GIANCARLA CEPPI - IL PANE DEI SOGNI

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Giancarla Ceppi

Il pane dei sogni

Studio Byblos

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© Tutti i diritti riservati all’autore.

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Questo lavoro é la riproposizione di un testo che ho scritto vent’anni fa, dopo aver soggiornato per nove mesi a Bombay - che così allora si chiamava -. A questo ho aggiunto alcune parti contraddistinte dal titolo: Vent’anni dopo, riportanti osservazioni e racconti di vita di persone precedentemente incontrate. Già nella prima presentazione il testo era diviso in due parti: alla prima parte narrativa si giustapponeva un’altra di documentazione comprendente un mio testo frutto di una ricerca sulla condizione femminile in India - su cui ho tenuto due seminari alla terza università di Roma - e stralci di articoli esplicativi di vicende narrate nel libro. A questi, come da indice, aggiungo altri più recenti, tratti da riviste e documenti che danno in sintesi l’idea di quello che è cambiato in questo grande paese che contende alla Cina il primato dello sviluppo nel subcontinente asiatico. Si pensa di corredare il testo con una trentina di foto in bianco e nero del fotografo svedese Borje Tobiasson.

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Indice Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV

Capitolo V Capitolo VI

Capitolo VII Capitolo VIII Intermezzo Capitolo IX

Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII

Il dolce insinuante profumo di zenzero . . . . . . . . . .7 Verso il Laddak . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .25 La leggendaria burocrazia indiana . . . . . . . . . . . . .45 L’amore in India . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .53 Edwina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .54 Shama . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .60 La consumazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .69 Vimal o dell’amore possibile . . . . . . . . . . . . . . . . .72 Il ritorno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .83 Vent’anni dopo. Un funerale laico . . . . . . . . . . . . .88 Da Bombay a Mumbay . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .94 Femministe a Mahim . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .99 La morte -Ti devi abituare . . . . . . . . . . . . . . . . . .103 La destituita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .105 Suma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .109 Natale a Bombay . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .110 Una visita a Falkland road . . . . . . . . . . . . . . . . . .119 La prostituzione sacra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .131 Il mare e la baia di Bombay . . . . . . . . . . . . . . . . .143 Da Madras fino al Sud . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .145 Lettera a Matteo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .148 La missione di Tirupattu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .157 Vent’anni dopo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .162 Contaminazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .167 Ramkali di Bhopal- . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .171 Capo Comorino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .175 Annie Besant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .181 5

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Capitolo I

Il dolce insinuante profumo di zenzero e dei mandorli del Kashmir illanguidisce il cuore. Una costa di monte dalla scarsa vegetazione dietro un cielo terso trasparente, un cimitero islamico, poi il prato verde con le mucche brucanti - quasi un paesaggio svizzero. Ma la vegetazione, le piante, sono altri. Mandorli - chissà quali meraviglie quando sono in fiore -, nascosti dietro una dolce collina digradante, con i sentieri che vanno verso l’acqua del lago. Muhamet, il padre porta un copricapo bianco una papalina all’uncinetto su un viso segaligno e lo sguardo acuto degli occhi neri, le mani atteggiate in preghiera dai movimenti lenti traspiranti dignità. Offre la sua casa all’ufficio turistico con il servitore compreso nel prezzo - il proprio figlio che conosce l’inglese appreso dalla frequentazione pluriennale dei turisti . Dal prato al lago, il passaggio di consegne da padre a figlio. La bellezza delle acque tranquille cosparse di fiori di loto semichiusi, incanta. Si sta avvicinando il tramonto ed il loto dischiude i suoi petali 7

