Uscita di Sicurezza | Anno XXX | n. 4 | novembre 2016

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Uscita di Sicurezza

il periodico dell’Associazione Studenti Universitari di Padova

novembre 2016

SPECIALE REFERENDUM Alcuni giorni fa, camminando per strada, noto appeso a una bacheca un foglio che attira la mia attenzione: è un pezzo di carta a righe, scritto a mano con una penna blu. La scrittura è piuttosto difficile da decifrare, ma si riescono a leggere il titolo, che recita “Giudizio sul nostro Paese Italia e su quelli di tutto il Mondo”, e poche altre parole (“Europa”, “Brexit”, “Renzi”). Per non staccarlo, decido di farci una foto e mi dirigo verso casa. La scelta di affiggere in pubblico la propria riflessione, in questo caso su un argomento talmente delicato come quello della situazione politica globale contemporanea, ricorda da vicino la pratica, oggi comune, di pubblicare un post su una bacheca digitale. La vista di questo pezzo di carta fittamente scritto fa pensare a un oggetto fuori posto, ma allo stesso tempo ricco di fascino. Forse quella è l’unica copia della lettera dell’anonimo scrittore, nessuno sa chi sia stato ad attaccarla su una bacheca e perché non abbia scelto quelli che oggi sono mezzi più “tradizionali”, come un social network o un blog. Siamo attratti dalla carta, scritta a mano o stampata, probabilmente perché, a differenza dei tweet o dei post, questa assume con maggior forza i tratti della concretezza e dell’unicità. Il problema della carta stampata sta interessando direttamente il mondo del giornalismo, che si ritrova a dover affrontare un calo esponenziale nelle vendite dei giornali. La percentuale di ricavi dalla vendita del formato tradizionale è sempre più bassa, soprattutto in Italia, dove non si è ancora imparato a sfruttare al meglio le potenzialità delle piattaforme digitali.

La lettura di un giornale stampato sembra ormai un’abitudine sorpassata, il modo di informarsi e informare è cambiato in modo radicale: ora le notizie ci raggiungono ovunque ci troviamo e qualsiasi cosa stiamo facendo, possiamo entrare in possesso di informazioni in tempo reale e, alle volte, essere noi stessi fautori di uno scoop. Allora quale valore può avere un articolo stampato su un periodico indipendente e distribuito a mano? In un’epoca come questa, in cui il giornalismo, nelle sue varie sfaccettature, sta vivendo uno delle più importanti fasi si riassestamento, noi vogliamo valorizzare un tipo di azione giornalistica proveniente dal basso, dalle opinioni degli studenti, innestata sul terreno fertile dell’associazionismo e allo stesso tempo slegata dall’ormeggio sicuro dell’opinione accomodante. Con questa intenzione, abbiamo preparato un numero dedicato al referendum costituzionale che si terrà tra poche settimane. Buona lettura! Elena Lorenzi

Indice

Le regole del gioco......................................................................... 2 I figli di mezzo del referendum.................................................... 3 Che ne sarà di noi il 5 dicembre?................................................. 8 Per fortuna votiamo con i fascisti................................................ 9 Il merito della riforma costituzionale. Quello vero.................... 10 Glossario (del sì)............................................................................. 12


2 Le regole del gioco di Elena Lorenzi

Il 3 novembre a Padova si è tenuto uno degli incontri pubblici organizzati per la promozione del referendum costituzionale da parte del Comitato per il Sì di Padova. L’arrivo di Matteo Renzi nella città del Santo ha provocato reazioni opposte: da un lato, i cortei dei centri sociali e di Adl Cobas, schierati a sostegno delle ragioni del No, dall’altro, la folla di spettatori che ha riempito il padiglione 7 della Fiera di Padova.

passerà nelle mani dei deputati, i quali potranno scegliere se accettare le eventuali modifiche legislative proposte dal Senato. L’impressione è quella di una maggiore complessità giuridica e amministrativa nel rapporto tra lo Stato e le Regioni: ognuna di queste ha specifiche esigenze ed emergenze, che i sindaci e i consiglieri regionali dovrebbero affrontare, svolgendo allo stesso tempo il ruolo di senatori.

Oltre a parlare di referendum, il premier ha ampliato il discorso anche ad altri argomenti, come lo stato della cultura e del lavoro in Italia. Il pesante colpo inferto dal terremoto al patrimonio artistico umbro e marchigiano ha permesso a Renzi di ricordare come la cultura sia una delle prerogative di questo governo. Il confronto con Giulio Tremonti, ex Ministro dell’Economia e delle Finanze del governo Berlusconi che nel 2010 avvertì che “con la cultura non si mangia”, è stato evocato dal premier per marcare l’inversione di rotta che la riforma inaugurerebbe, perché “l’Italia che dice ‘sì’ investe sulla cultura”. Questo dovrebbe essere reso possibile dalle modifiche introdotte al titolo V della Costituzione in materia di rapporto tra lo Stato e gli Enti locali: con l’entrata in vigore della riforma, l’istruzione, la tutela del territorio, le attività e i beni culturali, assieme ad altre materie, diventerebbero competenza esclusiva dello Stato nel dettare “disposizioni generali e comuni” e nel dirigere la gestione di istituti culturali ed educativi. L’accentramento dei poteri e l’introduzione di un Senato formato da 95 rappresentanti delle istituzioni territoriali e 5 senatori determinerebbe una maggiore inclusione dei consiglieri regionali e dei sindaci. Renzi ha sottolineato che, finalmente, con questa riforma, anche l’Italia potrà allinearsi con Paesi come Francia e Germania, le cui forme di governo non prevedono il forte bicameralismo che caratterizza, invece, la struttura parlamentare italiana. Bisogna ricordare, però, che la Germania prevede una forma di governo federale e che in Francia è concessa ampia autonomia alle regioni: in Italia non si trova lo stesso grado si decentramento e di autonomia regionale, perciò la prospettiva di una rappresentanza territoriale in Senato risulta difficilmente attuabile. Inoltre, il Senato svolgerà una funzione di raccordo tra lo Stato e gli altri Enti della Repubblica e la maggior parte dei poteri

D’altra parte, bisogna considerare che con la riforma costituzionale i tempi di attesa per la conferma di una proposta di legge sarebbero notevolmente ridotti: durante il comizio, Matteo Renzi ha assicurato che la loro proposta permetterebbe non tanto di “abbattere la democrazia”, come paventano alcuni, quanto di “abbattere la burocrazia”, che sarebbe un’ottima cosa. Andando a guardare nel dettaglio il testo della riforma, si può leggere che i procedimenti di approvazione delle leggi ordinarie da tre (il procedimento normale, quello di conversione dei decreti legge e quello costituzionale) sono passati a otto (art. 70): questo non sembra favorire lo sbrogliamento della matassa legislativa che oggi rende l’iter per l’approvazione di una proposta di legge così lungo. L’intenzione della riforma è quella di rendere l’Italia un Paese “più semplice”, di eliminare le “procedure barocche” che appesantiscono la burocrazia e di far risparmiare allo Stato 500 milioni di euro all’anno tra Senato, Regioni e Province (che con la riforma scompariranno). Alle critiche ricevute di aver realizzato una riforma “pasticciata”, Renzi risponde che, nel caso della vittoria del “no”, in futuro sarà più difficile che i senatori saranno favorevoli a un cambiamento della Costituzione. Quindi, invita ad accogliere la riforma come un’occasione per cambiare il Paese in senso positivo, dopo 35 anni di tentate riforme della costituzione mai andate in porto, a vedere la riforma come l’unica alternativa che si presenti ora all’instabilità politica dei governi italiani. Sembrerebbero non esserci alternative, ammettendo che questa riforma sia quella che veramente salverà il Paese dalla “palude”. “Io non credo che noi le stiamo facendo tutte bene”: così Renzi ammette di aver

commesso degli errori, di non aver “coinvolto a sufficienza il mondo della scuola”: l’opportunità rimane quella di smuovere le acque torbide in cui l’Italia naviga da tanti anni attraverso il voto dei cittadini. Se la riforma sarà accettata, quale scenario ci si prospetta? I soldi che verranno risparmiati, saranno utilizzati per sistemare i danni causati dalla riforma della “Buona Scuola”? L’aumento di raccordo tra Stato e Regioni migliorerà la condizione dei lavoratori, degli imprenditori e dei precari che hanno vissuto le conseguenze del Jobs Act?

