Sportivissimo Ottobre 2019

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Sport e futuro O

editoriale

di Luigi borgo

vviamente, lo sport del futuro sarà sempre più tecnologico. Sciare sul tetto dell’inceneritore di Copenaghen in piena estate senza neve oppure andare sul Pasubio in bici salendo a 25 chilometri all’ora saranno imprese da sportivi della preistoria dell’Età della Tecnica. Lo sport del futuro sarà sempre di più una combinazione di uomo e macchina, in cui la macchina svolgerà l’80 per cento della fatica e l’80 per cento della tecnica, mentre l’uomo avrà il 100 per 100 del piacere dell’azione sportiva. Ma non è di questo futuro, che è ovvio, il futuro di cui voglio parlare. Quello che mi interessa è riflettere sulla percezione del futuro che oggi ha chi fa sport. Chiediamoci allora come uno sportivo vede il futuro del proprio sport? Per esempio, uno sciatore immagina di poter sciare tra 10 anni ancora sulle montagne oppure solo dentro i capannoni? Un ciclista di bici “muscolare” o di e-bike fra 10 anni pedalerà ancora su strade e sentieri o solo in speciali ghetti per ciclisti? Un alpinista potrà salire ancora sui ghiacciai oppure tra 10 anni salirà solo sopra i ghiaioni? I rallisti, i motocrossisti, i piloti di Formula Uno o di moto Gp avranno ancora motori a benzina o i motori saranno tutti solo elettrici? I giocatori di calcio, di basket, di pallavolo, i tennisti avranno ancora palloni o palline sintetiche o saranno tutti in fibra naturale? Gli appassionati di canoa o di rafting pagaieranno ancora lungo i fiumi o solo in bacini artificiali con acque di riciclo? Queste domande sottintendono tutte qualcosa di tremendo: la catastrofica ipotesi che tra 10 anni gli sport saranno vissuti in una versione ridimensionata rispetto a oggi. Fra 10 anni, cioè, faremo sport, ma sarà in tono minore. Faremo sport, ma sarà una cosa diversa rispetto ad adesso. È una prospettiva apocalittica. Il cono del divenire sportivo che è sempre stato pensato come un cono ad aprirsi verso il miglioramento e l’ampiamento delle nostre possibilità, ora è in senso opposto, è un cono che si chiude nel ridimensionamento e nel peggioramento. Nella storia millenaria dello sport il futuro non è mai stato percepito in modo così negativo. Così depressivo. Perché? In questi giorni ho letto una ricerca sull’idea di futuro contenuta nei discorsi di fine anno dei Presidenti della Repubblica italiana. In 70 anni circa l’idea di futuro del nostro Paese è cambiata tre volte. Negli anni ’50 e ’60 i Presidenti temevano che l’Italia non ce la facesse a risollevarsi dal baratro della miseria degli anni di guerra e dai loro discorsi presidenziali emergeva l’idea di un futuro ancora minacciato dalla paura della fame, dalla mancanza di lavoro, dalla necessità di emigrare verso paesi più ricchi. Negli ’70, ’80 e ’90, invece, la paura per il futuro dell’Italia veniva da problemi di ordine interno: terrorismo, mafia, corruzione pubblica. Negli anni Duemila, tutto cambia, il timore per il futuro del nostro Paese non dipende più da ragioni interne ma da fattori esterni: attentati jihadisti, processi migratori senza controllo, riscaldamento globale del Pianeta. Nell’arco di poco più di mezzo secolo, l’incertezza per il futuro nazionale non è più legata a minacce interne ma esterne. Così sta accadendo nello sport. In passato si temeva di non poterlo praticare per ragioni nostre, ragioni interne: mancanza d’impianti sportivi pubblici idonei, eccesso di costi per le famiglie, troppo poco tempo per allenarsi bene tra impegni di lavoro o di scuola. Oggi, invece, sono le ragioni altre, esterne, quelle che ci impediscono di pensare in termini positivi al futuro dello sport. Il mondo sta cambiando in peggio, anche lo sport cambierà in peggio. Ma sarà vero? Non lo so. So però che c’è una differenza enorme tra come ieri pensavamo il futuro e come lo pensiamo oggi. In passato, perché le ragioni delle nostre paure per il futuro erano interne, circoscritte, si aveva sempre una percezione comunque positiva del futuro. Per esempio, se andava male l’Italia, i giovani potevano sognare l’America; se eri cresciuto nella miseria, potevi con lo studio e con il lavoro sperare in un futuro di riscatto; se un dato sport, la corsa con le bighe, stava declinando, ve ne erano mille che andavano alla grande. L’idea odierna di futuro, invece, perché minacciata da fattori esterni, globali, non ha soluzioni. Finirà tutto ovunque per tutti. È una prospettiva negativa, senza rimedio. Ma, che finirà tutto, questo non lo sa nessuno e quindi non è giusto dirlo. È giusto, invece, capire e dire che se vogliamo davvero, come sostengono tutti, salvare il Pianeta, prima di ogni cosa dobbiamo salvare la nostra idea di futuro, la nostra visione di un futuro positivo di lavoro, di sport, di felicità e prosperità in questo Pianeta.

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natura

Le magiche Alpi

di Dorino Stocchero

La catena montuosa delle Alpi si estende per 1200 chilometri attraverso l’Europa e presenta una vasta gamma di habitat naturali, dai ghiacciai delle alte cime ai laghi, alle valli.

