento che sia andato a canestro piuttosto che uscir e i n pa l l e g g i o p e r fa r pa s s a r e d e l tempo».


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

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Inguardabili Gasol ed Ar test

DI

Non gioca tanto, come al solito, ma ha il merito, quando entra, di prendersi le proprie responsabilità senza paura. Segna due canestri importanti, quando tutti i suoi compagni, Kobe escluso, se la stavano facendo letteralmente addosso.

6,5

RON ARTESR

4

8

Non è neanche del tutto colpa sua. Gi oca su un ginocchio a pezzi e cerca di arrabattarsi. Ma la partita si incanala sui binari dell’intens ità selvaggia e lui , alla lunga, paga un corpos o dazio.

5

Un incubo. Per lui e i suoi compagni. In attacco non azzecca un movimento che sia uno. Non parliamo delle scelte di tiro. Aggiungeteci anche i 27 di Pierce, fino a questa partita tenuto a bada, e avete un panorama apocalittico.

Unico Lakers con plus/minus positivo. Già solo questo gli vale una valutazione positive. Entra bene in parti ta, dando quell ’impatto che di rado è ri us cito a portare f in or a. C ala nel finale.

6,5

Perché nel le tre gare di Boston perde lo scontro diretto con Rivers , che ha sostanzialmente bloccato il gioco dei Lakers nelle ultime due partite. Jackson, in gara 5, non riesce a dare una svegli ata a ness uno che non si chiami Bryant di cognome, così come non trova un antidoto al lo strapotere di Pierce, una volta che Artest s i rivela ineffi cace.

5

J.FARMAR, L.WALTON

SASHA VUJACIC

4,5

Gioca da solo nel secondo tempo. Mett e in scena 5 minuti di assoluto strapotere tecnicofisico. Los Angeles sta in partita solo perché c’è lui. Che però è pur sempre un essere umano e così arriva col fiato corto al finale, giocando un altro qua r t o pe r i o do sotto tono.

LAMAR ODOM

Clamorosamente assente dalla partita nei momenti in cui questa si decide. Fatica nel primo tempo, non rientra nel secondo. Kevin Garnett lo fagoci ta. Letteralmente travolto. Registra una delle doppie doppie pi ù bugiarde delle Finali.

KOBE BRYANT

5

ANDREW BYNUM

Serataccia. Sta ancora tirando il fiato dopo l a superba gara 3. Gl i va dato atto di essere il principale responsabile del basso rendimento d i Ra y Al l e n , ma in attacco è s tato un peso più che altro.

PHIL JACKSON

PAU GASOL

DEREK FISHER

N ICOLO ’ F IUMI

Farmar – Ai limit del non giudicabile. Quasi non si vede in campo nel suo breve cammeo. In una partita così , però, è più una colpa che un merito. Walton NG – Troppo poco sul parquet per poterlo giudicare.

5-SV


STAR S ‘N’ STR I PES

35

Da urlo Garnett e P-Square

Con lui si ha l’impressione di essere sempre un po’ più buoni che con gli altri nei voti. Ma è perché ogni volta che ha la palla in mano ti dà la sensazione di essere sul punto di fare una boiata. E invece, da gara 2 a questa parte, sono più le volte in cui ci prende.

6,5

Sbaglia due liberi importanti nel finale, ma la sua presenza rimane comunque importante per i suoi. Rivers lo tiene in campo nel finale, senza preferirgli Da v i s o W allac e e lu i, col suo corpaccione, risponde presente.

6

RASHEED WALLACE

8

8,5

5,5

KENDRICK PERKINS

Partita mostruosa per intensità e presenza. E’ a tutti gli effetti un giocatore recuperato e, inoltre, ha generato l’effetto di annullare Pau Gasol, lontano parente di quello visto a Los Angeles nei primi due atti. Ruggente.

The Captain and The Truth. Non per caso. Mancava, dopo 4 partite, la sua presenza. Di lui si avevano avuti solo piccoli accenni. Esplode fragorosamente al momento migliore. Stampa arresti e tiri sulla faccia dei poveri Artest e Odom a piacimento. Salva un pallone decisivo nel finale, trasformandolo nell’assist della vittoria per Rondo.

Meno minuti del solito per lui. Sfruttati al solito modo. Lampi di luce intensissima, alternati a brevi black out. In generale, comunque, il suo atteggiamento continua ad essere positivo.

6

Semplicemente perfetto. Gestire dalla panchina una serie che, per molti, dopo gara 1 era già chiusa, è forse ancora più diffici le che giocarla sul campo. Ri vers, invece, ha ribaltato i l pronostico partendo dalla difesa asfissiante che ha tolto punti di riferimento all ’attacco dei Lakers, confusionario come non mai in gara 5. Tenere gli avversari sotto i 90 punti, poi, in casa ti permette di avere fiducia che uno fra i tuoi leader prenda in mano l’attacco e vi nca la partita.

9

GLEN DAVIS, T.ALLEN

7

Sembra aver esauri to il gas dopo i fuochi d’artificio di gara 2. 0/16 da di etro l’arco nel le ultime 3 partite. Cerca comunque di non andare fuori dallo spartito e qualche cosa di buono lo fa. Ma dei Big Fou r è i l meno in luce.

PAUL PIERCE

RAY ALLEN

Continua ad essere uno dei giocatori più eccitanti dell’intera Lega, perché non puoi mai sapere quello che sta per fare, in positivo come in negativo. 8 assists e 7 palle perse sono lì a dimostrarlo. Ancora una volta, però, è uno dei fari di Boston nei momenti importanti. Suo il canestro che chiude la partita.

DOC RIVERS

NATE ROBINSON

KEVIN GARNETT

RAJON RONDO

NBA FINALS: Le pagelle

Davis – Dopo le gesta eroiche di gara 4, un giro gi ù dall a giostra per Big Baby. Normale amministrazione, qualche rimbalzo e poi seduto a guardare i titolari vincere la parti ta. T.Allen - L’ingrato compito di entrare per cercare di porre un freno al ciclone Bryant è sempre il suo. E lo s volge ancora una volta come forse nessuno è mai riuscito. Molti dei tiri sbagliati del 24 arrivano con le sue mani protese a difendere.

6-6,5


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

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L A è un rullo compressore S TEFANO TEFANO PANZA ANZA DI

NBA FINALS ‘GAME SIX’

L’orgoglio Lakers. Guardando gara 6 sembra incredibile pensare che i gialloviola fossero sotto nella serie contro i biancoverdi. Raramente, infatti, a questi livelli si è vista una tale superiorità di una squadra rispetto ad un’altra. I 67 punti segnati dai Celtics, oltre a rappresentare un record negativo nelle Finals, evidenziano non solo un palese stato confusionale degli ospiti, ma soprattutto una difesa acerrima dei campioni in carica, decisi a conquistare il diritto di giocarsi gara 7, costi quel che costi. Alcuni numeri possono bastare a sintetizzare l’andamento

TEAM STAT COMPARISON

B OS T ON @ L OS A NGEL E S

della gara: Boston ha tirato col 33% dal campo, il 21% da tre (5/23) ed ha catturato 13 rimbalzi in meno dei padroni di casa. Punti dalla panchina, 25 a 13 per i padroni di casa, e ad un certo punto questo dato faceva segnare un inquietante 24-0. Ciò che è mancata a Pierce e compagni, però, è l’intensità. Dei Celtics così svogliati, stanchi, distratti, si erano visti soltanto in gara 1. Ed in stagione regolare. Di fatto, la sesta sfida tra queste due squadre è durata meno di un quarto. L’inizio è molto intenso e le squadre partono punto a punto. Allen è subito in palla (8 punti in

pochi minuti), Garnett sembra quello delle sfide di Boston. Già, sembra… Da metà quarto in poi i Lakers infilato 8 conclusioni consecutive, prendono il largo e non si volteranno mai più indietro. Determinante, forse, l’infortunio di Kendrik Perkins, che dopo 6 minuti di gioco, contendendo un rimbalzo a Bynum cade male ed è già costretto a lasciare il campo per un infortunio al ginocchio, a prima vista abbastanza serio, che gli impedirà di rimettere piede in campo per tutto il resto della sfida. Tre i trascinatori dei padroni di casa: Gasol, nuovamente attivo su

POI NTS 67 89 FG 28 -8 4 ( .3 33 ) 3 3 -7 9 (. 41 8 ) 3P 5- 23 (.217) 6- 19 ( .316) FT 6- 10 (.6 0 0) 1 7 -1 9 (. 89 5 ) REB . 11-39 12-52 ASS I ST S 17 17 TU R N OV E RS 14 13 ST EAL S 8 13 BLOCKS 4 8 FA S T BREAK P. 9 10 FOUL S 21 ( 0/0) 17 ( 2/ 0) LARGEST LEAD 2 27


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

entrambi i lati del campo, ha sfiorato una clamorosa tripla doppia siglando 17 punti, arpionando 13 rimbalzi (6 dei quali solo nei primi minuti) e smazzando 9 assist. Artest, autore di 15 punti ed un inizio travolgente (8 punti nella prima frazione), è stato il giocatore col miglior plus/minus, ovvero con lui in campo i Lakers hanno siglato 26 punti in più dei Celtics. E ovviamente Kobe Bryant, che ha chiuso con una doppia doppia (26 e 11) un’ottima partita, giocata col massimo della concentrazione dal primo all’ultimo secondo e soprattutto giocando di squadra, fidandosi dei compagni e “limitandosi” a gestire il gioco. I ragazzi di coach Rivers, d’altro canto, pagano la scar-

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sa concentrazione. Trattasi di un paradosso, dato che con un matchpoint tra le mani in molti si attendevano, da parte loro, la partita della vita. Emblematici, nel terzo quarto, gli errori in appoggio di Glen Davis e Ray Allen. Canestri che, specialmente quest’ultimo, potrebbero infilare ad occhi chiusi. È stata l’ennesima prova, qualora ce ne fosse bisogno, che qualcosa non quadrava. Eccessivo, forse, attribuire le ragioni di questa débacle all’incidente occorso a Kendrik Perkins. Eppure fino a quel momento Boston stava lottando. L’ingresso anticipato di un Rasheed Wallace (0/7 dal campo) versione “chimmelofaffà” ha ovviamente scombinato i piani tattici di coach Rivers, costringendolo anche a regalare minuti allo spaesato Shelden Williams, il cui apporto è stato a dir poco dannoso, per essere buoni. Se i lunghi losangelini sentono l’odore del sangue non si fanno certo pregare per azzannare gli avversari. Detto di Gasol, da sottolineare la prova di un redivivo Lamar Odom, finalmente attivo su entrambi i lati del campo e tornato ad essere quell’arma tattica capace di mettere in difficoltà attacchi e difese avversari. L’ulteriore buona notizia per coach Jackson è che, data la relativa intensità degli ultimi tre quarti, ha potuto concedere molto riposo ad Andrew Bynum, fortemente bisognoso di non sforzare il suo ginocchio malandato. Il numero 17 dei Lakers ha due giorni di tempo, dunque, per ricaricare al massimo le batterie e presentarsi in forma per gara 7. A proposito di gara 7. Era dal 2005 che nelle Finals non ci si giocava il tutto e per tutto nell’ultima gara. Sarà contento David Stern, siamo contenti tutti noi.


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

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Game Six press room

NBA FINALS ‘GAME SIX’

S TEFANO TEFANO PANZA ANZA DI

«Nella prossima sfida la tensione sarà altissima. Devi sperare che i tuoi giocatori non perdano il controllo, che riescano a giocare in una situazione di grande pressione. Questa sera abbiamo fatto quello che dovremo fare anche giovedì, cioè prendere i rimbalzi e catturare le palle vaganti».

PHIL JACKSON «Faccio i complimenti a Pau, è stato sensazionale. Per quanto riguarda gara 7, siamo abituati a dover affrontare partite in cui siamo obbligati a vincere. In pratica si tratta di dover vincere una partita. Ci siamo già trovati in questo tipo di situazioni, e quindi devi affrontarle sempre allo stesso modo. So cosa c'è in ballo, ma devo concentrarmi».

KOBE BRYANT Pierce: «Si può dire che i ragazzi erano ansiosi. Quando sei così vicino a un titolo talvolta te la fai sotto. Ci è mancata la grinta, non abbiamo giocato disperati come se volessimo vincere il titolo ad ogni costo». Bynum: «Il ginocchio lo sentivo molto duro. Era come se la mia presenza in campo danneggiasse la squadra. E' stata una precauzione per gara 7». Rondo "Questa partita è ormai nel passato. Non siamo giù, non ci stiamo impiccando. Abbiamo ancora una chance».

RAJON RONDO


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

39

Non particolarmente in vena il catalano che in occasione della sfida persa in quel di Boston ha rivisto, magari, tutti i fantasmi di due anni or sono quando fu criticatissimo per l’essere un giocatore soft quanto conta per davvero. «Ho cercato di essere più aggressivo sin dall’inizio. La chiave è stata l’energia che abbiamo messo in campo».

PAU GASOL «Non abbiamo avuto fiducia in noi stessi. Ognuno ha cercato di giocare individualmente. Durante l’anno, quando abbiamo giocato in questo modo, abbiamo perso varie partite, e anche con margini ampi. Se giochi in questo modo contro una squadra come i Lakers, che arriva a questa gara preparata a giocare sapendo di dover vincere, allora puoi solo perdere. Riguardo al ginocchio di Perkins beh, non ha un bell’aspetto, ma non saprei dire».

DOC RIVERS

RAY ALLEN

«Dobbiamo dare credito alla difesa dei Lakers. Ma è anche vero che eravamo troppo tesi, non abbiamo fatto girare la palla. Avremmo preferito giocare davanti al nostro pubblico, ma questo non è possibile a questo punto. Noi siamo una squadra che ha fatto bene quando si è ritrovata con le spalle al muro. Tutti noi sappiamo cosa c’è in ballo, tutti noi sappiamo cosa dobbiamo fare per restare concentrati e fare il nostro lavoro. Perkins è stato sfortunatissimo, ma dobbiamo andare avanti per lui».


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

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L’assolo di Pau Gasol

DI

Rimesso in campo da parte di ciach Jackson che per un attimo se l’era dimenticato in panchina, specie nelle partite scorse, il fidanzato della Sharapova segna 9 punti con 2 triple. È lì per questo, stavolta non delude.

6,5

RON ARTESR

7,5

7,5

Con Perkins fuori gioco e un menisco in disordine, coach Jackson preferisce tenerlo in panchina gran parte della gara. 15 soli i suoi minuti in campo, in cui offre la solita ingombrante presenza sotto canestro.

6

Una delle migliori apparizioni in maglia Lakers. Positivo in attacco nel primo quarto (15 i suoi punti a fine gara), decisivo in difesa per tutto il resto della contesa.

E’ tornato ad essere determinante, complici i probl emi fisici di Bynum. 10 rimbalzi oltre ad 8 punti, ma s oprattutto una seri e di giocate i ntell igenti e l a consueta s olida pres tazione difensiv a.

Tenere a 67 punti questi Boston Celtics è un’imp r es a g i à en t r a t a n el l a s t o r i a . I suoi non hanno sbagliato un colpo. Ottima anche l a g es t i o n e d i A n d r ew B y n u m e d e l s u o g i n o cc h i o .

7

9

J.FARMAR, S.BROWN

SASHA VUJACIC

8

Ventisei punti non raccontano l’ apporto del Mamba alla parti ta . È stato lui a decidere la sfida, andando in doppia cifra già nel primo e decisivo quarto. A differenza di gara 5 , pe r ò , c o i nv o l g e di pi ù i compagni. Ed i risultati si sono visti.

LAMAR ODOM

Il parquet dello Staples evidentemente lo es alta. Dopo un soggiorno infelice in Massachussets, torna nella città degli angeli sfoderando una prestazione massiccia, ad un solo assi st da una c l a mo r o s a tripla doppia.

KOBE BRYANT

6

ANDREW BYNUM

Meno determinante di altre volte. Commette il quarto fallo in avvio di secondo tempo, e questo induce c oac h Jac k son a non rischi arlo ulteriormente.

PHIL JACKSON

PAU GASOL

DEREK FISHER

S TEFANO PANZA

Brown. Contribuisce a dare la scossa dalla panchina. 4 punti soltanto, ma frutto di due schiacciate da copertina con cui accende tutto lo Staples Center. Farmar. Determinante dalla panchina. Ha bisogno di un nuovo contratto, la sua prestazione in gara 6 potrebbe garantirgli qualche centinaio di migliaia di dollari extra.