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all’aria fresca della sera, rapisce. Rapisce la mente stanca di continui trapassi di luoghi. Sul percorso dal prato al lago, una comitiva di italiani chiassosi dà un’impronta troppo consueta ai luoghi profumati di zenzero e cannella. L’acqua è ferma, statica e rapisce lo sguardo. Muhamet, il figlio. Come un’ombra questa figura di servo padrone è sempre pronto ad ogni cenno ad apparire, silenzioso con lo sguardo di un cane fedele affittato a termine. Il tè il pranzo e la cena sono scanditi ad ore stabilite e consumati nella stanza di mezzo della house-boat rischiarata da un’ampia finestra da cui si accede al ponticello che si dipana tutto intorno alla barca, così che si possa salire da ogni parte della terra ferma. Sul basso davanzale siede Muhamet, il padre a controllare che tutto proceda bene. Chiede “come va” e se è di gradimento. Il suo inglese gli concede l’uso di sole tre o quattro frasi convenzionali. Muhamet è nato e vissuto sempre a Naghil lake e lo scorrere lento delle giornate cambia soltanto quando arrivano gli ospiti stagionali della casa-barca. Sembra che le orecchie a sventola gli si allunghino quando ascolta le risposte alle sue domande curiose sull’Italia “E voi cosa mangiate, mangiate come noi? come sono le vostre città?”. Diligente come uno scolaro che ascolta intento la lezione della maestra – ma lui non è mai andato a scuola. Quando le ospiti indugiano a parlare in italiano nei suoi occhi traspare la mortificazione di essere lasciato da parte e quando, attirate dagli ipnotici tramonti sul lago, si siedono sui morbidi cuscini bianchi adagiati sulle panche del dehors, Muhamet è 8

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lì presente sempre all’erta attento a cogliere ogni parola. I colori mutano rapidi dal giallo oro al porpora fino al violetto riflessi sulle nubi alte a strati. Lo sguardo di Muhamet va dal sole all’interno della barca e inquieto cerca il colloquio. Vorrebbe viaggiare, vedere altri luoghi, non vuole sposarsi giovane come il fratello che a trent’anni ha già tre figli e il più grande va alle scuole medie. “Ha una moglie sola?” La domanda esce forzata, convenzionale “Certo! Ora noi giovani musulmani siamo diversi, non siamo più così attaccati alle tradizioni. Vedete io per esempio la papalina sulla testa non la porto”. Eppure lui, forse perché non può, non sa andare altrove, cerca qualcosa. Cerca qualcosa in cui credere, capace di dare una dimensione più pregnante alla sua vita che si svolge tra la casa vicina e la barca, arredata con mobili di stile inglese e tappeti della stessa fattura di quelli persiani. Quando non ci sono ospiti, la famiglia non si sposta a vivere nella casa-barca. Dormono tutti insieme nella casa-baracca di legno che sta sulla terraferma e nei lunghi inverni cashmiri si scaldano attorno al fuoco della cucina, in cui l’unico arredo è costituito da bassi sgabelli di pietra e dal focolare formato da due grosse pietre con la carbonella nel mezzo. Sembra impossibile che da una cucina così rudimentale escano piatti elaborati e raffinati: arrosti di agnello e ricette prelibate di cucina cashmira e indiana. La cuoca è la moglie del fratello di Muhamet. Bella donna, dalla corporatura robusta, leggermente appesantita da tre gravidanze, gli occhi color nocciola e la pelle olivastra. Indossa i pantaloni alla turca e si muove con l’autorevolezza e la disinvoltura che le conferisce il ruolo di 9

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maritata con il figlio maggiore del padre vedovo. Si dice che le donne cashmire siano regine in casa propria. Ma quando si incontrano per le strade con i visi coperti di veli nerissimi e le mani inguantate anch’esse di nero, ch’è vergogna mostrarle, viene il sospetto che sia là stessa sorte di reame che viene concesso a chi accetta la resa. Al di fuori del matrimonio, per tali donne, non trattasi di reame bensì di totale mancanza di identità, di inconsistenza. “Ma tu sei diversa, non puoi capire che alle nostre donne va bene così. Perché invece di interpretare il velo nero come segno di oppressione, non provi a vederlo come un modo per rendere uguali tutte le donne, dalle più belle alle più brutte, un modo per nascondere un volto butterato e, senza essere guardata, poter guardare?” dice Kassim, l’amico di Muhamet, quello ricco che ha la fabbrica di papier mais dall’altra parte del lago e lui in Europa c’è già stato e sa come si vive. “Tutte voi non potete capire come non possono capire gli induisti, con la loro religione piena di idoli che li fa prostrare persino davanti a un elefante. Guarda invece i nostri templi come sono spogli. Il nostro Dio non è rappresentabile e Maometto è stato l’ultimo profeta” Mentre pronuncia queste ultime parole il suo volto si indurisce e gli occhi hanno un’espressione ispirata. Porge un opuscolo in cui è ben visibile il nome di Khomeini. “Integralista, sei un integralista islamico?”. La risposta è lunga, articolata piena di argomentazioni di chi ha già a lungo predicato e il suo bel volto acquista un’espressione infervorata. Muhamet, lui che non è tradizionalista è completamente cata10

