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mensile - anno 3 numero 4 - aprile 2009

3 euro

poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

Paraguay, il condor vola ancora Kosovo Birmania Iraq Italia Russia

L’indipendenza e l’inganno Medicina terrorista Salvate il soldato Shepherd Isoke e le altre Soldatini per la pace La storia di Olimjon

Portfolio speciale: il Cpt di Torino Il diciannovesimo fascicolo dell’atlante: un mondo di muri


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L’indifferenza è la più atroce delle armi. Nel mondo ci sono ancora 26 conflitti in corso e PeaceReporter se ne occupa da anni attraverso il suo sito internet e la sua rivista mensile. Storie, reportage, audio e video che parlano di guerra. Ma anche di pace, perché le buone notizie sono il modo migliore per cominciare una giornata. Ascolta il mondo. Leggi PeaceReporter.

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"La Pace non è un prodotto del terrore o della paura. La Pace non è il silenzio dei Cimiteri. La Pace non è il silenzio che nasce da una violenta repressione. La Pace è il generoso, quieto, contributo di tutti al bene di tutti. La Pace è dinamismo. La Pace è generosità. La Pace è un diritto ed è un dovere". Oscar Romero

aprile 2009 mensile - anno 3, numero 4

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli Naoki Tomasini

Hanno collaborato per i testi Giuseppe Agliastro Claudio Agostoni Blue & Joy Francesca Borri Silvia Del Pozzo Arturo Di Corinto Nicola Falcinella Giulio Iacchetti Paolo Lezziero Sergio Lotti Chiara Pracchi Alessandro Ursic Vauro

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi Relazioni esterne Marco Formigoni Amministrazione Annalisa Braga

Hanno collaborato per le foto Giuseppe Agliastro Cosimo Caridi Gianluca Cecere Umberto Fratini Simone Manzo Samuele Pellecchia/Prospekt Alessandro Ursic

Redazione e amministrazione Via Meravigli 12 20123 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 Amministrazione peacereporter@peacereporter.net Annalisa Braga Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 31 marzo 2009 Pubblicità SISIFO ITALIA SRL Vicolo don Soldà 8 36061 Bassano del Grappa (VI) Tel. 0424 505218 www.sisifoitalia.it info@sisifoitalia.it

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Meravigli 12 - 20123 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Foto di copertina: Paraguay, 2009. Alessandro Grandi ©PeaceReporter

Marco Formigoni se ne è andato la sera del 24 marzo scorso. Era un pezzo importante di PeaceReporter. È stato un pezzo importante nella storia di altre testate, di altre radio, di altri siti internet. Gli ultimi anni della sua vita li ha dedicati - oltreché a Manuela e a Ronaldo, sua moglie e suo figlio - a costruire questo nostro progetto. Una scelta difficile e impegnativa, per chi avrebbe potuto facilmente fare altro. Ma Marco era così, aveva bisogno, prima di tutto, di credere in quel che faceva.

Ciao Marchino antavi "la pulce d'acqua che l'ombra ti rubò, e tu ora sei malato", l'ultima volta che ti ho visto. Ma riuscivi ancora a parlare del futuro, del tuo e del nostro. Dei piani per far crescere PeaceReporter, per uscire dalle secche, per diventare più forti ed efficaci e raggiungere più persone, nella cui testa instillare una cultura diversa da quella che genera odio e razzismo e guerra. Mi mancherai tanto, Marchino, mi mancherà la tua allegria e la tua voglia di vita che non ho trovato in nessun altro mai. E che dava spinte per vivere a tutti quelli che ti circondavano. Sei stato un grande giornalista, ma un grande uomo prima ancora. E soprattutto un grande amico. Di quelli che danno e si danno. Mi porterò con me per sempre il tuo entusiasmo e la tua voglia, saggia, di cambiare il mondo. Grazie per quello che ci hai dato. E non ti meriti parole tristi, perché triste non sei mai stato. Scazzato, incazzato. Ma non triste. E quindi anche io adesso provo a cacciare via questa tristezza e andare avanti a combattere per il mondo migliore che insieme volevamo, vogliamo, lasciare ai nostri figli. Ci provo, ma mica ci riesco. Ciao, Marco Maso Segue a pagina 32 e 33

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Kosovo a pagina 10

Migranti a pagina 28

Birmania a pagina 20

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Iraq a pagina 22

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Paraguay a pagina 4

Italia a pagina 24 e 26 3


Il reportage Paraguay

Il Condor vola ancora Di Alessandro Grandi È vero: ad Asuncion, capitale del Paraguay, non ci sono molte cose da vedere. Pochi monumenti, pochi palazzi degni di nota, poco di tutto. Ma in Calle Cile 1066, a poche cuadras dal centro della città, c’è il posto meno conosciuto e più importante del Paese: il Museo della Memoria. ll’apparenza sembra un posto come tanti altri. Una strada tranquilla, una palazzina pulita e ordinata, piante e fiori regalano colore a una facciata piuttosto anonima. In realtà la storia di Calle Cile 1066 fa accapponare la pelle. In questo luogo secondo alcune stime (non distanti dalla realtà e che forse si avvicinano più al difetto che all'eccesso) sono passati almeno tremila prigionieri politici, detenuti e torturati durante il periodo della dittatura di Alfredo Ströessner, sanguinario militare di origini tedesche, sostenitore del nazismo, che ha comandato il paese con il pugno di ferro per più di 35 anni. Da buona "colonia statunitense", come la definisce il professor Martin Almada, "il Paraguay si è sottomesso alla politica di Washington, che in tempo di Guerra Fredda puntava per prima cosa sull'anticomunismo. In Ströessner ha trovato un alleato fedele. Il Paraguay è uno dei tanti prodotti della Guerra Fredda". “In queste sale sono passati civili innocenti provenienti dall'Argentina, dal Cile, dall'Uruguay e dal Paraguay, che la dittatura considerava sovversivi, comunisti o in qualche modo nemici” racconta Martin Almada, una delle figure più importanti del Paese, scopritore dell’Archivio del Terrore, ideatore del Museo della Memoria e, grazie ai documenti da lui scoperti, uomo chiave per la detenzione londinese del Generale Augusto Pinochet. “In queste stanze si è praticata la tortura sistematica di tutte quelle persone, uomini e donne, che non si sono piegate a dire sempre sì” racconta ancora con le lacrime agli occhi Almada. La sua storia è un susseguirsi di arresti, fermi, torture e umiliazioni. “Mi consideravano un sovversivo. Ero solo un maestro che voleva riformare la scuola. Chiedevo migliori condizioni di vita per i maestri. Per la dittatura ero un comunista. Ma io comunista non lo sono mai stato. E nemmeno anticomunista. Io sono e resto un riformista”.

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trana storia quella di Calle Cile 1066. Nonostante il caldo atroce della città negli ultimi scampoli d’estate, non appena si varca la porta di ingresso del Museo un brivido freddo corre lungo la schiena. Manifesti appesi alle pareti riportano i volti di donne, uomini, ragazze e ragazzi desaparecidos. Scomparsi e mai tornati a casa. I manifesti sono come specchi che riflettono l’immagine di chi li guarda per ricordare che tutti possono soccombere davanti a una pazzesca dittatura. Le stanze del Museo sono piccole e ognuna di loro ha un pavimento di colore differente. “Io le ho riconosciute subito proprio dai differenti tipi di colore: qui sono stato imprigionato e torturato per diverso tempo. Non solo. Nella stanza dove ci troviamo – venti metri quadrati con il pavimento di color verde- si violentavano e poi torturavano le donne”. E se i muri potessero parlare chissà cosa avrebbero da raccontare. In questa palazzina è passato il non plus ultra della violenza fascista della dittatura stroessneriana. E anche i militari più sanguinari degli eserciti e delle polizie di quasi tutti i paesi del Sudamerica. Racconta ancora Almada: “Gli ufficiali che hanno compiuto

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queste azioni indecenti erano stati prima alla Escuela de las Americas, a Panama, e sono stati istruiti sui differenti tipi di tortura dagli ufficiali della Cia statunitense. Anche in queste stanze sono giunti più volte militari nordamericani per umiliare, torturare e uccidere tutte le persone che il governo paraguayano considerava pericolose, scomode, sovversive”. “Anche mio padre è stato torturato in questo luogo”, sussurra davanti alla porta del Museo Epifania Arias, figlia quarantenne di un insegnante, detenuto nei primi anni Settanta della dittatura. “Ci sono cose che non si possono dimenticare. Grazie al lavoro di Almada abbiamo saputo che in questa palazzina sono avvenute efferatezze che ancora oggi stentiamo a credere siano potute accadere. Gli inquilini degli edifici circostanti, sono stati in molti casi costretti a trasferirsi in altri quartieri della città, perché non potevano più sopportare le grida di dolore di quei poveri ragazzi causate dalle torture degli assassini di Ströessner. E tutto con il beneplacito della Cia. Oggi sappiamo chi ha istruito i militari del Paese. Ecco, queste sono storie che vale la pena raccontare”. Occhi lucidi e sguardo fiero, Epifania si accende una sigaretta dietro l'altra e cerca di capire i perché di tanta violenza. stato uno dei periodi più bui della storia dell'umanità” dice Marela Oviedo, anche lei erede di uno dei tanti uomini torturati dalla brutalità dei militari paraguayani, mentre passeggia quasi in punta di piedi fra teche contenenti strumenti di tortura, fotografie, liste di nomi di quelli che non ci sono più. È arrivata fino al Museo da sola e non è la prima volta. “Mio padre in questo posto maledetto dal Signore ha passato un po’ di tempo. Era l’uomo più buono del mondo. Aveva le mani grandi e un bel sorriso. Quelle bestie lo consideravano un sovversivo.uelle bestioe Per questo l'hanno imprigionato, umiliato e torturato senza pietà. Era semplicemente un insegnante di scuola primaria. È vero aveva una certa cultura e aveva la passione della lettura. Leggeva tutto, proprio di tutto, quando riusciva a comprare qualche libro. Forse per questo motivo è stato considerato un sovversivo. Essere colti per il potere è pericoloso. Avere la possibilità di insegnare lo è ancora di più. Ancora oggi non riesco a capire il perché di tanta ferocia. Mio padre grazie a Dio è riuscito a tornare a casa. Ma era stato per troppo tempo in condizioni disumane. In celle di due metri per uno e mezzo, con quaranta, cinquanta altri detenuti, mangiando le proprie feci e bevendo urina. Gli applicavano gli elettrodi ai testicoli per torturarlo. Quattro giorni dopo la sua liberazione, avvenuta per chissà quale motivazione, morì fra le peggiori sofferenze. Di storie come questa ne potrei raccontare a decine. Se penso che mi trovo nello stesso inferno in cui lui sapeva che avrebbe detto addio alla sua vita mi

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Il Waterboarding del Condor, una delle torture peggiori subite dai detenuti. Asuncion, Paraguay, 2009. Foto di Alessandro Grandi ©PeaceReporter


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sento male”, continua Marela. Quando parla i suoi occhi diventano lucidi per la commozione. Le mani iniziano a tremare, poco ma tremano. La voce ogni tanto si spezza. Anche i capelli, corvini e lisci, sembrano vibrare sulle sue piccole ma larghe spalle. Marela è visibilmente emozionata. È difficile per lei capire. È altrettanto difficile cercare di spiegare quello che è stato il Paraguay della dittatura. Un governo militare supportato, aiutato e istruito dalla Cia, che nel piccolo Paese sudamericano ha fatto il bello e il cattivo tempo per anni. Per i propri interessi, per la sua lotta personale al nemico russo. “Un giorno nelle campagne intorno alla città di Coronel Oviedo dice Mariela, che ci tiene a raccontare un'altra storia - dove sono nata e dove vivevo con la mia famiglia, i militari cileni insieme a quelli paraguayani fermarono un campesino. Lo picchiarono quasi a sangue accusandolo di fare propaganda marxista. Lui non sapeva né leggere né scrivere. Lo conoscevo bene. Dopo averlo quasi ammazzato lo spogliarono e lo legarono a un albero. Gli cosparsero il corpo con miele e succo d'arancia. Lo lasciarono lì, legato per giorni e morì mangiato vivo da formiche, api, topi e chissà cos’altro. Questo lavoro facevano i militari del famigerato Plan Condor”. utti i sabati venivano i torturatori - racconta Almada dalla stanza delle conferenze del Museo - venivano a distrarsi dalla settimana lavorativa. Come se fosse un gioco ci torturavano per farci confessare cose che non sapevamo. Ero detenuto in quello che avremmo chiamato il sepolcro dei vivi: chi entrava in questo commissariato non ne usciva con le sue gambe. Noi detenuti avevamo stampato nella mente come un tatuaggio i volti dei militari che ci torturavano, ma non conoscevamo i loro nomi. Usavano pseudonimi. Però un giorno le cose cambiarono. Venne arrestato un commissario di polizia il cui figlio, studente universitario in Argentina, era considerato un sovversivo a causa della sua adesione alla confederazione degli studenti universitari. Lo arrestarono perché lui non aveva fatto sapere agli alti comandi militari delle azioni del figlio. Lo spedirono in cella con noi, come un nemico della patria. Da quel momento non godeva più dei privilegi e dei diritti dei militari. Da quel momento era uno di noi. Lui conosceva tutti i soldati torturatori. Sapeva i loro nomi, quelli veri. A lui un giorno chiesi due cose: come morì la mia sposa, visto che a me avevano detto che si era suicidata. E poi volli sapere che cosa stava succedendo nel mio Paese. Chiesi perché in Paraguay mi torturavano militari stranieri. La sua risposta fu allo stesso tempo atroce e illuminante: siamo fra gli artigli del Condor. Era l’aprile o il maggio del 1975. Iniziavo a scoprire che cosa fosse il plan Condor”. Il plan Condor, però, iniziò a operare a pieno regime nel novembre 1975, alcuni mesi dopo le domande di Almada. “Ho scoperto il Condor prima che iniziasse a operare, a volare. Sono stato nel suo ventre e l’ho conosciuto da dentro”. Il plan Condor: un'impressionante operazione di polizia creata dalla Cia, tendente a destabilizzare tramite colpi di Stato militare, i governi dei paesi centro e sudamericani che tendevano a “sinistra” o potessero in qualche modo essere influenzati dall'Unione Sovietica. Le polizie di Uruguay, Paraguay, Cile, Argentina, Bolivia, Perù e Brasile cooperavano e avevano libertà di movimento e licenza di uccidere. Uno dei suoi più grandi sostenitori fu il repubblicano statunitense Henry Kissinger, "il più grande terrorista della storia" dice Almada. Ma il plan Condor ebbe un respiro molto più ampio, sono in molti a sostenerlo. Tracce delle piume del Condor si possono ritrovare anche in diversi paesi europei. Anche in Italia dove la loggia massonica Propaganda 2 (P2), invischiata in molti processi penali per le sue attività illegali, fu una fervida sostenitrice del piano. E c’è chi sostiene che gli aderenti al Condor, perfettamente organizzati, siano stati in grado di dare supporto logistico ai più smaliziati killer, faccendieri, narcotrafficanti, di diverse nazionalità e anche alcuni esponenti di spicco degli anni bui del terrorismo italiano. Molte informazioni su quegli anni adesso si possono reperire, grazie al lavoro di Almada, all’interno dei faldoni dell'archivio del terrore venuto alla luce nel 1992 grazie alla perseveranza del gruppo di lavoro di Almada e conservati nelle stanze del Palazzo di Giustizia di Asuncion. Migliaia di rapporti militari pieni di informazioni sulla “Guerra Fredda” in piena attività in quel periodo, e tutti i documenti della repressione in Paraguay dal 1929 al 1989. E nei rapporti si trova proprio tutto dice Almada: "In particolare la repressione contro gli anarchici italia-