Renzi ha ringraziato il Rettore dell’Università di Padova per l’incontro svoltosi il 28 ottobre nell’Aula Magna del Palazzo Bo, dove il premier ha conosciuto i ventidue scienziati tornati a Padova dall’estero per lavorare con l’Ateneo nell’ambito del progetto “Brain Gain” 2016. L’Università patavina intende assumere un ruolo d’eccellenza nell’ambito della formazione e della ricerca, grazie al sostegno del governo e a finanziamenti adeguati. Un obiettivo che sembra però ancora lontano: il rapporto Eurydice sullo stato del sistema universitario nei Paesi europei dimostra come la percentuale di studenti idonei alla borsa di studio non superi il 10%, la più bassa d’Europa. Nell’ultimo anno accademico il numero di laureati è calato, mentre il peso delle tasse continua a salire, con importi che arrivano anche a 3000 euro (la tassa media annua è aumentata del 3,4% nell’ultimo anno). Parlando invece di lavoro, lo scenario appare meno preoccupante, come ci raccontano i dati Istat declamati da Renzi durante il suo discorso: 656.000 posti di lavoro in più dal febbraio 2014, che però non bastano per riscattare quasi un milione di posti di lavoro persi negli anni precedenti. I problemi da risolvere sono purtroppo ancora tanti:


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Renzi a Padova: il padiglione blindato nella nebbia

l’utilizzo dei voucher rischia di creare una generazione di lavoratori precari, legati a un tipo di pagamento spesso realizzato in modo scorretto. Secondo le ultime stime Istat, la disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni, cioè i ragazzi disoccupati sul totale di quelli attivi, è in calo, pari al

38,8%. Sul totale di giovani, sia attivi che inattivi, che non stanno cioè cercando lavoro, la disoccupazione è pari al 10,2%. Sebbene sia stato registrato un leggero calo dei disoccupati, si parla comunque di cifre inferiori al punto percentuale. I dati rivelano, inoltre, che sempre più giovani scelgono di trasferirsi in un altro Paese: il 36,7% degli italiani che nel 2015 sono emigrati all’estero sono giovani tra i 18 e i 34 anni (dati Aire). Il ritratto di un’Italia che si prepara ad affrontare un cambiamento come quello di una modifica alla Costituzione appare

meno luminoso di quanto i promotori della riforma vogliano farci credere. Renzi si difende affermando, giustamente, che è la prima volta che gli italiani hanno la possibilità di decidere per il futuro del loro Paese, di smuovere la “palude” in cui nuotiamo: viene da domandarsi se non sarebbe stato meglio chiamare gli italiani e le italiane a esprimersi anche sulle questioni del lavoro, dell’istruzione, delle pensioni. Se cogliere quest’opportunità può significare dare una scossa all’Italia, allora bisogna sperare che la democrazia, che i partiti politici dicono voler difendere da un lato, rafforzare dall’altro, non ne rimanga fulminata.

I figli di mezzo del referendum di Giovanni Comazzetto, dottorando in Diritto Costituzionale presso l’Università di Padova *Il testo che segue è l’intervento dell’autore alla Notte Bianca di Scienze Politiche del 27 ottobre.

Premessa: il discorso pubblico sulla Costituzione Non sono un feticista della Costituzione. Non penso che la nostra sia la più bella del mondo. Se pure lo fosse, questa sua qualità non sarebbe comunque garanzia di una formazione autenticamente democratica della volontà politica, di un corretto ed efficace funzionamento delle istituzioni e di una tutela soddisfacente dei diritti civili, politici e sociali. Potremmo peraltro fare innumerevoli esempi di costituzioni bellissime, sotto il profilo della scrittura e della sostanza. Si dice che la Costituzione stalinista del ’36 sia la più bella mai scritta. Ma qualsiasi testo deve essere calato nella realtà, deve confrontarsi con il concreto modo di funzionare delle istituzioni, con consuetudini e prassi del popolo che esso mira a guidare, con la forma mentis della classe politica che è preposta alla sua attuazione. Pensiamo alla Costituzione di Weimar (1919): tuttora studiata ed elogiata come uno dei capisaldi del costituzionalismo moderno e come uno dei primi tentativi di instaurare uno Stato sociale, con la garanzia dei diritti sociali resa in Costituzione, ma ridotta progressivamente ad involucro privo di contenuti dalla disgregazione della democrazia liberale tedesca e dall’ascesa del nazifascismo. Sappiamo tutti com’è stata svuotata di significato la Costituzione weimariana, non tanto per i suoi difetti intrinseci, quanto perché, come ha osservato il filosofo americano John Rawls, “nessuna delle élite tradizionali della Germania la sostenne né si mostrò disponibile a farla funzionare. I suoi membri non credevano più che fosse possibile un regime parlamentare liberale adeguato”. Non penso che la Costituzione sia immodificabile. Vale sempre quale principio unanimemente accolto nelle varie democrazie costituzionali ciò che era previsto illo tempore dalla Costituzione francese del 1793, art. 28: “un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future”. Sarebbe un’assurda pretesa quella di cristallizzare una volta per tutte i principi fondamentali della convivenza sociale

senza tenere conto dell’incessante evoluzione politica, sociale e culturale che scandisce la storia dell’uomo. Una Costituzione immodificabile è una costituzione destinata ineluttabilmente ad essere progressivamente violata, ignorata e sovvertita dall’esplosione del potere costituente. Se si analizza il discorso pubblico sulla Costituzione che si è portato avanti dagli anni ’80, accompagnato dalla proliferazione di commissioni bicamerali, comitati di studio sulle riforme istituzionali, finanche “commissioni di saggi”, ci si avvede del fatto che alla Costituzione repubblicana sono stati imputati molti dei mali che affliggono il nostro Paese. Tra i molti l’instabilità dei Governi, la frammentazione del sistema politico, la lentezza del procedimento legislativo, l’abuso degli strumenti di normazione d’urgenza. La Costituzione è il problema, i plurimi tentativi di riforma una possibile soluzione. Dà da pensare che gran parte di questi tentativi non abbia prodotto alcun esito: dal 1983 (anno in cui fu istituita per la prima volta una Commissione bicamerale allo scopo di ragionare di possibili riforme costituzionali, la quale peraltro neppure si riunì a causa della fine anticipata della legislatura) ad oggi la Costituzione è stata modificata sì 12 volte (13 se passerà questa riforma), ma in quasi tutti i casi si è trattato di modifiche lievi, a dispetto di tentativi di riforma, poi falliti (vedi il referendum del 2006), decisamente più ampi. La riforma più significativa dell’intera storia repubblicana rimane quella del 2001, certo molto profonda ma pur sempre limitata alla modifica di 15 articoli. È dunque una strada lastricata di aborti costituzionali quella che ha condotto a questa riforma. Siamo davvero sicuri che questi fallimenti non abbiano determinato alcuna conseguenza? Una di certo l’hanno prodotta: la progressiva delegittimazione del testo costituzionale così com’è scritto. Dunque la percezione sempre più radicata che una riforma dello stesso possa essere una panacea di tutti i mali che affliggono la nostra democrazia; che le riforme, insomma, siano necessarie. Come poi si debba procedere a riformare, è decisamente un’altra questione.


4 “Un ponte costituzionale verso il Nulla” Il superamento del bicameralismo paritario Uno dei punti cardine di questa riforma è costituito dal superamento del bicameralismo paritario o perfetto. Il Senato della Repubblica, se la riforma verrà confermata nel voto del referendum, diventerà la camera rappresentativa delle istituzioni territoriali. Attualmente le due assemblee che costituiscono il Parlamento, entrambe elette a suffragio diretto, sono senza differenze titolari della funzione legislativa e del rapporto fiduciario con il Governo. Le differenze più significative tra loro attengono essenzialmente al numero di componenti (630 contro 315, al netto dei senatori a vita) e ai requisiti di elettorato attivo e passivo. La riforma Renzi-Boschi riduce innanzitutto il numero dei componenti elettivi del Senato da 315 a 95, cui si aggiungeranno gli ex Presidenti della Repubblica (senatori a vita, come oggi) e 5 senatori di nomina presidenziale, scelti tra coloro che abbiano dato lustro alla Patria, i quali tuttavia resteranno in carica 7 anni e non più vita natural durante. Questi 95 parlamentari saranno eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle province autonome di Trento e Bolzano tra i propri componenti e tra i Sindaci dei Comuni facenti parte del loro territorio. Il numero di senatori-sindaci sarà di uno per ciascuna Regione e Provincia autonoma, mentre il numero di senatori-consiglieri sarà proporzionale alla popolazione di ciascuna Regione. Vi è chi calcola che il rapporto tra senatori-sindaci e senatori-consiglieri sarà di 21 a 74, altri di 22 a 73 in quanto non è chiaro se la Regione Trentino Alto Adige esprimerà un senatore-sindaco ulteriore rispetto ai due già espressi dalle Province autonome di Trento e Bolzano oppure non ne esprimerà alcuno. Ad ogni modo ciascuna Regione esprimerà almeno due senatori. Quanto alle modalità di elezione il testo è quantomeno ambiguo: da una parte si dice che i Consigli regionali “eleggono i senatori tra i propri componenti”, sembrando qui potersi configurare un’elezione puramente e semplicemente di secondo grado, dall’altra che la loro elezione deve avvenire “con metodo proporzionale” e “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Sarà certamente complicato assicurare la proporzionalità in sede di elezione dei senatori, soprattutto nelle Regioni più piccole, che esprimeranno tutt’al più due o tre senatori; ma ancora più sibillina è l’espressione “in conformità alle scelte degli elettori”. In che modo si può garantire che le scelte fatte nel contesto di un’elezione di secondo grado siano