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e Alpi si compongono di un insieme di differenti catene montuose e di colline che si estendono a semicerchio dal mezzogiorno francese verso est, sino alle pianure dell’Ungheria. Le medesime presentano una gran varietà di caratteri: verso il Mediterraneo le Alpi Marittime presentano basse cime di arido calcare che a Nord e a Est si elevano in alcuni dei picchi più impressionanti di tutta la catena, come la cima ghiacciata del Monte Bianco. A Est del Monte Bianco vi sono le Alpi Centrali, con i loro picchi aguzzi e i grandi laghi di origine glaciale,

quello del lago Maggiore e il lago di Como. Le Alpi Orientali si prolungano dalla regione italiana delle Dolomiti fino alla Germania. Il Nord-Est della Slovenia e l’Austria. Le cime innevate, le valli lussureggianti e il laghi profondi delle Alpi europee ospitano alcune fra le più spettacolari forme di flora e fauna in una regione di rara bellezza. Gli habitat alpini differiscono da zona a zona, e l’elemento che determina la distribuzione della flora e la fauna è il clima , che varia con l’altitudine. Le fitte foreste di latifoglie sono state in gran parte di-

strutte nel corso del secolo scorso , con alcuni eventi eccezionali nel settore orientale. Le Alpi rappresentano una delle aree più selvagge e ricche di biodiversità in Europa e ospitano 30.000 specie animali e 13.000 specie vegetali. Ad altitudini più elevate le temperature diminuiscono nettamente e le foreste di latifoglie lasciano progressivamente spazio ad abeti, abeti rossi, pino mugo e altri sempreverdi. I larici sono gli alberi più resistenti, possono crescere e raggiungere anche la quota dei 1800 metri. Sono le valli ad ospitare ancora la


7 più vasta gamma di animali selvatici, mentre le zone più elevate e rocciose fanno da dimora ad animali particolarmente forti, in grado di sopravvivere al freddo con inverni rigidi. Più in alto, i cieli alpini sono “pattugliati” dai rapaci, che volano ad ali spiegate, sempre alla ricerca di qualche preda sotto di loro di cui cibarsene. Le correnti ascensionali di montagna sostengono il volo dei grandi uccelli da preda. Uno dei più maestosi e aggraziati e l’aquila reale denominata anche la regina dell’aria; volatile molto esperto e probabilmente la più numerosa e diffusa fra tutte le aquile di grande di-

predare anche di uccelli, specialmente forcelli e cedroni. In alta quota viene osservato veleggiare acrobaticamente il gracchio alpino, ma si vede anche spesso al suolo alla ricerca di cibo: insetti e altri piccoli invertebrati, ma non disdegna di nutrirsi di noci, frutta e bacche selvatiche. Uno degli spettacoli più impressionanti delle Alpi è nell’osservare un camoscio che percorre agilmente la cresta di una roccia a picco (può raggiungere in circa 10 minuti, la quota con un dislivello di 1000 metri, grazie alla dimensione del suo cuore che può pesare 500

mensioni nel mondo (dotata di 2 metri di apertura alare). E’ un predatore formidabile, poiché combina una vista eccellente con artigli potenti e affilati, dagli effetti mortali. L’aquila vola a lungo nell’esplorazione del territorio alla cerca di prede e una volta avvistate si lancia in picchiata e le uccide con i suoi artigli. In picchiata può raggiungere i 200 Km/h e riesce a sollevare fino a 40 kg di preda. Si ciba di mammiferi delle dimensioni di una lepre ma la preda preferita è la marmotta, ma caccia e si nutre anche di giovani ungulati come camosci, cervi e caprioli, inoltre può

grammi). Aiutato dagli zoccoli duri e affilati, che hanno al centro un cuscinetto morbido, questa capra (rupicapra ossia capra delle rupi) è uno dei mammiferi più agili nei movimenti. I cuscinetti attutiscono l’atterraggio quando salta di rupe in rupe, mentre i bordi degli zoccoli fanno da presa sulla superfice sdrucciolevole della roccia. Il camoscio d’estate si porta in alta quota per alimentarsi di erba fresca dei pascoli alpini, mentre d’inverno scende a quote più basse per nutrirsi di licheni, muschi e teneri virgulti di pino. Lo stambecco, altro ungulato della famiglia dei bovidi

con corna impressionanti (il palco del maschio può raggiungere anche la lunghezza dei 100/120 centimetri ), vive e ha le stesse abitudini del camoscio. Anche la marmotta vive sui pendi elevati, considerato il membro più grande della famiglia degli scoiattoli e , dotata da una vista acuta che le permette di individuare i predatori che potrebbero arrivare dal cielo, come l’aquila reale…..

Un felino presente nelle Alpi con pochi esemplari è la lince,(lynx-lynx) può cacciare dalla lepre al capriolo però la sua specializzazione è nella cattura di questo cervide, la particolarità di questo carnivoro e che si ciba delle sue prede fino alla sua totale consumazione. Altri grandi predatori presenti sulle alpi sono l’orso, il lupo, lo sciacallo dorato e la volpe.


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recoaro

Il talento di Caterina Caterina Cornale è campionessa provinciale e regionale di ciclismo di Elisa Fochesato

C

aterina Cornale, nata il 12 Aprile del 2004, è una studentessa di 15 anni del Liceo Scientifico Sportivo TRON di Schio. Proviene da Recoaro Terme, e pratica uno sport molto impegnativo da ben 9 anni, con una passione e una dedizione che a questa età risulta essere cosa rara, CICLISMO SU STRADA. Caterina ha ottenuto ottimi risultati in questi anni, ha vinto due volte la maglia di Campionessa provinciale, una su strada ed una di ciclo cross quando era esordiente. Due campionati regionali, uno su pista e l'ultimo quest'anno su strada ad Arcade da allieva primo anno. Il 22 Settembre 2019 alla gara "Memorial Cappellotto" valida per l'assegnazione della maglia provinciale, ha vinto e per la terza volta consecutiva è diventata campionessa provinciale. Alla coppa rosa di Borgo Valsugana è riuscita a portare a casa un ottimo 8°posto. Da giovanissima numerose sono state le vittorie quando correva con la società Veloce Club Schio 1902, passando poi da esordiente prima, ed allieva poi con Thiene Ciclismo Insieme. La ragazza è molto determinata, ci mette anima e corpo, segue 2/3 allenamenti settimanali a Thiene e poi le gare alla domenica, dove si sposta per tutto il Nord Italia.