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ni, spagnoli e francesi presenti nel Paese. Poi quella nei confronti dei comunisti. Poi il turno dei socialisti. E infine quella contro le persone come me, considerate sovversive. Ma la cosa che più ci ha più stupito è stato scoprire i documenti che riguardavano la presenza in Paraguay di Menghele, il dottor morte della Germania nazista di Hitler, e le connessioni con il nazismo. È l’enorme documentazione del Plan Condor. Secondo gli accordi, ogni Paese che ha aderito deve avere un archivio “Condor”. Proprio per questo, quando i militari brasiliani, cileni, argentini e uruguayani, dicono che non hanno un archivio di questo tipo stanno mentendo. Lo devono avere sicuramente. Forse migliore del nostro”. Tutto il lavoro di ricerca è iniziato con una mobilitazione di Amnesty International che ha permesso la liberazione di Almada da parte del regime e un rocambolesco ingresso nella mal controllata ambasciata panamense a Asuncion. “Ho approfittato del fatto che i militari paraguayani che circondavano la sede diplomatica di Panama erano ubriachi e io sono riuscito a entrare, ottenere l’asilo politico e in seguito un lavoro a Parigi alle Nazioni Unite. Ma mi ero ripromesso di indagare sul Condor e di seguire il consiglio che mi aveva dato il commissario detenuto con me nel sepolcro dei vivi: leggere la rivista della polizia del Paraguay. Lì avrei trovato molte delle informazioni sul plan. Scoprire cosa era successo e i nomi di quelli che mi avevano fatto del male”. Fino alla definitiva scoperta anche dei luoghi di detenzione illegali presenti nel Paese, alcuni con storie impressionanti. “Una nonnina, una volta rientrato in Paraguay, mi ha detto che in un terreno vicino a quello in cui lei viveva, usato dai soldati come luogo di detenzione illegale, di notte si sentivano le grida delle anime in pena dei ragazzi torturati. E si potevano riconoscere anche le cadenze e capire se fossero argentini, cileni, paraguayani. Uno di loro, quello che più soffriva, secondo la nonnina era cileno”. ll’inizio gli investigatori paraguayani della squadra di Almada credevano che il Condor avesse in America Latina come unico referente Pinochet. Ma si sbagliavano: “Oltre a Pinochet che voleva ripulire dai comunisti la politica, l’esercito e la società civile, in Bolivia c’era Banzer che aveva ideato un piano per sterminare i "comunisti" presenti all’interno della chiesa cattolica. Suore, sacerdoti, vescovi e arcivescovi considerati o legati alla Teologia della Liberazione venivano sterminati secondo un piano ben preciso. Talmente perfetto che venne esportato in tutto il Sudamerica. Io sono convinto- conclude Almada- che il sistematico accanimento e gli omicidi degli appartenenti alla chiesa cattolica avvenuti in Sudamerica facciano parte di un unico piano: quello di Banzer”. E si rammarica del fatto che la Chiesa abbia concesso i funerali cristiani al famigerato generale boliviano “regalandogli a tutti gli effetti un passaporto per il paradiso”. Martin Almada oltre a essere un punto di riferimento per i giovani del Paese che fanno a gara per intervistarlo e creano lunghe code lungo i corridoi del Museo, è un convinto sostenitore del fatto che il Plan Condor esista ancora oggi. “Ci sono documenti in mano ai giudici in cui un colonnello dell'esercito del Paraguay racconta dell'incontro fra Pinochet e Menen avvenuto nel novembre 1995 a Bariloche in Argentina, dove si scambiarono la lista dei 'sovversivi dei rispettivi paesi'. Lo stesso colonnello dice che la testa del Condor sarebbe la Conferencia del ejercito americano, un apparato militare creato dalla Cia e dal Pentagono, soprattutto per contrastare la rivoluzione cubana. Il Condor vola ancora, e sono convinto che non sia finito con la morte di Pinochet. Si è globalizzato con il lavoro di George W. Bush. La riprova sono i centri di detenzione segreti presenti nel mondo, e anche in Europa. Non mi invento nulla. Usano anche le stesse tecniche di tortura, gli stessi mezzi, le stesse modalità. Come il waterboarding – la tremenda tecnica di simulazione di annegamento che Almada e molti altri hanno subito nel sepolcro dei vivi- che appunto oggi è globale. Lo ripeto: il Condor continua a volare e bisogna in tutti i modi tagliargli le ali”. La dittatura in questo Paese incastonato fra Brasile, Argentina e Bolivia, ha lasciato segni indelebili come marchi a fuoco sulle cosce dei cavalli. Dolorosi e impossibili da cancellare.

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In alto: La repressione dei soldati di Ströessner negli Anni ‘70 e ‘80. In basso: I volti dei desaparecidos. Asuncion, Paraguay, 2009. Foto di Alessandro Grandi ©PeaceReporter


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I cinque sensi del Paraguay

Udito Sembrerà impossibile da credere ma nella generale confusione della capitale Asuncion, una volta superata la porta d'ingresso del Museo della Memoria, il silenzio diventa padrone di tutto. Le voci dei visitanti si abbassano quasi tutte allo stesso tempo. Non un telefonino che squilla, non una voce più alta delle altre: gli unici suoni presenti nel Museo sono quello diffusi da una piccola radio che si accende quando all'interno dei locali non c'è quasi più nessuno e trasmette musica tradizionale del Paraguay. Nemmeno il rombo dei motori e lo strillio dei clacson delle auto che sfrecciano sulla strada su cui si affaccia il Museo sembrano penetrare all'interno del cortile. In questo luogo si riflette e non c'è spazio per nessun tipo di rumore.

Vista Decine di strumenti di tortura di ogni tipo: generatori di corrente, mazze ferrate, fruste, catene. Saltano subito all'occhio una volta entrati nelle stanze del Museo. Sono racconti in teche di vetro non come trofei ma come monito per le future generazioni che affollano nei giorni della settimana le stanze del Museo. Dal cortile della palazzina che ospita il Museo non si può evitare di vedere la facciata principale del famigerato commissariato di Polizia chiamato

Terzero. In questo commissariato si continuavano le torture interrotte nelle stanze del Museo. Oggi dall'ingresso principale del commissariato escono solo poliziotte e poliziotti con il sorriso sulle labbra. E' finita l'epoca della dittatura e gli osservatori sui diritti umani potrebbero causare problemi internazionali al Paese se denunciassero abusi da parte delle forze di sicurezza.

Gusto Un Tererè, un caffè, un mate o una sigaretta. Tutto ha lo stesso sapore all'interno delle mura del Museo della Memoria. Non importa ciò che stai bevendo o mangiando nei momenti in cui visiti le sale dell'esposizione: nulla ha sapore o colore in questo luogo maledetto. Le bevande non dissetano. I magnifici succhi di frutta che da queste parti sono una vera specialità non hanno un gran sapore. Tutto quello che si ingerisce , se ci si riesce, sembra insulso, insipido, incolore, insapore. Forse la sensazione è data dal buco dello stomaco che si chiude. All'interno del Museo sembra di essere a Auschwitz. Difficile pensare ai piaceri della gola in un posto come questo.

Olfatto Se non fosse per i fiori e le piante tropicali che regalano all'olfatto piacevoli odori di

natura, all'interno del perimetro occupato dal Museo della Memoria non si sentirebbero profumi ma solo l'odore tetro della morte. Freddo, acre, potente: da queste mura trasuda l'odore del sangue delle ragazze e dei ragazzi che in questo luogo hanno lasciato la giovinezza e la spensieratezza. L'odore dei muri lasciati andare così, senza cure ne manutenzione. L'odore dei pavimenti che nonostante i ripetuti lavaggi sanno ancora di morte. Per fortuna non possono parlare e si limitano a ricordare a tutti solo con l'odore quello che è successo.

Tatto Fa impressione toccare con mano gli strumenti che hanno usato i militari del continente per torturare e uccidere. La vasca da bagno sporca e vecchia usata per il waterboarding non è certo liscia. È piena di ammaccature e di calcare. Le mazze ferrate fanno paura e si ha timore nel tastarle: ad ogni toccata sembra di sentire una macchiolina di sangue che sporca le mani. Fa impressione anche stringere la mano di Martin Almada che in quelle stanze è stato torturato. Così come è diversa la mano di tutte quelle persone che in qualche modo hanno subito violenza dai militari: sono sempre più magre e le ossa si sentono molto bene, oltre ad apparire fragili. Ma questa è la realtà del Paraguay. 9


Il reportage Kosovo

L’indipendenza e l’inganno Di Nicola Sessa Pavarësi Sopa è nata il 17 febbraio del 2008, appena cinque minuti dopo la dichiarazione di indipendenza proclamata l’anno scorso dal premier Hashim Thaçi davanti al parlamento. È la prima figlia del nuovo Stato ed entrambi, lei e il Kosovo, hanno compiuto il loro primo anno di vita. e immagini di Pavarësi, che letteralmente in albanese significa ‘Indipendenza’, scorrono in tv al telegiornale delle venti su Rtk 1: è una bellissima bambina, rosa in volto e abbastanza in carne da far pensare che stia crescendo bene. Lo stesso non si può dire del suo coetaneo. A un anno dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza, il Kosovo, nato con la benedizione degli Stati Uniti, ha molto lavoro da fare ed è lontano dal capire quali strade seguire, in particolare per l’integrazione delle minoranze etniche. Certo, la gente è ugualmente esplosa in un moto di gioia e di entusiasmo: i fuochi d’artificio, gli abiti a festa e i concerti di piazza hanno segnato la fiera appartenenza dei kosovari albanesi a un’entità ben distinta e separata dalla Serbia e dal passato; le bandiere blu del Kosovo, poche, e quelle rosse, onnipresenti, dell’Albania pure. Il 17 febbraio non era il giorno adatto per parlare di malanni e di carenze, ma già il giorno successivo, quando le luci della festa si sono spente e il Kosovo è tornato alla quotidianità, tutti, o quasi, tirando una coperta sempre troppo corta hanno ripreso a lamentarsi delle disfunzioni e anomalie di una nazione che più che zoppicare sembra essere rimasta seduta per terra: a galleggiare nel limbo non sono solo i serbi, ma anche i rom e gli stessi albanesi. Come è ovvio che sia, l’epicentro dei festeggiamenti è a Pristina, ma il punto nevralgico è settanta chilometri a nord, a Mitrovica. Raggiungere la moschea nel centro della città, è un’impresa; il minareto è come un miraggio che si allontana a ogni metro guadagnato. Il fiume rosso albanese ha invaso la strada e le vie secondarie hanno assunto il ruolo di affluenti. Nella piazza principale davanti alla moschea, due Hummer gialli – i grossi fuoristrada americani – con impianti audio da concerto, danno ritmo alla marea ondeggiante. La polizia è schierata all’inizio del ponte che divide i serbi dagli albanesi per evitare qualsiasi tipo di provocazione. Una volta dall’altra parte, lo scenario cambia totalmente. Il vento che soffia da nord tiene lontano i suoni della festa che sembra distante chilometri, ma che in realtà e a qualche centinaia di metri. Quella poca gente che c’è in giro si sforza di non volgere lo sguardo a sud. Il gestore di un caffè se ne sta seduto a un tavolo fumando una sigaretta: “Oggi potevo anche starmene a casa. La gente è uscita solo per andare a lavorare o a scuola. Anche il mercato è vuoto”, dice con aria sconsolata. La città sembra a lutto e gran parte della popolazione è a Zvecan, una cittadina di diecimila abitanti poco lontana da Mitrovica, per ricevere l’abbraccio di una delegazione parlamentare in arrivo da Belgrado.

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ella notte, una morbida, silenziosa nevicata ha ricoperto tutto il Kosovo, rendendo il paesaggio bianco e uniforme. Le strade sono deserte: le tracce delle poche macchine che le percorrono sono immediatamente ricoperte dal soffice manto. Nel tratto che da Klina, attra-

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verso Istok, porta a Mitrovica si incrociano solo jeep e mezzi pesanti della Kfor, la missione Nato presente sul territorio da dieci anni. Rispetto al giorno precedente, Mitrovica sud sembra un’altra città: la folla sorridente e felice, i colori della festa esaltati da un sole luminoso assomigliano a un lontano e sbiadito ricordo. Al contrario, Mitrovica nord ha assunto nuovamente i caratteri di un centro abitato. I caffè sono pieni di clienti e il mercato lungo la strada principale che taglia in due la “riserva” serba, è ricca di voci, di mani che valutano la merce in vendita, di donne con buste gialle cariche di prodotti tutti rigorosamente serbi. Qui la moneta di scambio è ancora il dinaro, quello di Belgrado, ma non è raro incontrare cartelli dove, timidamente, appaiono le prime conversioni in euro, la divisa corrente in tutto il Kosovo: “È triste ammetterlo, ma dobbiamo adeguarci. D’altro canto gli stranieri che sono a Mitrovica pagano in euro; e poi non posso nascondere che fa comodo averne un po' da parte, vista la debolezza del dinaro”, dice Petar che, nonostante la stazza, quasi scompare dietro le ceste di formaggio e i pani di grasso ordinatamente sistemati sul suo banco. Molte delle auto parcheggiate hanno targa serba, altrettante sono senza. Mi viene subito spiegato che quelle prive di targa sono macchine immatricolate in Kosovo: hanno la sigla Ks. Andarci in giro verrebbe vista dai serbi come una provocazione e così vengono montate e smontate non appena si supera il ponte, un pò per sano patriottismo serbo, un po' per evitare di ritrovarsi la macchina con qualche ricamo o, nella peggiore delle ipotesi, in fiamme. ulla riva nord del fiume Ibar si stagliano alte nel cielo grigio le “Tre Torri”, palazzi di oltre dieci piani dove vivono, fianco a fianco, porta a porta, famiglie serbe e albanesi. Intorno a queste sentinelle di cemento grigio si sono verificati, negli ultimi nove anni, ripetuti incidenti tra le due fazioni: lancio di pietre, scontri fisici e armati, esplosioni di granate. È molto difficile superare la diffidenza delle persone che vi abitano: intere famiglie vivono qui da anni sull’orlo di crisi nervose. Dopo aver bussato a molte porte che non si aprivano perché, forse, non piacevamo all’occhio che guardava attraverso lo spioncino, una si apre. Nascosta per metà da una pesante porta blindata, una donna serba sulla trentina con in braccio un bambino chiede quale sia il motivo della nostra visita: “Preferisco non parlare di questo palazzo, ho un bambino piccolo e ho molto da fare. Provate a un altro piano”. Un ragazzino, che non deve aver superato da molto i dieci anni, ha assistito in disparte a tutta la scena con sguardo curioso. “Volete

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In alto: Il campo di Cesmin Lug. In basso: Sulla strada del Pec. Kosovo 2009. Foto di Gianluca Cecere per PeaceReporter.