6,5-6,5


STAR S ‘N’ STR I PES

41

‘Stecca’ Paul Pierce

L ’ e x N e w Y or k K n ic k s P r ov a a d a r e la s c o s s a c o n l e s u e a cc e l e r a z i o n i , m a s e n z a r i u s c i rc i . T r op p e vo lt e l e s u e in i z ia t i ve n o n s o n o s e gu i t e d a ll a s q u a dr a . O fo r s e è il c on t r ar io … ?

5,5

S ol t an t o 6 m in u t i d i gioc o p r i m a ch e i l g i n o cc h i o facesse crac dopo essere a t t e rr a t o p e r c a t t u ra re u n r im b alz o. Forse proprio in questa g a ra s i è c ap it a l ’ im p o r t a n z a d el c en t r o n e d e i Ce lt ic s .

SV

RASHEED WALLACE

5

5

6

KENDRICK PERKINS

Doveva far dimenticare le due deludenti uscite losangeline. L’inizio è straripante, ma dopo pochi minuti si spegne ed assiste passivo, come il resto della sua squadra, alle gesta dei gialloviola.

M a i e n t ra t o i n p a rt i t a . E n on in ga n n in o i 13 p u n t i m a n d a t i a b e rs a g l i o a l s u o n o d el l ’ u l t i m a s i r en a , ma da lui ci si aspettano le giocate decisive. In gara7 ci si a s p et t o i l v er o ca p i t a n o: The T r uth.

Lo 0/7 dal campo è sufficientemente eloquente. Un paio di buone giocate difensive, ma la testa era chiaramente altrove. Ma dove può essere la testa in una gara 6 di finale? Soltanto lui lo sa.

La sua squadra entra in campo con un approccio sbagliato. Non riesce a replicare al p rimo e decisivo allungo dei Lakers e non trova, purtroppo, un’alternativa valida a sostiuire Perkins al cen tro d el l ’ a re a co l o r a t a c h e è s t a t o u n b e rs a g l i o c o n t i n u at ivo .

4

4,5

GLEN DAVIS, T.ALLEN

5,5

il migliore dei suoi. Ritrova il canestro da tre (2/5) dopo tre gare di assoluta s titichezza offensiva. È l ’uni co a martellare la reti na avversaria con un mi nimo di continuità. Ovviamente però, non è bastato.

PAUL PIERCE

RAY ALLEN

Forse la sua peggiore prestazione in questa postseason. Cattiva scelta dei tiri e mira rivedibile(33%). Ormai è chiaro che se non gira lui, la squadra ne soffre.

DOC RIVERS

NATE ROBINSON

KEVIN GARNETT

RAJON RONDO

NBA FINALS: Le pagelle

Pess imo offens ivamente (0 punti in 27 mi nuti , oltre ad un lay-up sbagliato da due passi), si riscatta nella propria metà campo. È l’unico ad opporre un minimo di resistenza all ’uragano Lakers. Wil liams 4: atteggiamento quasi irritante. Sbaglia una schiacciata che avrebbe potuto riaccendere un minimo di fuoco negli animi biancoverdi. Sembra essere stato catapultato in campo per sbaglio.

5,5


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

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Lakers è: sweet sixteen NBA FINALS ‘GAME SEVEN’

V INCENZO INCENZO

DI

DI DI

G UIDA UIDA

La sua prima gara 7 l’aveva giocata nell’ormai lontano 2000. Dieci anni fa, prima di un’indimenticabile ultimo episodio della serie Finale della Western Conference tra Los Angeles Lakers e Portland Trailblazers, Kobe Bryant disse: “ Sono passato professionista per la voglia di giocare partite come questa”. In quella partita per le strane strategie dell’universo, in campo c’era anche in maglia Blazers un certo Rasheed Wallace. Sappiamo tutti come andò a finire. Dieci anni dopo il cerchio si è chiuso. Ancora gara 7, ancora Kobe e Sheed in campo, questa volta in canotta bianco verde, quella degli odiatissimi Celtics. Valeva per il titolo. L’ha spuntata Los Angeles 8379, al termine di una battaglia epica, non bella tecnicamente, con percentuali da

TEAM STAT COMPARISON

BOST ON @ LOS A NGE LE S

P OINT S 75 100 FG 23- 77 (.299) 41-89 (.461) 3P 8-23 ( .348) 3-9 (. 333) FT 21- 29 (.724) 15-18 (.833) REB(O-T) 1 0- 41 15- 55 ASSISTS 10 18 T U RNOV ERS 8 9 STEALS 8 4 B LOC KS 8 7 FAST BREAK P. 0 4 F OUL S 21 23 LARGEST LEAD 5 28

brivido. E non poteva essere altrimenti, data l’importanza della posta in palio. Boston per lunghi tratti ha avuto il match point sulla racchetta, ma è stata tradita in attacco da Pierce e Allen. Non è bastato il cuore di Rondo, non è bastato quello scienziato del gioco che risponde al nome di Rasheed Wallace. I Lakers hanno trovato nella supremazia a rimbalzo (quanto è mancato Perkins), nell’orgoglio di Fisher, nella classe di Kobe e Gasol e nella lucida follia di Artest (vero Mvp di gara 7) le chiavi per agguantare il 16° anello. Intensità selvaggia sul parquet dello Staples. I protagonisti cercano di scaricare la tensione e l’adrenalina trovando il primo canestro. I Lakers cercano Bynum in post basso, ma Sheed (11) ha la

testa giusta e oscura la vallata. A rompere l’empasse è Derek Fisher (10) con una tripla (la prima, la seconda arriverà nel quarto periodo e avrà un peso specifico enorme). Dall’altra parte si va in post basso da Wallace, che sciorina giocate di classe purissima (due canestri di tabella). Boston sale di colpi e passa a condurre 711. Kobe (23 punti con 6/24 dal campo)e Pau Gasol (19 punti e 18 rimbalzi) litigano con il ferro e i giallo-viola barcollano pericolosamente. Kevin Garnett raddoppia su tutti, Rajon Rondo (14 punti, 10 rimbalzi, 8 assist) azzanna in contropiede, ispirando un positivo Big Baby Davis (6 punti di fila), entrato da poco al posto di Sheed e i Celtics scappano sul 14-23. Cambia la musica. La supremazia nel pit-


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

turato dei padroni di casa inizia a farsi pesante, in particolare a rimbalzo d’attacco. Gasol e Ron Artest (20 punti con 7/18 al tiro) riportano a contatto i Lakers, che dall’altra parte iniziano a difendere alla grande. Boston commette l’errore di voler affrettare i tiri, in particolare con Pierce e Allen che non trovano ritmo. L’inerzia è ribaltata con un break di 9-0 a favore degli uomini di Phil Jackson (29-29). Ray Allen dalla lunetta riporta davanti i suoi (29-33), prima di uno strepitoso canestro di Paul Pierce (18 punti con 5/15 e 10 rimbalzi). I Lakers soffrono, Kobe non segna, ci pensa dunque l’ineffabile Artest con 4 liberi di fila a tenere i suoi in linea di galleggiamento all’intervallo lungo (34-40). I Celtics provano a piazzare la zampata: KG (17) sale di colpi e con 5 punti di fila (su assistenze di Rondo) fa la voce grossa. Ma questa volta i Lakers rispondono subito con Bryant e con Lamar Odom (7) , lanciato nello starting five del terzo periodo al posto di Bynum. Rasheed da un’altra pennellata di tabella. Los Angeles non è lucida in attacco, ma si tiene a galla grazie ai rimbazli offensivi (20 a fine quarto). Kobe ha 5/20, Gasol 4/13, ma incredibilmente i losangelini al 36” sono solo sotto di 4 lunghezze (53-57). Ci si gioca tutto negli ultimi “12. Garnett allunga sul 55-59, Kobe ricuce lo strappo con tre liberi su fallo di Allen (58-59). Il pareggio Lakers porta la firma di Artest (61-61). La tensione sale a mille. Sheed commette il quinto fallo, torna Davis. Boston cede ancora più centimetri ai Lakers ma non

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molla. Ray Allen si guadagna quattro liberi (3/4), Fisher dall’altra parte pareggia con una tripla incredibile (64-64 a 6’ dalla fine). Gasol dalla lunetta porta il parziale a 9-0 e i Lakers avanti di 6 (70-64). Pierce accorcia, Kobe fa 1 su 2 ai liberi (71-66), Garnett riporta i Celtics a -3 (71-68). Lo strapotere fisico dei Lakers inizia a pagare dividendi. Gasol guadagna falli, va in lunetta e non sbaglia. Lakers avanti 73-68. I Celtics rispondono con Pierce per il 74-70 a -2’14”. Odom tenta la tripla del ko, ma trova solo il ferro che avrebbe ucciso il match ma dall’altra parte Pierce perde palla cercando di scaricare su Sheed. Ancora Gasol con un canestro dal post basso incredibile trova così il +6 (76-70) a -1’30”.Sembrerebbe finita, ma c’è ancora Sheed che un canestro di classe immensa risponde dall’arco per il 76-73 a 1’23”. E’ il momento cruciale e sul ring salgono i pesi massimi. Si va dall’altra parte e Ron Artest, come se non avesse mai fatto altro nella vita, piazza una bomba tremenda in faccia a Pierce per il nuovo 79-73 a -1’. Il finale è da favola. Ray Allen (13 con 3/14 dal campo), ritorna ad essere “He Got Game” e dall’angolo segna ancora da tre (79-76 a -51”). L.A. in attacco, Kobe spara da tre forzando, ma Gasol va forte a rimbalzo (catturando il 30 rimbalzo offensivo della partita dei giallo viola), serve Bryant che attacca il ferro e trova il 6° fallo di Wallace. Dalla lunetta Kobe è glaciale: 2/2 (81-76 a -25”). Doc Rivers chiama timeout e disegna uno schema per il tiro di Allen. Ray va corto, ma sul rimbalzo si avventa un immenso Rajon Rondo, che in attimo dall’angolo, si gira, mette a posto i piedi e piazza la terza tripla di fila per i Celtics (81-79). Boston è ancora viva. Timeout di Jackson. Dalla panchina viene scongelato (con una classica mossa zen, al limite tra il genio e la follia), Sasha Vujacic. La rimessa finisce proprio nelle mani dello sloveno, che subisce fallo. Dalla lunetta, con la benedizione di Kobe, l’ex Snaidero Udine griffa il più importante 2/2 della sua carriera: 83-79. Rondo Mancano 11”, Rondo ci riprova da tre, ma la retina non si muove. E’ finita. Esplode lo Staples. Kobe Bryant è pazzo di gioia. Il vero Mvp però si chiama Ron Artest. E’ back to back. Il titolo resta nella Città degli Angeli. E’ il 16°, per Phil Jackson (il coach più vincente della storia del gioco) siamo a undici. Per Kobe è invece il 5°. Bryant si porta a casa anche il trofeo di Mvp delle Finals. Nel momento della festa il pensiero va agli sconfitti. Orgoglio Celtico e l’onore delle armi per questi grandi campioni.


S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

44

Game Seven press room

NBA FINALS ‘GAME SEVEN’

Coach Zen ha la faccia di quello che ne ha viste tante. L’undicesimo titolo della sua straordinaria carriera lo proietta nella leggenda. Nel post-partita Phil Jackson si sofferma su questo punto: «Oggi abbiamo vinto grazie al nostro approccio difensivo». Poi per il coach dei Lakers arriva il momento di commentare la partita difficile di Kobe Bryant: «Kobe? Ha esagerato con le forzature al tiro soprattutto nelle prime due frazioni. Alla distanza però è uscito anche lui. Il mio Mvp personale? Senza dubbio Ron Artest. Ma sono orgoglioso di tutti i miei giocatori: hanno disputato un’ottima stagione, lunga e intensa. A loro ho chiesto grandi sacrifici, ma alla fin dei conti, ne è valsa la pena». Sul suo futuro resta sibilino. «La vittoria aumenta le possibilità, ma per ora voglio solo godermi questo momento».

KOBE BRYANT Il Principe catalano nel suo perfetto inglese, glissa sulle critiche piovutegli addosso dopo le tre gare a Boston, preferendo concentrarsi sulle sue emozioni. «Eravamo consapevoli delle difficoltà di questa partita e del suo peso specifico. Non abbiamo disputato il miglior incontro dell’anno, soprattutto in attacco, ma siamo stati bravi a non mollare mai. ’ straordinario vincere un titolo, vincerlo contro Boston, poi, e’ davvero speciale, anche per via di quello che e’ successo nel 2008 e per la rivalità storica tra questi due club. Io sono contentissimo, questo per me e’ un sogno che si realizza».

V INCENZO INCENZO

DI

DI DI

G UIDA UIDA

PHIL JACKSON Arriva in sala stampa con il volto teso ma felice. Il trofeo di Mvp da un lato, la figlioletta Gianna dall’altro. Kobe è sempre Kobe. Non regala molto il sala stampa, ma ammette d’aver giocxato infortunato tutti i playoff. «All’inizio dei playoff non stavo bene. Sono arrivate critiche pesanti. Dicevamo che ormai ero vecchio. All’inizio della serie con i Suns, sono intervenuti sul mio ginocchio e tutto è cambiato, mi sono sentito di nuovo Kobe”. Poi su gara -7. “È stata una serata difficile e ho rischiato di andare fuori giri: più forzavo, più sbagliavo. La vittoria senz’altro più sofferta. Devo confessare che vi ho mentito per tutta la serie: battere i Celtics per me è una cosa straordinaria sia per il brutto precedente delle Finals 2008, sia per la rivalità storica tra di noi». Sulla possibilità che questo gruppo rimanga insieme anche l’anno prossimo. Kobe ha detto: “ Farò di tutto affinchè questo gruppo resti insieme. Dobbiamo tornare tutti e riprovarci anche nella prossima stagione”. Frasi di circostanza, ma una chicca finale il 24 la regala. Alla domanda sul che valore avesse questo titolo ha risposto. «Adesso ne ho vinto uno in più di Shaq (ride). Sapete come sono fatto, non dimentico niente».

PAU GASOL


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

RON ARTEST

45

The True Warrior è in estasi assoluta già nell’immediata intervista post gara. Abbraccia la giornalista dell’Espn, e con un fiume in piena, inonda tutti di ringraziamenti. «È tutto fantastico, devo ancora realizzare quanto ho fatto» – commenta a caldo, l’uomo del Queensbridge. In sala stampa arriva e inizia uno show. Prende in mano una scatola di cereali, fa finta di andarsene e implorato dai giornalisti ritorna. Un uomo solo al comando. Poi arriva la sua numerosa famiglia e prova a tornare serio. «Voglio ringraziare Dio e voglio ricordare la mia gente. Quando ero ad Indiana, ero così giovane, così egoista e ho messo nei guai il mio team, Donnie, Larry, Jermaine, Tinsley, Foster, Steph Jacson. Combatto solo per voi. A volte mi sento come un vigliacco, quando penso a quei ragazzi e a quello che avremmo potuto fare. Stasera ho segnato 20 punti e ho aiutato la squadra a vincere. E’ il mio momento più bello della mia carriera e me lo voglio godere. Ho sempre avuto fiducia in me stesso e nella squadra. Nei playoff puoi fare una grande partita e sbagliare quella dopo. L’importante è avere fiducia in quello che fai». Il nostro Ron…

Doc entra tra gli applausi della press room. «Innanzitutto faccio le congratulazioni ai Lakers: è stata una serie incredibile per intensità e spettacolo. Ci è mancata la presenza fisica con i chili e i centimetri di Perkins. In una sfida così tirata sono stati decisivi i nostri errori nell’ultimo quarto, Abbiamo concesso 23 rimbalzi offensivi e 30 punti nell’ultimo quarto. Con queste cifre non si possono battere i Lakers in una partita intensa e difensiva come questa». Rivers si alza e va via, accompagnato ancora dagli applausi dei giornalisti. Un grande coach, un grande uomo.

DOC RIVERS Ray Allen. «Abbiamo dato tutto e siamo orgogliosi di quello che abbiamo fatto. Ci davano per morti, dicevano che eravamo vecchi, eppure siamo arrivati a un passo dal titolo. Il mio futuro? Ci penserò quando sarà il momento. Ma è ovvio che non voglio giocare da nessuna altra parte eccetto Boston». Rasheed Wallace. «Sheed come sua abitudine ha dribblato i giornalisti nel post partita, ma ha cercato invece di parlare con gli arbitri. Dopo essere uscito dagli spogliatoi, Sheed, invece di prendere la strada che portava al bus dei Celtics si è diretto alla sala dove c'erano gli arbitri, cercando di avere un contatto con loro. "Danny, voglio solo parlarti" ha detto Rasheed, riferendosi all'arbitro Danny Crawford. Solo che il suo tentativo non ha avuto esito. E dopo aver atteso invano cinque minuti, ha lasciato il corridoio.