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lizzato dal suo dire; è attento e interessato. Forse in tutto ciò che sente dire dall’amico, trova una risposta alla sua sete di conoscenza. Il lago immobile si oscura. Gli alti pioppi si stagliano sulla rossa ferita del cielo. Il nome di Marco Polo intarsiato sul frontespizio della house-boat vicina evoca viaggi d’avventura e orizzonti sempre più vasti. Ogni giorno che passa diventa difficile fare anche solo una breve passeggiata senza essere seguite dal passo sia pur discreto di Muhamet, finché una sera cerchiamo di sfuggirgli uscendo dalla parte posteriore della barca, verso la parte comunicante con la house boat vicina. Ho deciso di affrontare di petto la sensazione di essermi portata dietro un pezzo di luoghi troppo consueti. L’urdu mischiato al torinese, partorisce una singolare commistione, specie la mattina quando stranita dal sonno popolato da sogni confusi, apro gli occhi attoniti sull’acqua fiorita di ninfee su cui s’appoggia il minuscolo martin pescatore che si leva in volo improvviso e scende col becco in picchiata a catturare un piccolo pesce malaccorto salito in superficie. La barca dei vicini è arredata in modo più semplice della nostra. In una stanza comune ci sono letti sparsi ovunque e tavolini bassi. Appena entrata mi viene offerta una “canna”: “Questo è di quello buono!” La “canna” passa di mano in mano e l’umore della comitiva si altera, diventando di un’allegria artificiosa. Seduta sul tappeto in un angolo, c’è una giovane dall’abbigliamento singolare con colori vivaci accostati con molta cura. Il copricapo alla turca cosparso di pietre rare, la gonna lunga 11

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e il gilè ricamato a mano suggeriscono la sua appartenenza alla “ tribù internazionale dei freak”. Chandra, questo è il suo nome, per farsi capire parla lo spagnolo che ha imparato nel Sudamerica dove come in Africa, in Nepal e in India, ha soggiornato durante i nove anni che manca dagli Stati Uniti. Novella ulisside femminile, ha deciso a vent’anni che voleva conoscere il Sudamerica perché non si identificava più con il paese in cui era nata e con il consenso dei famigliari ha preso il volo. “Ne dovevano avere di soldi i tuoi genitori” dice Gianni uno dei presenti alla conversazione. “Non è proprio così. Loro mi hanno dato i soldi del primo viaggio poi ho iniziato a mantenermi da sola, facendo queste cose qui” e mostra con orgoglio gli anelli e i braccialetti che indossa. Sono accurati lavori di oreficeria che svelano l’estro personale e l’assimilazione delle tradizioni artigianali di svariati paesi. “Mi è sempre piaciuto usare le pietre più rare e guardare come lavorano gli artigiani. Guarda questo” e indica un quadernetto consumato, su cui sono scritte le qualità terapeutiche delle pietre e ricette di pozioni medicinali, raccolte un po’ dappertutto. “Se perdo questo sono finita, mi sentirei come se mi tagliassero un braccio. Il prossimo mese andrò a fare un corso di pietrologia dal Dalai Lama a Dharamsala. Dov’è ? è il paese dove il Dalai si è rifugiato dopo l’invasione cinese del Tìbet settentrionale”. Si è fatto silenzio nella house boat, e tutti i presenti ascoltano come ipnotizzati le parole di Chandra i cui piccoli occhi magnetici si muovono curiosi nella stanza piena di fumo. I fuochi dei bivacchi nella fitta boscaglia accompagnati dal 12