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conoscere la mia famiglia? Vi accompagno io”. Entriamo in ascensore. La cabina accenna un pigro sussulto, ma poi non parte. “Lo sapevo”, dice il ragazzino, “funziona solo quando ne ha voglia. Andiamo a piedi”. Slatan Milic, serbo, abita con la moglie e sei figli al terzo piano della Torre numero Uno. Come è usanza da queste, ci si toglie le scarpe prima di entrare in casa: soffici tappeti decorati ricoprono i freddi e probabilmente anonimi pavimenti. “Ma non lasciatele fuori, portatele dentro”, ci dice Slatan. “C’è il rischio di non ritrovarle o che gli albanesi ci mettano qualcosa di sgradevole dentro”. La casa è ampia e luminosa, i soffitti sono alti. Le grandi finestre del soggiorno guardano sul fiume e sulla parte meridionale della città. Slatan e la sua famiglia sono originari di Urosevac, una città a sud di Pristina. Nel 1999 i guerriglieri dell’Uçk gli bruciarono la casa. “Con mia moglie decidemmo che lei e i nostri bambini sarebbero dovuti andare via e che io, invece, sarei rimasto a Urosevac con mia madre e le mie tre zie”. Fu la madre, dopo qualche tempo, a dirgli di raggiungere i figli e la moglie che nel frattempo avevano trovato posto in un centro di accoglienza allestito dalla Chiesa Ortodossa a Leposavic. “A guerra finita, sono tornato a Urosevac per cercare mia madre. Non trovai lei né le sue sorelle. Mi dissero che erano andate via, ma nessuno sapeva dove”. Slatan le ha cercate a Belgrado, alla Croce Rossa, a Pristina. “Non so neanche se qualcuno ha avuto la pietà di seppellirle”. I Milic hanno vissuto per sette anni e mezzo nel centro di Leposavic, poi la Chiesa gli ha offerto l’appartamento a Mitrovica, “fino a quando non troveremo una sistemazione definitiva”, dice il figlio maggiore di Slatan. Non hanno nessun rapporto con gli albanesi del palazzo e con i vicini, “quelli della porta a fianco”, sono pessimi. “Per loro noi non abbiamo diritto ad abitare qui, dicono che prima nel palazzo ci vivevano solo famiglie albanesi e si stava benissimo”. ell’appartamento a fianco ci sono i Behrami, albanesi. La signora Jazide ci apre la porta e con modi affabili ci invita in casa. “Ma le scarpe portatele dentro... è meglio”, bisbiglia la donna ripetendo, all’inverso, quanto aveva detto poco prima il suo vicino. È quasi ora di pranzo. Jazide è sola in casa e sta cucinando un pasticcio di patate: presto tornerà il resto della famiglia. Alla spicciolata, infatti, arrivano Sochoil, il capofamiglia, e i due figli Boujori e Ramadan. I Behrami, che vantano una parentela con Valon, il calciatore che ha giocato per quattro anni nella Lazio e adesso in Inghilterra nel West Ham, sono tutti nati e cresciuti a Mitrovica. Vivevano nel quartiere di Anka Spaic, “in una bella casa con un ettaro di terreno alle spalle”. Poi nel 2000 furono cacciati dai serbi – così come altre centottanta famiglie albanesi – e acquistarono l’appartamento nella Torre Uno. “Allora c’erano solo due o tre appartamenti occupati da serbi, poi il governo di Belgrado ha cominciato a comprare appartamenti offrendo grosse somme agli albanesi. “Anche con me ci hanno provato, ma non ho ceduto”, dice con fierezza Sochoil. “I serbi raccontano che gli appartamenti siano distribuiti dalla chiesa, ma non è vero. C’è Belgrado, dietro. Stranamente loro, i serbi, hanno gli appartamenti con vista sul fiume e controllano Mitrovica sud. Sono come delle guardie in un avamposto”. Secondo Sochoil, tutti i serbi che vivono nelle Torri hanno armi e ricetrasmittenti. E che nell’ospedale di Mitrovica ci sarebbero gli uomini dei reparti speciali serbi che si fingono degenti, pronti a entrare in azione in caso di necessità. “Tutti sanno che nei sotterranei è rimasto intatto l’arsenale che lo stesso Milosevic predispose negli Anni ’90, anche gli uomini della Kfor ne sono a conoscenza, ma tacciono. È risaputo che francesi e spagnoli sono dalla loro parte”, dice Boujori rubando le parole al padre. A supporto di quanto affermato dal figlio, Sochoil aggiunge: “Quando ad abitare questi palazzi erano solo albanesi, i soldati venivano ogni giorno a fare controlli a tutte le ore, anche nel cuore della notte. Da quando sono arrivate le famiglie serbe, nessuno è più venuto”. Il 31 dicembre scorso, una discussione tra un trafficante albanese di Djakovica e un serbo di chissà dove si è trasformata, dopo poco, in una sparatoria: un gruppo di serbi armati ha aperto il fuoco e Ramadan, il figlio minore dei Behrami, è rimasto ferito. “Era nel parco con gli amici. Un proiettile gli è entrato in pancia. Da allora ho giurato che non avrei mai più trattato con un serbo”, ringhia Sochoil puntando l’indice verso l’alto. Ramadan, con un movimento meccanico di chi ha compiuto molte volte

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quel gesto, si alza la maglia e mostra lo squarcio sulla pancia fatto dai medici per estrargli il proiettile. Una bufera di neve si è abbattuta sulla città, la temperatura è scesa ancora: alla radio, il bollettino meteo della Kfor annuncia meno dodici gradi. ualche chilometro a est della Mitrovica serba, c’è il campo di Cesmin Lug, dove vive quel che rimane della comunità rom. Due file di baracche costruite con materiali di fortuna sono disposte lungo una stradina senza uscita. Il legno delle imposte e le lamiere dei tetti emettono dei sordi lamenti sotto lo sferzare del vento, implacabile e gelido. Ma i rom sembrano non avvertire il freddo. Tutto è normale. Una donna ha appena steso i panni: con i piedi nudi che affondano nella neve e con indosso una maglia a maniche corte, torna senza fretta verso casa. Una bambina con una maglietta di cotone arancione e pantaloni da tuta, gioca con una stalattite di ghiaccio brandendola come si fa con una spada: sorridendo mi sfida a duello. Bajrush, un uomo sulla quarantina, sta rinforzando la sua baracca con tavole di legno e l’aiuto di suo figlio. Con un cenno ci invita al riparo. Quasi subito, la rabbia erutta dalla sua bocca piena di oro: i denti, quelli veri, non sono molti. “Anche voi siete venuti a vedere in che stato viviamo? È facile fare notizia con noi, perché siamo folkloristici, vero? Poi tornate da dove siete venuti e nessuno muove un dito per aiutarci”. La gente sta morendo avvelenata dal piombo. Le baracche di Cesmin Lug poggiano, infatti, su una bomba di veleno a lento rilascio, sul terreno contaminato della miniera di Trepca. Quando l’Unhcr, l’Alta Commissione Onu per i Rifugiati, predispose l’istallazione del campo nel 1999, si disse che i rom sarebbero rimasti là per un periodo massimo di quarantacinque giorni. Sono passati dieci anni e quaranta delle originarie settantadue famiglie rom, vivono ancora in una decennale provvisorietà. La comunità prima della guerra viveva in un quartiere, il Roma Mahalla, che fu distrutto dagli albanesi subito dopo la fine del conflitto. Le sue rovine giacciono ancora sulla sponda meridionale dell’Ibar. “In verità – dice Bajrush – a me la casa l’hanno ricostruita, ma io in mezzo agli albanesi non voglio andarci a vivere. La cosa più importante è la sicurezza, e io a Mitrovica sud non mi sento al sicuro”. Anche altre famiglie hanno riavuto le case, ma hanno preferito spostarsi in un altro campo piuttosto che tornare a Roma Mahalla. I rom chiedono di avere una sistemazione dignitosa nella parte serba che considerano più tollerante. “Anche se non stiamo bene, Mitrovica nord è pur sempre una città multietnica: qua vivono serbi, albanesi e bosgnacchi, dall’altro lato c’è stata una vera pulizia etnica e ci sono solo albanesi”, conclude Bajrush, che tornando a lavorare fuori, ci fa capire che la conversazione è finita.

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a Pec a Pristina, da Mitrovica a Urosevac è difficile trovare voci di consenso su come il “Progetto Kosovo” si stia sviluppando. In uno dei migliori ristoranti della capitale, dove è possibile mangiare pesce dell’Adriatico montenegrino e bere vini italiani e francesi, mi incontro con Mustafa Muçai, il volto più noto della televisione kosovara fin dai tempi di Milosevic. Dice di essersi sempre battuto per un’informazione obiettiva e indipendente: “Molte volte, dal 1999, mi hanno chiesto di entrare in politica, per sfruttare la mia immagine, ma ho preferito rimanerne fuori”. Mustafa potrebbe essere indifferente a tutto quanto gli succede intorno: vive in una posizione di privilegio, in una bella casa, con la moglie e il figlio dodicenne. E inoltre può permettersi di viaggiare in Europa, un sogno per molti kosovari che non possono vantare un lavoro, soprattutto remunerativo. “Ma questo Kosovo non lo vuole nessuno”, mi confida Mustafa, appoggiandomi una mano sul braccio. “Il Kosovo è un’invenzione dell’Onu, della Nato e degli Stati Uniti. Il kosovaro non esiste, noi siamo albanesi. Nessuno avrà il coraggio di raccontarti la verità, che tutti vorrebbero unirsi all’Albania. Abbiamo accettato un compromesso, tutto andava bene pur di staccarci da Belgrado”. E poi, versando l’ultimo bicchiere di Chablis: “Noi ci stiamo ingannando, ma alla prossima generazione, a mio figlio, come farai a spiegare e a convincerli che non sono albanesi, ma che sono kosovari?”. Già... chi dirà alla piccola Pavarësi che non è kosovara, ma albanese?

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In alto: Negozio albanese bruciato dai serbi. In basso: L’atrio della Torre numero Uno. Mitrovica Nord, 2009. Foto di Gianluca Cecere per PeaceReporter.


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Portfolio

Cpt Torino

Testo di Luca Galassi Foto di Umberto Fratini re gabbioni. Cinque alloggi da sei persone con letti a terra. Bagno, lavandino, doccia, televisore. E' il Cpt di via Brunelleschi a Torino. Cpt, centro di permanenza temporanea, ma da qualche mese Cie, centro di identificazione ed espulsione. Terminologia adottata qualche mese fa e semanticamente più appropriata, soprattutto perchè la permanenza in tali strutture aumenta, diventando sempre meno 'temporanea'. Proprio in questi giorni tale permanenza, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto legge sulla sicurezza, viene estesa fino a 6 mesi, a discrezione del Questore. Nella ex-caserma, gestita dalla Croce Rossa, sono rinchiuse circa 60 persone, immigrati in attesa di rimpatrio. Sono sans papiers, senza documenti. "Siamo trattati come bestie", dicono. "Li trattiamo bene", replica il direttore del centro Antonio Baldacci. La tensione, nelle gabbie dove sono rinchiusi, è palpabile, perchè gli immigrati dicono che il cibo fa schifo, che li imbottiscono di psicofarmaci, che le guardie talvolta sono brutali. Che non vogliono essere rimpatriati. Per questo bruciano materassi e spesso danneggiano le strutture. Per questo entrano in sciopero della fame. E per questo alcuni tentano anche di 'fare la corda', di suicidarsi. "La scorsa settimana ci ho provato - dice Gayan, singalese - mi ha fermato lui, vedi? quello lì. Mia madre sta morendo in Sri Lanka, ma non mi lasciano andare. Ho chiesto io di essere rimpatriato, ma mi tengono qui. Perché?". Un tunisino è in sciopero della fame: "Sono affetto da epilessia e non ho i farmaci per curarmi. Non me li danno perchè non mangio, mi ricattano. Da sessantaquattro chili che ero ne peso cinquantotto". Sostengono che "nel cibo ci

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mettono le gocce per farci dormire. Mangiamo e ci addormentiamo, per tutto il giorno". Ma gli operatori della Croce Rossa smentiscono: "Faccia lei stesso la prova, mangi quello che diamo a loro". E' vero: l'unica conseguenza dell'abbondante piatto di pasta al sugo è una digestione un po' lenta, ma niente sonniferi. Torino lo scorso anno è morto un ragazzo marocchino, forse di polmonite, forse di overdose. I suoi compagni hanno denunciato la mancata assistenza sanitaria. La maggior parte dei 'trattenuti' è tossicodipendente. Anche le crisi di astinenza fanno scattare rabbia, aggressività, violenza. Ci si sente in prigione, in via Brunelleschi. La concezione è la stessa dei penitenziari costruiti per segregare. A Long Kesh, la prigionesimbolo del conflitto nord-irlandese, ci sono le identiche gabbie di metallo che separavano i detenuti cattolici da quelli protestanti. In gabbia la protesta prende le forme dell'autolesionismo. Il corpo esposto, il corpo che con le sue ferite è protesta muta. Per evitare la deportazione, all'inizio di marzo tre tunisini hanno ingoiato oggetti e si sono lacerati la carne. L'infermeria è sempre un continuo via-vai. "La Croce Rossa è qui per farli stare nel migliore dei mondi possibili, in ambienti come questo", ribadisce il direttore Baldacci al termine della visita. Mentre usciamo, a un operatore della Croce Rossa squilla il cellulare. La suoneria è personalizzata con una canzoncina leggera, scritta nel 1935. Sulla melodia vien quasi spontaneo canticchiare le parole: faccetta nera, bell'abissina...

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Pagina 14 Un ospite del Cpt. Pagina 15 Da sinistra: Un membro della Croce Rossa apre la gabbia. L’infermeria del Cpt. Il cortile esterno. Pagina 16 Al centro: Un’ospite del Cpt. Da sinistra: La zona femminile. La preghiera. Il cibo gettato a terra per protesta. Tre immigrati all’interno delle ‘gabbie’.

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Mondo

Notizie che di solito non fanno notizia

Nessun accordo in Somalia. La guerra continua nonostante le elezioni

La Francia sconfessa De Gaulle e dopo 43 anni entra nella Nato

Le buone nuove

Corno d’Africa, si continua a morire

Allons enfant de l’Atlantique

onostante l'elezione a presidente dell'islamista moderato ed ex leader delle Corti Islamiche, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, accreditato dalla comunità internazionale come l'uomo giusto per portare la pace in Somalia, nel Corno d'Africa si continua a sparare. L'ala più radicale dell'insorgenza islamica, rappresentata dalle milizie di al-Shabaab e dall'ex-alleato di Sharif al tempo delle Corti islamiche, Sheikh Hassan Dahir Aweys, continua a combattere contro le truppe del Governo di transizione (Tfg), sempre più in difficoltà nel reggere la forza d'urto dei ribelli. Nell'ultimo mese, approfittando anche del ritiro delle truppe etiopi che negli ultimi due anni avevano sostenuto il Tfg contro gli insorti, le milizie di al Shabaab hanno lanciato una serie di attacchi sia contro l'esercito somalo che contro le truppe dell'Unione Africana presenti nella capitale Mogadiscio. Al Shabaab ha così consolidato la propria presenza nel sud del Paese, quasi interamente nelle mani degli insorti, e mira ora a conquistare la capitale, dove i suoi uomini sono già in grado di organizzare attentati e di ingaggiare scontri a fuoco con le forze di sicurezza. Poco assistito dalla comunità internazionale, che non sembra intenzionata a spedire in Somalia un contingente di caschi blu per stabilizzare il Paese, finora il Tfg è sopravvissuto grazie alle spaccature all'interno dell'insorgenza islamica: le milizie di Ahlu-sunah Wahl-jamea, che si rifanno alla tradizione islamica Sufi, più moderata e molto diffusa in Somalia, hanno ingaggiato con al Shabaab una dura lotta per il controllo della Somalia centrale, causando scontri che hanno provocato centinaia di vittime solo nelle ultime settimane. A livello diplomatico non si registrano nuovi sviluppi: gli accordi di Gibuti, sottoscritti la scorsa estate dal Tfg e dall'ala più moderata del movimento islamico, quella facente capo al neo presidente Sheikh Sharif, sono stati apertamente sconfessati da al Shabaab, i cui leader hanno definito l'elezione del loro ex-alleato Sharif alla guida della Somalia “una sconfitta per l'Islam”.