RASHEED WALLACE


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

46

La zampata di Ron Ar test

Il lungo più forte del pianeta. Regale indifferenza in gara 6, immensa prepotenza tecnica (19 punti) e fisica (18 rimbalzi) in gara 7. Il catalano è delizia per palati fini. Quel giro sul piede perno, finta e canestro in controtempo tra le mani protese di Wallace e Garnette, è da tramandare ai posteri.

SASHA VUJACIC

7,5

Quei due tiri liberi rappresentano contemporaneamente, il sogno e l’incubo di ogni giocatore. Lo sloveno, mandato in campo dal perfido Jackson, fa 2/2 come se nulla fosse. Decisivo.

6,5

8

7

Encomiabile per aver giocato senza un ginocchio per tutta la serie. In gara7 il suo contributo è nullo, anche perché trova in Rasheed uno Sciamano pronto a svelargli i misteri della pallacanestro. E per discutere a quel livello bisogna essere ben equipaggiati.

5,5

E’ lui il vero Mvp di gara 7. Canestri pesanti come macigni per l’uomo di Queensbridge. La difesa su Pierce oltre la perfezione. I 20 punti e la tripla del + 6 a 1’ l’apoteosi. La rissa a Detroit nel 2003? Incidente di percorso. Son passati sette anni, il destino di Ron Ron ancora doveva compiersi.

Enigmatico. Ha inciso solo in gara -6. Nella settima sembra costeggiare la partita, eppure chiude con +13 di plus/minutes (il migliore). Quando il cielo si fa scuro, coach Jackson getta la maschera ed a inizio terzo quarto manda in campo Lamarvelous.

L a d o t t ri n a ze n g l i h a i n s eg n a t o i l d i s t a c co . R es t a calmo quando la nave sta per affondare, consapevole che l’oggettivo vantaggio nel pitturato avrebbe pagato grossi dividendi. Alla fine così è stato. G r i f f a l ’ u n d i c es i m o a n el l o t ra s f o r m a n d o l a b el v a A r t es t i n u n a g n e l l i n o .

6

8

J.FARMAR, S.BROWN

7

LAMAR ODOM

Quello che ha fatto in gara 3 rimarrà nella storia. Il Venerabile Maestro difende alla morte su Allen e mette la bomba più importante della partita, quello del pareggio a quota 64. Sul dizionario Webster alla voce “Leader”, c’è la foto di Fisher.

Quinto anello per Kobe, secondo titolo di Mvp delle Finali. Immenso nella serie, meno in gara 7, dove dimostra di non averne più fisicamente. Come il Jordan maturo capisce il momento e coinvolge i compagni, senza dimenticare di mordere come il Mamba al momento giusto. Chapeaux.

RON ARTESR

G UIDA

KOBE BRYANT

DI

ANDREW BYNUM

PAU GASOL

DEREK FISHER

V INCENZO

PHIL JACKSON

DI

Jordan Farmar 5. Con Fisher gravato di due falli nel pri mo quarto, avrebbe la pos sibi lità di lasciare il suo marchio sulla partita. Non ci riesce. Shannon Brown 5. In campo solo per 5’. Prova ad alzare il ritmo, ma questa non è ancora la sua partita.

5-5


STAR S ‘N’ STR I PES

47

Che spettacolo Wallace

Troppo inconsitente la prova per il trio che coach RIvers ha provato a buttare in campo per provare qualcosa di diverso e per dare un tocco di imprevedibilità al match.

SV

In borghese. Il problema al ginocchio è stato più grave del previs to ed allora come un normale tifoso, l’High School er è stato costretto a stare dietro l a panchina a sventolare la classica asciugamano bianca, con tanta rabbia in corpo.

NE

RASHEED WALLACE

7

5,5

5,5

KENDRICK PERKINS

Risorto come l’araba fenice dalle proprio ceneri. Un fattore da gara 3 in poi. Il migliore in attacco dei suoi come percentuale, ma a rimbalzo (3) ha sofferto tantissimo.

Il Capitano non trova la strada per raggiungere la Verità in gara -7. Chiude con 18 punti e 10 rimbalzi, soffrendo Artest che non gli concede mai due canestri di fila. In queste Finals, sprazzi del vero Pierce. Nel 2008 fu tutta un’altra storia.

Le sinapsi di quest’uomo restano misteriose. In tutta la carriera ha scelto (purtroppo per noi) con molta cura quando e come dispensare il suo immenso talento. Gara 7 ne è l’esempio. La difesa, il post basso elevato a scienza esatta e quella tripla nel finale con mani da clavicembalista. Se dovesse essere l’ultima, allora grazie Sheed.

I suoi mantra, la sua dedizione, la sua esperienza, la sua classe. Un grande allenatore, un grandissimo uomo. Nella serie dal punto di vista tattico, anche sup eriore a Jackson. E con questo abbiamo d et t o t u t t o .

7

8,5

GLEN DAVIS, T.ALLEN

7,5

Immenso in difesa su Kobe. In attacco due perle all’interno del 3/13 finale. Sbaglia troppi tiri aperti e per l ’attacco dei Celtics sono autentiche coltellate.

PAUL PIERCE

RAY ALLEN

Genio e sregolatezza. Il cuore dei nuovi Celtics. Riscatta una serie in chiaroscuro con un grandiosa gara -7, dove con 14 punti, 10 rimbalzi e 8 assist sfiora la tripla doppia. Regala ai suoi l’ultima speranza con una tripla pazzesca su rimbalzo d’attacco.

DOC RIVERS

ROBINSON, ALLEN, SCALABRINE

KEVIN GARNETT

RAJON RONDO

NBA FINALS: Le pagelle

L’eroe di gara4. Big Baby è un fighter che n on molla mai. Cresciuto esponenzi a l e a l i v e l l o t e cn i c o e t a t t i co ( co m e K e n d ri ck P er k i n s ) g ra zi e a l l a v o r o ce rt o s i n o d i D o c R i v e rs .

6,5


48

STAR S ‘N’ STR I PES

Nba Champ


S T A RS ‘ N’ S T R IP E S

49

pion 2010


50

S T A R S ‘ N ’ S T R IP E S

KOBE BRYANT

...Io sono Leggen


S T A RS ‘ N ’ S T R IP E S

51

DI

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nd a . . .

G UGLIELMO B IFULCO Durante l’intervallo di gara 7 delle finali al giornalista televisivo che gli ha chiesto un parere sulla selezione dei tiri di Kobe e sul suo rendimento, Magic Johnson ha ribadito: “In questo momento conta poco il suo rendimento individuale. Quello di cui Kobe ha bisogno è di sconfiggere questi Celtics. Per essere un vero Laker devi sconfiggere i Celtics”. Profetico, l’indiscutibile numero 1 della storia gialloviola: magari velatamente diplomatico, ma il succo del suo discorso è incontestabile: Kobe doveva sconfiggere i Celtics. Una finale persa, l’ennesima contro la franchigia del Massachussets, avrebbe sancito la definitiva inferiorità in questo triennio della squadra di coach Jackson nei riguardi dell’agguerrita rivale della Eastern Conferente e un notevole ridimensionamento dell’impresa della scorsa stagione con i Magic. Ma così non è stato. E’ estremamente complesso e controverso il giudizio sulla serie finale di Kobe Bryant, considerando quanto il suo gioco sia variato in ciascuna delle 7 partite disputate. Partiamo valutando, gara per gara, atteggiamento in campo, aggiustamenti offensivo\difensivi, le sue prestazioni. Tenendo in considerazione la prima partita allo Staples Center, il primo blowout della serie finale, Kobe ha probabilmente giocato una delle migliori partite della serie: ha sistematicamente attaccato la difesa biancoverde nei primi 5 secondi dell’azione offensiva, impedendole di organizzarsi rapidamente e schierarsi a riccio come consuetudine, cercando la penetrazione e la lunetta (10 tentativi con nove realizzazioni) con una certa frequenza, e nel contempo , tuttavia, ha alimentato la sua frontline con scarichi o giochi a due per la produttiva coppia Bynum –Gasol. Indiscutibilmente una partita nel suo par, condotta, controllata e dominata con la celestiale coadiuvazione del biondo Catalano. In difesa c’era chi se lo aspettava a rincorrere Ray Allen sui blocchi, ma Jackson ha pensato bene di tenerlo su Rondo, anche con una qual certa sufficienza, concedendogli deliberatamente 2-3 metri di spazio per offrirgli un jumper dalla media comodo, collassando al contempo


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sugli altri quattro attaccanti: ovvio che Rondo ancora non rappresenti una minaccia temibile da quella distanza, per cui la strategia di Phil Jackson, a conti fatti,ha ben pagato. Già a partire da gara 2, Thibeaudeau ha proposto i suoi aggiustamenti difensivi, che ha mantenuto per sommi capi fino alla fine, allestendo diverse trappole contro Kobe: TD è riuscito a riorganizzare la difesa in transizione, non concedendogli lo spazio materiale di attaccare l’uomo prima dello schieramento difensivo, mandando in raddoppio Kevin Garnett che, con l’abilità nel gioco di piedi e il marcato senso di posizionamento di cui è dotato, è riuscito ad annebbiare la vista e le idee di Kobe, il cui gioco è stato notevolmente limitato, generando in lui una gran pressione psicologica, il cui ritratto caratteristico è stato lo sfondamento su Ray Allen (discutibile a onor del vero), che ne ha sancito il terzo fallo verso quasi metà secondo quarto. Con Kobe in panchina più del previsto i Lakers si sono tenuti in contatto, pur dovendo fronteggiare un He Got Game da 8 triple (record per le finali NBA); l’atteggiamento dei Celtics e svariati e forzati tentativi a vuoto del Black Mamba di rimettere in corsa i suoi, hanno portato all’1-1 nella serie, con la tenzone spostata verso la volta orientale USA. In Massachussets, per Gara3 memorabile prestazione difensiva di Kobe, sceso in campo motivatissimo, agguerrito, incitando ripetutamente i compagni, ma ancora con discutibilissime scelte di tiro, esplicate dall’emblematico 11-29 dal campo. In questa gara, probabilmente la più importante di quelle vinte da L.A. prima della settima, al di là delle forzature, Kobe ha chiuso con 4 palle rubate e diversi intangibles, vedi un provvidenziale intervento su Garnett, che ha generato una palla persa a pochi minuti dal termine (uno dei 2-3 momenti di pathos da instant replay sull’assegnazione del possesso, spalmati equamente nei finali di gara2 e 3), o una palla rubata su rimbalzo difensivo di Garnett con recupero in volo sulla linea di fondo e assist per il comodo appoggio di Bynum: in quel momento si è visto e capito che i Lakers non erano più gli impauriti novellini del 2008, ma una compagine agguerrita e aggressiva, pronta a cacciare il predatore nella sua stessa tana. Derek Fisher infine, ha deciso di chiuderla come da suo copione. Gara4 e Gara5 hanno seguito un filo conduttore analogo tra loro e anomalo rispetto alle restanti 5 partite per i Lakers; in

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generale sono venuti a mancare a livello emotivo Pau Gasol, Ron Artest, e Lamar Odom (piuttosto opaca la sua serie), mentre al di là di ogni previsione Kobe ha ricevuto molto sostegno da ‘Drew Bynum. In gara 4 ,con Fisher in palese deficit energetico ( eppure estremamente efficiente ad annullare il gioco di Allen in uscita dai blocchi) nella metà campo offensiva, Kobe ha retto da solo l’attacco di LA, peraltro in maniera più che discreta con 33 punti (sbagliando tuttavia 5 liberi sanguinosi sotto la pressione surreale del Garden), frutto di un appena sufficiente 1022 dal campo, ma alla fine la difesa dei Celtics e la monotemacitità dei Lakers Bryant-centrici hanno fatto il resto. Copione che si è ripetuto anche in gara 5, con Kobe in ombra nei primi 2 quarti e devastante nel terzo periodo, nel quale ha retto da solo l’attacco LA con i primi 19 punti dei Lakers segnati consecutivamente; prestazione monstre, Jordanesca anche per il più accanito e geloso fan di MJ o alla Isiah Thomas per i nostalgici dei Bad Boys, ma non coronata da una vittoria: 38 punti, energia e convinzione nelle probabilità di farcela fino alla fine. Ma invano, visto il troppo esiguo contributo fornito dai lunghi gialloviola, soprattutto in fase difensiva sui penetratori. Gara6 ha bene o male seguito il copione di gara1, blowout Lakers, Kobe estremamente coinvolto nella Triple Post Offense, partita chiusa a 26 punti, 11 rimbalzi, 3 assist e 4 palle rubate, scelte oculate in attacco, difesa aggressiva ed estremamente redditizia, e gioco da 3 punti letale nel quarto periodo. Arriviamo cosi, dulcis in fundo, alla discussissima gara 7 di Kobe Bryant, probabilmente la partita esemplificatrice di cosa sia attualmente il numero 24, che ne ha evidenziato, in tratti diversi, tutti gli aspetti positivi e negativi. Fin dalla palla a due visibilmente nervoso, Kobe ha preso tiri tutto sommato buoni per i suoi standard tecnici, ma l’emozione dell’inizio della guerra ha chiaramente desensibilizzato in maniera chirurgica i suoi 3 polpastrelli rilasciatori del pallone (c’è da dire che ha giocato nonostante problemi all’indice e al ginocchio destro ereditati dalla regular season per tutta la post season), portandolo a un iniziale 1-5 (parte del 6-24 finale), che lo ha in parte sfiduciato, come lui stesso ha dichiarato :“ Mi sentivo stanchissimo, e più tiravo e più sbagliavo”. Ciononostante Kobe

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non ha voluto mostrarsi debole all’avversaro e ha continuato a prendere iniziative, in alcuni casi con buoni tiri, in altri con forzature inguardabili, in altre ricevendo il pallone dall’attacco statico a 5 secondi dallo scadere con la difesa schierata e reattiva a qualunque suo movimento: comune denominatore di queste 3 situazioni, il rumore del ferro espellere il pallone e l’inevitabile inerzia rivolta verso l’armata di Rivers: è andata cosi dalla fine del secondo quarto fino alla fine del terzo periodo, a partire dal quale la panchina gialloviola ha iniziato a mostrare i primi cenni di ripresa: Fisher ha riagguantato la partita con una tripla dal peso specifico immenso a 6 minuti dalla fine, fin quando Kobe non ha portato i suoi avanti sul più quattro con un micidiale parziale dei suoi: 2 punti in

lunetta, rimbalzo difensivo sull’attacco biancoverde, transizione guidata e conclusa con un jumper in faccia a Ray Allen, ennesimo rimbalzo difensivo, assist per Gasol mandato in lunetta con 2-2 e più sei Lakers a meno di 4 minuti più secondi spiccioli dal termine: da quel momento, eccezion fatta per un jumper mancato e una tripla rigettata dal ferro, Bryant ha lasciato il palcoscenico ai più ispirati compagni, vedi Ron Artest e Pau Gasol, in grado di eseguire , rispettivamente, una tripla spezzagambe e un rimbalzo offensivo vitale per tenere in controllo la partita, che da quel parziale in poi ha visto Los Angeles avanti sempre almeno di 3. Kobe si è limitato a sigillare il risultato dalla lunetta chiudendo il quarto periodo con dieci punti, e il match con 23 punti e ben 15 rimbalzi. Fine