“conformi” alla scelte degli elettori? Salirà sempre il consigliere più votato, anche se non appartenente alla lista più votata? O saliranno i consiglieri appartenenti alla lista più votata? Oppure al momento di votare per il rinnovo dei Consigli regionali si dovrà esprimere una preferenza anche per i senatori? Le parole sono importanti. Conforme deriva dal tardo latino confórmem, che significa “della stessa forma”, “corrispondente”, “concordante”. Delle due l’una: o i Consigli regionali devono attenersi alle scelte degli elettori, senza alcuna discrezionalità, e bisogna comunque capire come rispettarle, oppure sono liberi di eleggere chi vogliono. Comunque la si voglia intendere, questa pletora di indicazioni contrastanti su un punto cruciale circa la natura del nuovo Senato darà luogo a enormi difficoltà interpretative. E la sensazione che l’espressione “in conformità alle scelte degli elettori” sia stata inserita senza alcuna specifica razionalità, all’unico scopo di tranquillizzare chi storceva il naso dinanzi ad un’elezione puramente indiretta dei senatori, è tutt’altro che peregrina. Altro aspetto poco chiaro: la durata del mandato senatoriale. Secondo l’art. 57 la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti. Da ciò parrebbe desumersi che il mandato del senatore-sindaco cessa quando termina il suo mandato da sindaco. Ma allo stesso tempo anche lo scioglimento del Consiglio regionale che lo ha eletto dovrebbe costituire causa di decadenza da senatore, in quanto è stato quel Consiglio regionale, e non quello che ne ha preso successivamente il posto, ad eleggerlo come senatore. Mentre il problema non si dovrebbe porre per i senatori-consiglieri, i quali pacificamente decadono dalla carica di senatori quando, per qualunque ragione, cessano di essere consiglieri regionali. Ancora disposizioni poco chiare che determineranno problemi applicativi, tutto per una prosa involuta che mette in difficoltà anche chi è avvezzo a maneggiare i testi giuridici. Peraltro stiamo parlando del testo della Costituzione, della Legge fondamentale, dell’atto che pone i principi supremi dell’elaborazione politica e della convivenza sociale: come possiamo pretendere che i suoi principi siano compresi e appresi se la scriviamo in questo modo? Si prevede insomma che il Senato regionale sia composto da “dopolavoristi” che non percepiranno, per questo incarico, indennità economiche aggiuntive. Ai componenti eletti dai Consigli regionali, come detto, si affiancheranno gli ex Presidenti della Repubblica e i senatori nominati per sette anni dal Presidente della Repubblica per particolari meriti. Sfugge il


5 il motivo per cui questi soggetti siano stati collocati nella camera rappresentativa delle istituzioni territoriali. Il Senato tuttavia non subirà modifiche solo nella composizione: la riforma prevede infatti che cambino sensibilmente anche le sue funzioni, in correlazione al suo nuovo afflato “territoriale”. La sola Camera dei deputati resterà titolare del rapporto fiduciario con il Governo e delle funzioni di indirizzo politico e di controllo dell’operato del Governo; mentre, con riguardo alla funzione legislativa, dal procedimento di approvazione delle leggi com’è previsto attualmente, caratterizzato cioè da una partecipazione paritaria delle due camere (bicameralismo perfetto o paritario), tale per cui un disegno di legge dev’essere approvato nel medesimo testo da entrambe per poter essere promulgato, si passerà ad una pluralità di procedimenti in cui il ruolo delle due camere sarà diversificato (bicameralismo imperfetto). Il procedimento bicamerale è previsto per un numero limitato di leggi tra cui le leggi di revisione costituzionale, le leggi concernenti i referendum popolari, le leggi di principio sui sistemi elettorali delle Regioni e le leggi che disciplinano le elezioni e le funzioni fondamentali degli enti locali. Per tutte le altre leggi è previsto invece un procedimento di natura essenzialmente monocamerale, a sua volta suddiviso in una varietà di subprocedimenti con intervento eventuale o necessario del Senato. Nonostante la riforma sia stata portata avanti all’insegna della “semplificazione”, trattasi di un coacervo di termini (10, 15 e 30 giorni, difficilmente rispettabili da una camera di dopolavoristi) che complica non poco il procedimento legislativo e che porrà notevoli problemi quando sorgeranno (perché sorgeranno) questioni di competenza. La risoluzione di tali questioni è rimessa all’accordo dei Presidenti delle due camere. Ma se questi non dovessero trovare un accordo? E il loro accordo, se raggiunto, potrà essere eventualmente messo in discussione per violazione delle norme di riparto di fronte alla Corte costituzionale? Il nuovo Senato non sarà titolare “soltanto” della compartecipazione al procedimento legislativo, poiché l’art. 55 lo grava di molti (troppi) altri compiti. Vale la pena di enumerarli tutti per mettere in evidenza la scarsa lungimiranza con cui è stato modellato quest’organo dai sedicenti “nuovi costituenti”: “il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all'esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l'Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle politiche dell'Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l'attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l'impatto delle politiche dell'Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l'attuazione delle leggi dello Stato” (art. 55 comma 5). È impensabile che una camera così composta (ma forse qualsiasi camera, anche composta da senatori “a tempo pieno”) possa assolvere adeguatamente a questi compiti immani. Tanto più che, a fronte di una normativa tanto confusa e pasticciata, non possiamo prevedere come i senatori interpreteranno il loro nuovo ruolo e le loro funzioni.

Rappresenteranno le istituzioni territoriali, quindi non direttamente le popolazioni delle Regioni ma chi le governa; eppure non avranno vincolo di mandato, quindi non saranno in alcun modo tenuti a rispettare le indicazioni provenienti dalle Giunte e dai Consigli regionali. Saranno votati dai Consigli regionali ma anche dagli elettori della Regione: senatori “quasi-elettivi”. Come si organizzeranno durante le adunanze, per appartenenza politica oppure territoriale? Nel primo caso il nuovo Senato potrebbe diventare una mera appendice delle lotte tra fazioni, capace peraltro di ostacolare nuovi progetti di riforma qualora si profilassero maggioranze politiche diverse nelle due camere, e non un’autentica camera di risonanza delle esigenze territoriali. Non sarebbe stato più saggio dare vita ad una camera davvero capace di esprimere le esigenze degli enti territoriali? Nella fase iniziale dei lavori parlamentari sulla riforma è stato chiesto a vari costituzionalisti di presentare delle osservazioni. Gustavo Zagrebelsky, criticando la composizione del nuovo Senato, ha proposto ad esempio di imitare il modello americano. Due senatori per ogni Regione, eletti dagli elettori delle Regioni stesse, non invece tratti dalle amministrazioni regionali e locali ed eletti in secondo grado da queste. Un Senato eletto senza liste o “listoni” che farebbero di questa camera un’ennesima propaggine del sistema dei partiti; un Senato “davvero attrattivo per le forza migliori del nostro Paese che il reclutamento partitico della classe politica oggi tiene ai margini”. Insomma un’assemblea costituita in modo da poter svolgere pienamente e a tutti gli effetti la funzione di coordinamento tra lo Stato e gli altri enti territoriali della Repubblica.