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Israele, una strada per Umm Khaltoum Una piccola cittadina alle porte di Gerusalemme ha deciso di intitolare una strada a una della più celebri canzoni della cantante egiziana Umm Khaltoum. Soprannominata la “Stella d'Oriente”, è considerata la più grande cantante araba del secolo scorso. Nata nel 1904 e morta nel 1975 fu sempre ostile allo stato israeliano, ma nostante questo, molto amata sia da arabi che ebrei israeliani. L'idea è stata di Jawdat Ibrahim, abitante del villaggio Abu Gush, che sta costruendo la sua casa nella vicina cittadina di Neve Ilan. Jawdat ha proposto di utilizzare il titolo di una famosa canzone, Anta Omri (Tu sei la mia vita), per dare il nome a una strada.

Bolivia, la terra torna agli indigeni Quarantamila ettari di terreno, dal latifondo boliviano direttamente a disposizione degli indios guaranì. La decisione del governo di Evo Morales ha colpito cinque famiglie del dipartimento di Santa Cruz, covo della rivolta anti-Morales e delle formazioni politiche dei latifondisti boliviani. Uno dei lotti sequestrati e riassegnati era gestito dalla statunitense Custon Larsen Metenbrink, che esercitava la proprietà su un appezzamento di terreno sottratto illegalmente alla 'Riserva privata del patrimonio naturalistico'. È così che i quarantamila ettari di terreno passeranno dalle cinque famiglie latifondiste a 65 piccoli proprietari terrireri

Nuova Zelanda, risarciti i maori Verrà versato lor un corrispettivo pari a circa 157 milioni di dollari Usa. E' questo infatti il corrispettivo che sarà devoluto dal governo di Auckland a otto tribù maori, per un totale di quasi 12mila persone, come risarcimento dei torti subiti più di 160 anni fa, in seguito all'arrivo dei coloni britannici in Nuova Zelanda. Il governo di Auckland, inoltre, ha riconosciuto alle tribù maori la proprietà intellettuale e i diritti di sfruttamento commerciale della danza Haka, originariamente utilizzata nei rituali di guerra, e che oggi viene eseguita dalla nazionale neozelandese di rugby, gli All Blacks, prima di ogni partita. 18

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Matteo Fagotto

opo quarantatré anni la Francia ritorna a far parte del comando integrato del Patto Atlantico. Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha inaugurato una nuova epoca negli equilibri geostrategici dell'Alleanza. Un presidente di tutt’altra pasta rispetto al generale de Gaulle che nel 1966 aveva definito il Patto Atlantico "un’organizzazione di difesa degli interessi americani", e che per questo ne era uscito. “La Nato della Francia”, secondo Sarkozy, si occuperà di operazioni di mantenimento della pace e della sicurezza. Il capo di Stato francese ha considerato i tempi ormai maturi per il rientro, perchè la sola capacità militare e strategica francese non è sufficiente a dare al Paese un ruolo di primo piano in Medio Oriente, in Africa, nel Golfo Persico, ovvero nelle zone in cui ha storicamente avuto influenza. Secondo alcuni, il rafforzamento della Francia nell'Allenza si tradurrebbe in un maggior peso degli interessi di Mosca nello scacchiere europeo, finalizzati alla preclusione dell’ingresso nella Nato di Georgia e Ucraina. Storico alleato di Mosca, Parigi si è sempre opposta, insieme a Berlino, alla loro adesione. Tuttavia, il Segretario generale dell'Alleanza, Jaap de Hoop Scheffer, non ha potuto che salutare con soddisfazione la decisione di Sarkozy: la Francia rappresenta il quarto Paese per numero di truppe impegnate. Sul campo la differenza sarà minima, per esempio in missioni quali quella in Afghanistan, dove Parigi schiera 2.800 uomini, ma il suo significato simbolico è costituito dal fatto che tale mossa lega a doppio filo le ambizioni di una difesa comune europea all'Alleanza atlantica. Il rapido assorbimento di quasi tutti i Paesi dell'Europa Orientale e degli Stati baltici, ha cambiato gli equilibri di forza all'interno dell'Unione Europea. Le nazioni fondatrici Germania, Francia, Italia e Paesi del Benelux, non hanno più la capacità di guida e di indirizzo per una comune politica di difesa e sicurezza europea. La nuova prospettiva della Nato è oggi rivolta a Gran Bretagna da una parte e ai nuovi membri dell'Unione a 27 dall'altra. Luca Galassi


Un mondo di muri

ono passati venti anni da quando il mondo ha seguito in diretta il crollo del muro di Berlino. Il 1989 sembrava aprire una nuova epoca e così è stato. Solo che per tutti sarebbe stata un'epoca migliore della precedente e per questo, forse, bisogna aspettare ancora un po'. Resta il significato di quel muro, eretto come simbolo ultimo di una conclamata incapacità di comunicare tra due mondi. Era, all'epoca, la frontiera tra i due 'blocchi'. Oggi, però, il mondo è disseminato di muri. Come se la Storia non avesse insegnato nulla. Il muro più famoso, o meglio famigerato, è quello che Israele costruisce per separarsi dai Territori Occupati palestinesi, non prima di averne sottratto ancora terre e acqua. Costruito per combattere il terrorismo, finisce per essere il simbolo di una divisione che ormai viene percepita come permanente, come se non ci fosse più la necessità del dialogo. Ma non è l'unico muro, ce ne sono tanti altri. Per uno di loro, quello tra le

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due Coree, non è ancora finita la Guerra Fredda. Alcuni sono quasi caduti, come quello che divide le due parti dell'isola di Cipro, altri li stanno costruendo in questi mesi, come quello al confine tra Iran e Iraq. Ci sono muri in posti impensabili, come il deserto del Sahara, tra il Marocco e i saharawi. Ci sono in ogni continente. In America quello tra Usa e Messico, in Asia le divisioni tra l'India e il Pakistan e il Bangladesh, in Africa anche quello tra Botswana e Zimbabwe. E ci sono persino in Europa: quello di Cipro, come detto, e quello di Belfast, che divide cattolici e protestanti. Questa mappa vuole lanciare un segnale e magari non sarà esaustiva, ma speriamo serva come spunto di riflessione. Non bisogna mai chiudere l'altro fuori dalla nostra vita, perché se chiudiamo fuori qualcuno, ci siamo noi chiusi dentro.


I muri del mondo

TURCHIA

CIPRO

1

Belfast

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2 SPAGNA Ceuta

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Melilla

USA MAROCCO MESSICO MAROCCO SAHARA OCCIDENTALE

MAURITANIA

1. Belfast Capitale dell'Irlanda del Nord, Belfast è divisa da un sistema di 26 muri, barriere di cemento o mattoni, ma anche barriere di lamiera e semplici palizzate o staccionate. Vengono qualificati, a seconda dell'importanza, di serie A, B e C. Separano i protestanti dai cattolici, gli 'unionisti' (fedeli alla corona dei Winsdor) dai 'repubblicani' che chiedono l'indipendenza dell'Irlanda del Nord o la riunificazione con il resto dell'Irlanda.

ZIMBABWE BOTSWANA

2. Ceuta – Melilla

5. Le due Coree

Due enclavi spagnole in Marocco. Tutto attorno alle due città, sono state erette barriere di filo spinato e palizzate, per impedire ai migranti africani di passare la frontiera e di entrare in Europa, pur restando in Africa.

La penisola coreana è divisa in due in linea con il 38° parallelo. La Corea del Nord e la Corea del Sud sono divise da una zona militarizzata e blindata dopo la guerra di Corea, quando nel 1950 le truppe della Corea del Nord invasero la Corea del Sud. Dal conflitto internazionale, con l'intervento di un contingente Onu, la situazione è rimasta cristallizzata come ai tempi della Guerra Fredda.

3. Israele – Palestina Iniziato nel 2002, il muro che dovrebbe separare Israele dai Territori Occupati palestinesi, in realtà, penetra al di là della Linea Verde (in alcuni punti anche di 23 chilometri) istituita dalle Nazioni Unite nel 1967, sottraendo terre e risorse ai palestinesi. Lungo 730 chilometri, è alto circa otto metri, composto di blocchi di cemento. Per tutta la sua lunghezza, si alternano torrette di controllo equipaggiate con i più sofisticati sistemi di controllo.

4. Cipro Dopo che le truppe turche hanno invaso l'isola del Mediterraneo, nel 1974, Cipro è divisa in due da una 'zona cuscinetto' guardata a vista dai militari delle Nazioni Unite. A nord l'auto proclamata Repubblica di Cipro Nord, riconosciuta solo dalla Turchia, e la Repubblica di Cipro, che è entrata nell'Unione europea. La capitale Nicosia, dal 1974, è divisa in due dalla linea di demarcazione tra la zona turca e quella greca, comunemente chiamata Linea Verde e si compone di fili spinati, guarnigioni militari e in alcuni tratti di vero e proprio muro.

6. Kashmir Regione asiatica contesa tra India e Pakistan. Le Nazioni Unite intervennero, nel 1949, assegnando 2/3 della regione all'India e 1/3 al Pakistan, ma la contesa tra i due stati non si è mai risolta. Una zona smilitarizzata è stata istituita tra le due zone, gestita dall'Onu.


KASHMIR PACHISTANO

IRAQ IRAN

KASHMIR INDIANO

Baghdad

INDIA

5

4 9

6 COREA DEL NORD

3 7

COREA DEL SUD

PALESTINA

BANGLADESH

ISRAELE

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7. India – Bangladesh La barriera che divide India e Bangladesh è pattugliata da guardie: ogni anno, per gli incidenti nelle vicinanze, muoiono in media 200 persone.

8. Usa – Messico La frontiera tra Stati Uniti e Messico è lunga circa 3mila chilometri, dall’Oceano Pacifico all’Oceano Atlantico. Dal 1994, il tratto che va da Tijuana, in Messico, a San Yisidro in California, Usa è diviso da una barriera di acciaio alta 3 metri, lunga 22 chilometri circa, con telecamere a infrarossi, sismografi che rilevano il movimento dei corpi umani, torri di osservazione, potentissimi riflettori e filo spinato.

9. Iran – Iraq e Baghdad La caduta del regime di Saddam Hussein ha ridisegnato la geografia del Medio Oriente. L'Iran costruisce, nei pressi del posto di frontiera di

INDIA

Haji Omran, un muro per bloccare i movimenti dei guerriglieri curdi che si riparano nel Kurdistan iracheno. Ma il cambiamento più evidente, dopo secoli di coabitazione, riguarda la capitale Baghdad. Interi quartieri sono stati divisi da muri eretti per separare sunniti da sciiti.

10. Botswana - Zimbabwe

11. Marocco – Sahara Occidentale

Il governo del Botswana ha costruito un muro alto oltre tre metri, elettrificato. La costruzione del muro (di circa 500 chilometri) è stata motivata, ufficialmente, per evitare una più ampia diffusione dell'afta epizootica, ma nella realtà si vogliono tenere lontani gli immigrati clandestini. La situazione pareva meno grave dopo l'apertura del Kavango-Zambesi Transfrontier Conservation Area, il più grande bio-parco del mondo, poi il crollo dell'economia dello Zimbabwe e l'epidemia di colera che hanno colpito il Paese africano.

Il 6 novembre 1975, 350mila sudditi marocchini, attraversano il 27°parallelo, confine coloniale tra Marocco e Sahara Occidentale. Era la ''marcia verde'': da allora metà del Sahara Occidentale è occupato dal Marocco. Per segnare il confine della zona occupata, il Marocco ha costruito dal 1982 un muro di sabbia, per la precisione un insieme di otto muri difensivi con una lunghezza superiore a 2.720 chilometri. Tutta la sua lunghezza è minata e tutta la zona è piena di bunker.


Palestina di Francesca Borri

i spara a vista lungo il Muro, alle quattro del mattino, presunzione di terrorismo contro qualsiasi ombra in movimento. Ma lì dove si dilegua l’ultima luce del checkpoint, una notte indistinta di luna avara e aghi di freddo torna a dilagare sull’altalena delle colline e tutto si spiana di ogni retorica e maiuscole, e il Muro si asciuga a muro, cemento come ogni altro, tratti di inferriate tratti di filo spinato e tratti di niente. Misura sessanta centimetri, qui, la coesistenza, e non ha la forma solenne di un trattato, ma quella furtiva di un buco.

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Il tempo ha cadenza ebraica nelle campagne di Hebron la settimana ricomincia la domenica mattina. Palestinesi da un lato, e un furgoncino a raccoglierli dall’altro. E è come Alice attraverso la siepe - si entra nemici, minaccia demografica cancro di Israele, si esce ripettinati in tuta blu. Operai. Operai, al nero, giorno dopo giorno, per venti euro e nessun diritto a costruire insediamenti. Lavorano in Israele in sette su dieci. Perché lì dove non sono ancora arrivate le ruspe a livellare via i campi e le case, le leggi a sviare lontano ogni goccia di acqua, il coprifuoco e i checkpoint a convertire la vita in carcere, dove non sono arrivati i missili e le granate, lì è arrivato l’assedio della fame e della sete. Il Muro si è trascinato via i nove decimi della terra coltivata, qui. Mozziconi di tronchi puntellano adesso la collina, sono lapidi di ulivo. Alle quattro di ogni domenica mattina, il futuro è largo sessanta centimetri. Sono in cinque, il sesto è Yousef, ma un flessibile gli ha segato via quattro dita. Con la mano che rimane, tenta richieste di autorizzazione per curarsi in Israele, a proprie spese naturalmente. Più esattamente, a Gerusalemme Est, la metà in teoria palestinese: perché anche se sei legale, il tuo permesso di lavoro non ti apre Israele. Solo un certo insediamento. Sono anni che le Convenzioni di Ginevra rimbalzano contro la Corte Suprema: i territori palestinesi sostiene, sono solo ‘amministrati’, perché questo era un

deserto, anonima res nullius. E come è possibile occupare qualcosa che non appartiene a nessuno? L’eccezione è la legislazione sul lavoro. Perché nei territori occupati è vietato modificare la legislazione esistente. E dunque Israele, che nei territori amministrati modifica ogni legge che gli conviene modificare, nei territori occupati applica disciplinato impolverati residui degli anni Sessanta. Dovrebbe altrimenti garantire parità di trattamento. E’ larga sessanta centimetri, l’unica democrazia del Medio Oriente. e donne cuciono, in casa, kippah. Per mezzo shekel, si chiama globalizzazione, la Cina che sbarca in Medio Oriente. Tre al mediatore, sessanta in vetrina. E neppure si può venderle in proprio. Non è una legge a impedirlo questa volta, ma la paura: nessuno si avventura nella Hebron araba. Il primo mediatore è allora palestinese, il secondo israeliano. Ed è la risacca della storia, ancora, ad abbattersi su infinite vite uguali a sempre. Dominanti e dominati, indipendentemente da ogni etnia e frontiera. Perché è israeliano quel furgoncino, dall’altra parte del Muro, e improvvisa si dissolve ogni paura. Ma è palestinese questo esercito di cemento che avanza e devasta, questa nuova fanteria di tegole rosse a presidio di ogni collina. Perché non solo la manodopera è palestinese anche il cemento del Muro. Arriva da un’azienda legata a Fatah. E’ larga sessanta centimetri, certa “resistenza” davanti al denaro.