Probabilmente, nel panorama NBA, dagli anni di George Mikan, nessun cestista è mai riuscito a creare uno scissionismo ideologico sul proprio conto, come fatto da Kobe Bryant dal 1996 ad oggi: da un lato lo si può coccolare come un 5 volte campione NBA meriterebbe, evidenziarne le abilità tecniche coronate dalle storiche prestazioni sotto pressione, dall’altro si può ritenerlo un privilegiato, uno che ha avuto la fortuna di essere inserito per quasi la totalità della propria carriera, fatta eccezione per gli anni dal 2004 al 2006, in squadre attrezzate fino in fondo per raggiungere il massimo obiettivo, un bambino nei modi, viziato in tutto e per tutto da Jerry Buss, presuntamente idolatrato ben al di là dei propri effettivi meriti. Il confine che segna la verità oscillante tra queste due visioni antitetiche del giocatore è a dir poco sottile e merita un ampia discussione e contestualizzazione degli eventi. Innanzitutto partiamo di quanto di cattivo Kobe ha fatto per meritarsi la fama negativa che per anni della propria carriera lo ha marchiato: fin dall’ingresso nella Lega, il giovane Kobe ha costantemente bruciato le tappe, dichiarandosi come primo fra tutte le guardie eleggibile per il draft NBA a 17 anni senza passare per il college; fin da quel giorno, con le presunte minacce di voler giocare solo per una squadra blasonata e sul radar che conta del suolo statunitense, Kobe ha mostrato a tutti la pasta di cui era costituito: un’inimmaginabile cattiveria agonistica, un ambizione ai limiti del maniacale, una convinzione nei propri mezzi figlia di una personalità forte, tempratasi con valori culturali radicalmente opposti a quelli della comune superstar di colore della NBA. Kobe è cresciuto all’estero, facendo la spola tra Italia e Francia prima di diventare figlio acquisito di quella Philadelphia, che solo ora, a distanza di 14 anni dal suo ingresso nella lega, inizia a tributargli gli onori che merita. Lungo il suo percorso ha sempre viaggiato al doppio della velocitàdei coetanei, scontrandosi ideologicamente e fisicamente su qualunque ostacolo si interponesse tra lui e la strada verso l’immortalità, giocando a vivere una vita spericolata,degna del miglior Steve Mc’Queen, storicamente il cattivo per eccellenza di Hollywood. Se i primi 4 anni sono stati un viavai di delusioni più o meno inimputabili a lui , (anche se ci sarebbero i 4 airball di Utah a stridere con le sue responsabilità: l’età giovanissima e l’immaturità legata al fatto di essere comunque un esterno privo dell’imprinting NCAA lo sollevano abbondantemente da un immaginario banco imputati), di certo nulla si può dire del suo peso specifico nei Lakers degli anni trascorsi dall’arrivo di Phil Jackson alla corte gialloviola, Nei 5 anni di gestione Jackson, Kobe ha vinto 3 titoli da secondo violino di Shaquille O’Neal, con licenza di scavalcare le gerarchie nei momenti clutch delle battaglie, anche a livello di playoff e finali: incontestabilmente qualcosa di simile e anche in più rispetto a quello che fece Pippen con Michael Jordan. Dal punto di vista caratteriale Kobe ha dimostrato in quegli anni l’apogeo del proprio individualismo, l’amore per il per talento e per il proprio “particulare”, vale a dire il riconoscimento di essere già ai livelli di Jordan. Sintomo di estrema superbia e arroganza, ma, verrebbe da dire, anche di un coraggio e una determinazione unici: ciò che deve far pensare, tuttavia, è l’atteggiamento di Kobe nel momento della verità: tutti i processi a Bryant sono sempre iniziati in inverno e conclusi in marzo, dal momento in cui, in ciascuno dei 5 anni di gestione Jackson, probabilmente solo nelle finali perse del 2005 contro i Pistons, Kobe ha deciso di abbandonare lo schema gerarchico della squadra ai danni di un O’Neal comunque regresso nell’atletismo rispetto ai precedenti anni di dominio. Durante le restanti 4 stagioni, con alti e bassi estremi nello spogliatoio, Kobe ha sempre sacrificato le proprie velleità in post season, mostrando non solo di avere la lucidità di capire cosa fosse opportuno dare alla squadra, ma anche riuscendoci in maniera leggiadra. E almeno su questo siamo 1 a 0 per lui, perché liti o meno, nonostante dichiarazioni intinte nel curaro contro il suo stesso leader, Kobe ha dato ai Lakers molto di più di quanto non gli venga riconosciuto per il 3peat, diventando il miglior difensore sugli esterni della propria squadra, il creatore di gioco nella Triple Post e l’uomo cui affidare l’ultimo tiro: nella memoria le sue marcature su Steve Smith e Mike Bibby nelle crociate contro Trail Blazers e Kings, i tiri decisivi contro gli Indiana Pacers nelle Finals del 2000, le serie incredibili disputate contro i San Antonio Spurs. Pur essendo stata questa la fase in cui Kobe ha costruito e fissato nell’immaginario la figura di despota declassato, non si può negare che alla chiusura dei conti l’anello e il Larry O’Brien trophy finivano comunque nelle mani della sua squadra. Dal giorno del caso di stupro Kobe ha iniziato a crearsi ancora maggiori antipatie nel mondo, imponendo nel giro di un anno la delezione di Shaq dal roster dei

Lakers e una rivoluzione copernicana, della quale probabilmente lui stesso non capì nulla, e che lo ha portato ad una stagione senza post season (quella di coach Rudy T e Frank Hamblen), e 2 con eliminazioni precoci al primo turno con il ritorno di Coach Zen, con tanto di ulteriore minaccia di scappare a Chicago se il management non avesse assecondato le sue priorità di mercato. Un atteggiamento nuovamente infantile, che comunque gli ha fruttato l’arrivo di Pau Gasol e le 3 finali consecutive, delle quali le ultime 2 lo hanno visto creare una minidinastia in procinto di ulteriore espansione temporale, impresa a dir poco notevole considerando che era dal 2002 stesso che una squadra non riuscisse a centrare un Back to Back (guardacaso gli stessi Lakers di Bryant e Shaq). Il brutto di Kobe ,dunque, va ben poco a ricadere sulla sfera tecnica e sulla e qualità di sudore lasciato sul campo da gioco: il brutto di Kobe è stato quello di pretendere il massimo per poter dare il massimo, senza guardare in faccia a nessuno, attaccando a testa bassa chiunque si interponesse tra lui e il suo prossimo obiettivo. Atteggiamento da perdente e viziato, verrebbe da dire, ma perdente non lo è mai stato Kobe Bryant ,e il fatto che ad oggi abbia più anelli lui di gente come Hakeem Olajuwon, Tim Duncan, Larry Bird, Shaquille O’Neal, Wilt Chamberlain, e che sia alla pari con Magic Johnson e solo ad uno di distanza da MJ deve far riflettere attentamente. Cercando di guardare con occhi meno critici di Bryant diventa impressionante osservare l’iter che la sua carriera ha seguito: miriadi di storie nella storia principale. Nonostante le vittorie conseguite e i meriti ottenuti sul campo, Kobe ha pagato la sua notorietà e la sua ambizione molto più di quanto fosse lecito: il fatto di aver giocato con uno dei migliori 3-4 centri della storia, nonché personaggio ingombrante come pochi , il fatto di essere allenati dall’ex allenatore di Jordan in una città caotica, critica e molto ben abituata come Los Angeles ha fatto il resto. Ogni parola strumentalizzata, ogni evento esposto mediaticamente a giudizi cattivi e prevenuti; lo scandalo di Eagle, di fatto, ha generato il baratro, gettando nella polvere quanto fatto di buono fino a quel momento. Probabilmente nessun giocatore sarebbe mai riuscito a mettere in discussione la leadership di O’Neal e avere alla lunga ragione di lui (nel postpartita di gara7 Kobe non ha mancato di sottolinearlo), a riprendere in mano un’immagine calpestata dal caso stupro nella dignità e schernita dall’intera America (memorabili i siparietti di Chris Rock ), e dagli stessi sponsor aziendali di cui Bryant era testimonial, e con i quali era cresciuto (Adidas, McDonald’s e Nutella su tutti) e che senza remore hanno deciso di lasciarlo sul marciapiedi. Veramente difficile pensare come si possa uscire indenni da un tale massacro al proprio ego, come si possa reggere una simile pressione quando tutti ti vengono contro, incensando, al contempo, di allori, in misura umanisticamente e concretamente esagerata, il giovane LeBron James (che alla soglia dei 26 è ancora a secco, ricordiamolo). Per superare tutto questo era necessario forza e serenità interiore. Kobe ci è riuscito. Onore a lui. La grandezza infinita di Kobe, ciò che da quest’anno, con la conquista dell’ultimo titolo, gli deve essere riconosciuto in pace e serenità è di essere un autentico perfezionista e stakanovista, un uomo in grado di mettersi in discussione ed automigliorarsi maniacalmente ogni giorno della propria esistenza, e il doposcuola sul gioco in post da Hakeem Olajuwon ne è l’evento illuminante. Kobe è diventato leggenda non per i 2 titoli vinti senza Shaq, ma per il modo in cui è arrivato a vincerli, per le basi che ha posto negli anni nonostante tutto o quasi gli girasse contro. Può non piacere la sua frequente anarchia tattica, il suo modo di attaccare le partite nei quarti periodi e il suo isolarsi dal resto della squadra, ma non si può mettere minimamente in discussione la sua cattiveria agonistica, il suo amore smisurato per il gioco e per la cura dei dettagli (chi ha visto “Kobe doin’work” conferma), il suo essere dentro la partita come in un mondo, un universo a parte: la scena tecnica che meglio descrive il Kobe giocatore è un siparietto visto in un infuocato Orlando-Lakers di quest’ultima regular season, con Kobe e Matt Barnes a darsi in battaglia nella metà campo dei Magic: in corrispondenza di una rimessa dal fondo di Barnes, con Kobe in copertura sul passaggio, l’esterno Magic ha deliberatamente fatto finta di scagliare il pallone in faccia a Kobe arrivando a pochi millimetri dal suo volto. Con la slow motion, si apprezza non solo la velocità e la pericolosità del gesto del difensore Magic, ma anche l’assoluta insensibilità di Kobe all’evento, la sua totale assenza di un pathos più che giustificabile in quel contesto. Kobe non ha battuto nemmeno ciglio, ha conservato la sua faccia delle grandi occasioni, quella cattiva e per nulla intimorita dal gesto altrui.

...Il posto nella storia del Mamba...


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delle ostilità: MVP delle Finals 2010, per il secondo anno di fila. Riportati i fatti passiamo finalmente al giudizio globale. Eroe e simbolo della franchigia alla destra di Magic Johnson, oppure stella sopravvalutata in virtù dell’indicativo 6-24 di gara7? La risposta può essere soggettiva, ma analizzando a mente fredda l’andamento della finale si è visto un livello di difesa e di intensità forse mai cosi preponderante (a memoria, negli ultimi 20 anni, paragonabile soltanto alla serie SpursPistons del 2005), e mai come in questo caso si può dire che non è stato l’attacco il fattore determinante per la vittoria finale: come evinto dalle statistiche finali, in tutte e sette le partite il comune denominatore della squadra vincitrice è stato il dominio a rimbalzo. In attacco nessun giocatore dei Celtics e dei Lakers è riuscito ad avere continuità offensiva e buone percentuali, si vedano le altrettanto scandalose percentuali di Ray Allen (3-14 in gara7), Paul Pierce (5-15), Pau Gasol (6-16), lo stesso Ron Artest (7-18): chiaro sintomo di quanto le percentuali abbiano un peso si importante, ma non determinante in partite con questo livello di intensità. Se c’era un aspetto del gioco con il quale Kobe poteva ovviare alla sua scarsa precisione al tiro e mettere la sua mattonella nella vittoria, quello era sicuramente legato al controllo dei rimbalzi, come già detto la “conditio sine qua non” di queste Finals, e Kobe ha risposto alla grande su questo aspetto, portando in dote ben 15 rimbalzi, dei quali svariati in possessi cruciali dell’incontro quando i Lakers hanno iniziato a tirare fuori le unghie. E’ paradossale che anche disputando una pessima partita in attacco (a suo beneficio esclusivamente l’essere andato ben 15 volte in lunetta) sia riuscito nonostante tutto a salvare una prestazione altrimenti irritante, diventando un Fattore nella propria metà campo. E’ ingiusto ridurre la sua serie al misero 6-24, visto che è stato veramente l’unico Laker a giocare al cento per cento dell’intensità per tutte le 7 partite credendoci dalla palla a due fino alla sirena finale. Bryant ha mostrato lampi abbaglianti di talento, giocate difensive che giustificano la diplomatica inclusione nel miglior quintetto difensivo della NBA, momenti di scarsa lucidità e radicale egocentrismo, che fanno e faranno sempre parte del personaggio, ma che non tolgono assolutamente nulla al suo status, perché la storia la fanno i vincitori. Per il secondo anno consecutivo Kobe ha avuto ragione di tutti, con i suoi modi, con dei compagni complessivamente eccezionali, con la sua disprezzabile arroganza tecnica e con il suo fulminante, abbagliante e indelebile nella memoria, talento. Sconfiggere i Celtics, ma soprattutto questi Celtics, non può non spianargli la strada verso l’immortalità: una strada alternativa, sicuramente diversa da quella percorsa dai vari Magic Johnson, Michael Jordan, Larry Bird, Bill Russell & soci, ma pur sempre con capolinea nell’Eden di questo sport. Battere la squadra che nel 1969, nella stessa e identica situazione violò, sul campo e nell’animo, per molti anni, una corazzata Losangelina capeggiata da Jerry West, Wilt Chamberlain ed Elgin Baylor, rappresenta una grandissima liberazione per i fan Californiani, un tabù dello sport americano abbattuto, i Lakers che soffrono la cattiveria di Boston, ma che finalmente hanno imposto maggiormentein queste finali. E la squadra che ha vendicato gli scherni passati sui coriandoli inutilizzati del ’69, ha un leader prima mentale che tecnico, ha un capitano, un simbolo, un fuoriclasse controverso, enigmatico, scomodo, antipatico a molti, amato da altri come nessuno, superiore tecnicamente a qualsiasi altro giocatore attualmente nella lega, irritante per la sua volontà di autoaffermazione simil-Nazista\Nietzchiana, di nome Kobe Bryant, che ha compiuto un’ impresa storica, per significati anteriori e contenuti attuali. Che piaccia o meno, Kobe è entrato nella leggenda. Dalla porta di ingresso principale. Diamogliene atto. Congratulations champ.


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LA CURIOSITA’

Il confronto con tutte le altre leggende del passato recente e non... Questo piccolo aneddoto racconta molto di quanto e soprattutto di come viva il basket mr 5 titoli, come esso sia ossigeno per i suoi polmoni, come sia il pane di cui si nutre quotidianamente. Kobe non può avere paura di un pallone da basket, di prendersi un tiro scomodo e forzato. Kobe non ha paura di poter sbagliare, è convinto di poter sempre e comunque estrarre il coniglio dal cilindro, vede il pallone sempre e comunque come un amico e mai come una bomba ad orologeria da recapitare a qualche compagno (cosa che ad esmpio ha tradito LeBron James in gara 5 delle semifinali di Conferente contro Boston): il brutto di Kobe è che fa di tutto per essere protagonista, il bello è che ci è riuscito quasi sempre in un modo o nell’altro, vuoi con i canestri irreali segnati ai Phoenix Suns nelle finali della WC, vuoi per i 15 rimbalzi potrtati giù il 17 giugno nella partita della redenzione Lakers. Se il conforto dei risultati lo scagiona da qualsiasi processo, il merito delle imprese sta proprio nell’atteggiamento che ha il figlio di Jelly Bean, che lo ha incontestabilmente catapultato nell’Olimpo della NBA. Giocare a fare il confronto con Jordan, Johnson, West e company non porta a nulla se non a diatribe assolutamente soggettivistiche e di relativa fertilità, viste le differenti situazioni tecniche, i periodi diversi, il gioco diverso, le regole diverse e l’atletismo diverso che si è visto progressivamente in questi 6 decenni di NBA. Ciò che conta è che il viaggio del numero 24 in corsia preferenziale, intrapreso lo scorso anno e portato avanti abnormemente con queste ultime Finals, continua ancora: Michael ha detronizzato chiunque gli capitasse a tiro fino alla veneranda età di 36 anni, Kobe ha ancora 31 anni (32 il 23 Agosto) e tempo a sufficienza per consolidare la propria figura leggendaria, già ben avviata e solida di suo. Il resto, dunque, è ulteriore storia da scrivere. Quando la sua carrierà finirà tireremo un sospiro di sollievo, cercheremo di eseguire un’analisi globale a mente fredda, e probabilmente in molti ci pentiremo di non esserci goduti fino in fondo un uomo controverso e talentuoso come forse mai nessuno nella storia. Almeno come personaggio e la scia double face che il suo nome si trascina dietro, unico e irripetibile. Nel bene e nel male. Semplicemente, ladies a nd gentleman: Kobe Bryant.