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canto di inni profani. Donne scarmigliate si accoppiano con il diavolo: i Sabbah. Una vita notturna trascorsa nel nord dell’Europa, nei silenzi delle aurore boreali. La ricerca e la raccolta delle erbe dalle virtù curative e il “libro del comando” tramandato da madre a figlia, di voce in voce. All’improvviso Gianni che è il più giovane della compagnia cade per terra in catalessi. Dopo un attimo di smarrimento si leva una voce rassicurante “dai su non facciamoci prendere dal panico. Lui è sempre così. Gli bastano due boccate di fumo e va in crisi”. Chandra nel frattempo è uscita dalla parte della barca attaccata alla terra e a chi la segue per prendere una boccata d’aria mostra una pietra trasparente: “Questa è un moon stone” - spiega - è una pietra artificiale che ho trovato in Canada”. La magia della notte cashmira brilla nella piccola pietra che riflette una costellazione regolare di innumerevoli lune attorno a un astro centrale. Il profumo delle ninfee e del loto entra nelle narici e tranquillizza le menti turbate. Al ritorno nella house boat Muhamet, il fedele, è lì al buio in attesa sulla soglia. L’indomani c’è in programma una gita in sigar – una specie di gondola che a seconda del prezzo del nolo, fornisce o meno morbidi cuscini ricoperti di bianco cotone immacolato - per andare a vedere i giardini del Gran Mogol e per visitare la fabbrica di papier maché, il cui proprietario è il padre di Kassim, l’amico di Muhamet. La sigar passa tra boscaglie di acacie, tracciando una scia regolare tra i muschi della liquida super13

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ficie, le foglie del loto e i fiori dai colori rosati. Sfiorati da branchi di oche bianche e trasvolati da stormi di uccelli, ci si sente come in un’oasi di paradisi naturali. I giardini del Gran Mogol, invece, non mantengono le promesse che il nome suggerisce sia pur piacevoli e ben curati. Sorgono su una collina lievemente degradante verso il lago, cosparsa di tappeti erbosi e di fiori multicolori. Di tanto in tanto dalle fontane si alzano getti d’acqua che rivelano un uso molto parco della stessa, a causa della siccità frequente in questi luoghi. Muhamet, che questa volta non ci ha seguito, appena risaliamo sulla barca esorta il nocchiero ad accelerare l’andatura, ansioso com’è di farci visitare la fabbrica dell’amico. Scendiamo dall’imbarcazione e dopo un breve percorso in salita si giunge ad una casa a due piani decorosa e pulita, in cui l’ospite è invitato a entrare nella stanza della preparazione della carta. Il capo dei lavoranti mostra come la carta da giornali venga prima macerata nell’acqua e poi dipinta con colori naturali e polveri d’oro fino. Poi si sale al piano superiore, dove sono esposti gli oggetti in vendita e gli ospiti sono invitati a sedere su un comodo divano. “Tea with milk ?” chiede Kassim. L’accoglienza piena di convenevoli in realtà sottende raffinate tecniche di marketing. In tal maniera l’ospite che per caso volesse andare via dalla casa senza acquistare nulla, si sentirebbe in imbarazzo. Così ci congediamo con in mano il nostro pacchettino e i saluti della “Papìer maché Sheikh & Sons”. La pace e la tranquillità che sembrano promettere le house boat durante il giorno è continuamente disturbata dall’arrivo di venditori che si spingono fino ai bordi della barca e talvolta con mosse furtive arrivano fin dentro passando dalla prua. 14