Gli allenamenti consistono in 50/70 Km ciascuno e poi e con le gare domenicali il kilometraggio aumenta, si aggira infatti intorno ai 60 Km. Come lei stessa conferma è uno sport che impegna molto, le porta via tanto tempo e la porta a rinunciare a molte uscite con gli amici, insomma ai classici divertimenti adolescenziali. Il Comune di Recoaro Terme quest'anno ha riconosciuto l'impegno e la costanza che contraddingue Caterina tanto da proferirle un riconoscimento per meriti sportivi. La giovane ragazza è appoggiata e supportata dai genitori sempre presenti, sia per portarla in allenamento che per accompagnarla alle gare, il sacrifico così diventa condiviso con tutta la famiglia. Ha tanti sogni e tanti obiettivi, tra questi riuscire a partecipare ai campionati mondiali europei e raggiungere i livelli di molte compagne in nazionale, traguardi molto ambiziosi che sicuramente le porteranno grandi soddisfazioni. A Novembre la giovane sarà ospite di una delle tante serate organizzate da Francesca Piccoli presso il suo bar "Divine coffee and Wine" a Recoaro Terme, affiancata dal tecnico allenatore della F.C.I. Italiana per parlare delle problematiche, impegni sacrifici e soddisfazioni che questo sport comporta.


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piccole dolomiti

Cima Mosca di Bepi Magrin

A

lta 2141 metri, Cima Mosca è una delle più eminenti elevazioni che attorniano il Circo (Busa) di Campobrun, ovvero una di quelle cime che verosimilmente costituiscono la ragione del nome Carega (Kar-Eggen) che vuol dire: Conca attorniata da colli (alture), in tedesco: Eggen. La sua forma piramidale –quando sia vista da sud, ne fa una delle cime esteticamente più attraenti del Gruppo, anche se di fatto, sono davvero pochi coloro che ne salgono la cuspide, per essere questa posizionata a breve distanza dalla più ambita Cima Posta (detta impropriamente Cima Carega) che la supera di 118 metri essendo alta 2259. Sono ignote le ragioni del nome, ma è certo che per ragioni militari le sue pen-

dici furono intensamente praticate durante la Grande Guerra. Infatti un trincerone e due caverne ne incidono i fianchi ed il precipite pendio verso il Boale dei Fondi. Dal lato verso il Vajo dei Colori, il Mosca, precipita con una alta parete caratterizzata da un evidente diedro. Le esplorazioni alpinistiche di questa cima e delle sue pendici a parte le dette presenze militari, sono datate al 1931, quando Ottone Menato con compagni diversi (G. Caliari; N. Savi; G. Gasperini) ne esplorò i recessi aprendo le prime vie di roccia. E’ questa la ragione per la quale chi scrive, volle a Lui dedicare il vajo, “Vajo Ottone”, solco che si insinua tra le guglie Borgo e Rio. Del 21 ottobre 1973 è invece la via che supera direttamente il grande diedro del-

la parete Nord. La storia di quella scalata (la mia prima via nuova) è raccontata di seguito, mentre sono cronaca recente una serie di difficili salite invernali delle pendici

circostanti, che sono riportate nella Guida di T. Bellò ai percorsi invernali. Parete Nord di Cima Mosca Altezza c. 280 metri. Difficoltà dal 3° al 5° grado sup. Primi salitori: Bepi Magrin e Silvio (Ciccio) Mascella a c. a. 21-10-73 All’epoca esisteva a Valdagno un Gruppo Roccia del CAI, vi si accedeva dopo discreta attesa, e solo con un cospicuo corredo di ascensioni. Si trattava di aver percorso almeno una ventina di vie di difficoltà medio alta ovvero per esempio di aver salito la Casetta/ Carlesso al Baffelan, lo Spigolo d’Uderle ai Sogli Rossi, lo Spigolo Fox alla Punta di Mezzodì ecc. questo, assieme ai classici percorsi del Baffelan, delle Guglie della Scala, della Berti ecc. Bisognava insomma dimostrare, -curriculo alla mano- di essere capaci scalatori. Titolo di particolare merito, costituivano le eventuali vie nuove, ed a quel tempo c’e-


11 ra ancora qualche scampolo di roccia trascurato dai grandi precursori. Da parte di giovani aspiranti a far parte della elite locale, c’era pertanto una corsa alla ricerca di nuovi itinerari inesplorati e la cosa non era semplice, perché fino al 1976 non si avevano Guide descrittive delle Piccole Dolomiti se non quella pubblicata in due puntate dal Meneghello nel lontano 1926 e non certo aggiornata. Con Silvio Mascella e con Dino Mondin (entrambi purtroppo scomparsi) si praticava la palestra di roccia dei Rossati, seminando chiodi artigianali tra le rocce e sperimentando le prime rudimentali tecniche apprese. Occorre ricordare che a quell’epoca si usava ancora la semplice sicu-

rezza a spalla, ed il volo eventuale di un primo di cordata era una quasi certa tragedia. Silvio che per carattere diceva poco ma sapeva molto, aveva scoperto la possibilità di aprire la nuova via sulla Nord del Mosca, e la cosa, alquanto misteriosa suscitava entusiasmi. Provò infatti una volta a salire da quella parte con Dino, ma dopo i primi 40 metri, lo strapiombo li aveva fermati. Di seguito tornammo dunque insieme, avendo Dino rinunciato al sogno. In quella scalata, rischiammo davvero la vita, e al solo pensarci adesso, mi sudano le mani, ma allora si era spensierati e molto avventati, allora bastavano i chiodi fatti in casa come le staffe, bastava una corda di 40 metri già molto

provata, e i poveri rudimentali oggetti che si potevano ottenere da una colletta fra noi. Possiamo proprio dire che quello era un alpinismo di spirito eroico e donchisciottesco, dove con la passione e l’incoscienza giovanile si suppliva ad ogni carenza tecnica. Avevamo raggiunto la cima sul far della sera, dopo una intera giornata di fatiche spese per distruggere il mito di inviolabilità di quell’orrida fredda parete nord che cade a picco sul Vajo dei Colori. Avevamo il fiato ancor grosso per la corsa sulle roccette finali, ma finalmente eravamo al sole, fuori dall’abisso e potevamo finalmente riposarci e mangiare. Distesi sui sassi potevamo osservare il sole che tramon-

Silvio Mascella (Ciccio): alpinista dell’ultimagenerazione in stile classico. Pochi e rudimentali mezzi e tanta vogli di salire. Ha aperto molte belle vie.