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Dalle stelle alle stalle


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di

D OMENICO P EZZELLA Cinque minuti sul cronometro del primo quarto, Boston in attacco e solito movimento, anzi solita corsa sui blocchi del numero 20, al secolo Walter Ray Allen, uscita con la solita classe nelle movenze e tiro dalla lunga distanza a bersaglio con la solita musicalità di un pianista che accarezza il pianoforte. Tutto normale o quasi, visto che con quella mandata a bersaglio il conto ed i numeri di He got Game erano complessivamente fermi sull’1/3 comprensivo dello 0/2 di gara1. Ed invece no. Da quel momento in poi è un vero e proprio show personale. Due nel primo quarto, 5 di fila nel secondo quarto e 7/7 dalla linea dei tre punti che segna praticamente la storia. Una storia che alla fine è stata in un certo senso sporcata dall’8/11 finale, quello con il quale l’ex Sonics e Bucks ha concluso la sua personale gara2 traghettando insieme a Rondo la serie verso Boston sull’uno pari. «Era tutta una questione di ritmo. Ero stato troppo in panchina in gara1 per poter giocare e prendere dei tiri importanti. Ero arrabbiato e volevo dimostrare il mio valore ed aiutare la squadra». Un ritmo stile samba quello che ha ballato per tutto il match, quello con il quale ha eliminato dai libri dei record da questo punto di vista (triple segnate consecutivamente in una gara di finale) Kenny Smith e Scottie Pippen. Nemmeno Michael Jordan era andato più in la dal fare 6/6 nel 1992 nella finale contro i Trailblazers con Robinson e Drexler a guardare le spalle alzate del 23 in maglia Chicago. Un ritmo che aveva fatto sobbalzare squadra e tutti gli addetti ai lavori dalle sedie in vista del ritorno, o meglio dello spostamento, a casa della serie finale iniziata con i fuochi d’artificio. Già perché sequella appena enunciata è la performance sul campo dei tuoi avversari e su di un legno e con dei canestri che hai praticamente incontrato solo ed esclusivamente durante le poche ore di riscaldamento (dal momento che i Celtics hanno preferito scegliere il campo dei Clippers come quello di allenamento durante la loro permanenza in California) che lo stesso giocatore suole fare prima dell’inizio della partita, ci si poteva solo immaginare quello che poteva succedere con canestri visti e rivisti durante le ultime tre stagioni. Magari qualcuno aveva anche pensato che ripetere una prestazione del genere nelle tre partite centrali al TDBankNorth Garden di Boston sarebbe stato facile quasi quanto rubare un gelato ad un bambino, facile come andare in bici con le rotelle, ed invece. Ed invece il bimbo a cui rubare il gelato in questione è stato pro-

‘He Got Game’ e:


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prio Ray Allen. Una sorta di de profundis la sua serie finale a partire dal terzo episodio. Una sorta di calvario per colui che fu scelto direttamente da Spike Lee per interpretare lo Jesus Shuttleworth dello schermo in He Got Game, nomignolo tra l’altro che gli è rimasto appiccicato addosso per tutta la carriera. Giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, riscaldamento dopo riscaldamento quello che per intenderci lo stesso Allen suole fare prima del match scandagliando da cima a fondo la linea da tre punti per trovare quel feeling necessario per essere buoni amici durante i 48 minuti di gioco. Un feeling che quella stessa linea gli ha concesso garbatamente per tutta la stagione e che invece gli ha barbaramente negato dalla gara3 del ritorno al Garden fino a quella gara7 che ha segnato la storia in tutti i sensi per le Finali Nba. Un fucile caricato a salve. Una pistola di carnevale che spara bandierine ed una mano che definire glaciale o stile tocco di legno è un vero e proprio eufemismo. Zero il conto delle triple segnate su sedici tentativi. In un solo match? Assolutamente no. Lo 0/16 è quello che Ray Allen ha racimolato nelle tre partite a casa sua, nella personale contesa con i ferri di cui conosce a memoria anche il più piccolo rimbalzo. Ferri che non ne hanno voluto sapere da nessuna parte del campo, da nessuna posizione, ma soprattutto in qualsiasi modo sono arrivate: libero sugli scarichi, correndo sui blocchi o in transizione con l’arresto e tiro. Altro che la vasca da bagno vista in gara2, a partire da quella immediatamente successiva, attaccato al ‘glass’ di Boston c’era un anello da fidanzamento per signorine con

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manine piccole e affusolate. Errori a profusione industriale fronte a canestro, errori a profusione industriale dai due mezzi angoli (questi ultimi tre sono le posizioni praticamente più prolifiche di Ray Allen e nelle quali ha martellato le retine di mezza Nba chiudendo la stagione regolare con 44/109 e 40% abbondante nel mezzo angolo sinistro, 46/118 e 39% dall’altra parte del campo e 35/49 con i piedi perpendicolari al tabellone). Nemmeno ‘in the corner’ l’ex Milwaukee trova pace, ma volente o nolente Boston prima pareggia e poi addirittura piazza la zampata vincente in gara5 prima che il tutto si ritrasferisse ai piedi della collina di Hollywood. Con di nuovo il gialloviola come sfondo della serie, ci si era quanto meno affidati anche alla cabala e al fatto che proprio allo Staples nemmeno qualche settimana prima si era ‘consumata’ la prestazione che aveva fatto di Allen il più grande tiratore di sempre, prima di divenire, nella stessa serie, il peggior tiratore di sempre. Le cose, però, non sono certo cambiate in gara sei e sette di cui tutti ormai conoscono il risultato finale. Due match e questa volta almeno l’onta di chiudere a quota zero in cinque partite in fila è stata scongiurata. Sono quattro i tentativi mandati a bersaglio, due per match (1/1 faccia a canestro e 3/5 dal preferito mezzo angolo sinistro ndr) a fronte di dodici tentativi di cui i sette negli ultimi 48’ della stagione e che potevano cambiare davvero il volto di una stagione e non solo per He Got Game. Alla fine il conto dice 12/41 ed uno dei più rari casi di smarrimento di se stessi mai visti in una Finali Nba. Ed in mezzo? In mezzo un giocatore che ha pro-


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vato, però, a scrollarsi di dosso la zavorra aggirando l’ostacolo, giocando d’anticipo con penetrazioni e tiri dalla media e medio-lunga distanza (i cosiddetti ‘long two’). Senza infamia e senza gloria il conto finale, anche perché inspiegabilmente sono arrivati degli errori da far saltare dalla sedia quando vedevi la palla a spicchi ballare sul ferro ed uscire od addirittura non prenderlo proprio. Anche in questo caso il destino ha voluto un corso differente da quello a cui normalmente veniva assegnato ai quei tiri sia dalla lunga distanza che a quelli ravvicinata con testa di poco al di sotto del ferro. Destino diverso, stile ‘sliding doors’ che aveva operato già durante la stagione dal momento che se i Sacramento Kings avessero aspettato anche qualche ora in più a questo punto non saremmo stati qui a parlare della prova stratosferica di gara2, di quelle pessime dei restanti 5 episodi e forse nemmeno dell’ennesima finale tra i rivali di sempre di Lakers e Celtics. Già perché prima della decisione di Doc Rivers di cambiare faccia ai suoi Celtics a modo suo, ovvero quello di diminuire minutaggio, di far giocare tutti e conservare energie per giungere fino alla fine, la decisione sembrava essere quella di cambiare faccia spedendo lo stesso Allen il cui contratto era ed è in scadenza, da qualche altra parte. Ancora una volta ‘Sliding Doors’. Niente California, niente Kings, ma solo minuti in più in panchina, rendimento innalzato e prestazione assolutamente assurda in gara2 consegnata ormai ai posteri. Quello che poi è successo dal momento in cui He got Game ha messo piede sul

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pullman che ha trasportato i Celtics fuori dallo Staples per accompagnarli all’aeroporto per sobbarcarsi le classiche sei ore di volo prima di tornare nel Massachusetts, lo sanno solo Allen e gli Dei del Basket. Quello che tutti sanno, invece, compreso il giemme Ainge, è che ancora qualche giorno poi si dovrà parlare di contratto. Si dovrà parlare di rinnovio di un giocatore che ormai ha la veneranda età di 34 anni (35 a breve termine ndr) e che poteva essere la chiave di volta per il 18esimo titolo dei Celtics. Possibilità di rinnovo che al momento ha una sola cosa di sicuro che non sarà certo su cifre simili a quelle dell’estensione contrattuale avuta ai tempi dei defunti Sonics e che nell’ultima stagione hanno portato ben 19 milioni di presidenti spirati nel proprio conto in banca. «Del mio futuro se ne parlerà a tempo debito, ma non vedo perché dovrei essere altrove. I vorrei restare qui a Boston e terminare la mia carriera ai Celtics e con questa magnifica organizzazione». Una dichiarazione d’amore bella e buona da parte di Ray Allen che nella pellicola che lo ha reso famoso anche nel mondo del cinema, sempre lo stesso He got Game, rifiutava soldi ‘sporchi’ per non avere guai per andare nella Nba. Assodato che il monte salario dei Celtics non permetterà a Boston di viaggiare su cifre altissime, nel tentativo di puntare anche altrove per svecchiare il roster, il volto di Jesus Shuttleworth riuscirà a fare lo stesso quando magari si presenterà qualche sirena verde come i dollari da qualche altra parte?


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DEREK FISHER

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Il venerabi ‘Maestr


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DI

G UGLIELMO B IFULCO

He did it again. Non si tratta dell’ennesimo tape sui canestri allo scadere di Michael Jordan, ma semplicemente di ciò che hanno provato e pensato un po’ tutti quando anche in questa stagione, anche in queste finali, il sempreverde Derek Fisher ha salvato i Lakers da situazioni piuttosto scomode: nella memoria di tutti due eventi in particolare: in primis il quarto periodo disputato da Da Fish in quel di gara 3 contro Boston, con il canestro della staffa in transizione, con tre uomini addosso e con il libero aggiuntivo realizzato, o ancora, soprattutto, il vitale tiro da tre dell’84 pari scoccato nel quarto periodo della storica gara7 appena conclusasi, che ha sancito ufficialmente il ritorno dei Lakers sui Celtics, che da quel momento in poi hanno perso definitivamente il contatto con i gialloviola e la loro maggiore intensità. Oltre a questi inimitabili momenti di gloria, da non dimenticare la principesca difesa che il numero due gialloviola ha opposto contro Ray Allen, rincorso alla perfezione e fino allo sfinimento fisico-emotivo sui blocchi: quanto abbia inciso tale difesa lo si legge dalle percentuali di He Got Game in queste Finals, un assurdo


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36%. Sono numeri che potrebbero lasciare il tempo che trovano, ma che comunque esprimono un dato di fatto reale; Fisher al contrario di quello che si pensava si è sacrificato al di là delle proprie capacità atletiche, consentendo a Kobe Bryant di allentare lievemente il proprio ritmo difensivo lasciandogli il molto meno pericoloso Rajon Rondo(.. a difesa schierata, ovviamente) per essere più fresco e lucido in fase offensiva. A tutto questo va aggiunta la paura relativa a un brutto movimentodel suo ginocchio in gara6 che lo ha costretto a rientrare prematuramente negli spogliatoi incutendo il terrore di un eventuale infortunio pre gara7 come qualche minuto prima era occorso a Kendrick Perkins. Per l’ennesima volta Fish ci ha regalato sprazzi di autentica magia da finali NBA. Cosa che in pochi ritnevano scontata. Analogamente anche nelle altre serie di playoff disputate prima di affrontare Boston, Fisher è riuscito a sconfessare tutte le critiche ricevute durante la regular season per essere oramai inadeguato a sostenere i ritmi atletici odierni: nell’ordine ha affrontato clienti come Russell Westbrook, Deron Williams e Steve Nash, tre dei più rapidi giocatori attuali della lega, e in nessuno dei casi ha sof-

ferto in maniera spropositata, tranne forse che nelle prime apparizioni in trasferta in quel di Oklahoma City contro Westbrook, mentre per il resto è quasi sempre riuscito a sopperire alla propria mancanza di velocità, con l’elevatissimo IQ cestistico, che gli ha consentito spasmodicamente di prevedere le mosse degli avversari, trovare il posizionamento adatto in area e prendere il fallo in attacco, oppure ancora di difendere il pick &roll andando lievemente a destabilizzare il ginocchio del lungo bloccante, inducendogli un movimento innaturale del corpo che ha generato sistematicamente fallo e recupero del possesso. Assoluta maestria (soprannome non scelto a caso, of course), null’altro da dire. Siamo a livelli di basket ultraterreni per quoziente intellettivo. La carriera del “venerabile maestro” è in linea di massima piena di eroici canestri, e serie memorabili di finale. Entrato nella NBA nel 1996, stessa annata della scelta di Kobe e dell’acquisizione di Shaquille O’Neal , con il ventiquattresimo pick, Fisher ha vissuto le prime 4 annate della propria militanza NBA in basso profilo, oscurato prima dall’estro mancino del talentuoso e irrequieto Nick Van Exel, poi dalla versatilità di Ron Harper, fido scudie-

LE STATISTICHE DI DEREK FISHER ...COSI NEI PLAYOFF...


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ro di Phil Jackson nei Bulls pluridecorati di qualche anno prima: 4 anni trascorsi a cercare di evolvere il proprio gioco, di aggiungere alla propria solidità ed educazione offensiva un qualcosa che potesse renderlo indispensabile per la causa. In maniera silenziosa, come sempre è stato in questi 14 anni, umile e metodica, Fisher ha trovato la propria identità di campione nei playoff del 2001, dopo aver patito un infortunio che ne aveva abbondantemente compromesso la regular season (quell’anno solo venti incontri disputati) e ritornando in gioco in primavera con incredibili miglioramenti nel tiro da tre punti, già ben sviluppato di suo, consentì ai ritrovati Lakers del capriccioso Bryant e del dominante O’Neal di giocare la miglior post season mai disputata da una squadra NBA nella storia (bilancio finale di 15-1) mettendo a referto 13.8 punti con 3.8 rimbalzi e 3 assists a gara, mettendo un impressionante 52% dalla linea dei tre punti. Identità di fuoriclasse dicevamo, che ha trovato conferma anche negli anni seguenti, nei quali Fisher ha sempre mostrato grandissima freddezza, precisione e maturità a beneficio di una squadra che anche per merito suo (ma anche e soprattutto di O’Neal, Bryant e Horry) ha vinto di tutto dal 2000 al 2002. Ciò che ha spedito direttamene dalla porta principale Fisher nella storia dei Lakers è stato, invece, il celeberrimo tiro con 0.4 secondi dalla sirena nella serie di semifinale della Western Conference disputata contro i San Antonio Spurs in gara5, dopo una magnifica sequenza finale, con Kobe che porta avanti i Lakers a 11 secondi dal termine, Duncan che compie il sorpasso a 2 dalla fine, e il venerabile maestro che da un timeout con 0.4 secondi rimasti, sfrutta il raddoppio degli Spurs su Kobe facendosi consegnare in taglio al gomito da Gary Payton un pallone scaraventato per aria e miracolosamente finito dentro il canestro a sancire un fondamentale 3-2 Lakers. Da quel momento un boom di vendite di magliette recanti la scritta 0.4. Probabilmente a San Antonio ancora non hanno digerito la delusione.

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Dopo l’esperienza ai Golden State Warriors e agli Utah Jazz, il ritorno ai Lakers e alle finali nel 2008 (dopo una grandissima serie difensiva disputata su Tony Parker contro gli Spurs) e i trionfi delle ultime due stagioni, marchiate a fuoco in entrambi con canestri risolutivi in gara4 contro gli Orlando Magic e in gara3 contro i Boston Celtics, come abbiamo già detto precedentemente. Al di là del campione e del fuoriclasse, molto altro da dire su Derek Fisher: innanzitutto un gentiluomo d’altri tempi, una persona sempre disposta a porgere l’altra guancia anche verso chi aveva mostrato di non meritarlo, vedi il Kobe Bryant del primo 3peat, con il quale soltanto lui e l’attuale assistant coach Brian Shaw avevano contatti e rispetto. Ed è soprattutto il rispetto ciò che incute la figura dell’ex Arkansas in qualunque essere umano che apprezzi il gioco del basket: lo stesso Bryant, leader designato degli attuali Lakers, ne esalta il carisma, dicendo: “ (Derek) può dirmi quello che vuole, lui è il vero leader della squadra, è una vita che continua a mettere tiri della vittoria e a non mollare mai. Ho un rispetto per lui enorme, veramente accetto di tutto da lui”. Aggiungere altro sarebbe superfluo.” Sulla stessa lunghezza d’onda, e ci mancherebbe, anche i suoi restanti compagni e lo stesso coach Jackson, che tanto ha fatto pur di riaverlo con sé. Presidente della NBA Players Association, la sua immagine ha commosso l’intera America, quando nel 2007 fu diagnosticato alla sua figlia piccola una forma rara di tumore, il retinoblastoma , che lo costrinse ad abbandonare i Utah Jazz (con la tifoseria che non potè fare a meno di innamorarsi di lui) per riprendere casa a LA, dove avrebbe avuto cure garantite maggiori per la piccola sfortunata. Derek è riuscito a vincere tutte queste sfide nell’arco della propria vita. Con la testa perennemente alta, con l’umiltà dei vincenti e la diligenza di una persona lungimirante è riuscito finora a vincere tutte le battaglie sostenute in campo e fuori: un uomo prima che un giocatore da prendere ad esempio. Il tutto riassunto in due parole: Venerabile Maestro.