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Si stacca alle cinque, alla preghiera del tramonto. In ginocchio verso la Mecca, un alveare arabo ascolta un immaginario muezzin, le stuoie trapuntate di Corano a mosaico tra cavi, e tubi e mattoni. Dormono qui, negli interrati in costruzione, il viaggio costa la paga di un giorno. Abitano in vecchie coperte su tavole di legno. Pile di piastrelle e pavimenti ancora da montare la trincea davanti al freddo. Una vecchia lamiera la cerniera dal mondo. E’ largo sessanta centimetri stasera, il cielo stellato sopra .


Pakistan nel mirino delle squadre speciali statunitensi

In Svizzera la conferenza Onu contro il razzismo nasce zoppa

La guerra Usa si espande

mese Durban2, razzismo Un di guerre e pregiudizi

l presidente Barack Obama vuole estendere le operazioni militari segrete Usa in Pakistan – finora limitate alle Aree Tribali – anche alla regione di Quetta, considerata la vera centrale operativa strategica talebana. E forse anche oltre. Da quando, lo scorso settembre, il nuovo presidente pachistano Asif Ali Zardari è entrato in carica a Islamabad, gli aerei telecomandati Predator e Reaper (Mietitore) della Cia hanno condotto una cinquantina di bombardamenti missilistici contro presunti covi talebani e qaedisti, uccidendo finora almeno 520 persone (300 civili, 200 jihadisti e 20 militari pachistani). I droni decollano dalle basi militari Usa in Afghanistan, ma anche dalla base aerea segreta della Cia i Shamsi, nel deserto del Balucistan: regione disabitata nel sud del Pakistan, al confine con l’Iran. Sul terreno sono operativi anche i commando delle forze speciali della Divisione Attività Speciali (Sad) della Cia e quelli del Comando Congiunto Operazioni Speciali (Jsoc) dell’Esercito degli Stati Uniti. Secondo l’intelligence militare statunitense, la crescente pressione militare esercitata negli ultimi mesi sulle Aeree Tribali del nord, avrebbe spinto i capi militari talebani e di Al-Qaeda a spostarsi a sud: nella più sicura zona di Quetta, dove dal 2002 si nasconde – protetta dai servizi segreti pachistani – la leadership politica dei talebani, ovvero il Mullah Omar e il Consiglio (Shura) da lui presieduto. Da qui la decisione Usa di estendere le operazioni alla zona di Quetta. Ma sentendosi minacciati anche a Quetta, i capi talebani potrebbero spostarsi, o essersi già spostati, ancora più a sud, nell’impenetrabile città portuale di Karachi: culla ideologica del jihadismo pachistano e rifugio dei principali esponenti di Al Qaeda. La guerra segreta di Obama in Pakistan, portata alle sue estreme conseguenze, dovrebbe spingersi fin nel cuore di questa megalopoli da 18 milioni di abitanti.

I

Enrico Piovesana

i terrà dal 20 al 24 aprile prossimi, a Ginevra, la seconda conferenza Onu contro il razzismo. La chiamano Duban2, in riferimento alla città sudafricana dove nel 2001 si svolse il primo summit antirazzista. Scopo del meeting sarebbe quello di verificare il grado di applicazione delle direttive approvate otto anni prima. Tuttavia, come accadde anche nel precedente vertice, a tenere banco sono soprattutto le polemiche e le accuse reciproche, tra paesi islamici e occidentali. Lo scorso 13 marzo la delegazione italiana all'Unione Europea, guidata da Franco Frattini, annunciava che l'Italia non parteciperà al summit a meno di un cambio radicale del documento preparatorio, prodotto dal Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu anche con la partecipazione dell'Organizzazione per la Conferenza Islamica. La delegazione italiana ha attaccato alcuni passaggi critici verso le politiche israeliane, definendoli "aggressivi e di tipo antisemita". Il rifiuto italiano ha catalizzato le perplessità delle altre delegazioni europee, che si sono unite nella condanna al testo, già in precedenza respinto da Israele, Usa e Canada. "L'Italia, col coraggio del primo pioniere europeo, stabilisce i limiti del discorso politico decente e ammissibile" commentava la vicepresidente della Commissione Affari Esteri della Camera, Fiamma Nirenstein, rivendicando il ruolo italiano nel cambiamento del testo. Per evitare il boicottaggio europeo del summit, i funzionari delle Nazioni Unite hanno prodotto un nuovo documento, epurato dai riferimenti a specifici paesi. Il testo è passato dai 250 paragrafi dell'originale a quindici, ma ha subito ottenuto il sostegno dei ministri degli Esteri dei ventisette. Il documento censurato descriveva come la popolazione palestinese dei territori occupati sia sottoposta a “punizione collettiva, tortura, blocco economico e restrizioni al movimento” e concludeva sostenendo che l'occupazione israeliana costituisce “una forma contemporanea di apartheid”.

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Il numero dei morti dal 5 al 25 marzo *

PAESE

MORTI

Sri Lanka Afghanistan Iraq Pakistan Talebani Sudan India Nordest Somalia Nord Caucaso Nigeria Rep. Dem Congo India Kashmir Algeria India Naxaliti Colombia Filippine Milf Thailandia del Sud Filippine Npa Israele – Palestina Pakistan Beluchistan Turchia

2.130 384 379 284 93 70 54 49 45 39 36 32 28 26 24 18 16 11 3 1

TOTALE

3 .7 2 2

* I dati che qui riportiamo sono dati ufficiali, raccolti da agenzie di stampa internazionali o locali. Per cui sono da intendersi sempre per difetto: in molti paesi del mondo non si contano i vivi, figuriamoci i morti.

Naoki Tomasini 19


L’intervista Birmania

Medicina terrorista Di Alessandro Ursic Per la giunta militare birmana, Cynthia Maung e il suo staff sono una banda di “latitanti, insorti e terroristi”. Per centinaia di migliaia di pazienti che dal 1989 a oggi si sono fatti curare dalla struttura che ha messo in piedi dal nulla, però, la dottoressa Maung è una santa. Dietro l'icona di Aung San Suu Kyi, la paladina della democrazia e premio Nobel per la pace tuttora agli arresti domiciliari, l'altro volto femminile della causa birmana è lei. Vincitrice di diversi riconoscimenti internazionali per il suo lavoro umanitario, e inserita nella lista degli “eroi asiatici” dalla rivista Time nel 2003, Cynthia Maung continua a fare quello che ha sempre fatto negli ultimi venti anni: curare le persone che non avrebbero altro posto dove andare, perché clandestine o perché discriminate dal regime nel Myanmar. Lo è lei stessa, d'altronde: fuggì dalla Birmania dopo le manifestazioni democratiche dell'agosto 1988, a cui aveva partecipato. Quando la repressione della giunta si fece feroce, insieme ad altri quattordici colleghi si incamminò verso la Thailandia, in una marcia durata una settimana. Stabilitasi a Mae Sot, città thailandese al confine con la Birmania, iniziò a curare gli altri rifugiati in un fienile dismesso, sterilizzando gli strumenti chirurgici in una pentola per cucinare il riso. Pensava di rimanere in Thailandia per sei mesi; non se n'è più andata, e nel frattempo la clinica Mae Tao – che ha febbraio ha festeggiato il ventesimo anniversario – è diventata una struttura da centoventimila visite all'anno, finanziata da donazioni internazionali e sempre più punto di riferimento dei birmani in fuga dal regime: malati di malaria, persone ferite da mine, anche semplici pazienti bisognosi di cure per piccoli incidenti, o mamme che chiedono un certificato di nascita per i loro neonati, non riconosciuti dal governo thailandese. Tutti curati gratis nelle varie sezioni della clinica, una vera e propria cittadella alle porte di Mae Sot. Giurano di non aver mai vista arrabbiata la sua fondatrice. Ma come la sua pacatezza, anche la forza d'animo di Cynthia Maung è proverbiale. Dottoressa Maung, in che condizioni opera la clinica Mae Tao? Siamo sempre in una specie di semi-clandestinità. Le persone che vengono a curarsi qui sono spesso senza documenti: lavoratori clandestini, ma anche famiglie e bambini. Sono tollerati dalle autorità thailandesi a Mae Sot, ma se mettono piede fuori dalla città vengono arrestati. Anche buona parte del mio staff è tecnicamente composta da immigrati illegali, e dormono qui proprio per questo. E dato che la clinica non può essere registrata o riconosciuta legalmente, ci sono sempre questioni aperte, come quella della proprietà del terreno dove sorgono le nostre strutture. Da dove vengono i vostri pazienti? Fino al 1995, venivano a farsi curare in particolare Karen e Mon, che abitano in zone più vicine al confine. Ma poi la nostra fama è cresciuta, e ora la gente arriva anche da regioni più interne della Birmania. Oggi tali pazienti costituiscono oltre il cinquanta percento del totale. Che condizioni di vita ci sono oggi in Birmania? Sono peggiorate molto negli ultimi venti anni. L'istruzione è al collasso, molti bambini abbandonano la scuola. Aumenta l'incidenza della malaria, dell'Aids, 20

della tubercolosi. La popolazione cresce nella violenza, finisce nelle prigioni o nell'esercito. I giovani scappano dal Paese, nei villaggi rimangono solo i vecchi e i bambini. E di conseguenza la struttura sociale delle comunità si sfibra, c'è meno organizzazione di una volta. Noi lavoriamo anche per rimediare a questo. In che senso? Intendo dire che la clinica Mae Tao non si propone di fornire solo cure mediche fini a se stesse. Mi piace credere che con il nostro lavoro contribuiamo a ricreare quel tessuto sociale che si è perso nelle comunità. Dopo che l'esercito birmano ha distrutto alcune delle nostre cliniche mobili vicino al confine, inoltre, addestriamo medici che viaggiano di nascosto tra i diversi villaggi, per curare le persone che non possono allontanarsi dalle loro case. In tal modo diventano anche più coscienti dei propri diritti: è la prima forma di difesa contro gli abusi del regime, la gente poi ha più coraggio nel denunciarli.

Negli ultimi anni, per molti rifugiati birmani dei campi al confine è scattato un massiccio programma di trasferimento in altri Paesi, come gli Stati Uniti. Ciò ha condizionato anche il lavoro della clinica? Sì, perché anche parte del nostro staff ha colto questa opportunità. Abbiamo dovuto addestrare del nuovo personale nei campi profughi, ma alla fine siamo riusciti a tornare ai nostri soliti livelli operativi, e la clinica negli ultimi anni è cresciuta: siamo passati dalle 99mila visite del 2005 alle 115mila del 2007. E lei, ha mai pensato di trasferirsi all'estero? No. In Occidente ci sono già tanti bravi medici, il mio posto è qui. Ma dopo venti anni di lavoro, spera ancora di poter vedere la fine del regime militare nel suo Paese? Non voglio pensare che sia troppo tardi, ma di sicuro tutto si è fatto più difficile. La giunta non è forte ma ha le armi, e con quelle controlla le risorse e tiene sotto scacco la popolazione. Venti anni fa speravamo che nel giro di dieci anni il regime sarebbe crollato. Ora pensiamo che prima o poi succederà, ma non sappiamo quando. Il nostro compito comunque va avanti: dobbiamo continuare a a dare maggiore potere alle comunità locali, costruendo nuove alleanze. Ci vorranno cinque, dieci, venti anni per ricostruire il Paese dopo che la giunta non sarà più al potere. E dare speranza alla popolazione spetta a noi. In alto e in basso: Interni dell’ospedale di Cynthia Maung. Mae Sot, Birmania 2008. Foto di Alessandro Ursic ©PeaceReporter


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Qualcosa di personale Iraq

Salvate il soldato Shepherd Testo raccolto da Nicola Sessa André Shepherd ha trentuno anni. È un meccanico dell'esercito Usa specializzato nella manutenzione e armamento degli elicotteri da guerra AH-64A, meglio conosciuti come Apache. Dall'11 aprile 2007 ha lasciato l'esercito ed è considerato un disertore. A novembre 2008 ha chiesto asilo politico alla Germania. i chiamo André Shepherd, ho servito nell'esercito degli Stati Uniti d'America fino a quando la mia coscienza non mi ha detto: basta! Adesso, in gergo, sono un Awol, un assente senza permesso. Bisogna che cominci a raccontare tutto dall'inizio, da quando il 27 gennaio del 2004 ho messo la firma all'Ufficio Reclute. I motivi per cui decisi di arruolarmi erano tanti: mi trovavo senza un lavoro fisso, non avevo soldi e soprattutto ero rimasto senza un tetto. Ho sempre desiderato fare qualcosa per cambiare il mondo, fare qualcosa per cui i miei genitori sarebbero stati finalmente orgogliosi di me. L'occasione mi si presentò nell'estate del 2003. Mentre camminavo per le strade della mia città, passai davanti all'Ufficio Reclute. Un sergente tirò fuori la testa e mi disse: 'Hey, ti andrebbe di fare una chiacchierata? Tu hai la faccia di quello che vuole aiutare il mondo a migliorarsi'. Mi disse che l'esercito cercava persone come per spazzare dalla faccia della terra terribili terroristi e dittatori. Mi fece i nomi di Osama bin Laden, di Saddam Hussein e di Kim Jong Il. I suoi occhi erano decisi, convincenti. Poi elencò i benefici che comportava far parte dell'élite dei “pochi volenterosi” che servono la Patria: un buono stipendio, alloggio gratuito, spese mediche pagate (anche dopo il mio congedo) e trenta giorni di ferie. Dissi a me stesso che era la cosa giusta da fare. Mi presi qualche tempo per pensare, per essere sicuro di volerlo fare davvero e il 27 gennaio entrai deciso nell'ufficio dicendo: 'Yes! Voglio far parte dell'esercito degli Stati Uniti d'America'. Superai i test di ammissione con il massimo del punteggio e mi fu assegnato un bonus da cinquemila dollari. Quando arrivai al Basic Training Center, cominciai a rendermi conto che la mia vita non mi apparteneva più. A me e alle altre reclute veniva chiaramente fatto intendere che eravamo dei robot nelle mani dei superiori, che eravamo pagati per fare e non per pensare. Alla fine del corso di addestramento cominciai il mio Advanced Individual Training, dove mi specializzai come meccanico degli Apache. È un elicottero dalla potenza devastante e certamente non veniva usato per scopi umanitari. Ma in ogni caso non ebbi alcuna riserva a lavorarci su: ero convinto che quell'arma fosse usata solo contro i 'bad guys', i cattivi, e i terroristi. Fui assegnato al 601esimo Battaglione di Supporto Aereo, dislocato a Katterbach, in Germania. A febbraio arrivai in Iraq, nella base vicino a Tikrit. Si lavorava per dodici ore al giorno, sei giorni alla settimana. Alcuni degli uomini della mia squadra, che erano lì da prima di me, cominciarono a farmi aprire gli occhi: loro non capivano perché stavano impiegando la loro vita in un paese che non ha riflessi diretti sugli Stati Uniti. Per proteggere l'America dai terroristi? Quando poi cominciai ad andare in giro per cercare gente locale che lavorasse per noi, per fare i muri di sabbia contro