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“Vedere non costa nulla” ripetono con insistenza trafficanti di merci di ogni genere: fiori, tappeti, oggetti di legno, vestiti ricamati. Difficile passare una giornata intera senza ritrovarsi tra le mani qualche oggetto non necessariamente desiderato e le tasche alleggerite. Anche la visita al tempio islamico è disturbata da insistenti richieste di lasciare un’offerta per la manutenzione di questo luogo sacro, reso particolarmente solenne dalla supposta presenza in un’arca ben nascosta, di un pelo della barba di Maometto. La presenza di Muhamet in questo caso è utile per allontanare i mendicanti e i bambini che sbarrano la strada, ripetendo un’insistente nenia incomprensibile. Ci fa largo tra la folla con un tono di voce che contrasta con la dolcezza di una lingua che più si adatta alla canzone d’amore che una sera ci ha cantato insieme alla nipotina. Sharif è arrivato anche lui un pomeriggio verso il tramonto a proporre i suoi bei manti e le vestaglie ricamate di fino, ma, contrariamente agli altri venditori, non era invadente. Sembrava più interessato a guardarsi intorno e a lanciare languide occhiate alle ospiti della barca, con l’evidente scopo di fare un incontro più ravvicinato con una turista europea, onde constatare di persona la veridicità della sua fama di essere facile preda di cacciatori in cerca di avventure erotiche. Sarà stato l’avvolgente profumo di zenzero e di sandalo o il rosso violetto del tramonto giunto a rinfrescare l’afosa giornata, non so, quel che so è che nel suo perfetto inglese riusciva a strapparci il permesso di tornare il giorno dopo, con la scusa 15

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di mostrare oggetti di artigianato particolarmente belli e preziosi. L’indomani è arrivato vestito all’occidentale, pensando di essere più gradito. In realtà i larghi pantaloni e il kurta color sabbia gli conferivano un aspetto più affascinante che i blue jeans, stretti sulle gambe e una camicia a fiori. La conversazione questo volta continua fino al tramonto quando è sbucato Muhamet a dire che “il pranzo è servito”. A quel punto Sharif educatamente salta sulla sua sigar e sparisce inghiottito dall’oscurità, dopo essere riuscito a ottenere un appuntamento per portarmi a cena in un locale speciale. Il locale speciale è il ristorante al pianterreno di un albergo a cinque stelle, uno dei tanti che si incontrano nei posti turistici e nei centri delle città asiatiche, frequentati dai notabili del posto. La piacevolezza dei suonatori di musiche suadenti e del cibo sopraffino servito da camerieri ossequienti, stride con la miseria che si intravede al di là della porta. Ma Sharif non si preoccupa di questi contrasti lui c’è abituato e in più si infervora a raccontare le sue frustrazioni di ricco figlio di mercanti, adocchiato da avide cacciatrici di dote che dopo la prima volta che escono con lui gli chiedono di essere impalmate. “Sai- dice -da queste parti è impossibile avere un rapporto paritario con una donna come da voi. Qui per avere un rapporto con una donna si va con le prostitute o ci si fidanza e ci si sposa per poi magari prendersi un’amante che anche lei è sposata. Non ce la faccio più a vivere in questo paese. Eppure ho già provato ad andare all’estero in Europa anche in America ma dopo un po’ mi sento come un pesce fuor d’acqua e me ne 16

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torno...” lamenta e intanto fuma e beve in continuazione tracannando un bicchiere di birra dopo l’altro mentre i suoi occhi si arrossano a dismisura. Dopo la squisita la cena mi offre un giro nel suo sigar, rivestito a festa con morbidi cuscini e un discreto nocchiero alle nostre spalle. Difficile ora è resistere agli abbracci di Sharif con la luna quasi piena che effonde dei suoi raggi lattiginosi le acque dei canali, mentre le barche che scivolano leggere riflettono luci ipnotiche sulla superficie. Il profumo delle ninfee socchiuse si insinua sottile al pari della mano di Sharif che entra sotto la camicetta senza incontrare resistenza alcuna. Poi un bacio, un altro ancora e ancora un altro. Ma che succede? Un rantolo- il suono difficilmente equivocabile della fine della tensione dell’atto sessuale- seguito da un’esclamazione irritata di Sharif: “E io che voglio fare il playboy! È meglio che vada ancora a prendere il latte da mia madre...” dice con voce rotta e per togliersi d’imbarazzo scende dalla sigar facendo avvicinare alla terra il nocchiero, dopo avergli dato l’ordine di riportarmi a casa. Indossare il bikini per fare il bagno nel lago mi fa sentire a disagio che qui le donne sono sempre coperte. Ma il caldo vince la riluttanza e con pochi colpi del remo di una canoa abilmente manovrata da Muhamet raggiungiamo il centro del lago. Muhamet non si tuffa. Dice che è troppo vecchio per fare il bagno e nuotare e giocare nell’acqua sono cose da ragazzi. Alghe altissime, viscide come i tentacoli di un enorme polipo, avvinghiano il corpo, inquietanti. Con la scusa dell’acqua troppo fredda, risalgo lentamente sulla canoa, coprendo la pelle rabbrividita con l’asciugamano. 17