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RAJON RONDO

Il futuro dei Ce

Già essere considerato come una sorta di via di mezzo tra Brevin Knight e Jacque Vaughn, non è mai stata una cosa che ha giovato più di tanto al momento di decidere di venire fuori dall’università di Kentucky e prendere la strada verso i Pro. Una giochino che viene effettuato dagli scouting report nei periodi antecedenti al Draft paragonando il giocatore in questione a qualcuno di già visto all’interno dei parquet della National

Basketball Association per caratteristiche fisiche e tecniche. Insomma una sorta bivio tra ‘Best Case and Worst case’ la cui risposta, o scelta può arrivare solo ed esclusivamente da quello che lo stesso giocatore fa in mezzo ad un campo successivamente. Non è detto nemmeno che la carriera ed il campo diano per forza di cosa una risposta precisa e corretta e che magari il tutto possa restare nel mezzo come in una sorta di


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D OMENICO OMENICO P EZZELLA EZZELLA DI

eltics?

‘Limbo’ dando luogo quindi ad una terza figura. Molto probabile, infatti, che il soggetto in questione, Rajon Rondo, possa proprio appartenere a questa categoria ovvero essere un soggetto a parte senza nessun tipo di paragone o di confronto ed essere egli stesso una sorta di metro di giudizio o di confronto. Alla fine cosi è stato, ma facendo un passo indietro, un flash back agli antipodi della carriera del prodotto di Oak Hill

Accademy prima e Kentucky poi, i tanti punti di domanda che aleggiavano sul suo conto lo hanno portato fino a quella numero 21, sino a quella decisione da parte dei Celtics, tramite scelte altrui, di portarsi a casa, indietro nel Draft, uno dei giocatori più controversi degli ultimi anni. Alla fine però il tempo gli ha dato ragione: nè l’uno nè l’altro, ne il nuovo Brevin Knight nè una sorta di clone di Jacque Vaughn e tutto grazie a quello che lo stesso Rondo ha messo in campo e dimostrato di poter fare. Ma quando entri con un’etichetta, quando questa etichetta te la porti dietro nei primi passi della tua carriera Nba è difficile scrollartela di dosso anche se poi i numeri le giocate, ma soprattutto i risultati ti danno ragione. Nel 2008 il suo nome è stato quello al fianco del Big Three nella vittoria del 17esimo titolo dei Celtics. Il suo nome è stato quello messo in cabina di regia come point man titolare e a fare da direttore di un’orchestra che in alcune occasioni gli ha concesso anche la possibilità di fare qualche piccolo assolo. Eppure ancora una volta nonostante tutto questo, nonostante una dimostrazione di responsabilità ed una dimostrazione di maturità non tirandosi mai indietro di fronte alle avversità cosi come è accaduto nella scorsa stagione (quando ce ne era bisogno senza The Big Ticket) il prodotto di Kentucky University è stato delineato e designato come quella che viene generalmente indicata al di là dell’oceano come l’incognita, come il fattore imprevedibile e insicuro di una macchina specie dopo quella che fu la sconfitta per mano dei Magic nella scorsa stagione. Un fattore ‘X’ che è stato più e più volte messo sul piatto della bilancia quando a stagione iniziata, il suo era l’unico nome non ancora finito sul definitivo libro paga dei Celtics dopo lo scadere degli anni garantiti per i rookie scelti al primo giro del Draft del 2006, lo stesso che per intenderci ha reso l’Italia il primo paese non a stelle e strisce ad avere la chiamata numero uno. Alla fine però vuoi o non vuoi quel rinnovo è arrivato. Un rinnovo che ha fruttato nelle sue tasche ben 55 milioni di dollari per i prossimi 5 anni. Un rinnovo arrivato dopo una prima parte di stagione servita principalmente come un banco di prova prima di prendere qualsiasi tipo di decisione che obbligasse e che obbligherà attualmente il team del Massachusetts nel lungo periodo. Eppure ancora una volta niente è andato liscio come l’olio, anzi. Cinque anni e un bel gruzzoletto di presidenti spirati che avevano fatto storcere il naso a qualcuno per punti che non ritenevano ancora soddisfacenti all’interno del gioco del numero 9 biancoverde. Non nella gestione della palla, gestione dei giochi, nei passaggi all’interno degli schemi di Rivers per innescare la bomba principale dei Celtics, il Big Three o il nuovo Fab Four (dipende dal punto di vista ndr), ma nella pericolosità che lo stesso giocatore può mettere in campo quando si trattava di affrontare una serie di playoff o quanto meno quando si trattava di fare la differenza quando le stelle sono o spente o ben marcate. Ed il tutto non passava nemmeno da una specie di incoscienza che lo stesso Rondo ha come dote di natura quando decide di rompere gli indugi, schemi e quant’altro buttandosi dentro con il pallone e arrivan-


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do fino al ferro con diversi mezzi (famosa ormai la riproduzione della finta in entrata che tempi addietro resero celebre un grande di questo gioco tale Jerry West con il pallone allontanato dal corpo e dal difensore con una mano per poi finire con la stessa in estensione) e una percentuale di realizzazione non indifferente quando si tratta di arrivare al canestro e concludere con numeri da circo o ad alto coefficiente di realizzazione. E quindi quale il problema? Pericolosità dalla lunga distanza che veniva quanto meno ritenuta una sorta di punto debole per una squadra che aveva bisogno di punti da quella parte del campo per punire raddoppi o aree riempite per evitare che i vari Pierce o Garnett arrivassero sino all’anello. Cinque metri. Questo il raggio limitato in cui Rondo veniva e forse viene ancora tutt’oggi considerato pericoloso con il jumper, palleggio arresto e tiro o magari concludendo dopo uno scarico di un compagno. Al di fuori dei 17 feet, tanto per dirla all’americana, la pericolosità scema notevolmente fino ad arrivare ad essere una sorta di forzatura come dimostrano i soli 15 tiri realizzati su 48 tentativi in una intera stagione, quella passata. Ed allora l’interrogativo era: ma può bastare per continuare la sua carriera ad altissimo livello? Può bastare per non essere più considerato l’anello debole dei Celtics nonostante l’ultimo indossato da Celtics è stato in parte anche merito suo? Assolutamente si. Questo è stato il responso di questa stagione, questo il responso dei playoff, questo il responso di una serie Finale che vuoi o non vuoi l’ha visto ancora una volta protagonista nel bene e nel male. Prendere o lasciare. O lo si ama o lo si odio. Non c’è via di mezzo, perché lui è un giocatore che non ha vie di mezzo, un giocatore per il quale, forse, non è stato ancora coniata una specie di classificazione. Ridurlo a quella semplice di playmaker sarebbe se non riduttivo, un qualcosa che ci andrebbe davvero molto vicino. «E’ il nostro quarterback, un giocatore davvero speciale e con pochi eguali». Queste le parole dei compagni di squadra. Un giocatore che è stato capace di convincere gli addetti ai lavori di una Nba intera ad inserirlo nella lista dei migliori difensori della Lega, per lui che sulla palla non è certo un mastino od il Ron Artest della situazione. Ma ancora una volta prendere o lasciare. I numeri nelle palle recuperate, gli danno ragione. La capacità di strapparti il pallone dalle mani con la sua diabolica idea di farti passare per poi rubartela da dietro grazie alle lunghe leve che si ritrova attaccate alle spalle. Ma ancor di più un giocatore che è stato capace di entrare direttamente nell’elite della Lega di soppiatto, senza farsene accorgere e con sempre qualcuno che alle spalle mugugnava. Ottantuno partite da titolare e punto fermo nel quintetto di Doc Rivers (altro dato che rientrerebbe di diritto nelle stranezze della vita visto il non rapporto idilliaco che c’è tra i due). Un punto dal quale il coach dei Celtics nelle sue girandole di cambi, anche in quelli post decisione di diminuire il minutaggio di tutti, non ha mai saputo sottrarsi (dai 1179 minuti giocati insieme a quello che prima delle Finals è stato definito come lo starting five mai battuto in una serie di playoff quando erano in campo tutti assieme ovvero in compagnia di Allen, Pierce, Garnett e Perkins, fino ad arrivare ai 17 giri di lancette condivisi con Daniels, Pierce, Davis e Wallace ndr). Ottantuno partite, 48 vittorie, 23 sconfitte, 40 doppie-

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doppie e due volte con il suo nome iscritto nell’ambito della cosiddetta ‘triple double’. La stessa tripla doppia (19 punti, 12 rimbalzi e 10 assist) che ha letteralmente scioccato il mondo in gara2 contro i Lakers o quella che ha scioccato antecedentemente i Cleveland Cavaliers e Lebron James nella gara2 delle semifinali di Conference (18 rimbalzi, 13 assist e 29 punti) e che ha consegnato alla Nba avvenire un giocatore differente dallo stereotipo di point guard. Un giocatore che passa, prende rimbalzi e tira. Già tira. Perchè rispetto a quanto si diceva in precedenza, quella terminata con lo ‘sweet sixteen’ dei Lakers è stata la stagione in cui Rondo ha dimostrato di prendersi con continuità e con continuità disarmante anche segnarlo, quel tiro dai 4-5 metri che sistematicamente gli ha concesso Kobe Bryant. Lo stesso tiro che ha ribaltato come un calzino le serie precedenti mettendo a sedere i vari antagonisti da quelli della Florida ovvero Nelson, Williams, Arroyo, Chalmers e compagnia cantante, fino ad arrivare a quelli forse più quotati del team dell’Ohio dei Cleveland Cavaliers al secolo Mo Williams e Delonte West (la sua serie migliore quella in cui ha concluso

con 20 punti abbondanti di media, 11,8 assist con il picco dei 19 in gara 2 alla Quiken Loans Arena di Cleveland e 6,3 rimbalzi). Tiro che è arrivato a qualche secondo dall’essere l’arma che avrebbe regalato il 18esimo stendardo da appendere al tetto del Garden in quel di Boston con la tripla del -2, prima dei liberi di Vujacic che hanno lanciato i titoli di coda sul 16esimo da issare allo Staples nel prossimo fine ottobre. Ma ancora una volta non c’è pace. Ancora una volta mugugni, piccoli a dire il vero, vista la cavalcata dei Celtics fino lla gara7 di Finale ma qualcuno c’è. C’è, in vista prima di tutto del futuro. Un futuro che con ogni probabilità non vedrà più Doc Rivers, non vedrà più Ray Allen, nonostante le dichiarazioni d’amore di He Got Game, e che dovrà ripartire dall’accoppiata Garnett-Pierce, vecchia ma pur sempre di qualità, e da colui che non ha ancora trovato una collocazione, una consacrazione definitiva, come se tutto quello che ha fatto in questa stagione ed in questi playoff non bastasse per fungere da carta di identità necessaria e valida per essere la nuova e futura pietra miliare dei Boston Celtics.

L’investitura di coach Doc Rivers: «Date la palla a Rondo e corriamo» «Abbiamo bisogno di correre. Difendiamo, prendiamo il rimbalzo e poi date la palla a Rondo e correte». Le parole di Rivers durante un timeo out delle Finals Anche il rapporto è quello che è, anzi quello che è sempre stato, la professionalità e la voglia di vincere, oltre che quella di leggere le partite in maniera pressoché perfetta, non poteva certo distogliere il timoniere dei Celtics ad una scelta diversa. Era chiaro e cristallino come le acque delle Bahamas, che con Rondo in cabina di regia stile Michael Shumacher dei tempi d’oro, a schiacciare il piede sull’acceleratore, Boston era tutt’altra squadra. Forse non ci si aspettava un’investitura cosi diretta, ma quando c’è in gioco l’anello tutto è lecito, anche puntare su chi non è da sempre stato il tuo stereotipo di giocatore preferito.

LE STATISTICHE DI RAJON RONDO

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LA SFIDA NELLA SFIDA Paul Pierce vs Ron Artest. Un duello che ha fatto scintille. “The Captain and the Truth” contro “The True Warrior”. Ad unirli qualcosa nei loro nickname. La “verità” per Paul Pierce, “il vero” (guerriero) per Ron Artest. Soprannomi per gente autentica, per soldati in missione. Pierce è un losangelino (Inglewood) di nascita, trapiantato a difesa della fede bianco-verde. Artest from Queensbridge (New York) è il guerriero che ha trovato la pace interiore a Los Angeles, sotto la guida di coach Zen, al secolo Phil Jackson. I numeri. Paul Pierce ha chiuso la serie finale con 18.0 punti, 5.3 rimbalzi, 3.3 assist in 39.8 di utilizzo media. Double P ha tirato con il 43% dal campo (40% da tre), 86% ai liberi. Ron Artest ha viaggiato a 10.6 punti, 4.6 rimbalzi, 1.6 assist in 35.9 minuti di media. Ron Ron ha tirato con il 36% dal campo (34% da tre), 55% ai liberi. Guardando queste cifre è facile indovinare chi ha vinto il duello. Le scelte. I numeri non dicono tutta la verità ma raramente mentono. Eppure i punti, vanno pesati e non solo contati. Il Capitano dei Celtics aveva il compito da primo violino di portare Boston al titolo come nel 2008. Artest per i Lakers era da considerarsi il terzo violino in attacco (dietro Kobe e Gasol), ma il primo in difesa. E la difesa di Artest su Pierce è stata al limite della perfezione. Una difesa fisica, intimidatoria come nello stile duro e puro del newyorkese. Ma anche una difesa tecnica. Artest è riuscito a non far entrare in ritmo Pierce, precludendogli ricezioni comode, soprattutto all’inizio dell’azione. Ha speculato un po’ sulle percentuali dalla lunga di Pierce, togliendo al 34 la letale penetrazione in slowmotion, con giro dorsale annesso, che in questi anni ha mietuto vittime su vittime nella Nba. Nelle rare occasioni in cui Pierce è riuscito a battere dal palleggio

Ar test V s Pierce


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V INCENZO INCENZO

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Artest, lo ha fatto sempre attaccando nei primi secondi dell’azione, attaccando dal gomito. Troppo spesso Pierce si è accontentato di jump shoot dalla media con passo d’arretramento, e quasi mai è riuscito a prendere con autorità l’amata linea di fondo, dove comunque ad attenderlo c’erano gli artigli di Gasol, Bynum e/o Odom. I 18 di media sono arrivati con il 43% e un grosso volume di tiro. Pierce ci ha provato e non demerito, ma il vero “The Truth” è un’altra cosa e in queste Finals la “Verità” ha fatto capolino troppe poche volte per le ambizioni dei Celtics. Giudizio. Il Guerriero ha trovato la strada della verità e l’ha fatta propria. Ron Artest da Queensbridge batte Paul Pierce da Inglewood. Per la difesa certo, e poi per quell’incredibile tiro da tre punti a ‘1 dalla fine (valso il +6) che ha frantumato i sogni di Paul Pierce e della città di Boston.