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possibili attentati, vedevo che la loro faccia non era allegra. Quella non era la faccia di un popolo che era stata liberato da un oppressore: sui loro volti leggevo paura, disperazione, rabbia e risentimento. Mi sentivo fuori posto; mi sentivo confuso e sporco dentro: ero io, il soldato americano, l'oppressore che stava distruggendo la fiera esistenza del popolo iracheno. Dovevo documentarmi sulla guerra che stavo combattendo e sulla 'Guerra al Terrore'. rovai molte incongruenze tra quanto ci era stato detto e quello che invece stavo vivendo. Dove erano le armi di distruzione di massa che Saddam voleva usare contro gli Usa? E perché eravamo lì, quale era il nostro scopo? A febbraio 2005 sono ritornato alla base in Germania. Ho avuto molto tempo libero che ho dedicato allo studio di questa guerra. Più andavo a fondo e più mi prendeva lo sconforto. Vidi molti filmati, vidi gli effetti del mio lavoro e quelli dei missili che io armavo sugli Apache: distruzione, miseria, 'morti accidentali', milioni di rifugiati. O mio Dio, che cosa abbiamo combinato! L'alcol era diventato il mio unico sollievo, mi aiutava a non pensare. Stavo per lasciare tutto. Ma mi frenava una cosa: non avevo mai visto mio padre così orgoglioso di me, suo figlio stava combattendo per difendere il mondo dai terroristi. Potevo dargli questo dispiacere? Tornare a casa e dire: 'Mi dispiace, non ce l'ho fatta?'. Così mi tappai il naso e mi feci assegnare all'ufficio del Comando. In questo modo avrei portato a termine il mio contratto e non avrei corso il rischio di essere rimandato ancora in missione. Così dal gennaio 2005, ripresi a lavorare con serenità. Fino al Primo di aprile, quando fu emesso un ordine per cui tutti i meccanici di Apache disponibili sarebbero dovuti tornare giù in Iraq entro l'estate. Quella è stata una data che ha cambiato la mia vita. La notte dell'11 aprile 2005 ho raccolto le mie cose e sono scappato dalla mia base. I miei amici tedeschi mi hanno offerto protezione, cibo e un tetto. Sono cosciente di quello che ho fatto. In America dovrei affrontare la Corte marziale: rischio una condanna da sei mesi a molti anni di carcere, fino alla pena di morte per tradimento e diserzione in tempo di guerra. Ma io non volevo continuare a commettere crimini contro l'umanità per conto del governo degli Stati Uniti. Il processo di Norimberga mi ha insegnato che chi esegue un ordine non è esente da colpe, non è meno responsabile dei capi. Non avrei potuto cavarmela né con la mia coscienza, né con la giustizia dicendo: 'Ok, ma io stavo solo facendo il mio lavoro'.

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In alto: André Shepherd in un momento di relax. In basso: Conferenza veterani contro la guerra. Friburgo, Germania 2009. Foto di Nicola Sessa ©PeaceReporter


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La storia Italia

Isoke e le altre Di Chiara Pracchi Il 6 marzo, a Bari, è morta Joy, prostituta nigeriana di ventiquattro anni. La sua scomparsa non farà notizia, come non hanno suscitato clamore le duecento vittime della tratta che sono morte negli ultimi tre anni. Una vera e propria emergenza che nessuno denuncia. A parte Isoke Aikpitanyi, che attraverso quell’esperienza c’è passata. uando nel 2007 Isoke ha finito di dettare la sua storia, raccolta nel libro “Le ragazze di Benin City”, alla giornalista Laura Maragnani, ha espresso il desiderio di lasciarsi tutto alle spalle e di costruirsi finalmente una vita “normale”. Ma non ce l’ha fatta, non perché è ricaduta nel giro della prostituzione, ma perché non è riuscita a scordarsi delle sue compagne. “Dimenticare non è possibile”, racconta al telefono. “Il ricordo di quanto accaduto continua a tornare alla mente e ogni volta che muore una di noi, non puoi semplicemente pensare: a me è andata bene. Queste ragazze non hanno più voce, ma io, che ce l’ho fatta, la voce ce l’ho e ho il dovere di gridare anche per loro”. Così ha fondato “La casa di Isoke”, un piccolo rifugio per le vittime della tratta in Valle d’Aosta, che potesse dare una speranza alle ragazze e dire loro che c’è qualcuno che le può capire e aiutare. “Conosco la loro rabbia - spiega Isoke- e anch’io mi sono detta: ‘no, non era questo che avevo desiderato, non può essere questa la mia vita’. Non poteva, eppure lo è stata, e l’unica cosa che posso fare adesso è cercare di dargli un senso”. Isoke ora gira l’Italia. Per raccontare la vita delle schiave moderne ai ragazzi delle scuole; per incontrare le nuove vittime. E per spiegare agli operatori sociali che il loro metodo non funziona, se è vero che solo una ragazza su dieci, di quelle contattate, esce dal giro. “La legge pretende una denuncia degli sfruttatori in cambio di protezione e un permesso di soggiorno, ma questo è un ricatto”, s’infervora Isoke. “Prima di Natale, a La Spezia, hanno strappato le unghie a una ragazzina di sedici anni. I politici devono capire che in questa storia le donne sono le vittime e devono essere liberate. Subito”. Isoke stessa ha cercato di abbandonare il marciapiede per due anni, ma nessuna associazione l’ha aiutata, senza una denuncia formale da parte sua. In compenso, i trafficanti si sono presentati dalla sua famiglia, in Nigeria, minacciando di dar fuoco alla casa. E quando hanno capito che stava per ribellarsi l’hanno massacrata di botte, all’ingresso del parco torinese del Valentino. L’ha salvata il fatto che la sua maman (la sua sfruttatrice) e i suoi assalitori la credevano morta. Lei, invece, si è risvegliata in ospedale dopo tre giorni di coma e, al suo fianco, ha trovato solo la polizia pronta a espellerla. Denunciare è difficile anche per il senso di responsabilità che lega queste donne alle loro famiglie, spesso numerose e a carico delle madri. Ci sono interi quartieri di Benin City, che sono sorti negli ultimi anni con i loro soldi.

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Tutta l’economia della città si regge sui proventi che arrivano dall’Europa, al punto che quando il padre di Isoke, un funzionario del tribunale locale, si è messo a indagare, ha scoperto connivenze ai più alti livelli politici. “Le agenzie che organizzano il viaggio aprono e chiudono in continuazione, per non essere rintracciate. Quella alla quale mi ero rivolta io, è stata aperta dalla moglie di un politico molto importante a Benin City, che è riuscita a corrompere una guardia di Heathrow, prima tappa del viaggio, per farci saltare tutti i controlli”. iovane piena di rabbia contro un padre che aveva abbandonato la famiglia, Isoke, a vent’anni, ha deciso di partire per quello che credeva essere un posto di lavoro in un negozio di frutta e verdura. Per anni ha creduto di essere la sola responsabile di quella situazione. Per anni non ha capito che colei che si era presentata come una connazionale pietosa, disposta ad aiutarla, era in realtà la maman che l’aveva comprata e che doveva rifarsi dei soldi spesi. Il trucco che ha usato è stato quello di lasciare la povera Isoke, appena arrivata a Torino, da sola, in strada, ad aspettare per ore che qualcuno l’andasse a prendere. Quando, dopo ore d’angoscia, la maman si è offerta di ospitarla a casa, Isoke ha pensato di essere salva. Denunciare chi, allora? Alla denuncia si arriva dopo un percorso di consapevolezza, sostiene Isoke. La sua presa di coscienza è passata attraverso la morte della madre. “Ero venuta in Italia per lei, per aiutarla a mantenere la famiglia e quando è morta mi è crollato il mondo addosso. A quel punto le regole dei trafficanti sono diventate cose senza senso. Il mio ingresso in Italia è costato trenta milioni e ne avevo pagato solo la metà. Ho chiamato la maman e le ho detto che da me non avrebbe avuto più un soldo. Sapevo che avrebbe potuto andarmi male. Ma dovevo rischiare.”. Il coraggio di raccontare tutto Isoke l’ha trovato quando sua sorella ha annunciato l’intenzione di raggiungerla in Italia. “Significava ricominciare tutto da capo. Le violenze, gli stupri di gruppo, il freddo, la fame, la mancanza di sonno. Non potevo permettere che tutto questo accadesse anche a lei”. Così ha soffocato la vergogna e ha incominciato a raccontare la sua storia. E non ha più smesso. Perché tutto questo non accadesse anche alle altre.

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In basso: Prostituta. Milano, Italia 2008. Foto di Samuele Pellecchia/Prospekt


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Italia

Soldatini per la pace Di Giulio Iacchetti Da bambino ho sempre giocato con i soldatini e per quanto riguardava armi giocattolo avevo un nutrito arsenale in casa. Ciò non mi ha impedito di sviluppare, nelle età delle decisioni, un'idea precisa riguardo il tema della pace e all’impegno civile che una scelta di quel tipo comporta. uindi chiariamo subito un punto: non ho nulla contro i giochi guerreschi dei più piccoli, non è l’acquisto negato di una spada di plastica che farà di vostro figlio un convinto operatore di pace e non è nemmeno imponendo il gioco Terzomondopoli (vi assicuro che esiste, è la versione buonista dello spietato Monopoli) che il pargolo crescerà con sani principi di condivisione e solidarietà. Quando Pietro Corraini mi chiese di progettare un numero della rivista “Un Sedicesimo” avevo appena trovato a un mercatino un vecchio gioco che forse qualcuno di voi ricorderà: un semplice foglio di carta illustrato con le sagome di tanti soldatini: si incollava su un cartoncino, si ritagliavano le figure lungo i bordi e poi si piegava la linguetta posta in prossimità dei piedi: un paio d’ore di lavoro e l’esercito di carta faceva bella mostra di sé sul tavolo della cucina. Da questa modalità di bricolage d’antan la riflessione si è allargata ai giochi attuali e mi sono accorto che ancora sussiste un atavico mono-orientamento dell’armamentario(!) ludico dei bambini: nessun dubbio, nessuno scarto semantico o simbolico, l’unica decisone è che tipo di soldatini scegliere: marines (verdi) o Wehrmacht (grigi).

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er Corraini, riprendendo l’idea del foglio illustrato da ritagliare, ho pensato a un fascicolo che comprenda sia le immagini di soldatini (tutti uguali, ordinatissimi e monocolore) contrapposti a una serie di sagome di un ipotetico corteo della pace: ragazzi con gli striscioni, famiglie, suore e monaci buddisti…tutti diversi, colorati, disordinati…ai bambini ed adulti la libertà di scegliere se comporre un esercito o una festosa manifestazione a favore della pace, o magari entrambi, ciò che conta è insinuare la possibilità di una scelta, instillare un dubbio…provocare una riflessione. Il concetto del dubbio peraltro è all’origine di tanti miei progetti, è per me fondamentale introdurre un fattore destabilizzante al fine di minare ferme convinzioni e infragilire convinzioni apparentemente consolidate. Mi spiego con alcuni esempi: il formaghiaccio Lingotto che ho disegnato

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per Guzzini è un oggetto che assicura la funzionalità per il quale è stato pensato (fare cubetti di ghiaccio) ma non si limita a questo: in realtà i cubetti sono dei piccoli lingotti, sulla superficie rimane stampigliato a rilievo la scritta GOLD, come dire che l’acqua, per la maggior parte degli abitanti del pianeta, è preziosa come l’oro. Oppure il Pantheongame, un complemento d’arredo multireligioso alternativo al monoteismo del crocifisso: cambiando la sistemazione dei sei dadi in legno che lo compongono è possibile comporre altrettanti simboli espressione di diversi credi: dal candelabro a sei bracci ebraico alla mezzaluna islamica, dalla croce cristiana al simbolo del dollaro (We have trust in them, haven’t we?!) sino alla falce martello, simbolo di una fede politica attualmente in ribasso. Non manca poi un’opzione “ateismo” (composizione totalmente bianca) e “caos interiore” che si denuncia componendo a casaccio il puzzle. volte mi interrogo criticamente sulla volontà di agganciare questo mio progettare a valori che trascendono la mera funzionalità o la piacevolezza estetica. Nel momento di licenziare il lavoro per Corraini ho espresso a Maurizio Prina, il designer che si è occupato dell’elaborazione delle immagini del libro, il timore che il nostro agire difficilmente avrebbe sortito effetti significativi nella coscienza delle persone. La sua risposta, che pongo a chiusura di questo mio intervento, mi ha restituito pienamente il senso di un’azione politica condotta per mezzo del design:

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“Ciao Giulio! Sono contento che le illustrazioni ti siano piaciute, sono anche altrettanto contento di aver fatto questo lavoro perchè credo che sia uno di quei progetti che servono davvero. Tra una decina d'anni se anche solo un ex bambino avrà preferito essere una persona colorata al posto di un soldatino omologato sarà un enorme successo!” Immagini tratte dalla rivista “Un Sedicesimo”. Ed. Corraini.