tava dietro la Costa Media irradiando la montagna di luci fantasmagoriche. Intanto Silvio, seduto accanto a me, andava spargendo le ferraglie ruggini che sortivano dal sacco e che erano i gloriosi residui di questa e di altre simili battaglie, alla ricerca di qualcosa di commestibile che ancora incidentalmente albergasse sul fondo del suo rattoppatissimo sacco. Scartava chiodacci fatti in casa e recuperati chissà dove, vecchi cordini lisi e scoloriti dal tempo, grossi moschettoni di ferro (i famosi “superpesanti”). Estrasse ancora un groviglio di staffe e cordame. Le nostre staffe erano frutto di un inusitato connubio tra un sottile cordino d’uso militare e certe ineguali sezioni di mani-

Bepi Magrin: autore di queste pagine


12 ci di scopa, uscirono anche la piccola mazzetta ed altre grezze imitazioni di materiale alpinistico, infine, accompagnata da una esclamazione di esultanza, ecco uscire un cartoccio di carta “da casolin” che conteneva qualche scorza di formaggio, del pan biscotto e due tre noci. Era quello che si cercava, ed era il riassunto del pranzo, della colazione e della cena di quel giorno. Del resto il piatto forte con il dolce finale, ci erano già stati serviti senza parsimonia dalla parete nord, che in alcuni passaggi (tre per l’esattezza) si era rivelata alquanto saporita. L’ultimo sorso di acqua-vin e succaro (zucchero) dalla buferata borraccia militare, diede tregua alla sete. Avevamo dunque, almeno per quel giorno, calmata la nostra sete di azione ed ora, fuori dalle difficoltà e dalla lotta si poteva vivere un intenso ed irripetibile momento di pace. Le crode all’intorno, nel mutare delle luci del tramonto, pareva avessero una loro vita ed

un’anima. Pareva volessero confidarci gli amori e le passioni di altri loro amanti che nei tempi ormai andati avevano consumato i propri ardori giovanili nella lotta per trovar sé stessi e lo spirito delle crode, la in alto, come noi sulle cime. Ottone e Tarcisio, vagavano ancora per la loro “Valdagno Alta” già esplorata fin nei minimi recessi, cosi come si adunavano quella sera lassù gli spiriti di Maria Luisa, di Gino e Italo, di Roberto Fabbri e di tutti gli altri che li avevano seguiti correndo a mani nude pei verticalissimi muri delle Sibele, del Baffelan, del Castello di Kerle e dell’Inferno. L’ odore secco e muscoso di roccia prealpina, era quello inconfondibile della terra del trionfo ove tutto era più basso di noi. Lasciati a noi stessi, senza aiuto e senza scampo si era vissuta una esperienza che assumeva valore in sé stessa, laddove la vita comune non andava che sotto la spinta di interessi, delle cose esterne o delle convenzioni. Era vero

che, come usavano ripeterci a valle, quell’agire aveva un alone di pazzia, non vi erano scopi materiali o ragioni che potessero giustificare la sfida estrema, secondo una volontà che si imponeva alla fatica, alla paura, alla voce dell’istinto animale di prudenza e di conservazione. Ma tutto nasceva da una disinteressata amicizia che scopriva così la fabbrica delle emozioni e la fucina dell’ideale. Sulla cima disseminata di Edelweiss saremmo voluti restare a lungo, ma le ombre della sera richiamavano la realtà. Scendemmo a balzi il Vajo dei Colori, tra un tintinnare di ferraglia e il rumore dei sassi smossi. Balzammo giù dalla corda fissa, sotto la quale ritrovai il mio zaino lasciato li dal mattino, e proseguimmo spensierati la corsa franando veloci insieme alle ghiaie mobili del vajo, verso la moto che ci aspettava giù alla strada prima che il buio scendesse sulla montagna.


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sub

Biologia subacquea

di Antonio Rosso foto di Stefano Scortegagna e http//it.wikipedia.org

Mante e Mobule, i diavoli di mare

S

alvo poche eccezioni, i subacquei chiamano mante tutti quei grandi pesci con dorso nero, ventre bianco, a forma triangolare, coda allungata e corpo compresso verticalmente che hanno due grosse pinne pettorali simili ad ali, molto più larghe che lunghe. Ciò è, forse dovuto, al fatto che nei paesi spagnoli, manta significa scialle o mantello, per cui si chiamavano manta ogni animale che per la sua particolare forma richiamasse, appunto, un mantello. Volgarmente vengono detti anche diavoli di mare, pesci diavolo, vacche marine. In campo scientifico con il termine Manta, si designa, ora, solo il genere che comprende la Manta bisostris, un animale che può arrivare a sette metri di diametro. Tutte le altre specie vengono fatte appartenere al genere Mobula. Sono pesci con scheletro cartilagineo, occhi sul dorso, bocca e fessure branchiali sul ventre, imparentati con razze, torpedini e squali.

Sono simili, ma con molte differenze: le mante vivono nei mari tropicali e subtropicali, mentre le Mobula nel Mediterraneo e nell’Atlantico vicino a coste ed isole. Le mante, poi, si nutrono di zooplancton che filtrano con le branchie, mentre le Mobula, che hanno denti su entrambe le mascelle, mangiano pesci, crostacei e molluschi. Un esempio ne è la Mobula mobular, il diavolo di mare che popola anche le acque italiane. Altre differenze, le Mobula hanno la bocca posta nella parte inferiore del capo mentre la manta frontalmente. Le mante non hanno aculei, al contrario molte Mobula, come la Mobula mobular sono provviste di un aculeo velenifero caudale. Recentemente si è scoperto che le mante si possono riconoscere grazie alle “impronte digitali” che si trovano sulla pancia, sotto forma di macchie scure, grandi e piccole, diverse da individuo a individuo. Con questo metodo di foto-identificazione, si

Apparato boccale di una manta - Photo by Doug Perrine/Minden Pictures

catalogano gli individui a ogni avvistamento, per controllare se sono un nuovo arrivo. Il sub che fotografa una manta può inoltrare il file ai ricercatori, presso http//www.mantatrust. org, e contribuire allo studio. Per verificare il loro comportamento sott’acqua si utilizzano, invece, trasmettitori satellitari, come è stato fatto con le Mobule dello Stretto di