DI DI

G UIDA UIDA


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GLEN ‘DOC’ RIVERS

Celts: ‘Rivers flows

Glenn Anthon “Doc” Rivers, nato nel 1961, ex coach degli Orlando Magic e ex giocatore di Hawks, Clippers e Spurs. Coach dell' anno nel 2000, dopo una sorprendente stagione con gli allora derelitti Magic, campione NBA nel 2008, al primo tentativo con una squadra realmente da titolo. Oggi, dopo la sconfitta in un'epica gara 7 allo Staples Center, non potra' fumare quel sigaro che si accese ne l 2008, commemorando Red

Auerbach dopo aver sconfitto gli stessi Lakers in 6 gare, in una finale dal volto completamente diverso da questa. Adesso, al termine di una stagione comunque da incorniciare, l'incertezza regna sovrana. Non sappiamo che fine faranno questi Celtics, dove finira` la sua carriera il free agent Ray Allen (promesso sposo degli Heat di Dwane Wade) ne` se Kevin Garnett continuerà' la sua avventura in biancoverde, ne` chi prende-


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L ORENZO ORENZO

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s in you’?

ra` il posto del mago della difesa Thibodeau, futuro head coach in quel di Chicago. Quello che sappiamo e` che Rivers si e`reso protagonista di un'impresa assoluta, da pochi pronosticata, nell'anno della presunta consacrazione di LeBron James e dei Magic, pronti a ripetere l'approdo alle finals centrato lo scorso anno. Ha letteralmente sovrastato Mike Brown e Stan Van Gundy e ha giocato alla pari con un santone come Phil

DE DE

S ANTIS ANTIS

Jackson, che oltretutto aveva una squadra molto piu`completa della sua. Una storia di spogliatoio vuole che Rivers, dopo un'inopinata sconfitta in stagione regolare, abbia chiesto 100 dollari ad ognuno dei suoi giocatori, promettendo di restituirli solo se gli stessi l'avessero riportato alle Finals. Certo e` che per ripetersi come Eastern Conference Champion “Doc” ha messo anche parecchio del suo e di certo non gli e` dispiaciuto restituire quei soldi. Se il primo turno contro Miami e Dwane Wade non ha rappresentato un grosso scoglio, data la pochezza, escluso Flash, di quella squadra, a partire dalle semifinali di conference ha sempre recitato la parte dell'underdog, partendo oltretutto con il fattore campo a sfavore, dopo il quarto posto in regular season con 50 vittorie a fronte di 32 sconfitte. Se nelle difficolta` si vedono i grandi uomini, Rivers si e` dimostrato tale e contro i Cavs del prescelto i suoi hanno giocato una serie praticamente perfetta, con Garnett in grande spolvero, tanto che nell'epilogo di gara 6 Brown, disperato, lo ha fatto marcare da un appesantito Shaquille O'Neal con risultati oserei dire alterni. Ma il suo capolavoro personale arriva contro i quotatissimi Orlando Magic, reduci da 8 vittorie consecutive nei playoff dopo le serie farsa con Bobcats e Hawks. Rivers ha cavalcato un onnipotente Rajon Rondo, ma ha anche surclassato tecnicamente Van Gundy, con una semplicissima mossa che ha gli ha permesso di inceppare l'attacco dei Magic, sembrato fino ad allora una macchina perfetta: ha deciso di lasciare sempre e comunque Dwight Howard in single coverage contro Kendrick Perkins. Risultato? Howard ha giocato probabilmente la sua miglior serie dei playoff in carriera con 22 punti di media e 11 rimbalzi, ma sono completamente spariti dalla serie tutti i tiratori di Orlando, protagonisti di uno show deprimente, tra Carter, Lewis e Matt Barnes, perchè non hanno potuto usufruire degli scarichi (leggi tiri aperti) derivati da un raddoppio in post basso. Vinte le prime 3 gare in scioltezza i Celtics sono arrivati alle Finals dopo 6 episodi di finale di conference, ma con poche partite realmente sudate. Il copione non e`cambiato, Celtics dati sfavoriti da tutti, ma che riescono ad arrivare sul 3-3 ad una storica gara 7 allo Staples Center, dopo aver trovato eroi diversi in ogni singola serata, come vuole lo spirito che Rivers ha inculcato alla squadra, consapevole di non disporre piu` della macchina da guerra vista 2 anni fa: giocare insieme per vincere insieme, dando spazio e credito a tutti. La tegola dell'infortunio a Kendrick Perkins ha sicuramente inciso sul risultato, ma bisogna dire che Rasheed Wallace, saggiamente proposto in quintetto base, ha risposto alla grande, cosi` come tutti i biancoverdi, che hanno dimostrato il famoso cuore del campione di cui parlava Tomjanovich 3 lustri orsono. Come detto in apertura, non sappiamo il destino di questa squadra, sappiamo solo che il progetto, partito tre anni fa con un training camp all'ombra del colosseo, ci ha regalato delle partite e delle emozioni fantastiche, merito in primis dall'uomo chiamato Glenn, ma conosciuto da tutti col nome di Doc, ereditato da quel Dr J suo idolo di gioventu`.


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‘Jackson’s Eleven’

LA LEGGENDA

Chissa` se, dopo gara 1 di questa finale, dove i suoi Lakers si sono imposti senza troppi patemi per 89-102 su Boston, Phil Douglas Jackson , classe 1945, ex giocatore di Knicks e Nets ed ex allenatore dei Bulls, non stesse gia` ridendo sotto i (compianti) baffi. Gia`, perche`se i numeri non sono noccioline, il mentore zen ha vinto 48, dicasi 48 serie di playoff (finali comprese) su altrettante giocate dopo aver portato a casa gara 1. L'incantesimo non si e` spezzato nemmeno stavolta, merito suo e di una squadra che obbiettivamente sulla carta non conosceva rivali. Partito Trevor Ariza, killer silenzioso degli scorsi playoff, e` arrivato un caratterino niente male di nome Ron Artest, uno che non si e` mai fatto problemi a esternare i suoi (spesso bellicosi) pensieri. Ma con Phil e` diverso, Phil emana una strana aurea da quelle imponenti spalle. Difficile ricordare un allenatore con piu`carisma di lui, raramente amato alla follia dai suoi giocatori, Jackson sa ottenere il rispetto di tutti, compreso Artest (cresciuto in zone non proprio raccomandabili dello stato di New York) con un solo sguardo, che ti penetra fino in fondo e ti fa abbassare la testa in segno di sottomissione. 11 titoli non sono un caso, e arrivano da un sistema di gioco collaudato alla perfezione, quel Texas Triangle del grande Tex Winter, ma anche dalla filosofia zen, e dai principi di vita dei nativi americani. Uomo di poche parole, quando pero` esce allo scoperto lascia il segno, come nella recente conferenza stampa del dopo gara 6, quando ha apertamente criticato la politica dell'NBA di far giocare partite ogni due giorni. Gia` dal 1996 e` inserito tra I 10 migliori allenatori della lega, la sua carriera e` forse giunta al capolinea, o comunque ad uno stop, se non a un sorprendente cambio di panchina. Tanti gli interrogativi sul suo futuro, a partire da quel “contrattone” da 12 milioni di dollari che la dirigenza non avrebbe intenzione di continuare a garantirgli. Da qui le ipotesi piu` disparate, dai Nets di Prokhorov agli ex Bulls (notizia peraltro smentita dallo stesso Jackson, tanto che a Chicago allenera` Thibodeau). Phil non si e`scomposto piu` di tanto, come suo solito e ha portato a termine il suo lavoro, vincendo, come al solito. Il viaggio verso il secondo anello consecutivo dei Lakers, inizia dal 57-25 di stagione regolare, che garantisce il terzo miglior record assoluto nella lega ma il primo posto ad Ovest e, piu` tardi, il fondamentale fattore campo nella finale. In una Western conference in netto ribasso, I Lakers superano prima I Thunder dello stupefacente Durant per 4-2, poi I bolliti Utah Jazz per 4-0, di fronte ad un altro santone del basket moderno, quel Jerry Sloan che, insieme allo stesso Phil ha animato due delle piu` belle serie finali della storia nel 97 e nel 98. I Suns di Alvin Gentry hanno rappresentato sicuramente uno scogllio piu` impegnativo, con il loro pick & roll collaudato tra Nash e Stoudamire e una panchina tra le piu` produttive dell'NBA. Alla fine la differenza la faranno i centimetri dei Lakers, con un Pau Gasol mai dominante come in questa stagione, un fortunato tip-in del gia` citato Ron Artest sulla sirena di gara 5 e le precarie condizioni fisiche di Steve Nash, ma anche la maggiore esperienza di Jackson rispetto al collega, e una invidiabile tendenza a vincere le gare fondamentali al di fuori delle mura amiche, proprio come nell'epilogo di gara 6. Poi arrivano le finali, poi arriva quella voglia di rivincita covata sin dal giugno 2008, poi arrivano i Celtics e Jackson si trova davanti a una grande sfida, l'ennesima della sua folgorante carriera. Il pericolo numero 1 si chiama Rajon Rondo, tanto che Phil lo fa marcare da Kobe Bryant, limitandone in parte l'esplosivita`, mentre il veterano Fisher prende Ray Allen, mai un fattore nella serie se si esclude gara 2. Si arriva in assoluta parita`(3-3) a una gara 7 di finale, partita che nemmeno Jackson ha mai giocato in vita sua. Come va ripetendo coach Zen da anni: “ogni partita ha un momento della verita`” e in gara 7 quel momento e` stato probabilmente la tripla di Artest a meno di un minuto dalla fine. Dopo di che litri di champagne hanno bagnato la camicia di Phil, per l'undicesima volta; ora si possono fare tutte le congetture e le chiacchere che si vogliono ma “il lavoro e` stato portato a termine”. Ancora.

DI

L ORENZO

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S ANTIS


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L’Albo d’Oro della Nba

1946/47 Philadelphia Warriors; 1947/48 Baltimora Bullets; 1948/49 Minneapolis Lakers; 1949/50 Minneapolis Lakers; 1950/51 Rochester Royals; 1951/52 Minneapolis Lakers; 1952/53 Minneapolis Lakers; 1953/54 Minneapolis Lakers; 1954/55 Syracuse Nationals; 1955/56 Philadelphia Warriors; 1956/57 Boston Celtics; 1957/58 St. Louis Hawks; 1958/59 Boston Celtics; 1959/60 Boston Celtics; 1960/61 Boston Celtics; 1961/62 Boston Celtics; 1962/63 Boston Celtics; 1963/64 Boston Celtics; 1964/65 Boston Celtics; 1966/67 Philadelphia 76ers; 1967/68 Boston Celtics; 1968/69 Boston Celtics; 1969/70 New York Knicks; 1970/71 Milwaukee Bucks; 1970/71 Milwaukee Bucks; 1971/72 Los Angeles Lakers; 1972/73 New York Knicks; 1973/74 Boston Celtics; 1974/75 Golden State Warriors; 1975/76 Boston Celtics; 1976/77 Portland Trail Blazers; 1977/78 Washington Bullets;

1978/79 Seattle SuperSonics; 1979/80 Los Angeles Lakers; 1980/81 Boston Celtics; 1981/82 Los Angeles Lakers; 1982/83 Philadelphia 76ers; 1983/84 Boston Celtics; 1984/85 Los Angeles Lakers; 1985/86 Boston Celtics; 1986/87 Los Angeles Lakers; 1987/88 Los Angeles Lakers; 1988/89 Detroit Pistons; 1989/90 Detroit Pistons; 1990/91 Chicago Bulls; 1991/92 Chicago Bulls; 1992/93 Chicago Bulls; 1993/94 Houston Rockets; 1994/95 Houston Rockets; 1995/96 Chicago Bulls; 1996/97 Chicago Bulls; 1997/98 Chicago Bulls; 1998/99 San Antonio Spurs; 1999/2000 Los Angeles Lakers; 2000/01 Los Angeles Lakers; 2001/02 Los Angeles Lakers; 2002/03 San Antonio Spurs; 2003/04 Detroit Pistons; 2004/05 San Antonio Spurs; 2005/06 Miami Heat; 2006/07 San Antonio Spurs; 2007/08 Boston Celtics; 2008/09 Los Angeles Lakers 2009/10 Los Angeles Lakers


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LA Lakers Larry O’Brie


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NBA PLAYOFF

s win the: en ‘Rumble’


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Stephen Curr y DI

ROOKIE TIME

Quando si parla di una guardia che gioca nei Golden State Warriors, e l'allenatore è Don Nelson, probabilmente è comune pensare a un giocatore duttile, che abbia anche fisico, ma che sia soprattutto un corri e tira alla Stephen Jackson, alla Azbuike e così via. Golden State sentiva la mancanza di un giocatore leader dal playmaking, giacchè Monta Ellis non è nè Baron Davis nè D-Fish, ma il vecchio Don sa sempre come stupirci, e ha pescato dal suo armadio un giovane niente male, un po’ play, un po' guardia, un po' specialista, un giocatore a cui affideresti la tripla della vittoria: Stephen Curry. Giocatore polivalente, dalla grande lettura, che porta la palla a testa alta, che riceve sugli scarichi e ha piedi molto veloci ( e lo dimostra anche in difesa), il buon Stephen ha subito nel corso della carriera parecchie critiche, per l’essere troppo piccolo fisicamente, giacchè il suo 1.91 su cui distribuisce 84 kili lo mette spesso in difficoltà al cospetto di pari ruolo più alti e grossi. Per questo motivo era stato scartato all’ammissione al college, non gli erano bastati i record di punti stracciati nelle high school di Charlotte. Alla fine, pur non realizzando il sogno di emulare papà Dell di poter giocare a Virginia Tech, si accontenta per Davidson dove è stella indiscussa e finisce sempre nei quintetti migliori delle annate 2008 e 2009. Queste ottime prestazioni gli sono valse la chiamata di Golden State, che ha visto un talento un po’ predestinato (anche papà Dell, ora a Charalotte da vice di Larry Brown, era stato un grande tiratore da dietro l’arco, nel 1996 il

D OMENICO L ANDOLFO

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migliore) ma che ha creduto in lui contro tutto e tutti. Capacità di tiro sopraffina, un rilascio di palla, morbido e vellutato, piedi veloci che gli garantiscono un primo passo su cui cadono i difensori. Ha quindi sempre la possibilità di prendersi un tiro aperto, e se ha più di un metro di spazio scrivi 2 o 3 a referto. Capacità di lettura testimoniata non solo dalla sua produzione in termini di punti, che nella sua prima stagione sono stati più di 15 di media, ma anche di rendersi utile al servizio di una squadra non di primissimo livello, ma che di talento testardo e individuale ne ha tanto. Riuscire a ritagliarsi 6 assist di media, spiccioli a rimbalzo, e provare anche a sporcarsi le mani in difesa (forse l’unico dei Warriors che davvero lo fa) lo hanno fatto mettere sotto i riflettori e regalato una nomination nel miglior quintetto dei rookie. Inoltre ha anche partecipato alla gara del tiro da tre punti, già: il tiro oltre l’arco. In una squadra che corre e tira senza mai costruire, è difficile avere alte percentuali, o se volete, è facile avere alte medie realizzative. Le sue però non sono forzature, non sono creazioni egoistiche, ma sono frutto di propensione ad applicare

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materialmente ed possessivamente uno scarico, un’uscita, una situazione. In prospettiva è una guardia alla Ray Allen, forse con meno fisico, ma di sicuro con una mano molto solida, specie quando pesa. Non avrà fatto il cinquantello come Jennings, ma a Portland (contro una squadra difensivistica per eccellenza)ne ha messi 42, e ha un record personale di 7 triple a bersaglio contro i Clippers. Tra l’altro proprio a smentire quelli che lo criticavano si è preso il lusso di piazzare qualche stoppata qua e là nella stagione, a testimonianza che a saltare ce la fa…Prospettive future e margini di miglioramento per questo ragazzo sono sicure, ma resta solo un interrogativo: il livello medio basso dei Warriors è quello che davvero servirà a far emergere questo ragazzo, se la squadra è fatta da solisti e poca costruzione di gioco? Forse i risultati di papà Dell in questa squadra potranno essere battuti, ma di certo non potrà aspirare se non a qualche riconoscimento individuale, che rimane fine a se stesso, ma mai lo renderà un campione puro, come può essere un Wade, un Jr Smith e così via. Ma di talento ce n’è, e tanto…

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LE STATISTICHE DELLA STAGIONE IN TEXAS

...COSI NELLE ULTIME CINQUE PARTITE...