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Migranti

La storia di Olimjon Di Giuseppe Agliastro Ho conosciuto Olimjon Tukhtanazarov nell’agosto del 2008 andando per l’Ansa alla sede di “Grazhdanskoe Sodieistvie” (“Assistenza civile”), una delle associazioni più attive nella tutela dei diritti umani in Russia e la cui presidentessa, Svetlana Gannushkina, è stata più volte candidata al premio Nobel per la pace. limjon è un ex giornalista uzbeko andato a Mosca a fare l’operaio per pagare un’operazione alla moglie malata. Fino a meno di vent’anni fa, quella enorme megalopoli che ospita dieci milioni e mezzo di persone era anche la sua capitale, ma crollata l’Unione Sovietica si è trovato a lavorarci come straniero e a subire mille soprusi. Olimjon arriva a Mosca il 27 maggio e contatta una ditta edile. Appena sa che ha un’istruzione universitaria e un diploma da tecnico elettricista, il direttore lo nomina subito capo-squadra e gli offre un salario di trentamila rubli al mese, circa ottocento euro: una discreta somma. Olimjon accetta. Il 5 giugno è il suo primo giorno di lavoro: deve controllare le tubature dell’acqua dei vecchi palazzi sovietici e, se necessario, cambiarle. In più, per arrotondare, fa l’elettricista ed esegue lavoretti di falegnameria sempre per la stessa azienda. Gli hanno promesso delle entrate extra per questi servizi, ma non gli hanno specificato quanto: «non sarai offeso», si sono limitati ad assicurargli. Con Olimjon lavorano circa centocinquanta operai, quasi tutti stranieri irregolari e con diversi mesi di lavoro non retribuito alle spalle. Dormono tutti irregolarmente in un convitto che ha un accordo con l’impresa di costruzioni. Otto in una stanza. Due per materasso. E a volte in promiscuità: uno dei coinquilini di Olimjon, ad esempio, divide la branda con la moglie. Vanno a lavorare con un pulmino dell’azienda: sul mezzo c’è posto per ventiquattro persone, loro ci stanno in sessanta o più. La giornata di lavoro è interminabile, dura quindici ore: dalle nove del mattino fino a mezzanotte. «Ci sfruttano come bestie, abbiamo appena il tempo di mangiare e dormire». Il 9 giugno, quarto giorno di lavoro, Olimjon dà al direttore i soldi per il permesso di soggiorno, ma per ottenerlo la ditta dovrebbe regolarizzarlo. Non lo farà mai e, di fronte alle continue sollecitazioni, il direttore si limita a risposte vaghe: «tra un po’», «vedremo domani», «è questione di giorni». Quando, stufo, Olimjon si decide a chiamare lui stesso il Servizio immigrazioni, si sente dire che non ci sono più posti: la quota annuale destinata ai lavoratori stranieri è esaurita. Dovrà attendere il prossimo anno. Ma lui è già in Russia e, adesso lo sa con certezza, sarà presto un clandestino. Olimjon non vuole lavorare illegalmente, ma non ha i soldi per comprare un biglietto aereo e tornare dalla sua famiglia, e così è costretto a rimanere in azienda almeno fino ai primi di luglio, quando può finalmente chiedere al direttore la prima mensilità. «Non ci sono soldi», è la risposta. Olimjon non batte ciglio: «Se non mi paghi, non lavoro. Aspetterò il mio salario in convitto». È a questo punto che cominciano i guai: la guardia del corpo del direttore, un ex-agente, lo carica di forza in macchina e lo porta in una stazione di polizia. «Lo sai che sei nel nostro Paese senza un permesso regolare?», gli

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domanda un ispettore: «Quanti soldi hai ricevuto per il tuo lavoro?». «quattromilacinquecento rubli per il vitto e ne ho pagati tremila per l’alloggio». «Fammi vedere la ricevuta», gli chiede il poliziotto dandogli un foglio di carta bianco. Minacciato, Olimjon scrive di aver ricevuto settemilacinquecento rubli, ma ribadisce di averne pagati tremila per il convitto. «Così non mi piace, scrivine un’altra». Dopo due ore di contrattazioni, il direttore e la sua guardia lo prendono di nuovo con la forza e lo portano in un’altra caserma. L’accusano di aver rubato degli strumenti di lavoro: «Vediamo, – gli fa un sergente sfogliando con noncuranza il codice penale – per questo reato dovresti stare in galera otto anni, ma se confessi la pena si riduce a tre». «Io non ho fatto niente di male, chiamerò un avvocato e farò valere i miei diritti». Il tono del sottufficiale questa volta si fa minaccioso: «Forse non ci siamo capiti. Se non confessi, finisci male. Hai visto il film “Polizia moscovita”? Chiamiamo dei testimoni che ti hanno visto ubriaco sul luogo del furto, ti ammanettiamo, ti mettiamo la maschera antigas e non ti facciamo respirare finché non sputi ciò che vogliamo». «Io ubriaco, capisci? – mi ripete incredulo Olimjon – Io che sono musulmano e non posso bere alcolici». eo confesso per il furto di alcuni arnesi di lavoro, l’operaio uzbeko è schedato e licenziato. Ma non si arrende: il 21 luglio denuncia alla procura di Mosca che la confessione gli è stata estorta e due giorni dopo va dal direttore per avere quanto gli spetta. «Volevano liquidarmi con cinquemila rubli, ma non mi bastavano nemmeno per tornare», spiega Olimjon, «se non i trentamila che mi dovevano, ne volevo almeno diecimila per poter comprare il biglietto dell’aereo e qualcosa per i miei due bambini». «Se vuoi, ti diamo cinquemila, altrimenti vattene», è l’ultimatum. Olimjon continua a rifiutare, allora il direttore e la sua guardia lo assalgono e lo massacrano di botte. Calci e pugni lo colpiscono allo stomaco e al torace, fratturandogli una costola e spezzandogli il respiro. «E non farti vedere mai più o ti ammazziamo». Senza un lavoro e senza un soldo in tasca, Olimjon è stato costretto a rivolgersi a “Grazhdanskoe Sodieistvie” per essere aiutato. Alla clinica “Sklifasovsti” i medici gli hanno refertato i traumi toracici subiti e, dopo qualche giorno, è finalmente riuscito a tornare a casa. Ma il direttore della 000 Rsu-1 Apreo, il suo scagnozzo, e gli esponenti delle forze dell’ordine coinvolti nella vicenda sono rimasti impuniti.

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Un operaio immigrato a Mosca. Russia 2008. Foto di Giuseppe Agliastro per PeaceReporter


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Rubriche

In tivù di Sergio Lotti

Qui sono risate amare Vita sempre più difficile per chi fa satira in tv, costretto a fronteggiare la crescente concorrenza dei politici, che stanno diventando davvero bravi. Se n’è accorto Maurizio Crozza, che una sera a Ballarò è stato interrotto da un signore che sul momento sembrava facesse il verso al ministro per l’Attuazione del programma di Governo, Gianfranco Rotondi. Quando il conduttore Giovanni Floris si è accorto che era davvero il ministro e che i presenti non riuscivano a smettere di ridere, ha cercato di fermarlo per rispetto di quello che resta delle nostre istituzioni, ma Crozza gli ha chiesto generosamente di lasciarlo continuare, ammettendo che forse faceva meglio di lui. Assai più amaro il sorriso suscitato da un servizio apparso su Annozero, che mostrava le strade intorno al Duomo di Firenze, dove transitano quasi duemila autobus al giorno fra binari in costruzione e spartitraffico di cemento come quelli sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. In un’immagine serale della città, che sembra, dice il cronista, una Disneyland del Cinquecento dopo l’orario di chiusura, l’unico segno di vita era l’assessore alla Sicurezza Graziano Cioni, inquisito dalla magistratura per corruzione, che in mezzo a uno stuolo di carabinieri rendeva noto con soddisfazione il bottino della serata: l’arresto di un graffitaro, di sicuro pericolosissimo. Come dire l’operazione non è riuscita, ma il paziente è morto lo stesso, perchè Firenze la sera è una città fantasma e la sicurezza non pare abbia fatto grandi progressi. Qualche risata amara la strappa persino la serissima inchiesta di Report sul dissesto del comune di Catania, quando l’ex sindaco Umberto Scapagnini, noto per fornire elisir di lunga vita al presidente del Consiglio, rivela che una buona attività sessuale aiuta a vincere le elezioni. Sarà vero, però aiutano anche i centoquaranta milioni che il governo ha appena stanziato per evitare il fallimento del comune di Catania, mentre tuttora oltre l’ottanta percento dei suoi cittadini è senza fogne perché non si sa che fine abbiano fatto i soldi delle bollette. Pensare che l’ex vicesindaco di Scapagnini, poi presidente della provincia e ora governatore della regione, è Raffaele Lombardo, leader del Movimento per l’autonomia, finanziato, scopre Report, niente meno che dalla Lega Nord. Chissà se anche gli elettori leghisti ci trovano qualcosa da ridere. 30

Al cinema

Musica

di Nicola Falcinella

di Claudio Agostoni

Tulpan

Sangare “Seya” Wordl Circuit / IRD

Le orecchie a sventola possono essere un ostacolo all’amore. Anche nelle lontane steppe kazake. Arriva dall’Asia centrale uno dei film più deliziosi dell’anno, “Tulpan” di Sergej Dvortsevoy, già vincitore della sezione “Un Certain Regard” al Festival di Cannes 2008. Una pellicola da segnalare sia per gli aspetti estetici e contenutistici sia perché è molto raro che dall’Asia centrale qualche immagine prenda forma sugli schermi delle nostre sale. E così gli esponenti del cinema uzbeko, kirghiso e tagiko, oltre a quello kazako, restano confinati al mondo dei festival e restano sconoscuti nomi come Guka Omarova, Yusup Razipov, Darezhan Omirbaev (cui il Festival del cinema africano, d’Asia e america latina di Milano ha dedicato un omaggio nel mese di marzo), Djamshed Usmanov e kirghiso Aktan Abdykalykov. Solo Bakhtjar Khudojnazarov ha avuto un po’ di notorietà qualche anno fa con il surreale “Luna Papa”. Protagonista dell’opera prima di Dvortevoy, già eccellente documentarista, è Asa, un giovane che torna al villaggio dopo aver svolto il servizio militare in marina. Già il suo aggirarsi per le steppe nella sua giacca blu e nel berretto bianco e blu da marinaio è indicativo dello straniamento. E della completa perdita di contatto tra passato e presente per un Paese che faceva parte di un impero e oggi non ha più accesso al mare. Per reinserirsi nella società ad Asa serve una moglie, per poi aver diritto a un gregge e a lavorare. L’unica che sembra fare al caso suo è Tulpan, adolescente anch’ella figlia di pastori e meno dolce di quanto appaia: lo rifiuta per via della forma delle orecchie. Il romantico e sognatore Asa non si perde d’animo e continua il suo corteggiamento. Il film è onirico e malinconico, dolce e amaro, testimonia di un mondo in pericolo e raggiunge momenti molto alti quando mostra i bambini che giocano o sono alle prese con gli animali.

Dopo sei anni di assenza la “Stella delle stelle del Mali” torna con un nuovo album, interamente scritto da lei: “Seya” (‘Gioia’). Il lavoro è stato registrato a Bamako con un team di artisti locali, a cui in seguito si è aggiunto l’arrangiatore e produttore Cheikh Tidiane Seck. La cultura musicale del Wassoulou, la regione sud-occidentale del Mali dove è nata Oumou, continua a essere presente, basta ascoltarsi Donso, un brano impreziosito dal kamele ngoni (l’arpa Wassoulou) di Massambou Wele Diallo. Mogo Kele affronta il tema della morte incoraggiandoci a lasciare un’eredità positiva alle generazioni future, incrociando il kamele ngoni con le sonorità profonde del balafon di Neba Solo. Cantata al ritmo dance “didadi”, Sounsoumba è un brano, impreziosito dal flauto di Magic Malik (artista ivoriano, cresciuto in Guadalupe), che denuncia il malcostume della poligamia. Oumou continua la sua lotta per i diritti delle donne anche nella ballabilissima Wele Wele Wintou, dove si rivolge ai genitori chiedendo loro di porre fine alla pratica dei


matrimoni combinati tra minorenni. Sukunyali lambisce il tema dell’emigrazione attraverso un ipnotico ritmo “Soninke”, con la partecipazione di Bassekou Kouyate al ngoni. Una voce eterea, violino a una corda, kamele ngoni e organo Hammond sono la base su cui si adagia Kounadya, canzone dove Oumou invita i fortunati nati sotto una buona stella ad adoperarsi per gli altri e a impiegare al meglio le proprie ricchezze. La title track, Seya, è una festosa dedica ai sarti, ai designer e agli stilisti di Bamako che l’hanno aiutata a diventare una leader nel campo della moda del suo paese. Quando si dice che Oumou è un’artista poliedrica...

A teatro di Silvia Del Pozzo

Bomba o non bomba Se ne parla molto di questi tempi e spesso con un senso di smarrita inadeguatezza: cellule staminali, accanimento terapeutico, clonazione… per chiedersi quali sono, o debbano essere, i rapporti tra scienza e vita, tra scienza e politica. Con una domanda di fondo: fino a dove la ricerca scientifica può spingersi senza entrare in conflitto con l’etica? Tema amplissimo che si può affrontare partendo da più punti di vista, ma che in ogni caso apre un dibattito molto complesso che divide e crea inquietanti interrogativi. Interrogativi che aleggiano anche sulla pièce di Michael Frayn “Copenaghen”, messa in scena da Mauro Avogadro con tre straordinari interpreti : Umberto Orsini, Massimo

moglie ricevono la visita del tedesco Heisenberg, ex allievo di Bohr, che nei laboratori tedeschi lavora alla fissione nucleare da cui può nascere la bomba atomica. Perché l’ex allievo è andato a trovare il suo maestro, ora suo nemico? Per disquisire di formule fisiche e matematiche, come apparentemente sembra, per rievocare i vecchi tempi della loro amicizia, per salvarlo dai tedeschi? O invece per esporgli dubbi più laceranti e forse fargli una domanda fondamentale? Si deve fermare

nelle sue ricerche, consapevole com’è dei terribili esiti che la bomba atomica può avere per l’umanità? O la scienza deve procedere senza chiedersi quali saranno le sue applicazioni? Domanda che non è detto sapere se viene formulata (e se ad essa il maestro dà una risposta), perché forse è fatta durante una passeggiata fuoriscena dei due protagonisti, dalla quale rientrano più tesi che mai … Uno spettacolo che tiene con fiato corto lo spettatore, intenso e affascinante per l’acume con cui sa fondere scienza e politica, etica e umanità dei due scienziati, stuzzicati qua e là dagli interventi della signora Bohr che con annotazioni sulla personalità di entrambi illumina le loro dispute scientifiche di lampi caratteriali molto pungenti.

nostra”. La Birmania rappresenta una realtà appassionante sotto il profilo dello sviluppo storicosociale, perché ingloba al suo interno realtà economiche, culturali, religiose di antica tradizione e di forte impatto umano. Con questo reportage fotografico – realizzato in occasione delle manifestazioni del settembre 2007 – Marco Buoemi racconta attraverso le immagini di vita quotidiana, un popolo mite e gentile, ricco di etnie, colori, paesaggi, storia, per offrire nuove prospettive di conoscenza a quanti, sgomenti ed indignati di fronte alla violenza cieca usata dai generali per fermare le manifestazioni democratiche, hanno seguito con ansia e speranza le marce pacifiche dei monaci e della gente birmana. Che solo dopo quarantacinque anni di dittatura, nel settembre del 2007è tornata al centro dell’interesse dell’opinione pubblica mondiale. Proprio in occasione delle prime manifestazioni di protesta dei monaci che marciano in nome della democrazia e della libertà, grazie alla potenza dei mezzi di comunicazione, arrivano le prime immagini. Protesta che inizia con il rincaro, deciso dal governo, del prezzo della benzina del cinquecento percento, e che determina un drastico peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Alle dimostrazioni pacifiche che ne conseguono - iniziate dai monaci, e seguite poi dalla popolazione civile- la giunta militare reagisce con una feroce repressione; si registrano numerosi casi di detenzioni illegittime, sparizioni, uccisioni e torture. La “storia” della Birmania non è solo manifestazioni pacifiche e violenti repressioni, ma è anche una “storia” consolidata di violazione dei principi fondamentali di libertà, di giustizia e di democrazia. Sono molto diffusi il lavoro forzato, l’utilizzo di bambini soldato sia da parte degli eserciti governativi che da parte di gruppi armati dell’opposizione, la condizione di emarginazione delle donne ed in genere la mancanza di tutela di ogni diritto fondamentale.

“Copenaghen”: Pordenone, teatro Verdi, 7 e 8/4; Padova, T. Verdi, dal 14 al 18/4; Palermo, t. Bellini, dal 22 al 26/4; Catania, T. Ambasciatori, dal 28 al 3/5 e dal 5 al 10/5.