Manta – indonesia foto Stefano Scortegagna


15 Messina. Si è così scoperto che compiono immersioni fino a 600 metri, ma che trascorrono la maggior parte del tempo nei primi cinquanta metri, dove l’acqua è più calda. Oggi sono a rischio di estinzione a causa della pesca indiscriminata. Paradossalmente non è la carne ad essere richiesta, ma la cartilagine dell’apparato filtratore, utilizzata come rimedio medico, una piccola parte dell’animale: tutto il resto viene buttato. La conclusione la lascio alle parole di Gianni Roghi, tratte dal volume Dahlak, in cui descrive la spedizione subacquea

subacqueo toglie alcuni ami conficcati vicino ad un occhio di una manta Photos courtesy of Seadog TV & Film Productions and Tourism Western Australia

disegno della Mobula Mobular (1877)

italiana del 1952 in Mar Rosso, quella in cui il giovanissimo Folco Quilici ha girato Sesto Continente: “ … la prima manta grande la incontrammo da sola … cento metri dopo, un’altra manta, a prua. Anch’essa venne a galla dal fondo, in cabrata verticale, e quando fu sotto il pelo si girò all’indietro tendendo le corna, si rovesciò sulla schiena, disparte a capofitto senza rumore… Che fanno, perdio? … andiamo avanti… il cielo andava divampando … quand’ecco prima a poppa

Mobula mobular Author Patrik Neckman from Stockholm, Sweden

poi a prua, due mante colossali apparvero nel solito giro. Una ne apparve col muso nero e bianco e le corna, le corna uscirono come braccia fuori dall’acqua e la bestia si ripiegò all’indietro di schiena spalancando al cielo le dieci branchie dilatate e poi il ventre, inabissandosi a picco. Ma altre mante scorgemmo … ripetere il giro della morte e andammo avanti … mante di cinque metri di apertura alare … erompevano … dal fondo del mare protendendo le braccia in una in-

Manta birostris - foto NOAA - Wikipedia


16 comprensibile invocazione e si capovolgevano lentamente intorno alla barca. Il mare si muoveva, molte braccia parallele sorgevano dalle acque e sparivano inghiottite… ed ecco, là… il mare ribolliva ma senza schiume come rimescolato dal fondo da un vortice di duecento e più metri di diametro … andiamo avanti … quaranta e forse più mante, in una giostra ininterrotta e quasi a catena, salivano dal baratro in volo verticale con le ali e le corna tese, aprivano il mare e a braccia spalancate si rovesciavano, calavano ancora a testa in giù e là nella nel profondo, a venti o trenta metri, riprendevano quota come aeroplani per tornare in superficie. Quaranta o cinquanta mante turbinavano nei loro ininterrotti giri della morte, dal cielo all’abisso dall’abisso il cielo, e ovunque nel mare in subbuglio tendevano le corna al sole ormai moribondo tra le nubi,

mostravano le pance bianche sull’acqua arancione, nere e spettrali sprofondavano per ricomparire venti secondi più tardi. La barca rollava… Erano mante di cinque, di sei metri in larghezza e di quasi altrettanto in lunghezza, mante di oltre una tonnellata. Una uscita dal mare blu … alzò un’ondata … ed io mi trovai avvinghiato alla barra del timone completamente lavato. Il mare di colpo tornò viola e trasparentissimo ... E vedemmo le mante girare nel fondo. Si scorgevano lontane, quasi invisibili; più che vedere potevamo intuire la loro cabrata, poi in pochi secondi quelle cose infinitesime, sperdute in quella grande sala turchina e profondissima, ingrandivano smisuratamente fino essere mostri lanciati a velocità possente. Arrivavano verso di noi col loro volo verticale e le corna proiettate in avanti, a invocare o a ghermire qualcosa, esplodevano

Manta_birostris (Thailandia) – Wikimedia Commons - jon hanson from london, UK

fuori e giravano, giravano. giravano… La danza durava da mezz’ora. Ma perché quel convegno? … a un tratto frullò sulla superficie qualcosa … come la scia di un mitico serpente marino … dopo dieci minuti … un’altra eguale … e ci venne incontro diritta, senza piegare… quello strano serpente di una trentina di metri già ci era addosso, ci investiva, ci investì passandoci ai lati: erano piccolissi-

me mante in schiera, in fila per due, affarini di neppure un metro. Sbatacchiavano freneticamente le alucce e si dirigevano anch’esse in alto mare. Dopo altri dieci minuti ci passò accanto una nuova schiera di mante bambine e intanto le madri giravano, giravano, giravano… “ Le madri, Cecco!” gridai “questi sono i neonati! E’ il parto delle mante! (Gianni Roghi, 1954)


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Lo scudo è vinto Gli alpinisti vicentini Diego Dellai, Marco Toldo e Carlo Reghelin sono riusciti a salire lo “scudo superiore” del Monte Agner nelle Dolomiti, una delle pareti più difficili e affascinanti dell’arco alpino

S

i chiama “Diretta 4 Gatti”, la nuova e difficilissima variante alla via dei Sudtirolesi (o Messner) sulla parete Nordest del Monte Agner in Dolomiti. La variante supera l’evidente scudo della parte alta della Via dei Sudtirolesi con difficoltà fino a VIII e A3 in arrampicata artificiale. Lo scudo superiore della parete nord dell’Agner in Dolomiti è sempre stato un grande, irrisolto punto di domanda per gli alpinisti. Evitato a sinistra nel 1967 da Heini Holzer, Günther Messner e Reinhold Messner durante l’apertura della via dei Sudtirolesi ed evitato a destra nel 1990 dai fratelli cecoslovacchi Miroslav e Michal Coubal durante la loro apertura della via Storia Infinita, lo scudo è sempre stato un’incognita: perché è sempre stato evitato? Perché troppo difficile? Perché troppo compatto per essere scalato? Adesso gli alpinisti vicentini Diego Dellai, Marco Toldo e Carlo Reghelin del Gruppo Roccia 4 Gatti di Arsiero, arrampicando il 18 e 19 agosto, sono riusciti a superare questo bellissimo scudo giallo e grigio che domina con i suoi 2873 metri di altitudine la selvaggia Valle di San Lucano. La via è stata aperta senza spit, sia in arrampicata libera fino a VIII sia, per tre tiri, in arrampicata artificiale fino all’A3