Proposte alternative c’erano senz’altro, dunque, e molto più convincenti di quella su cui saremo chiamati a decidere. Come abbiamo visto, si è preferito optare per l’aggravamento dei compiti di sindaci e consiglieri regionali, chiamati ora ad un’ulteriore funzione da svolgere senza indennità economiche aggiuntive. E il risparmio derivante da questa soluzione è stato sapientemente sfruttato a fini propagandistici. “Come si fa a votare contro una riforma che taglia 300 parlamentari?”, ho letto recentemente. Le ragioni sono molte, se pensiamo al fatto che il risparmio derivante da questa riforma sarà comunque risibile rispetto al bilancio complessivo dello Stato, e soprattutto che la stessa vexata quaestio delle indennità economiche dei parlamentari è mal posta. Non si riforma la Costituzione per ridurre i costi delle istituzioni, ma per modificarle, migliorarle, redimerle. Questa riforma avalla l’idea che le istituzioni, e in particolare i rappresentanti in Parlamento, siano un costo inutile, eccessivo, un costo che non ci possiamo permettere. Invece di agire sul piano politico, culturale, sociale, istituzionale per restituire alla classe politica e ai partiti la legittimazione e la


6 dignità perdute, si provvede ad aggravare agli occhi dei cittadini la delegittimazione esistente, come se la riduzione del numero di rappresentanti fosse una soluzione alla crisi in cui versa la nostra democrazia. Il problema non sono i privilegi dei parlamentari; il problema è che non siamo disposti a concedere questi privilegi all’attuale classe dirigente. Ridurre il numero di rappresentanti al solo scopo di compiacere populisticamente l’avversione del “popolo” verso la “classe politica” non darà nessun contributo significativo alla lotta per dare nuova linfa alla nostra democrazia. Anzi, servirà forse a rafforzare quel processo di verticalizzazione del potere politico e di indebolimento della rappresentanza parlamentare che nell’ultimo decennio ha raggiunto un’intensità e profondità senza precedenti. Di fronte a queste false soluzioni a problemi reali dobbiamo sempre rispondere con le parole di Walt Whitman, il quale, richiesto di un rimedio ai mali della democrazia, rispose: "più democrazia". La tormentata questione dei rapporti tra Stato e Regioni: un federalismo “a passo di gambero” Scriveva uno dei padri della Costituzione americana, Thomas Jefferson, che “nella società i prerequisiti dell’autogoverno non sono innati. Essi sono il prodotto di una lunga formazione e della qualità dei costumi”. Se è vero, come è vero, che l’accentramento politico e amministrativo costituisce per contro una tendenza di fondo del nostro ordinamento fin dall’unificazione, non possiamo fare a meno di constatare il fallimento dei recenti tentativi di invertire questa tendenza e dei correlati processi di decentramento del potere messi in atto negli ultimi decenni. Il nostro sistema delle autonomie difetta evidentemente dei due requisiti anzidetti, la “lunga formazione” e la “qualità dei costumi”. Negli ultimi anni la parola “federalismo” è difatti pressoché scomparsa dai programmi di governo dei principali attori della scena politica italiana. Possiamo individuare due fattori alla base di tale fenomeno: in primis la crisi economica che attanaglia il nostro Paese da circa otto anni, in secondo luogo gli scandali legati all’uso delle risorse pubbliche da parte delle autonomie regionali e locali. Entrambi questi fattori hanno rappresentato una leva fondamentale per giustificare un evidente riaccentramento della filiera decisionale in capo allo Stato centrale, nel quadro di un’altrettanto evidente crisi del modello di regionalismo disegnato dalla riforma del 2001. La “gestione della crisi” richiede, secondo la visione politica oggi dominante, un rigoroso controllo della spesa pubblica che solo il centro può garantire. Al contempo i suddetti scandali legati allo sperpero di risorse pubbliche da parte di alcuni enti territoriali hanno contribuito a diffondere l’idea che queste istituzioni siano tendenzialmente inefficienti, inaffidabili e incapaci di una corretta ed oculata gestione delle risorse – peraltro esigue – messe a loro disposizione; si spera così di ritrovare nello Stato un soggetto politico più lungimirante. Questo processo di riallocazione “centripeta” dei poteri pubblici non riguarda solo il rapporto tra Stato ed enti territoriali, ma anche quello, interno allo stesso centro, tra Parlamento e Governo (individuato come l’organo più adatto a prendere le decisioni “rapide” che servono a “far ripartire il Paese”, senza le lungaggini del dibattito parlamentare), così come quello, per così dire all’esterno, tra Unione Europea e Stati membri (si

pensi alle varie lettere e “raccomandazioni” con cui organi del tutto privi di legittimazione democratica hanno “consigliato” al nostro Governo di provvedere alle riforme istituzionali). Le modifiche al Titolo V proposte nella riforma Renzi-Boschi si collocano dunque in questo contesto di crescente sfiducia verso enti territoriali, Regioni in primis, associati allo spreco di risorse e ad apparati burocratici inefficienti e inutilmente complicati. Il testo costituzionale attualmente prevede che la potestà legislativa spetta in via esclusiva allo Stato in relazione ad un elenco di materie (art. 117 comma 2 Cost.), a Stato e Regioni in via concorrente in relazione ad un altro elenco di materie (art. 117 comma 3) e infine alle Regioni in relazione ad ogni materia non espressamente citata nei due elenchi precedenti (art. 117 comma 4). Siffatta ripartizione ha posto negli anni problemi di grande momento: innanzitutto l’esatta definizione dei compiti rispettivamente di Stato e Regioni con riguardo alle materie di competenza cd. “concorrente”, in particolare la determinazione in concreto di dove finissero i “principi fondamentali della materia” di competenza statale e dove iniziasse la disciplina di dettaglio spettante invece alle Regioni; in secondo luogo l’assenza di una “clausola di supremazia” che consentisse allo Stato di invadere le competenze regionali ove lo richiedessero motivi che potremmo genericamente definire di “interesse nazionale”, ossia di disciplina unitaria ed accentrata della materia. Entrambe queste problematiche, e più in generale la difficoltà di definire i contorni delle materie così come ripartite dall’art. 117 – al punto che le materie regionali sono state definite, non a torto, “pagine bianche” destinate ad essere riempite dal legislatore ordinario – hanno generato un contenzioso infinito presso la Corte costituzionale, e ad entrambe la Corte ha dato una risposta di impronta essenzialmente centralistica. La riforma interviene sul Titolo V eliminando la competenza concorrente, aumentando in modo considerevole il numero di materie riservate alla potestà legislativa dello Stato ed inserendo una “clausola di supremazia” in favore di quest’ultimo, tale per cui “la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” (art. 117 comma 4 Cost.). Quest’ultima previsione implica che la ripartizione di materie, apparentemente rigida, è in realtà estremamente plastica ma solo nella prospettiva statale, in quanto qualsiasi materia riservata alla potestà legislativa regionale può essere in ogni momento avocata allo Stato quando questo faccia appello a motivi di interesse nazionale oppure di tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. La Corte costituzionale ha finora ovviato al problema dell’eccessiva rigidità del riparto costituzionale delle materie tra Stato e Regioni consentendo al primo, sia pure entro certi limiti, sostanziali e procedurali, di sfruttare alcune materie come la tutela della concorrenza, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali e la tutela dell’ambiente (denominate appunto materie trasversali in ragione della loro forza espansiva) per ingerirsi negli ambiti di competenza delle Regioni. Ora però, inserita nel testo costituzionale una clausola esplicita, il controllo su tali “invasioni”


7 sarà di natura eminentemente politica, alla luce della formulazione piuttosto generica della clausola di supremazia (difficilmente giustiziabile in sede di controllo di costituzionalità delle leggi) e della prevedibile debolezza dell’intervento del Senato “regionale”. Quest’ultimo infatti a norma del nuovo art. 70 comma 4 sarà chiamato, all’interno di una delle tante versioni alternative del procedimento monocamerale, ad esaminare necessariamente i disegni di legge che determinano l’applicazione della suddetta clausola, e se il Senato approverà proposte di modifica a maggioranza assoluta, solo con la maggioranza assoluta la Camera potrà ignorarle. Sarebbe stato decisamente più garantista per la tutela dell’autonomia regionale prevedere anche in questo caso il procedimento bicamerale, invece di un procedimento monocamerale piuttosto pasticciato che vede una partecipazione marginale e temporalmente molto compressa del Senato (un termine di soli 10 giorni per disporre l’esame del disegno di legge). Se anche fosse stato previsto il procedimento bicamerale per l’approvazione di queste leggi, peraltro, sarebbe stato più che lecito avanzare dubbi sull’idoneità di un Senato così debole e depotenziato a fungere da autentica camera di risonanza delle esigenze territoriali. Possiamo conclusivamente osservare come questa “controriforma” determini nel suo complesso un notevole indebolimento delle autonomie territoriali e un revival centralistico, sancendo (provvisoriamente?) la fine del progetto proto-federalista avviato con la riforma costituzionale del 2001. Che dal 2001 in poi qualcosa nei rapporti Stato-Regioni non abbia funzionato è innegabile. Che la responsabilità di ciò sia da addebitarsi solo alle autonomie territoriali e, soprattutto, che questo “ritorno al centro” sia la soluzione migliore, è decisamente più discutibile.