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Nelle vie periferiche di Shrinagar, il selciato è di terra battuta e ai lati ci sono baracche di legno simili a isbe fuori dalle quali c’è una folla variopinta affaccendata in svariate attività. Nella curva che dallo stradone deserto porta al cimitero, un grande cartellone avverte: “Una sposa val bene un risparmio!”, mentre nel centro della città c’è una gran confusione di camion, di carri e biciclette. Per ogni dove pullulano bancarelle e punti di vendita, oltre alle grandi cooperative le cui vetrine espongono i prodotti dell’artigianato locale. Vedere non costa nulla, ripetono ossessivamente. Vien voglia di scappare lontano e rifugiarsi in qualche bosco delle montagne che si intravedono in fondo alle strade. Muhamet si accorge del mio fastidio e sorridendo sembra dire: “No problem, non preoccuparti ci sono qua io”. “No problem” ha ripetuto insieme al padre quando si è offerto di prenotare i biglietti per Leh, nel Laddak. “Faccio tutto io, voi non avete da preoccuparvi di nulla. Vi procurerò anche i biglietti per il ritorno in aereo”. Così, la mattina della partenza, le valigie vengono portate con solerzia sulla terra ferma dai membri della famiglia, tutta quanta allineata fuori dalla porta della baracca grande per salutarci. I bambini più piccoli entrano ed escono come trote volteggianti dall’acqua sporca e limacciosa della riva del lago. Ci scambiamo grandi sorrisi - unica forma di comunicazione possibile - e Muhamet ancora una volta resterà solo ad aspettare altri ospiti catturati dal padre all’ufficio turistico. 18

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Ancora una volta chiederà curioso dei loro paesi e alla fine del soggiorno farà scrivere loro una dedica speciale sul libro degli ospiti, rilegato con decorazioni d’oro zecchino.

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Ladakh

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Nella strada principale di Leh


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Donna Laddaka in costume regionale


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Gonpas in Laddak



Capitolo II

Verso il Laddak

“No problem” aveva detto Muhamet e inizialmente la sua rassicurazione sembra rispondere al vero. I biglietti corrispondono ai due primi posti della fila a destra dell’autobus. Un veicolo piuttosto consunto che se paragonato agli altri della piazza, sembra uno dei più efficienti fatta eccezione per quelli con aria condizionata destinati ai turisti degli alberghi a cinque stelle. Il grande spiazzo della stazione è animatissimo di persone di tutti i colori di pelle e d’abito, carri e veicoli a due ruote. Muhamet ci accompagna a una rivendita di ‘ciai’, contento di essere riuscito ad accaparrarsi i posti in prima fila e mentre sorseggia il te ci guarda con i suoi grandi occhi, un po’ malinconico ma pur sempre sorridente- forse davvero ogni volta che gli viene dato il compito di guida si affeziona ai suoi guidati. Consapevole del fatto che le nostre promesse di ritornare non corrispondono alle intenzioni, chiede se è possibile che gli mandiamo un registratore per posta. 25