La via “Diretta 4 gatti”


Diego sul 5° tiro


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Cronaca di un’impresa di Marco Toldo

Nel 1969 quattro giovani e intraprendenti scalatori formavano nel paese di Arsiero, nell’Altovicentino, il “Gruppo roccia 4 gatti”. Grazie a loro, di anno in anno, giovani e non si avvicinano al mondo della montagna ed entrano a far parte del gruppo realizzando nuove aperture e importanti ripetizioni in tutto l’arco alpino. 50 anni dopo 3 giovani del gruppo inseguono il loro sogno che da tempo coltivano… Era da qualche anno che io e Diego pensavamo ad una via nuova sull’Agnèr, per noi la cima più bella delle Dolomiti. L’obiettivo iniziale era un altro ma poi, non ricordo come, si cominciò a parlare del grande scudo e alla possibilità di salire giusto al centro, dove le evidenti colate nere potevano rappresentare un punto debole della parete. - Ciao Carlo, abbiamo pensato di provare ad aprire una via nuova in Agnèr, sullo scudo. Non dico che sarà facile, magari neanche alla nostra portata, ma sicuramente una bella avventura anche solo provarci! E così venerdì sera siamo al bivacco Cozzolino, con noi anche Carlo, coinvolto in questo gioco perché in 3 sarà

Cena in parete al tramonto

tutta un’altra cosa, sia per il trasporto del materiale, sia per la compagnia nei probabili momenti di dubbi e tensione. La mattina del sabato raggiungiamo l’attacco della via Messner e la seguiamo fin sotto al grande scudo. Sono le 2 del pomeriggio ed iniziamo a ‘provare’. Per quasi tutto il tempo questo era il concetto che avevamo in testa, ‘provare’, perché più su non si delineava precisamente una possibilità di passare ed in ogni caso le difficoltà erano evidenti.

primi 3 tiri ed iniziato il quarto, già incontrando difficoltà elevate e lasciandoci comunque sopra la testa il tratto che rappresentava l’incognita più alta.

Al calare della sera io e Diego, alternandoci, avevamo salito i

L’ambiente che ci circonda è surreale, un mare di nuvole lascia spuntare solo le cime più alte, il tramonto colora il cielo

Ma si sentiva anche una certa fiducia nell’aria, e così lasciate su le due mezze corde fisse sui tratti appena saliti, scendiamo alla cengia sospesa, che con l’avvicinarsi del tramonto aveva assunto un’atmosfera magica. Mangiamo, beviamo, e riusciamo anche a concederci un po’ di svago.

Marco sul 4° tiro


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Da sinistra Diego Dellai, Marco Toldo e Carlo Reghelin

Finalmente in cima! Marco sul 5° tiro

di fuoco e poi lascia spazio alla notte e a tutte le sue stelle. Ci mettiamo nei sacchi a pelo e lasciamo andare la tensione. La mattina il sole arriva presto e si fa subito sentire quando ci alterniamo nel risalire le corse fisse. Ricominciamo a ‘provare’, tocca a me. Ho sopra la testa un sottile diedro, l’unico punto debole in mezzo allo scudo giallo, ma il diedro ha un termine e una placca scura e compatta lo sovrasta. È un momento di forti dubbi, sto lì qualche minuto perché sembra molto difficile. Un buon chiodo mi stiamola a provare, e la possibilità di passare si fa sempre più luce... qualche bel buco per i friend, alcuni passi sui cliff e un paio di chiodi mi fanno giungere ad una grande nicchia dove faccio sosta. Le difficoltà non sono ancora finite e almeno per altri venti metri il dubbio rimane. Tocca a Diego che sale, lentamente ma sale. In sosta c’è silenzio, credevamo che, una volta arrivati lì, fosse fatta ma non è an-


24 cora così. Tutto va per il verso giusto, ma radunati alla sosta successiva non possiamo ancora sciogliere la tensione. 10 metri di placca compatta, ma molto più generosa di come si presentava, ci permette di raggiungere i veri punti deboli dello scudo e una serie di camini che in breve ci portano sulla cima! Potrei scrivere un libro sulle sensazioni provate in quella prima mezz’ora passata lassù, ma credo che non esistano parole per descrivere certe emozioni. Posso dire di aver sentito la forza del silenzio, talmente intensa che non riu-

scivamo ad esprimerci… E’ pomeriggio e sotto di noi un importante linea è stata finalmente salita, dedicheremo la via al Gruppo Roccia 4 Gatti, ai suoi 50 anni, ai suoi membri e a tutto quello che ci hanno insegnato! Mi piace pensare che il gigante ci abbia in qualche modo permesso di passare in mezzo al suo scudo, in cambio della grande ammirazione che proviamo per questa montagna. Mi piace pensare che una cosa, se puoi sognarla, puoi farla!

Carlo sulla via dei Sudtirolesi, verso il grande scudo

Il Monte Agnèr Il Monte Agnèr (2.872 m s.l.m.) è una cima del gruppo delle Pale di San Martino, di cui rappresenta l’estremità nord-orientale. Divisa tra i comuni di Taibon Agordino (versante nordovest) e Voltago Agordino (versante sudest), separa la valle di San Lucano dalla valle Sarzana. La sua parete settentrionale, che verso la valle di San Lucano misura più di 1500 m di dislivello verticale ininterrotto, è la più alta delle Dolomiti, e si contende con altre il primato di parete più alta delle Alpi.


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Il sentiero delle cascate

Un sentiero in memoria di Giorgio Mariot

“Ciao Giorgio, oggi con questa inaugurazione vorremmo ricordarti. Per noi ragazzi del Rotaract sei stato una guida e lo sei ancora oggi! Che idea pazza quanto ambiziosa questa del sentiero, eh Giorgio dì la verità, però l’hai sostenuta fin da subito anche se la settimana dopo ci hai lasciati. La tua mancanza si è sentita tanto, ma la voglia di iniziare a creare questo percorso era fortissima. Ci hai seguiti dall’alto attentamente a ogni passo fatto. Questa piccola grande nostra creazione vorremmo consegnarla a tutti, a questo nostro territorio perché possiate sempre apprezzare la bellezza che c’è intono a voi, quel tipo di bellezza che lascia senza fiato e che ci strappa un sorriso. L’abbiamo fatto con il cuore come ci ha insegnato Giorgio perché tutte le cose che faceva lui le faceva con il cuore. Grazie!”