Bartleby lo scrivano di fronte alla riforma costituzionale: un “No costituente”? Questa riforma apporta anche altre rilevanti modifiche all’impianto costituzionale, ad esempio la nuova disciplina del decreto-legge; l’introduzione del disegno di legge “a data certa”, dei referendum propositivi e di indirizzo (la cui concreta disciplina è tuttavia rimessa a leggi future, costituzionali e non), del controllo preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali e dello “statuto delle opposizioni”; l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL). Tra queste modifiche ve ne sono pure alcune condivisibili. Ma le perplessità e le critiche sull’impianto complessivo, sul metodo seguito e sui punti nodali quali il superamento del bicameralismo perfetto e la ridefinizione dell’intreccio di competenze tra Stato e Regioni soverchiano di gran lunga gli aspetti su cui è possibile concordare con gli autori della riforma. La domanda rivolta frequentemente a chi afferma di essere contrario a questa riforma è: “quali sono le vostre proposte?”. Si richiede a tutti i costi una progettualità alternativa; non si ritiene accettabile il mero rifiuto. Ai fautori del No sono pertanto imputate colpe quali la paura del cambiamento, la volontà di difendere i privilegi, l’incapacità di articolare una visione politica coerente. A chi voterà Sì pensando che questa riforma non sia soddisfacente ma che al contempo sia necessario approvarla “perché qualcosa cambi”, è opportuno replicare che anche noi, o meglio molti di noi che ci opponiamo alla riforma, auspi-

chiamo un cambiamento, ma in un’altra direzione. Non è sufficiente che qualcosa cambi; il cambiamento in sé non è un valore. Questa riforma, se approvata, determinerà certamente un cambiamento, ma non nella direzione giusta, quella del rafforzamento del sistema parlamentare contro le derive plebiscitarie, della creazione di nuovi spazi di elaborazione politica e di partecipazione popolare, del rafforzamento delle autonomie territoriali. “Preferirei di no”. Questa è la risposta tipica di Bartleby, protagonista dell’omonimo racconto di Herman Melville, a chiunque gli proponga qualcosa. “No, preferirei non fare cambiamenti”. Così risponde al suo datore di lavoro, agli amici, ai colleghi. Il suo è un rifiuto assoluto, inspiegabile, metafisico, ed è il filo conduttore del racconto. Su un punto hanno ragione tutti coloro che sono perplessi sulle ragioni del No e preoccupati per il “giorno dopo”, nel caso dovesse prevalere la risposta negativa a seguito del referendum: non ci si può limitare ad esporre le proprie critiche al testo, urge creare un progetto politico radicalmente alternativo a quello che ha portato all’approvazione di questa riforma pasticciata e incoerente. Anche noi, come Bartleby, preferiremmo di no. Ma vogliamo anche creare un percorso alternativo. Le ragioni del No sono sostenute da un coacervo di forze, movimenti e pensieri che concordano solo sul rifiuto di questa riforma: dalla destra salviniana di ispirazione lepenista al Movimento 5 Stelle, dalla sinistra radicale ai moderati di centrodestra. Sarà interessante, in caso di vittoria del No, vedere chi sarà in grado di appropriarsi del No, di tradurre questo rifiuto in una visione politica alternativa della democrazia e della Costituzione in vista delle riforme strutturali che davvero servono al Paese. Parafrasando quanto disse il filosofo sloveno Slavoj Zizek sui No francese e olandese all’adozione di una Costituzione Europea, potremmo dire che c’è una scelta positiva nel No: la scelta della scelta stessa; il rifiuto del ricatto operato dalla nuova élite, che ci offre solo la scelta tra confermare la sua conoscenza competente o esprimere la nostra immaturità “irrazionale”. Il No è, deve essere la decisione positiva di dare avvio a un reale dibattito politico rispetto a quale genere di democrazia vogliamo realmente.


8 Che ne sarà di noi il 5 dicembre?

di Edoardo Dorigo Il biennio 2016-2017 verrà anticipate: nel caso in cui il fronte del Sì porti a casa un risultato ricordato a lungo nei libri di particolarmente positivo, Renzi potrebbe decidere, prima della fine storia perché ha dato e darà della legislatura, di passare all’incasso. Più probabile, invece, l’ipotesi avvio a una stagione di di un rimpasto di governo per sostituire le figure più discusse (su tutte profondi mutamenti e trasfor- Giannini e Lorenzin). mazioni nella scena politica E se dovesse vincere il no? In questo caso le cose sono un po’ più internazionale: prima l’inaspcomplicate. È indubbio che nella primissima fase si genereranno ettata Brexit e poi, negli scorsi notevoli scossoni in ambito finanziario che colpiranno i nostri titoli di giorni, il ciclone Trump. Ma stato e il già precario settore bancario. Termini come rendimento e non è tutto: anche il mese di dicembre e l’anno venturo saranno spread torneranno – o meglio, sono già tornati da qualche giorno – politicamente frenetici e significativi. Il prossimo 4 dicembre, infatti, prepotentemente sulla scena. Ma nessun dramma. La fase di instabisi svolgerà sia il secondo round delle elezioni presidenziali austriache lità politica, e quindi finanziaria, sarà transitoria. Ecco gli scenari in sia il tanto atteso referendum costituzionale italiano. Lo stesso 2017 caso di vittoria del no (il terzo si configura come il meno probabile): si configura come un anno decisamente rilevante per la presenza Primo scenario: inizialmente Renzi potrebbe rassegnare le proprie delle elezioni francesi e soprattutto tedesche. Riusciranno le tradiziodimissioni. A quel punto Mattarella potrebbe incaricare il premier nali governance europee a contenere l’ascesa delle realtà populiste o dimissionario di verificare se ci sono i numeri per continuare a goverla spunteranno queste ultime? Renzi e Merkel sono destinati a fallire, nare. Potenzialmente solo gli appartenenti alla cosiddetta minoranza come Cameron e H. Clinton, perché incapaci di intercettare i bisogni dem potrebbero decidere di far saltare il banco, tuttavia ciò signifidi un ceto medio sempre più povero, o troveranno, invece, una cherebbe lasciare il paese in preda all’instabilità politica e andare poi conferma popolare? Sarebbe assai complesso e ambizioso provare a ad elezioni anticipate, e ho precedentemente spiegato che si tratta di rispondere a questi interrogativi - ultimamente, del resto, le previsioun’eventualità poco gradita alla maggior parte delle forze politiche ni della maggior parte di analisti, esperti e sondaggisti si sono rivelate presenti in Parlamento. Pertanto nel primo scenario non cambia essere, nei fatti, poco attendibili - pertanto proverò a restringere il assolutamente nulla rispetto all’attuale situazione. L’attuale esecutivo focus soffermandomi sulla situazione italiana, sugli affari di casa durerebbe quindi fino al febbraio del 2018. nostra e, in particolare, sugli scenari che potranno verificarsi in seguiSecondo scenario: Renzi si dimette. Mattarella potrebbe incaricare to al referendum costituzionale. In altri termini, quali conseguenze una figura appartenente all’attuale maggioranza (o tecnica) di avrebbe un’eventuale vittoria del Sì sul piano politico? E se invece occuparsi degli affari correnti: le priorità sarebbero l’approvazione vincesse il no? Quali sarebbero gli scenari più probabili? della legge di stabilità e di una nuova legge elettorale. Una volta Partiamo dalle poche certezze che abbiamo: approvata quest’ultima, tale governo di scopo avrebbe il compito 1) a prescindere dall’esito del referendum il Parlamento dovrà metter traghettare il paese alle elezioni del 2018 o si potrebbe andare ad mano al tanto discusso Italicum, la legge elettorale per la Camera dei elezioni anticipate. In questa fase transitoria potremmo assistere ad Deputati entrata in vigore dallo scorso luglio. Tali modifiche sono una sorta di versione 2.0 del patto del Nazareno con provvedimenti necessarie per due motivi. Il primo è di carattere giuridico: l’Italicum portati avanti da una maggioranza trasversale costituita da centro-sipresenta alcuni evidenti profili di incostituzionalità. Si attende la nistra e centro-destra. decisione della Corte Costituzionale prevista nelle prime settimane Terzo scenario: Renzi si dimette. Mattarella scioglie le camere e si va del 2017 che, con ogni probabilità, abrogherà i due punti più contro- al voto anticipato. Ma con quale legge elettorale? Con l’Italicum versi: l’attribuzione del premio di maggioranza in seguito a ballottag- (eventualmente revisionato dalla sentenza della Consulta) per la gio tra le due liste più votate al primo turno e il sistema dei capolista Camera e con il Consultellum* (ovvero il Porcellum depurato dai “bloccati”. Il secondo motivo che spinge il governo ad apportare profili di incostituzionalità) per il Senato. Questo scenario coincidemodifiche ad un sistema elettorale approvato così recentemente (e a rebbe con una situazione di potenziale ingovernabilità e paralisi per colpi di fiducia) è meramente politico: l’Italicum avvantaggerebbe quanto riguarda la camera situata presso Palazzo Madama: le proiequello che ora è il principale partito di opposizione, quindi bisogna zioni suggeriscono che la situazione sarebbe talmente frammentata correre ai ripari; che neanche un ritorno alle “grandi intese” permetterebbe la forma2) tutto fa pensare che questa legislatura, in ogni caso, andrà avanti zione di una maggioranza (ovvero 161 senatori). Questa previsione, sino a scadenza naturale. Perché? Parliamoci chiaro: allo stato attuale dominata dall’instabilità politica e da numerose incognite, si presenta delle cose il M5S rappresenta una minaccia per l’establishment, per la come la più pericolosa perché potrebbe dar vita ad una fase di stallo, partitocrazia tradizionale, per gli istituti finanziari, per le lobbies. simile a quella vissuta dal Parlamento spagnolo. Pertanto le elezioni anticipate si configurano come uno scenario da *Essendo queste le premesse, non sono da escludere eventuali evitare , almeno nel breve termine. ritocchi al Consultellum (in questo ed anche negli altri scenari). Cerchiamo ora di capire cosa potrebbe succedere in caso di eventuale vittoria del Sì: per il premier si tratterebbe di un trionfo totale, la sua leadership si rafforzerebbe notevolmente. Otterrebbe il pass per governare quasi indisturbato sino alle elezioni del 2018 e quindi il percorso di riforme tanto caldeggiato da Bruxelles proseguirebbe senza particolari intoppi. In questo scenario esiste una sola possibilità di elezioni