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Il mondo di Lebron DI

LA RUBRICA

Seconda puntata della telenovela LeBron, e le sorprese, come non era difficile immaginare, cominciano ad arrivare. Precisamente da Los Angeles, e dalla parte “meno nobile” della città, ossia da quei Clippers per la cui proprietà sembra essersi fato avanti il multimiliardario David Geffen. Produttore discografico e cinematografico è il fondatore della Asylum Records e della Geffen Records (che ha pubblicato artisti del calibro di Elton John, Madonna e Guns’n’Roses), oltre ad essere co-fondatore della Dream Work e incluso nella lista degli uomini più ricchi d’America, con un portafoglio netto stimato attorno ai 4,6 miliardi di dollari. Tutti dati amplificati da una situazione in cui i Clippers, fino a questo momento, non erano stati minimamente presi in considerazione nella corsa a LBJ nonostante un nucleo di giocatori niente male e una piazza importante come Los Angeles alle spalle. E questo, in sostanza, a causa della riluttanza a spendere dell’attuale padrone, il famigerato David Sterling, ritenuto all’unanimità il peggior proprietario dell’intera NBA, celebre in passato per aver lasciato andare free agent che avanzavano pretese economiche troppo elevate, compromettendo continuamente il destino di una franchigia già di per suo non baciata dalla buona sorte. Il solo interessamento di mister Geffen ha scatenato una ridda di voci, intensificate dall’invito che lo stesso Geffen avrebbe girato a LeBron James per vedere assieme dalle prime file gara 2 delle Finali NBA. James avrebbe rifiutato, per l’ovvio rumore che la sua presenza poteva suscitare in questo periodo accanto a un personaggio simile, ma c’è comunque chi afferma di aver visto Maverick Carter, il famoso amico tuttofare di James e di mezza NBA, a colloquio con Geffen dentro lo Staples proprio in occasione della partita sopra citata. Per il momento, però, Sterling ribadisce di non aver nessuna intenzione di cedere la quota di maggioranza della società, ritenendolo un asset finanziario troppo importante per lui, ma certo i tifosi dei Clippers, capeggiati dal Darrel Clipper di cui abbiamo parlato nel primo appuntamento, pregano perché cambi idea rapidamente. Anche perché c’è un’altra ipotesi, che al momento sembra molto fantasiosa (ma si sa che quando cominciano a correre le voci gli accostamenti, anche fantasiosi, vengono da sé), che riguarda il futuro di Phil Jackson. Come noto, i Lakers hanno offerto un rinnovo al ribasso a coach Zen, rifiutato con sdegno, come ovvio attendersi. Ora le ipotesi sul futuro dell’allenatore più vincente della storia del gioco si dividono tra il ritiro, più volte ventilato, o la prosecuzione della carriera a Los Angeles, sponda Lakers, o al massimo in uno fra una ristrettissima cerchia di club, fra i quali, secondo alcuni, ci potrebbero essere i Clippers. Tutto risale a un intervista che Jackson rilasciò nel momento in cui i Velieri licenzia-

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rono Mike Dunleavy, mettendo la squadra nelle mani di Kim Hughes. Le parole che oggi accendono le fantasie degli appassionati sono queste: “Credo che se qualcuno con un po’ di esperienza fosse disposto a dare una chance ai Clippers, potrebbe ottenere dei risultati e far svoltare finalmente il destino di questa franchigia.” Parole che oggi cadono come una ciliegina sulla torta preparata dall’interessamento di Geffen. Se le due ipotesi (il passaggio di proprietà e il salto di sponda di Phil Jackson) dovessero divenire realtà, allora i Clips sarebbero davvero in primissima posizione per accaparrarsi The King. Siamo alle ipotesi, ma prendiamo atto dell’entrata in scena definitiva dei cugini poveri nei nostri scenari. Il tutto mentre a Cleveland sono ancora in attesa di conoscere il nome del nuovo coach. Per un lungo periodo è sembrato che l’investitura sarebbe ricaduta su Tom Izzo, da Michigan State University. Ma nei giorni scorsi lo stesso coach ha fatto sapere, tramite conferenza stampa ufficiale, di voler rimanere con gli Spartans per il periodo di tempo più lungo possibile, lasciando così aperte diverse piste, con il nome di Byron Scott in vantaggio sulle altre candidature. Candidature che, comunque, non saranno passate al vaglio di LeBron James: “Sarebbe ingiusto nei confronti suoi e della società”, le parole dell’owner Dan Gilbert. Diverso panorama invece a Chicago, dove i Bulls hanno messo sotto contratto il guru difensivo Tom Thibodeau, in uscita dei Celtics, come prossimo allenatore della franchigia. Mossa che non dovrebbe però spostare troppo gli equilibri, visto che James ha fatto sapere di non essere intenzionato a scegliere l’allenatore della squadra in cui giocherà, al massimo farà sapere qualcosa nel caso l’allenatore non sia di suo gradimento. Thibodeau, in ogni caso, con la sua conoscenza difensiva e la fama che si porta dietro và a rinforzare lo status di un team come Chicago, anche se negli ultimi giorni la pista Bulls si è un po’ raffreddata. Per tenere calde le piste delle proprie squadre, allora, ci hanno

pensato diversi tifosi, aprendo almeno tre siti con il solo intento di portare James a vestire la propria casacca nel prossimo anno. Sendlebrontochicago.com è il sito aperto da tale AJ Barthold per raccogliere testimonianze di affetto per il Prescelto da parte dei tifosi e dove è possibile leggere articoli del tipo: “Cara New York, ecco perchè non prenderai LeBron” con a seguito cinque motivazioni più o meno futili. Non bastasse, in città sono apparsi cartelloni inneggianti “Chicago wants LeBron unfinished business”, con raffigurati i 6 trofei dell’era Jordan e a fianco un fantomatico settimo titolo NBA. Da New York non si è fatta attendere una risposta adeguata. Cliccando cmonlebron.com si può visualizzare un video dove personaggi noti come il sindaco Bloomberg invitano LeBron a scegliere i Knicks come prossima tappa della sua carriera. Pleasedontleave23.com, allora, è la versione Cleveland del giochino. In sostanza una campagna, con annessa raccolta firme, per implorare LBJ di non lasciare il suo stato natio. E’ stata addirittura creata una mascotte raffigurante lo stato dell’Ohio con sopra una faccina triste che versa lacrime ed è anche possibile acquistare il merchandising del sito, come ad esempio una maglietta che raffigura la stessa mascotte. Molto molto difficile pensare che siano queste il genere di cose che potrà influenzare la decisione di James, ma suscita comunque curiosità vedere l’attenzione che c’è attorno alla decisione di questo ragazzo di 25 anni. Per finire la solita virtualissima classifica tra le squadra che avanzano possibilità di accaparrarsi i servigi del futuro numero 6. In testa rimane comunque Cleveland, perché in ogni caso il sentimento di appartenenza e riconoscenza verso la propria città non può non far capolino nella testa di James. Si parla di un possibile contratto triennale, per poi rivalutare la situazione. Stabili Knicks e Bulls, subito dietro i Clippers che compiono passi avanti. Perdono colpi Miami e New Jersey, ipotesi sempre più remote.

LA CORSA PER ACCAPARRARSI ‘THE CHOSEN ONE’

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IL PERSONAGGIO

R AFFAELE VALENTINO

Quando Joe Dumars, executive dei Detroit Pistons, a luglio della scorsa estate firmò con un contratto quinquennale Ben Gordon, in molti applausero l’operazione condotta dall’Mvp delle Finals del 1989 con i Pistons. Gordon infatti veniva da una stagione brillante giocata con i Bulls, chiusa con 20.7 punti di media giocando tutte e 82 le partite di regular season. Ma non solo questo. L’ex Connecticut nei Playoff è riuscito anche a salire di livello, toccando quota 24 punti ad allacciata di scarpe nelle 7 partite della serie di primo turno contro i Celtics. Per lui anche una partita da 42 punti rispondendo tripla su tripla a Ray Allen, mentre in gara 7 è stato l’ultimo ad arrendersi con i suoi 33 punti. Tutti dopo questa performance si attendevano il rinnovo del contratto per Big Ben, finchè appunto i Pistons gli offrirono 55 milioni da spalmare su 5 anni per ottenere le sue prestazioni sportive. Impossibile dire di no, gli stessi Bulls non potevano arrivare ad offrire cosi tanto per trattenerlo. Cosi Gordon si trasferisce in Michigan insieme all’altro free agent firmato da Dumars: Charlie Villanueva. Probabilmente gli intenti di Dumars erano quelli di ricostruire la squadra totalmente, e dopo le cessioni di Billups e Wallace, il suo programma era quello di cedere Rip Hamilton. Infatti Gordon e

...BENe ma non BENissimo...


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Hamilton sono due giocatori molto simili, entrambi tiratori anche se con stili differenti. Purtroppo il piano di Dumars è fallito e i due si sono ritrovati a giocare assieme. E quello che ne ha risentito di più è stato appunto l’ex Bulls che ha giocato solamente 28 minuti di media (il minutaggio più basso dai tempi dell’anno da rookie) in 62 partite. Il suo rendimento è calato drasticamente, il suo bottino di punti personali parla di 13.8 punti di media, la stagione peggiore di sempre per quanto riguarda questa statistica, non era mai sceso sotto i 15 punti di media da quando era entrato nella lega. Comunque Joe Dumars sembra intenzionato a dargli fiducia, visto a quanto ha dichiarato negli ultimi giorni: “Io credo che nelle prime 25 partite Ben sia stato eccezionale. Credo che di tutti i giocatori della squadra che abbiano avuto infortuni, Ben sia stato quello che ha sofferto maggiormente. Al ritorno dall’infortunio dopo quelle 25 gare, non è stato più in grado di trovare il ritmo che aveva in precedenza. Ma comunque sappiamo che questo ragazzo ha alle spalle 5 stagioni dove ha veramente mostrato tutto il suo potenziale, non credo che tutto sia andato perduto dopo una brutta stagione costellata anche da infortuni. Vedrete che la prossima stagione si riscatterà.” In linea di massima noi siamo d’accordo con Joe D., Ben avrà tutta la prossima stagione per cancellare le negative performance di quest’anno. Il mese di aprile è comunque andato discretamente per Gordon, ha fatto segnare il suo massimo stagionale di 39 punti nella vittoria contro Miami, segnando 21 o più punti in ognuna delle ultime 4 gare. Speriamo di ritrovare il vero Ben Gordon al nastro di partenza della stagione 2010-11, magari con un Hamilton in meno a rubargli minuti e un distributore di gioco migliore di Stuckey (non proprio un play classico) a metterlo in ritmo.

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L’ANALISI

Butler, la scelta giusta per i Mavs?


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B ENEDETTO ENEDETTO G IARDINA IARDINA DI

Sarebbe dovuto essere il tassello fondamentale per gli ambiziosi Dallas Mavericks, che puntavano al trono dei Lakers nella Western Conference, invece si è spento insieme ai suoi nuovi compagni al primo turno degli scorsi playoffs. Stiamo parlando di Caron Butler, che a febbraio è passato dall'essere la punta di diamante dei disastrati Wizards (già privi di Arenas) al poter lottare ai vertici della Lega, dovendosi però inserire in una squadra con delle gerarchie ben consolidate. La stagione per Butler non è iniziata nel migliore dei modi, avendo disilluso sin dall'inizio, insieme a tutti i suoi compagni, le previsioni degli addetti ai lavori, che vedevano Washington come una delle possibili sorprese della stagione dopo i rientri di Arenas e Jamison. A livello realizzativo non mostra la continuità degli anni passati, e questo fa sprofondare ancora di più il team capitolino, già penalizzato dai guai di Arenas. Insieme a Jamison scappa verso lidi migliori, e la franchigia di Mark Cuban lo accoglie a braccia aperte, con la convinzione di poter fare il definitivo salto di qualità. Lo stesso Butler non nasconde le proprie ambizioni dopo il suo approdo in Texas: «Sono entusiasta per questa possibilità di competere per il titolo. Avere a disposizione tutto questo materiale per poter essere competitivi è fantastico, è una sensazione che non riesco nemmeno a descrivere». E in regular season il prodotto di Connecticut si rende protagonista di una buona seconda metà di campionato, anche se conclusa con cifre ben al di sotto dei suoi standard. Riesce ad inserirsi nel sistema impostato da coach Carlisle e riduce notevolmente i suoi possessi, mettendosi a disposizione della squadra. Dimostra inoltre di poter essere una buona opzione in fase difensiva, specialmente in combinazione con Shawn Marion, e grazie anche alle sue prestazioni Dallas si candida come principale antiLakers, classificandosi seconda dopo la stagione regolare nella Western Conference. La sfida ai playoff contro San Antonio sembra dover essere una pura formalità, con i cugini texani apparsi logorati dalla regular season e già eliminati l'anno prima con un upset memorabile. La vittoria nel match d'esordio nella serie sembra galvanizzare ulteriormente Butler e company, ma le speranze dei Mavericks vengono seppellite dagli uomini di Popovich, che vincono la serie per 4-2, lasciando per l'ennesima volta l'amaro in bocca a Dallas. In questa serie Butler, che alza notevolmente le sue cifre, non è esente da accuse, in primis quella di aver forzato troppo in situazioni spesso decisive, basti pensare al 7/18 in gara 4, match che ha cambiato definitivamente le sorti della serie. Oltre a ciò, ha fatto discutere la sua esclusione nel secondo tempo di gara 3. «E' stata una mia decisione» ha ammesso Carlisle, riguardo all'esclusione dell'ex Wizards, «Ho solo mantenuto un gruppo che stava giocando bene. Barea, inoltre, ha fatto delle buone cose». Eppure non è certo lui il primo imputato per l'eliminazione dei Mavericks, visto che si è confermato una buona spalla per Nowitzki, peccato però che tutti si aspettavano dal nuovo arrivo delle prestazioni al di sopra della media, per poter fare il salto di qualità. Per la prossima stagione Butler punta a confermarsi come spalla di Nowitzki, sempre che il tedesco non colga di sorpresa tutti trasfe-

rendosi in un'altra squadra, e i Mavericks proveranno a riscattarsi da un'annata deludente, confermandosi come principale anti-Lakers, in attesa del mercato dei freeagents. La conferma di questo gruppo sarebbe già un ottimo passo per i nuovi Mavericks, ma bisognerà vedere se Butler continuerà a giocare con un numero ridotto di possessi, come in questa regular season, o se inizierà a far pesare maggiormente la sua presenza, intaccando gli equilibri della squadra. Di sicuro, con Butler in campo, Dallas può continuare a far paura, e la rincorsa al titolo può essere qualcosa in più di un semplice sogno.


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Basketball Coachs Clinic Nel weekend dal 16 al 18 luglio il PalaRockfeller di Cagliari sarà teatro del Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010, organizzato dal direttore di Giganti del Basket, Giorgio Gandolfi, in collaborazione con il Comitato Regionale FIP Sardegna, presieduto da Bruno Perra. Con il patrocinio della Federazione Italiana Pallacanestro, del Comitato Nazionale Allenatori della FIP e della Scuola dello Sport Coni Sardegna, oltre al supporto della rivista Superbasket e dello sponsor Nike, la ‘tre giorni’ sarda si prospetta come uno degli appuntamenti più prestigiosi della prossima estate grazie alla presenza di tre relatori di livello assoluto. La scaletta del Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010 prevede infatti le lezioni tecniche del più importante allenatore italiano del momento, il coach del Real Madrid Ettore Messina, di Rich Dalatri, assistente allenatore e player development della franchigia NBA dei New Jersey Nets, e di Kevin Sutton, coach della Montverde Academy High School e assistente della Nazionale USA Under 17. Il programma del Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010 si svilupperà su tre giornate: venerdì dalle 16 alle 19.45, sabato mattina e pomeriggio e domenica dalle 9.30 alle 13.30. Frequentandolo si avrà diritto a 4 punti PAO. La quota d’iscrizione è di 50 euro in pre-iscrizione e di 65 euro se l’iscrizione verrà effettuata in loco. E’ possibile iscriversi contattando il numero di telefono 070-304464, via fax allo 070-

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Basketball Coachs Clinic 304124 oppure tramite email agli indirizzi: info@sardegna.fip.it e cagliariclinic2010@gmail.it. A breve l’organizzazione illustrerà le apposite convenzioni per agevolare gli allenatori che soggiorneranno a Cagliari. Di seguito le ‘bio’ dei tre relatori che daranno lustro al Sardinia Basketball Coaches Clinic 2010 ed in allegato la locandina dell’evento. ETTORE MESSINA. Inizia ad allenare a soli 16 anni le squadre giovanili della Reyer Venezia. Dal 1980 al 1982 è responsabile del settore giovanile a Mestre e nel 1982/83 è assistente allenatore a Udine. Nel 1983 passa alla Virtus Bologna, come responsabile del settore giovanile e assistente della prima squadra. Come capo allenatore in Italia, alla guida della Virtus Bologna (1989-93 e 1998-2002) e della Benetton Treviso (2002-2005), conquista quattro Scudetti, due Eurolega, otto Coppe Italia, una Coppa delle Coppe. Dal 1993 al 1997 allena la Nazionale Italiana, che guida alla vittoria dei Giochi del Mediterraneo e alla medaglia d'argento ai Goodwill Games e agli Europei di Barcellona. Dal 2005 al 2009 allena il Cska Mosca, con cui vince quattro campionati russi consecutivi, due Eurolega (2006 e 2008) e due Coppe di Russia (2006 e 2007). Dall’estate scorsa allena il Real Madrid. Rich Dalatri. E’ stato il primo preparatore fisico a tempo pieno della NBA nel 1987 con i New Jersey Nets, con i quali ha lavorato in due diversi periodi, dal 1987 al 1992 e dal 1997 ad oggi. Tra le sue esperienze lavorative vi è anche quella i Cleveland Cavaliers della NBA, i New York Giants della NFL e l’Università di Mississippi. E’ stato anche preparatore atletico, in Italia, della Fortitudo Bologna e della Phonola Caserta. Dal 2001 al 2007 è preparatore atletico della Nazionale Italiana, con cui ha vinto una medaglia di bronzo agli Europei del 2003 ed una d’argento alle Olimpiadi del 2004. E’ autore di libri ed articoli e ha tenuto numerosi clinic in Europa, l’ultimo dei quali organizzato proprio da Giganti del Basket a Lodi nel nel 2008. Kevin Sutton. E’ allenatore della Montverde Academy, una delle migliori high school americane. E’ stato assistente allenatore alle Università di James Madison e Old Dominion. Si è costruito la reputazione di ottimo istruttore di fondamentali in oltre vent’anni di carriera ed è insegnante nei più prestigiosi camp statunitensi, il Nike Skillz Academy, Five Star Camp ed i camp di LeBron James, Kobe Bryant e Steve Nash. E’ autore di numerosi DVD tecnici di successo. Ha partecipato a quattro camp in Italia, di cui due a Carloforte in Sardegna. Dallo scorso maggio scorso è anche assistente allenatore della nazionale Under 16 USA medaglia d’oro ai campionati americani 2009 di categoria.



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