M

di Vera Visonà

olti di voi probabilmente non ci conoscono, siamo i ragazzi del Rotaract Club Arzignano e Valle dell’Agno: un gruppo di giovani tra i 18 e i 30 anni che, con varie attività, si mettono a disposizione di coloro che ne hanno più bisogno. In questo ultimo anno, abbiamo lavorato sodo per riaprire, e in parte aprire ex novo, un sentiero, il “Sentiero delle Cascate”. A noi questo progetto sta a cuore per un semplice motivo: l’abbiamo dedicato a una persona speciale, una persona che, purtroppo, è venuta a mancare prematuramente il 12 marzo 2017 all’età di 63 anni, nel momento più inaspettato, lasciando un vuoto incolmabile. Questa persona si chiamava Giorgio Mariot, era il Presidente del Rotary Club Valle dell’Agno, del Distretto 2060. Giorgio era dottore in Medicina ed era anche Direttore del Centro di Terapia Antalgica dell’ex U.L.S.S. 5. Ricordiamo ancora quando abbiamo parlato a Giorgio di questo sentiero, un progetto molto impegnativo quanto ambizioso, ma noi ne eravamo convinti e lui ha appoggiato la nostra idea fin da subito. Una settimana dopo abbiamo appreso la tragica notizia. Così abbiamo deciso, senza esitare nemmeno un minuto, di dedicare questo sentiero proprio a lui, a lui che aveva creduto in 11 gio-


27 vani ragazzi con la voglia di sporcarsi le mani nel vero senso della parola. “Il Sentiero delle Cascate” è un sentiero che si sviluppa lungo la Valle della Lora, aprendosi in quota sull’Altopiano delle Montagnole e costeggiando le pendici del Monte Zevola. Il percorso prende avvio da Malga Lora in località Gazza di Recoaro Terme (VI). La lunghezza del sentiero è di 7.5 km. La quota minima è di 913 metri e la quota massima è di 1278 metri, con un dislivello di 600 metri. Il tempo di percorrenza si stima attorno alle 4 ore. Il sentiero, che abbiamo aperto lo scorso 21 ottobre, è stato supportato dalla guida alpina Paolo Asnicar del gruppo “Le Guide” senza il quale non avremmo mai potuto realizzare questo nostro sogno. Un itinerario escursionistico di breve percorrenza, che si propone di far conoscere la storia dello sfruttamento energetico della risorsa idrica del Recoarese ad opera dell’industria laniera dei Marzotto e, nel particolare, quella che è la testimonianza rappresentata dalla centrale idroelettrica Gazza e dalle sue sorgenti. Il “Sentiero delle Cascate” si propone come un progetto di rivitalizzazione del territorio locale, portato avanti direttamente dal nostro gruppo Rotaract e finanziato dai nostri due Rotary padrini: il Rotary Club Valle dell’Agno e Rotary Club Arzignano. Con questo anno e mezzo di duro lavoro, speriamo di aver dato vita ad un nuovo percorso escursionistico che attraversa le nostre bellissime Piccole Dolomiti, aperto a tutti e perfetto per riscoprire le bellezze del nostro territorio, come avrebbe voluto Giorgio. Un saluto a tutti da Albert, Hans Paul, Niccolò, Vera, Isabel, Martina, Giulia, Riccardo, Monica, Vittoria, Alessandra, Gaia. I Ragazzi del Rotaract. I nostri contatti e canali social per sapere di più riguardo il “Sentiero delle Cascate”


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moto

Campione su due ruote Vintage Nicola Fogaro è campione italiano di motociclismo di velocità in salita

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i sono svolte sabato 28 settembre a Misano Adriatico le premiazioni del Campionato di motociclismo di velocità in salita (CIVS). Ad aggiudicarsi il titolo Italiano è stato il vicentino Nicola Fongaro, vincendo ben quattro gare, un secondo posto e tre terzi, nelle otto prove in calendario 2019, nonostante, in diverse gare il meteo non sia stato clemente e la pioggia abbia in parte messo in difficoltà i piloti. Il campione ha partecipato alla categoria Vintage Mini gr. 4 con una Malanca 125 GTI del ‘79 preparata da lui stesso e si sta già preparando per partecipare al prossimo anno nella categoria gr. 5.


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recoaro

A.M.T.I. associazione medici tennisti italiani di Luigi Stella

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arissimi tutti, sono un nuovo associato AMTI 2019, Luigi Stella di Recoaro Terme(VI). Finalmente, grazie alle sollecitazioni ed ai pressanti inviti del nostro miglior giocatore vicentino Ubaldo Rossati, quest’anno io e il mio compagno di doppio, Angelo Pietropan, abbiamo deciso di partecipare al 47° Campionato Nazionale AMTI. Con la presente voglio esprimere un profondo ringraziamento e le più sincere congratulazioni per l’organizzazione e lo svolgimento del meraviglioso evento al quale abbiamo partecipato. Io e mia moglie, non tennista, abbiamo ancòra negli occhi e nel cuore l’immagine mozzafiato della località Tremosine nell’Hotel Le Balze. Dalle sue terrazze si domina il Lago di Garda solcato di giorno di bianche vele e di notte incoronato dalle luci delle località turistiche: un posto da amanti, poeti, tennisti! Mi ha poi colpito l’amicizia, la disponibilità,la facilità di relazione con i colleghi tutti, dal medico di Medicina Generale (no di base!) all’illustre cattedratico, dal giocatore meno esperto all’élite tennistica dei medici. Tra questi ho conosciuto il collega che mi ha dato lezione di tecnica, di stile, di sano agonismo, di mentali-