9 Per fortuna votiamo con i fascisti Posizione politica scomoda = buona occasione per la sinistra In direzione del PD il 9 maggio 2016, la ministra Maria Elena Boschi ha prodotto un’ormai nota e acuta analisi politica: “Più volte ho sentito equiparare chi vota Sì alle riforme a Verdini, e in un incontro pubblico ho detto che chi vota No lo fa proprio come casa Pound. È un dato oggettivo. Non ho fatto una valutazione di merito, una equiparazione, ma ho semplicemente fatto una constatazione”. Quasi tutti poi ricordano l'indignazione prodottasi a causa di ciò in vari settori del mondo politico e associativo (dalla sinistra-PD, al Movimento Cinque Stelle, all'ANPI, ecc.), ma quanto emerge, forse a discapito delle “nobili” intenzioni descrittive della ministra, è che il suo argomento ha probabilmente per la sinistra più importanza politica che il lamento offeso di Gianni Cuperlo e compagnia. Come a dire: votiamo a fianco dei fascisti? La situazione è ottima! Se infatti una cosa questo referendum l'ha plasticamente resa nota, è proprio la contrapposizione di istanze politiche che già si era largamente delineata a livello europeo: da una parte partiti di establishment, variamente legati al Partito Popolare Europeo o al gruppo Socialisti e Democratici, e dall'altra una moltitudine di prospettive di opposizione (dall'anti-europeismo tout-court neo-sovranista alla prospettiva europeista di opposizione alle politiche di austerity, e così via). Certo, il referendum riguarda tale alveo di problemi solo in quanto esso è una tra le tante scene di questo dramma politico europeo, nel quale anche questioni non immediatamente legate a rapporti di interesse materiale sono l’occasione di accensione di forti passioni politiche che, semplificando, potremmo definire anti-establishment. Coglierei quindi l'occasione di avanzare la seguente ipotesi: se riteniamo che le cosiddette politiche di austerity producano un effetto negativo non solo a livello politico ed economico, ma anche di tenuta sociale delle nostre comunità, e se si pensa che la risposta populistica di destra come unica forma attualmente effettiva di opposizione sia il nostro problema principale, allora credo che la strada da seguire per combattere in particolar modo questo secondo problema non sia quella della rimozione della voce della destra, ma piuttosto quella del tentativo di farla parlare fino in fondo, ovvero fino al luogo in cui quanto di necessario essa ci impone lampeggia al di là della sua “veste nera”. La mia prima ipotesi è che la prospettiva problematico-operativa che credo si impon-

di Alberto Costa ga alla sinistra replichi quanto diceva Jacques Lacan quando sosteneva che durante un trattamento psicoanalitico le uniche resistenze all'analisi sono quelle dell'analista: cercare di far dire ad esempio ad un nevrotico quanto ci si aspetta dovrebbe dire se fosse un soggetto normale/normalizzato è infatti la maniera migliore per sostenere i suoi sintomi (questi infatti già si muovono attorno alla rappresentazione di quanto è supposto essere “normale” come quanto è distante dalla posizione del povero disgraziato in questione). L'altra ipotesi che avanzo è che questa disastrosa tecnica di supposta terapia sia svolta in maniera irriflessa dal discorso mainstream della sinistra, ad esempio quando dice a un populista che dovrebbe (sarebbe morale, razionale, ovvero sarebbe buona norma...) amare l'EU o che dovrebbe vergognarsi della sua paura e intolleranza rispetto agli immigrati. Ancora una volta direi che tale è la maniera migliore per sostenere la posizione del nostro signor populista. Così infatti gli si forniscono degli alibi; trovarsi invece strutturalmente al suo fianco, come accade ora nel referendum, pone invece la questione di come tenere assieme le “nuove” prospettive del problema politico poste dalla destra (nuove modalità di convivenza tra diverse civiltà, modalità di gestione della tassazione, rapporto Stato-istituzioni europee, ecc.), assieme a una politica progressista. Come a dire che la sinistra non si confonde con il centro-sinistra istituzionale, ma si muove attorno agli stessi problemi che interessano la destra (povertà, sicurezza sociale, convivenza di gruppi sociali diversi, ecc.). Questo possibile sviluppo politico non ha ancora fisionomia, ma credo che questa possa costituirsi per lo meno all'interno di uno spazio descritto da due prospettive: una positiva e una negativa. Quella positiva è un'indicazione che ci viene mi si scusi il salto concettuale - ad esempio da un gioco di carte come il poker: se prendiamo una figura di un seme qualsiasi (mettiamo che sia una regina di quadri), emerge immediatamente come essa non abbia un valore intrinseco, ma si determini solo a partire dai contesti in cui è variamente inserita (essa può essere sia parte di un tris di regine, sia parte di una scala reale di quadri, e così via). Questo per dire che gli elementi che costituiscono gli assetti identitari sono articolabili in vario modo, è cioè sempre un certo assetto

di questi elementi a connotarli determinatamente, ovvero essi non hanno di per sé una loro identità. Volendo usare una formula provocatoria: non esiste una parola essenzialmente di destra. Di qui l'idea: taccheggiare nel negozio di parole della destra come unico modo per salvarci da essa. Non aver paura delle sfide e prospettive che essa ci pone, ma partire dalle sue parole d'ordine, vagliarle e vedere dove possiamo essere “noi più di noi” come sinistra (ad esempio, e sono conscio che le sole parole fanno tremare i polsi: sicurezza e regolamentazione dell'accoglienza dei rifugiati). La prospettiva negativa è invece quella che non dovremmo (più) seguire e che ci dà un buon esempio di quanto intendevo poco fa per “terapia disastrosa”. Per abbozzarla riporto una barzelletta di ambiente lacaniano che recita più o meno così: un pazzo è convinto di essere una pannocchia e così teme che il gallo del suo cortile lo mangi. Il pazzo viene ricoverato in manicomio; dopo un periodo di trattamento lo si dice guarito e lo si rilascia, ma, dopo pochi minuti a casa, il pazzo ritorna di corsa al manicomio in preda al panico e così lo psichiatra gli chiede: ”Che è successo? Lei è guarito, non è più convinto di essere una pannocchia e quindi non ha più nulla da temere”. Al che il pazzo risponde: “Certo io lo so di non essere una pannocchia, ma il gallo lo sa?”. Si sostituisca al pazzo un populista, al gallo supposto voler mangiare la pannocchia un immigrato supposto delinquente e allo psichiatra un preteso buon politico della sinistra e si ha l'esempio perfetto: il problema qui non è l'immigrato in sé, né la forma di delirio del populista, ma la modalità di pretesa terapia del “medico”. Il pazzo non è solo colui che crede di essere una pannocchia, ma anche quello che crede di essere un sano, un guardiano della norma-ragione-salute.