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Dopo una lunga attesa finalmente si parte e per le prime due ore sulle strade asfaltate la velocità è piuttosto spedita. Il paesaggio non è molto dissimile da quello alpino se non fosse per la colorazione più intensa del verde. Il veicolo è quasi interamente occupato da europei, tedeschi, austriaci, francesi e ogni tanto alle fermate tra paese e paese, raccoglie dei commercianti cashmiri che con grosse ceste ingombranti occupano il poco spazio rimasto tra i primi sedili e il posto di guida. Man mano che si procede, le strade si fanno più impervie, iniziano i sobbalzi e le continue vibrazioni. Sobbalzi e vibrazioni che scuoteranno i viaggiatori per tutte le ventiquattrore del viaggio. Dopo aver superato gli ultimi centri abitati del Kashmir, la montagna appare più spoglia, la vegetazione dirada sempre più col crescere dell’altezza. Le vette altissime stagliate su un cielo plumbeo suggeriscono paesaggi lunari. Ci inoltriamo per strade sterrate e dai finestrini si intravedono burroni vertiginosi che fanno temere per la propria incolumità. Ma la straordinaria abilità dell’autista, ormai temprato da anni di esperienza, sembra aver ragione della forza di gravità. È sparita ogni traccia di vita animale e vegetale, ma guardando con attenzione vicino ad arbusti bassissimi si scorgono di tanto in tanto qualche capra di montagna e strani animali simili a buoi. Mi viene in soccorso il libro di Marco Polo che fortunatamente ho portato con me. “Ivi vivono buoi selvatici, chiamati yak grandi come elefanti e molto belli a vedersi, sono bianchi e neri ricoperti, salvo che sulla schiena, di un pelo lungo fino a tre palmi, una vera meraviglia. Vengono caricati di pesanti some e usati per i lavori 26

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dei campi perché sono animali che hanno una forza due volte superiore a quella dei nostri buoi...”1 Gli indiani dicono che l’Himalaya è la dimora degli dei, così come l’Olimpo lo è per i greci. Infatti è difficile immaginare luoghi più impervi e impenetrabili di questi che stiamo attraversando. Maestosità e impenetrabilità sono qui concreta visione, non astrazioni concettuali. Soltanto mettendo fuori la testa dal finestrino si riescono a scorgere le altezze vertiginose delle cime, anche se questo è impossibile quando l’autobus è in movimento perché il finestrino deve restare ermeticamente chiuso. Tanta fatica e tanto rischio sono compensate dalla eccezionale sensazione di immergersi in un’atmosfera rarefatta circondati dalle sacre montagne. Il tempo concesso nelle soste per ammirare i luoghi è breve e una parte di questo é obbligatoriamente usato o per scaricare le vesciche contratte dallo sforzo e dal continuo scotimento o per sedare la fame con qualche prodotto locale in vendita nei villaggi che nel percorso hanno approntato strutture apposite per i turisti. Non passa nemmeno un quarto d’ora e già il clacson chiama a raccolta i viaggiatori. Dagli scappamenti degli autobus che sostano tutti insieme esce il fumo nero di una benzina di pessima qualità, i cui fumi entrano nel naso di decine e decine di viaggiatori vomitati fuori dagli abitacoli. Più tardi capiremo la ragione di una tabella di marcia così rigida: gli autisti devono tener conto delle interminabili colonne di mezzi militari che vanno verso il confine perché la strada non permette il passaggio contemporaneo di due automezzi. Stiamo andando verso il confine di tre paesi e centinaia di mi27

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gliaia di militari sono in un continuo movimento di manovra tra il Kashimir e il Laddak. Si intravedono giovani di tutte le razze ammassati in camion grigioverdi, dagli scuri di pelle del sud dell’India, ai sikh, ad altri con fattezze mongole. Le stesse dei rari abitanti che si incontrano passando nei villaggi. A Kargil, un paese al confine del Laddak, incrociamo una jeep, guidata da una donna, che suggerisce che stiamo arrivando in zone dove anche se in casi limitati è ancora praticata la poliandria. Da questo punto in avanti l’autobus si inerpica sempre più in alto fino a superare i cinque mila metri. Per la prima volta durante una sosta al mattino presto prima del levar del sole provo le inebrianti sensazioni che danno queste altezze ed il rimpianto riservato a chi come me non ne fruisce appieno perché il trekking d’alta montagna per camminatori pigri è un piacere sconosciuto. Dietro la ‘tea stall’ c’è un piccolo gruppo di case costruito in pietra calcarea color sabbia, degradante a sbalzi e a ripiani ricavati nella roccia. Al levar del sole la valle incantata si colora di rosa e si vorrebbe indugiare a lungo ma il suono di richiamo del clacson vibra sulle corde tese dall’emozione. Torniamo ai propri posti per essere nuovamente scrollati come il contenuto di uno shake sbattuto con energia da un cameriere efficiente. Gli occhi, le gambe e la schiena tutto è in subbuglio e il respiro trattenuto nel guardare qualche burrone pauroso a vedersi, fatica a tornare al suo ritmo normale. Il disagio accentua il distacco tra i viaggiatori di provenienza diversa anche se in buona parte condividono la passione per 28