tà vincente, di ottima preparazione fisica: Gianni Brizzi. Mi ha sorpreso poi la tecnica tennistica del prof. Sciacca, testa di serie n° 2. Egli, da navigato tennista, ha compensato la presenza di qualche acciacco fisico con un gioco dagli effetti speciali, mai prima affrontati, insidiosissimi, per me faticosissimi, ma che mi hanno confermato come nel tennis ci vuole anche la testa.. Non sono mai stato così bene in una vacanza sportiva, nonostante le temperature oltre la norma, mitigate sempre da una leggera brezza, la via d’accesso impegnativa, soprattutto per i colleghi provenienti da lontano, l’assenza di svaghi alternativi per le signore non tenniste, compensata ampiamente dall’amenità del luogo e da ecologiche passeggiate. Inoltre gli impianti tennistici si sono rivelati di prim’ordine, ottimamente orientati, l’organizzazione degli incontri puntuale ed esauriente, il menù fin troppo abbondante e di qualità. Non posso tace-

re poi l’allegria, l’esuberanza dialettica e la schietta simpatia suscitata da Claudio Maffi nel presentare i vincitori delle agognate medaglie, consegnate dal nuovo Presidente Terenzio Anselmo, dal mitico nuovo vicepresidente Gianni Brizzi e dall’infaticabile Antonio Cellini. Per tutto ciò e per altro di positivo, che taccio per non tediare, un GRAZIE a tutti coloro che hanno profuso tempo, fatica ed altro per offrire a noi tutti, medici amanti del tennis, l’opportunità di trascorrere una splendida vacanza di sport e di amicizia. Grazie a questa positiva esperienza ludica-turistica, io e mia moglie abbiamo già deciso di partecipare ogni anno, destino permettendo, a questo gratificante evento fino agli OVER 80 e oltre, se possibile. Chiudo con un saluto di profonda ammirazione per i colleghi appunto OVER 80 animati da una grande vitalità, genuina passione ed impressionante lucidità mentale.



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running

Corsa indoor N

ell’ultimo periodo sono stati pubblicati diversi articoli che mettono a confronto l’allenamento specifico di corsa svolto indoor, ovvero su tapis roulant e quello praticato all’aria aperta; testi molto interessanti focalizzati su come ci si può allenare nei due differenti modi e che obbiettivi si possono raggiungere indoor vs outdoor. Da preparatore atletico di endurance e triatleta, per me, la corsa è quel movimento tecnico eseguito fuori da qualsiasi barriera, senza ritmi e frequenza imposti… la corsa è libertà! Visto, però, la grande tecnologia che ci circonda e la possibilità di variare le nostre sedute d’ allenamento, l’attività indoor può essere un grande alleato per migliorare alcuni aspetti podistici fondamentali. A gennaio di quest’anno, causa scatenante un trauma importante alla schiena che ha messo la parola stop alla mia preparazione, ho iniziato a svolgere dei test in palestra OUTDOOR TRAINING cercando di capire se la corsa sul tapis roulant poteva aiutarmi per tornare a correre come prima dell’infortunio. In quel momento, infat-

corsa outdoor di Marta Carradore


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ti, gli allenamenti esterni erano vietati: in prima fase facevo fatica a tare in piedi per pochi minuti e, successivamente, rischiavo di crollare a terra senza riuscire a sollevarmi da sola, perciò tutto ciò che era outdoor dovevo escluderlo.

Iniziai così una lenta ma graduale ripresa sfruttando il tanto odiato tapis roulant e...mi si aprì un mondo! Premetto che il tappeto genera un lavoro muscolare ‘’opposto’’ rispetto alla corsa naturale; ovvero, se

quando corriamo all’aperto il piede produce una spinta verso l’ avanti su un terreno fermo, quando siamo indoor, ci muoviamo senza un reale avanzamento di moto, ciò genera un’involontaria fase di freno del piede.

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CAMPIONATI ITALIANI A

l Palaghiaccio di Piancavallo (PN), splendida cornice di chiusura dei Campionati Italiani di Pattinaggio Artistico 2019, ERIKA PERUFFO, fiore all’occhiello della società CASTELGOMBERTO NEW SKATE, si è aggiudicata il titolo di vice-campionessa italiana e la medaglia d’argento nella categoria Divisione Nazionale C specialità esercizio libero. Buone le performance anche delle compagne di squadra JENNY TACCHINI, SOFIA MARCHESINI e di FRANCESCA GENTILIN, FRANCESCA CARRADORE (Patt.Art.Trissino) che nelle gare di qualificazioni hanno sfiorato la finale ed entusiasmante la prestazione di VERONICA BATTI-

STIN che, con il suo 2° posto in qualifica, è riuscita a far parte delle finaliste ottenendo il 17°piazzamento. Buona prova anche per CARTERINA ROCCOBERTON che a Bologna ha gareggiato nella specialità esercizi obbligatori. Sempre in campo nazionale, altri successi sono arrivati al termine dei Campionati Italiani FISR di Ponte di Legno (BS) grazie ai buoni programmi tecnici di FRANCESCA BERNAR, GLORIA MECENERO e MATILDE PERETTI nella categoria Cadetti, ARIANNA GENTILIN e VALENTINA BERNAR che nella categoria Junior si sono aggiudicate rispettivamente il 23° e 15° posto della finale. Le competizioni si sono poi trasferite a Roana per il Trofeo Nazionale riservato alle categorie Esordienti ed Allievi Regionali e che hanno visto la partecipazione anche di una delegazione di atlete del Pattinaggio Artistico Trissino e Castelgomberto New Skate. Ottime le prestazioni di GIORGIA MAZZUCCO, ASYA BALLICO, GIULIA SANDRI, ALICE CARIOLATO, GAIA GUIOTTO, ALESSIA TACCHINI e VERONICA CECCHETTO 1° classificata e medaglia d’oro nella categoria Allievi Regionali A. Grande soddisfazione per dirigenti, atleti e tecnici che hanno coronato un anno di lavoro intenso iniziato con i campionati provinciali e regionali portando il Pattinaggio Trissino e Castelgomberto ad inserirsi fra le migliori società venete. Dopo la breve pausa estiva, si riprenderà a fine Agosto sempre più competitivi e pronti a nuove sfide:….in bocca al lupo!


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