10 Il MERITO della Riforma Costituzionale. Quello vero di Gabriele Gazzaneo

Il 4 dicembre è praticamente arrivato, ma onestà chiede di lasciar correre libero un commento ormai condiviso dai più: questa campagna elettorale ci ha consumato. A dire il vero le dinamiche ricorrenti e i sondaggi mostrano come ogni sforzo sia ben dovuto, essendo gli indecisi in quota 14% (alle ultime rilevazioni) e gli elementi incogniti ancora molteplici per la risoluzione di una prospettiva di esito referendario. Le iniziative si moltiplicano. Da una parte i riflettori si accendono sempre più frequentemente su palcoscenici e piedistalli, dall’altra si riempiono le piazze ed emergono nuove esperienze di presa di parola ed espressione. Ma per chiunque provi ad inserirsi in una qualsiasi di queste dinamiche - che siano anche solo i nostri post sulle bacheche digitali, accompagnati dal codazzo di scettici, critici, compagni, populisti, giusti e sbagliati - la batosta sta nello schiantarsi contro i diversi piani di discorso che la campagna referendaria ha portato ad esplodere. “La connessione con le politiche di austerity e i problemi sociali è la più grande cagata degli ultimi 10 anni”; “Faziosi, del resto votate come CasaPound!”; “A casa Renzi!”; “In ogni caso la Legge Elettorale non riguarda il referendum”; “Ma parla del merito della riforma piuttosto!” Scelte comunicative (si legga per questo l’utilissimo glossario di questo numero di Uscita di Sicurezza) e politiche si modellano abilmente alle sensibilità di chi riceve le informazioni e amplifica a sua volta la diffusione di format e profili di analisi sempre costruiti inevitabilmente solo su alcuni elementi. E viceversa i soggetti che conducono la campagna elettorale devono adeguarsi a queste sensibilità, ai diversi bisogni e a capacità di analisi variegate. Il risultato è qualcosa che per molti - e in particolare per le menti più precise, che anelano a ordine e completezza in questo scenario - diventa estremamente fastidioso e a tratti corrotto: la solita dinamica di contrapposizione politicista elettorale per accaparrarsi voti con i mezzi più utili. Cosa riesce a reggersi in piedi in questa baraonda e cosa viene perso?

Alla prima domanda si risponde a fatica ma ci si prova: restano i diversi fronti frammentati nella loro eterogenea agglomerazione - che se la giocano (anche per questi temi, gli altri articoli di questo numero offrono spunti ben più completi). In fin dei conti, ai più, risulterà importante il 4 dicembre e solo quello, per ora. Vincere, anche solo di una manciata di voti. Ciò che verrà dopo potrà essere o una delega in bianco o una festa grande, ma di quelle in cui l’indomani ti svegli con una sbornia letale. Quello che viene perso è invece tanto. In primis la possibilità di ricomporre ciò che un decennio di crisi strutturale e politiche di austerity hanno frammentato. E lo sforzo, ora, è provare a capire perché. Si può dire che complessivamente sia i promotori del “sì” che quelli del “no” abbiano definito un piano d’azione rinunciatario. I primi nell’aver elaborato un’operazione (tanto nella legge elettorale quanto nella riforma in sé) fondata sul presupposto che il paese sia condannato ad avere soggetti di rappresentanza politica con vocazione minoritaria, e quindi un quadro di non governabilità (interessante sarebbe ricondurre questa tendenza rinunciataria a ciò che la sinistra è riuscita a costruire negli anni in termini di sintesi e proposta politica, oppure alla sottesa necessità di accentrare il potere per autoconservarsi pur avendo perso la propria identità).

Ma soprattutto i peggiori rinunciatari sembrano essere i secondi, nel momento in cui prima cedono alla capacità retorica renziana di rendere la strenua difesa tecnica della Costituzione un gesto stanco e vetusto, immobilista, e secondariamente quando si decostruisce dalla stessa parte da cui proviene l’iniziativa - un posizionamento plebiscitario sul Governo (del genere “Vota NO per mandare a casa Renzi”), che pare sviare da quello che invece risulta essere il presunto vero merito della riforma: cambiamento, semplificazione, efficienza. In una situazione del genere tanti soggetti e realtà hanno preferito interpretare l’opinione pubblica e modulare la propria voce e i propri contenuti su di essa, andando a confondere definitivamente i sondaggi di intenzione con la loro responsabilità di rappresentare le istanze sociali della popolazione. Rinunciatari, quindi, nel momento in cui si lascia al SÌ definire quello che è il merito vero della riforma, e che non è mai stato più lontano dai bisogni reali delle persone. Riprendendo casualmente un commento estemporaneo di Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di “Libera - associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, una possibilità di riprendere il filo della matassa, comprendere la situazione e ricalibrare il tiro, ce la dà il regista Ken Loach con uno dei suoi ultimi film, “Io, Daniel Blake”, il quale mostra la dignità di chi muore povero stritolato dai moduli e dalla burocrazia del Welfare State. Un film che mostra come i contenitori, le regole, la struttura e i copioni non possano determinare i ruoli, le dinamiche e i contenuti. Come si è potuto permettere che si parlasse di governabilità come numeri, regole e formule e non come capacità di rappresentare le rivendicazioni delle persone? Come si è potuto concedere la messa a tema della velocità legiferativa al posto della qualità e dei contenuti delle leggi? Perché si è lasciato condurre l’ennesima spending review a discapito della democrazia e della rappresentatività? Certo il punto di partenza sta nell’analizzare il “copione”, il cosiddetto merito


11 della riforma. Smascherare passo dopo passo la menzogna degli intenti della proposta costituzionale di Renzi (operazione di “debunking”) o la loro inadeguatezza all’interno del sistema politico attuale e dello scenario sociale esistente. Ma un NO così non basta (riprendendo la sottesa delega in bianco contenuta nello slogan di “Basta un SÌ”). Non basta smascherare l’assenza di controllo democratico e di rappresentatività della proposta di modifica del bicameralismo che non può non essere ricondotta alle storture dell’attuale sistema elettorale - e la violazione delle garanzie di cui l’elezione del Presidente della Repubblica dovrebbe farsi garante. Non basta smascherare la concezione “efficientista” di questa riforma, fondata sull’annullamento del potere delle comunità locali e dell’autonomia degli enti regionali. Non basta demistificare l’idea di semplificazione del Governo - a fronte dell’accessibilità dello strumento costituzionale - e rivelare come una modifica della II parte della Carta abbia ricadute sostanziali sulla fruizione di tutti i diritti, anche quelli fondamentali. Serve un NO più utile a noi che a loro (compresi i vari cavalcatori del rifiuto diffuso e antipolitico), un NO che sappia leggere come la modifica formale su cui siamo chiamati ad esprimerci sulle schede referendarie non sia altro che la consacrazione e la messa in bella copia di processi già esistenti e di cui da tempo viviamo gli effetti sulla nostra pelle, attraverso lo smantellamento dei diritti sociali e lo sgretolamento degli spazi di democrazia. Un nesso per alcuni forzato e strumentale. Per alcuni che forse dimenticano che le Costituzioni non sono che prodotti storici, figli di un compromesso derivante da secoli di mobilitazioni, lotte e protagonismo popolare. È proprio questo allora il merito vero della riforma, la costituzionalizzazione di una necessità del Governo che vive da tempo nel solco fra crisi della rappresentanza politica e crisi della governabilità: se con abile mossa strategica le cause della crisi finanziaria strutturale passano dall’essere imputate dal perverso meccanismo finanziario di accentramento della ricchezza e indebitamento degli Stati a quelle che sono invece le sue conseguen-

ze (l’insostenibilità delle rivendicazioni di un welfare universale e di un impianto di diritti sociali e civili derivanti dalla reazione al progressivo impoverimento della popolazione), i centri di comando giuridico e politico hanno campo libero per rispondere a tutto ciò con la revisione dei sistemi di governance: in parole povere devono ricercare la famosa governabilità, attraverso la centralizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo e attraverso l’introduzione di sistemi maggioritari. Ecco da dove nasce la riforma, ed ecco perché risulta quantomeno miope pensare di poter badare solo al merito tecnico della proposta come se fosse una formula magica che crea ex abrupto (improvvisamente, in maniera estemporanea) semplificazione e velocità. E la riforma costituzionale è solo l’ultimo tassello di un’imposizione alternata di governi tecnici, larghe intese, decretazione d’urgenza e voti di fiducia. Sia ben chiaro che il decisionismo centrale che si ricerca è volto proprio a contenere le pressioni sociali dei soggetti che esprimono bisogni e aspettative, per dare invece spazio agli interessi economico-finanziari e delle lobby industriali che dettano l’agenda della governance globale: non è certo un caso che l’agenzia mondiale JP Morgan ha definito le costituzioni nate dalle lotte antifasciste contro i regimi autoritari un ostacolo alla crescita produttiva e alla massimizzazione del profitto. In alternativa a tutto ciò si può continuare a vivere la favola per cui norme di bilancio, patti di stabilità, Sblocca Italia, Buona Scuola e Jobs Act siano solo chiamati in causa per alimentare una campagna elettorale fondata sulla figura del Governo e non perché costituiscono la prova tangibile della presenza sul piano reale degli intenti cui la riforma elettorale tende ad allinearsi. Se le diottrie non permettono di vedere i contenuti, gli effetti e gli interessi a cui queste operazioni rispondono, basterebbe guardare anche solo all’iter e alle modalità con la quale si sono affermate: gestione plebiscitaria dei media, attacco costruito e delegittimazione dei corpi intermedi (ora appellati come “gufi”, poi come generica “palude”, passando con stile dall’ambito faunistico a quello botanico) e lo spegnimento di qualsiasi forma

di dissenso (i vari “comitatini” e le “minoranze che vogliono bloccare il paese”) che rappresentano invece il fulcro della volontà collettiva, delle condizioni di bisogno e delle aspettative del popolo, in un normale sistema politico. Si pensi allora a quel #ciaone post-referendario che ha sbeffeggiato la volontà di 15 milioni di cittadini che hanno votato SÌ al referendum sulle trivellazioni. Una gestione “proprietaria” del potere e di silenziamento delle resistenze perfettamente coerente e riscontrabile anche nella materia giuridica della riforma (dal controllo dell’unica camera con effettivo potere legiferativo, alla subalternità degli interessi delle comunità locali nella riforma del Titolo V, ecc.).