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la montagna - lo si capisce dalle attrezzature consumate necessarie per le salite. Ad un tratto nel fondovalle si scorge un fiume che scorre nel letto scavato tra due scoscese vallate. L’acqua dall’alto appare limacciosa e i flutti hanno una potenza difficilmente attribuibile ad un corso di secondaria entità. Sono le sorgenti del Gange. “Si comincia a salire tra le montagne, lungo una catena che si dice sia la più alta del mondo. In cima, tra due monti dai quali nasce un fiume assai bello, e grande si apre un altopiano sterminato, un’estensione di pascoli così lussureggianti che un animale magro vi diventa grasso in appena dieci giorni”2 Nella mente intorpidita si fa strada un’eco lontana delle leggende delle origini del genere umano e la suggestione arcana ha il sopravvento sul disagio e la scomodità. Ma non dura a lungo che una colonna di militari chiede la via. Schiacciati contro una parete rocciosa dai finestrini ermeticamente chiusi, subiamo una sfilata interminabile di mezzi corazzati, irrispettosi delle supposte irraggiungibili miracolose dimore degli dei. Approfittiamo di dieci minuti di sosta non previsti per prendere una boccata d’aria. Tra i viaggiatori più stanchi seduti su spuntoni di roccia risuonano domande convenzionali sulle reciproche nazionalità che rompono silenzi e paesaggi incantati, ma alzandosi qualcuno si accorge con raccapriccio che sui vestiti ci sono evidenti tracce di catrame. Ancora una volta si riprende la corsa fino al bivio del monastero di Lamaiuru. Da lontano si scorge un edificio circondato da costruzioni antiche di color porpora e sabbia dorata con fi29

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nestre che paiono feritoie e scalinate scoscese. Certo è un luogo singolare e affascinante che indurrebbe a sostare. Una sosta a Lamaiuru è infatti consigliata dalle guide turistiche. Ma il timore di non trovare posto da dormire dopo tanta fatica e l’impressione che il percorso per arrivare a Leh, la capitale del Laddak, sia breve, ci fa optare per il proseguimento del viaggio. Ma questa subito si rivela una previsione sbagliata perché la strada è piena di tornanti e sali scendi e ci riserva ancora il passaggio di un’ennesima colonna militare. La precedenza è sempre perentoriamente riservata a loro, nonostante la strada sia stata aperta ai turisti fin dal 1974. In un paese in stato d’assedio, che vive nel perenne timore di ulteriori occupazioni cinesi, ogni altra considerazione, compresa quella concernente il denaro sonante portato dal turismo, passa in secondo piano. L’impressione concreta che si tratti di luogo assediato si ha anche all’arrivo nella periferia di Leh che sorge su un altopiano nella cui distesa si scorgono campi cintati di filo spinato pullulanti di militari in divisa color caki che stanno facendo un’esercitazione. Finalmente la tanto sospirata meta è vicina: l’autobus percorrendo gli ultimi metri giunge al centro di una strada troppo stretta per contenere ben quattro mezzi arrivati contemporaneamente dalle cui porte aperte scendono i passeggeri stravolti, che tentano convulsamente di recuperare in fretta i bagagli dai tetti. Davanti all’ufficio turistico compaiono schiere di laddaki che propongono con insistenza la propria “guest house” ai nuovi arrivati. 30

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Studio Byblos Publishing House studiobyblos@gmail.com ‐ www.studiobyblos.com Finito di stampare Giugno 2022





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