Uscita di Sicurezza Anno XXX - Numero 4 - Novembre 2016 Redazione: Giovanni Comazzetto, Alberto Costa, Edoardo Dorigo, Gabriele Gazzaneo, Elena Lorenzi, Sara Martinello Tipografia: Copylogos Editore: Associazione Studenti Universitari Via Santa Sofia 5, 35121 Padova Telefono: 3282705360 - 0498753923 Mail: asudipadova@gmail.com http://www.asupadova.it/ Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 978 del 18/11/1986

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12 Glossario (del sì)

Brevissima guida di sopravvivenza critica all’appiattimento propagandistico. Propaganda: per il Treccani è l’”azione che Senato (che non è l’abolizione del Senato) e tende a influire sull’opinione pubblica, “Sarò immodesto, ma io pensavo di la chiusura del Cnel, sorvolando sul fatto orientando verso determinati comporta- essere una risorsa per il Paese… Mi che si sarebbe ottenuto persino un risparmenti collettivi, e l’insieme dei mezzi con sono detto: hanno un Berlusconi per mio maggiore se, invariato il numero di cui viene svolta”. Tra i mezzi ci sono i mani- le mani, con tanta voglia di ammoder- eletti, o calato di un terzo sia il numero dei festi, gli articoli, i post, i tweet, gli opuscoli, nare l’Italia, ne approfitteranno. senatori che quello dei deputati, si fossero i pullman gratuiti, le Leopolde, i banchetti Invece… Ci sono momenti che magari tagliate banalmente le indennità: non ci nelle piazze… e ovunque il mezzo principe non tornano più. Non so se questa sarebbe stato neanche bisogno di una legge di qualsiasi tipo di propaganda è la parola. voglia ce l’avrò in eterno” costituzionale.”, a cui si aggiunge DinamoMa non una parola vaga, che lasci spazio Silvio Berlusconi, 21 aprile 1996 (prima Press: “con legge ordinaria sono definiti i all’interpretazione e che accolga in sé tutti delle elezioni politiche) - il popolino contributi elettorali, sopravvissuti in deroga i significati di cui il vocabolario la dota: la non si merita il deus ex machina a ogni referendum sul finanziamento parola della propaganda si fossilizza “È un’occasione che non ricapita. Di pubblico dei partiti e che vedono scandalosempre in un unico significato da non mandarmi a casa ci saranno occasioni samente foraggiati partiti e sottopartiti da scalfire, così da permettere a chi la plurime, ma se si vota semplicemente tempo finiti nella pattumiera della storia. pronunci di scolpirla nell’immaginario del contro il governo si butta via l’occasiPer non parlare dei contributi erogati alla pubblico come chiave per un’immediata one per i prossimi 30 anni di cambiastampa sponsorizzata magari da un unico comprensione - o meglio, per fare presa re le cose in Italia. La fregatura è che parlamentare.” sul pubblico veicolando comprensione del una vittoria del no vuol dire buttare Le parole chiave di questa propaganda sono messaggio e attenzione nella direzione che via l’ultima occasione in trent’anni molte più di quelle che possiamo discutere l’oratore vuole dare all’opinione pubblica. per cambiare le cose” in questo articolo, ma vale la pena di Nell’ambito di una discussione politica di Matteo Renzi in un’intervista di Massi- includere un campo semantico su cui il ampio respiro come quella intorno al mo Gramellini, 6 ottobre 2016 partito del sì calca la mano da mesi. Citare referendum, ci si appropria della lingua per ripetutamente una parola, renderla parte restituirla all’uso sfrondata dei significati inutili, cioè di quelle integrante di un proprio progetto, significa appropriarsene ed esclusfumature che deviano dal significato che una parola dovrà necessa- dere la possibilità che altri le diano un significato diverso - ne parlariamente assumere. vamo all’inizio dell’articolo. Non parlo del campo semantico del Non è da meno la campagna per il sì: pensiamo all’ormai classico vero, anch’esso ampiamente saccheggiato dal dibattito sul referengovernabilità, la cui forma è quella di un nome deaggettivale, dum, ma piuttosto di quello del futuro, che tradizionalmente impliderivato da un aggettivo, “governabile”. La “governabilità del Paese” ca un cambiamento. “Se ci bloccano il futuro noi blocchiamo la indica, nei discorsi della propaganda, la qualità dell’Italia di essere città”, intonavano ieri in piazza i cortei studenteschi, mentre oggi il finalmente governabile, come una nave, attraverso gli imprevedibili futuro è inglobato nel tema dell’urgenza, è vicino, è la svolta subitaflutti di partitucoli, movimentelli studenteschi o popolari, rappre- nea del cinque dicembre, e la riforma costituzionale è “un treno che sentanti che con grande sfrontatezza levano la propria voce contro il passa una volta sola”. Nelle parole di Boschi, il voto non è “pro o governo. E, più minutamente, la capacità di trattenere i bravi cittadi- contro il governo, ma pro o contro il cambiamento”: la ministra ni nella cinta della legge senza passare attraverso il filtro della assesta il bersaglio della contropropaganda sull’asse no-governo e rappresentanza. Non vi sentite più protetti, quando si parla di gover- dà precise indicazioni di ricalibrazione secondo il vettore sì-cambnabilità di noi? iamento, sottintendendo un’incompetenza comprensiva dell’oppoCosti della politica: ne parlano tutti, da decenni, lungo un filo che sizione e ascrivendo il cambiamento alla necessità di votare sì. passa da Mani Pulite e (!) dal Fronte dell’Uomo Qualunque fino alla “Sarò demagogico”, trilla Renzi: è inutile che glielo diciamo noi, anzi, Pontida bossiana - quando i costi di Roma magnona fomentavano gli se glielo diremo sbatteremo contro il muro di gomma del già dichiaoperosi lavoratori del nord. E pare davvero che i costi della politica rato, un morbido materasso che il primo ministro si è preparato siano ancora solo le poltrone, in un discorso che mette il paraocchi appena sotto il palco. Non possiamo più dirglielo. Perché darsi del ai cittadini togliendo visibilità a spese ben più ingenti. Citando da demagogico, autoaccusarsi e indebolire il dibattito già in partenza, Left: “«Per cancellare poltrone e stipendi», dice ad esempio il mani- per una buona propaganda è la mossa vincente. Sara Martinello festo arancione, che ovviamente enfatizza la nascita del nuovo L'ASU nasce nel 1984 da un gruppo di studenti che si dà come obiettivo statutario "l'organizzazione e la promozione di attività culturali, ricreative e di lavoro per gli studenti universitari in forme che sollecitino la partecipazione democratica alla vita sociale del paese". Negli anni, ha dato vita a centinaia di attività e iniziative, mettendo al centro della propria azione lo studente universitario e i suoi diritti. La nostra azione si caratterizza per la pratica Via Santa Sofia 5, Padova sindacale, il mutualismo, il rifiuto della violenza come strumento per imporre agli altri le proprie ragioni. L'ASU rivendica la sua appartenenza alla sinistra, si riconosce nei valori di libertà, uguaglianza, giustizia, solidarietà, internazionalismo, laicità, sostenibilità dello sviluppo, pluralismo culturale e considera inviolabile l'autonomia delle proprie scelte politiche rispetto a interessi di qualsiasi tipo non coincidenti con quelli degli studenti. Le nostre iniziative sono di carattere sociale o mutualistico: all'interno dell'università con Il Sindacato degli Studenti, e in città su temi rilevanti come le case, la mobilità, l'aggregazione, l'uso degli spazi, l'alimentazione, la vita studentesca.


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