In libreria di Beniamino Capro

Marco Buemi Birmania oltre la repressione Popolizio e Giuliana Lojodice. Un testo affascinante (anche se spesso lo spettatore non capisce di cosa si parla, perché l’argomento è la fisica nucleare…), un successo mondiale che racconta la conversazione tra due premi Nobel, impegnati nella ricerca sull’atomo. Nella capitale danese occupata dai nazisti (1941) il danese Bohr (Orsini) e sua

Un libro fotografico che vuole guardare ad uno scenario diverso da quello che ci è stato proposto dai media. Un libro dedicato al premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Una donna coraggiosa che ha fatto delle sue parole la battaglia per le libertà civili del popolo birmano “Usate la vostra libertà per promuovere la 31


Ciao Marchino Ciao Marchino, strade intrecciate in due grandi famiglie. A Radio Popolare sei stato un punto di riferimento per me giovane cronista. Quindici anni dopo, mi hai chiamato proprio tu a PeaceReporter. Per questo, credo, ti sento vicino: radici, volti e storie comuni, amore per la radio - immancabilmente accesa nel tuo ufficio - e un presente di chi non rinuncia agli ideali, alla sobrietà dell'informazione. E all'eleganza nello scrivere. Stasera frugo i miei ricordi. Sei sempre sorridente, qualche volta anche arrabbiato, ma ci fumiamo una sigaretta sopra. Il tuo viso che fa capolino dalla porta della stanza: "Allora, bel ragazzo?", un modo per iniziare a discutere di lavoro, per nuovi progetti o solo per farci un caffè, parole in libertà. Vorrei trovare le parole più belle che conosco per scriverti, oggi. Quello, in fondo, abbiamo imparato a fare. Eppure mi scopro indifeso. E così lasciati salutare, Ciao, bel ragazzo Angelo *** Ciao Marchino, quante grasse risate ci siamo fatti entrando e uscendo dai vari appuntamenti per promuovere PeaceReporter. Erano bei tempi quelli. Tempi che purtroppo non torneranno. Le tue battute, la tua sfrenata voglia di vivere, il tuo sorriso, l'amore che provavi per la tua famiglia e la tua inesauribile fede nerazzurra: questo per sempre resterà nel mio cuore e nella mia mente. Non hai avuto abbastanza tempo per fare tutto ciò che desideravi. Te l'hanno rubato senza darti la possibilità di ritrovarlo. E in parte l'hanno rubato anche a me che non avrò più modo di scherzare, giocare e fare il serio insieme a te. Per questo sono triste anche se so bene che a te non farà piacere.

Oggi le nostre strade si separano, caro amico, ma nel mio cuore resterà indelebile la tua presenza. Per sempre. Ciao Marchino, alla prossima birra. Alessandro G. *** Ciao Marchino. Io ti vedo con la tua biciclètta, arrivare di frètta, dopo aver portato a scuola il tuo Ronny. E sento ancora le tue parole: "Eccola. È tornata la toscanaccia. È finita la pace!". Me le urlavi ridendo ogni volta che mancavo dalla redazione per un po'. E la tua risata ce l'ho in testa. Contagiosa, immensa. Come le tue battute, al volo, spontanee. Ricordo quante ne sparavi con Sandrino... nella nostra stanza. Quante cazzate... E la birrètta delle sei e mezza? "Uè aperitivo?". Ti sorrido, Marco. E ti abbraccio. Fa' buon viaggio. Splendi sempre più del sole. Stella *** Quello che speri sempre quando parti per un reportage è di poterti concentrare su quello che devi fare, perché a casa va tutto bene. Questa volta non è andato tutto bene, questa volta marchino è andato via. Sono lontano e non posso neanche condividere con la redazione la rabbie e il dolore. Ma marchino mi fa compagnia, con il ricordo della volta che siamo andati in una scuola un po' brilli, o di quella che gli ho rubato l'idea di iniziare un reportage in serbia dalla tomba di Tito e mille altri momenti belli o brutti, ma vissuti tutti ridendo, magari davanti a una media chiara. Una volta parlavamo dell'ultimo libro di Terzani e ci siamo detti che il senso di tutto sta nel non vedere l'ora di raccontare un'altra storia. Andiamo avanti, come piaceva a te. Per me sei in bici, da qualche parte, ad ascoltare storie che non vedi l'ora di raccontare. Buon vento marchino, fino alla prossma media chiara Chicco (dalla Grecia, per servizio) *** Non ne sapevo nulla, stamattina ho acceso il computer e la notizia mi è piovuta addosso, come un macigno. Volevo ringraziarvi per le parole che avete scritto su di lui. Non l'ho mai conosciuto a

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fondo, solo come collega, ma la cosa che mi sutpiva in lui era sempre questa voglia di sorridere e di passare sopra alle cose, perche aveva molto più di me il polso di che cosa è veramente importante. Non gliel'ho mai detto, e ora me ne pento, ma mi ha insegnato tanto, quando per esempio mi incazzavo per un pezzo non pubblicato o un lavoro che non riuscivo a vendere. Cazzate. E ora mi ritrovo qui, davanti a uno schermo a piangere, a piu di diecimila chilometri di distanza. Maledicendomi per non essere riuscito a salutarlo prima di partire. e perche con il suo atteggiamento mi ha fatto vedere come si affrontano i veri problemi della vita. L'ultima volta che l'ho visto era supersorridente, abbronzato, rideva e schezava su tutto. Ingenuamente ho pensato "beh, cavolo, vuol dire che ora sta bene". Solo ora mi rendo di quanto fosse superficiale quel pensiero. Vorrei chiedergli scusa, ma non posso più... Matteo *** Ricordo la sua risata. Quel ciuffo di capelli sempre sugli occhi, spostato dalla mano con un gesto impaziente. Il suo accento milanese nel parlare della sua biciclètta. La luce nei suoi occhi nel par-


lare di Ronny. La sua allegria, la sua voglia di vivere, ma anche le sue incazzature. Seguite sempre da dei momenti costruttivi. Sono orgogliosa e onorata di aver potuto lavorare con lui, di aver potuto imparare da lui e condividere un pezzetto della sua strada. Non ti dimenticherò Marco. Teresa Ciao Marco, l'ultima volta che ti ho salutato eravamo in montagna, quella montagna che tanto amavi. Due battute veloci e via. Si pensa sempre che ci saranno altre occasioni di incontro. E ci saranno. Intanto, ora, nella sofferenza, uno dopo l'altro si susseguono i ricordi del percorso fatto insieme, degli anni a PeaceReporter, degli entusiasmi, delle fatiche, delle arrabbiature, delle soddisfazioni. Vengono in mente frasi, consigli. Viene in mente il tuo esserci, lo scoprirti attento, presente, sensibile, con parole che mi hanno fatto bene. E' tutto dentro di me, con me, un dono prezioso. Come un dono prezioso è averti conosciuto, un dono prezioso aver condiviso cose piccole e grandi, gioie e fatiche, famiglia e lavoro. Grazie per quello che mi hai dato. Ti abbraccio forte. Valeria

*** Che bello rivederti col viso che cerca il sole, in quella foto che non ricordavo nemmeno di averti fatto, nel giorno di festa del matrimonio di maso e cecilia. Poche parole ti dedico, come poche te ne ho dedicate in vita, per nessun'altra ragione se

non che ti ho conosciuto come un uomo riservato. Gia' colpito dal male. Grazie a te, Marco, per averci insegnato la dignita' e il contegno della sofferenza. La malattia e' rimasta un fatto privato, sempre. Questa tua riservatezza e' stata la lezione piu' grande. Grazie di aver sempre chiuso la porta senza sbatterla. Sara' bello ricordarti con quella faccia, protesa verso il sole primaverile. Un abbraccio largo e forte alla tua compagna Manuela. Un bacio lungo a Ronaldo. Ciao, Marco. Luca *** Dell'ultimo mio giorno in redazione a peacereporter ricordo solo il tuo saluto: "Ciao Fra!!!". Sapevo che forse non sarei più tornata e che la mia vita avrebbe preso altre strade, ma tu mi hai accolta e lasciata andare con la tua solita grandissima allegria. Un insegnamento per tutti. ciao Marco. F ra *** Non riesco a passare davanti alla porta aperta del tuo ufficio senza vederti ancora lì, con la radio accesa in sottofondo, seduto alla tua scrivania, anzi, 'stravaccato' sulla sedia con i piedi sul tavolo e la cornetta del telefono in mano, tutto preso in una delle tue telefonate di lavoro, infarcite di risate e battute a voce alta che si sentivano anche attraverso la parete che ci separava, con quella tua parlata stramilanese che mi faceva sganasciare. Non riesco a pensare alle future riunioni di redazione senza te che stai lì a prendere appunti senza sosta, sporgendo il labbro inferiore per soffiarti via

il tuo ciuffo nero dagli occhi, salvo poi prendere la parola per proposte o commenti chiari, pacati e pregni di esperienza, o sbellicarti dalle risate come un bambino per le immancabili battute di qualcuno di noi. Meglio se la chiudo qui. Mi manchi formicone! Pio *** C'è qualcosa che non mi torna, in questo lancio di agenzia sulla morte di Marchino, e non capisco cos'è. E poi, certo che capisco: E' l'attacco. "Dopo una lunga malattia, si è spento oggi Marco Formigoni". Lo so che si scrive così, in questi casi. E tecnicamente è la verità. Ma attenzione, è anche una bugia. Perché chi non lo conosce, se lo immagina a spegnersi in un letto d'ospedale. E in questi anni ci sono stati, certo, i letti di ospedale, le terapie, i "domani ricomincio, altro giro altro regalo". Ma di più, tanto di più, c'è stata la sua vita. Un figlio, la donna più amata, la montagna, il pallone, il giornale, quelle risate che devi smettere, ti fa male la pancia. Cronologicamente, è vero, "Dopo una lunga malattia...". Ma sentite come suona diverso: "Dopo avere insegnato a suo figlio ad andare in bicicletta, Marco è dovuto andar via". Per quanto mi riguarda, l'ultima cena insieme, Marchino. Poco, pochissimo tempo fa. Pesce crudo, vino gelato, risate piene. Dopo mezzanotte siete diventati tutti allenatori, i prossimi dieci scudetti già cuciti sulla maglia, con una tattica così. Io e la Manu, un sonno micidiale, finché siamo riuscite a trascinarvi a letto. Adesso vorrei avere fatto l'alba. Cecilia 33


Per saperne di più

del Paese. Nelle sue pagine si trovano tutti i giorni i pettegolezzi sui presunti flirt dei calciatori con le bellezze locali, la moda che impazza per le strade della capitale e curiose analisi su personaggi più o meno in vista del Paese.

PARAGUAY

http://www.jakueke.com L'agenzia di notizie sul Paraguay per restare sempre informati su ciò che accade nel Paese, soprattutto ciò che accade nelle grandi città. Ma le informazioni presenti sul sito riguardano anche lo sviluppo della società del Paraguay, le sue tendenze, le sue opportunità. Prima di partire per questo fantastico Paese consultatela.

LIBRI JOHN GIMLETTE, «Sulla tomba del maiale gonfiabile», Rizzoli editore, collana “I saggi stranieri”, 2005 E' la storia affascinante, talvolta anche comica, del Paraguay. Il libro, scritto in forma semplice e divertente da John Gimlette, incrocia le storie della politica nazionale, degli indios Guaranì del Paese, di sacerdoti e avventurieri. Il libro mette in risalto gli usi e i costumi di uno dei Paesi meno conosciuti del pianeta, trovando anche una vena ironica quando parla di guerra e di importazione illegale di wiskey, di donne e di dittatura. NORBERTO BELLINI, «Emboscada», Infinito edizioni, collana “I Saggi”, 2008 Un libro vero e di forte impatto sul Paraguay che interrompe il silenzio che riguardava la fine della dittatura di Alfredo Stroessner, uno dei dittatori più longevi al mondo. Si parla soprattutto di campesinos e dei danni da loro subiti in quel periodo. E' uno dei testi che meglio spiega la brutalità perpetrata nei confronti dei contadini del Paraguay LILY TUCK, «Notizie dal Paraguay», Baldini e Castoldi Dalai, 2005 Un romanzo ambientato nel Paraguay di metà Ottocento in cui si narrano le vicende della famiglia più potente del Paese, quella del dittatore Francisco Solano Lopez. Da non sottovalutare i racconti della guerra con Argentina, Brasile e Uruguay, che devastò il Paese. Follia, ricchezza e passione sono gli ingredienti di questo piacevole romanzo.

FILM JOHN MACKENZIE, «Il console Onorario», Gran Bretagna 1983 Il film si svolge in Paraguay e vede un uomo, il dottor Eduardo Plarr alle prese con la ricerca del padre scomparso per motivi legati alla politica. Si imbatte in mille personaggi fra cui il console britannico, un uomo semialcolizzato che se la spassa con una prostituta. Il film è piacevole e scorre leggero fra rapimenti e guerriglieri. Ottima l'interpretazione di Richard Gere. ROLAND JOFFÈ, «Mission», Gran Bretagna 1986 Palma d'oro al festival di Cannes, Mission, narra le vicende di un missionario gesuita che risale il rio Iguacù per andare ad incontrare una tribù che vive all'interno della foresta. Nel suo viaggio ricco di avventura incontra un ex mercenario divenuto gesuita, in cerca di riscatto dopo aver ucciso il fratello per gelosia. Insieme cercheranno un sistema comunitario che faccia vivere gli indigeni dell'area senza essere sfruttati dagli spagnoli. ROSS MCELWEE, «In Paraguay», Usa 2008 Le interminabili avventure di un documentarista statunitense attraverso la burocrazia spaventosa del Paraguay fatta anche di corruzione. Tutto per poter adottare una bambina. Ma il documentario rende anche l'idea di quello che accade in questi ultimi anni in America Latina e sulle politiche che gli Stati Uniti hanno da sempre adottato per questi paesi.

SITI INTERNET www.diariopopular.com.py E' il periodico più venduto del Paese. Non si trovano notizie di cronaca e non si parla di politica: Diario Popular è il giornale gossipparo più in vista 34

http://www.ipparaguay.com.py Questo è il sito dell’agenzia d'informazioni ufficiale del governo del Paraguay da poco inaugurata dal Presidente Fernando Lugo. Moltissime informazioni sul Paraguay ma anche su tutti i paesi del Mercosur e del continente americano in generale. Da tenere sott'occhio prima di organizzare un viaggio da quelle parti. www.abc.com.py E' il sito on line di uno dei più importanti e venduti quotidiani del Paese. Ad ogni angolo delle strade di Asuncion si vendono le copie cartacee di questo giornale considerato indispensabile dalla popolazione. Seguite soprattutto le pagine di politica interna e quelle di spettacoli e sport, vi sorprenderanno.

KOSOVO LIBRI ANTONIO EVANGELISTI, «La torre dei crani. Kosovo 2000-2004», Editori Riuniti, 2007 Incriminare qualcuno per un omicidio, in Kosovo, è "come fare una multa per eccesso di velocità ai piloti sulla pista di Indianapolis". L'autore di questo libro è stato comandante della missione Unmik in Kosovo, ha diretto le indagini sui crimini di guerra e guidato la polizia criminale. Descrive, nelle sue pagine, i riti e le radici degli scontri etnico-religiosi fra serbi e albanesi. Racconta l'organizzazione e le regole non scritte dei clan. Dietro e dentro il conflitto kosovaro c'è una realtà che non è scomparsa, anzi è esplosa nella sua dimensione di conflitto etnico e di retroterra della criminalità albanese in Italia e in Europa. MIODRAG LEKIC, «La mia guerra alla guerra», Guerini e Associati, 2006 È il 24 marzo del 1999. Gli aerei della Nato sganciano le loro bombe sulla Serbia, il Montenegro e il Kosovo. Miodrag Lekic, ambasciatore jugoslavo in Italia, rimane al suo posto. Testimone e insieme protagonista, trascrive nel diario gli eventi che segnano giorno per giorno l'evolversi della guerra, e racconta con passione la sua battaglia personale perché sia affermata l'illegittimità dei bombardamenti e si arrivi a una soluzione di pace.

zia di particolari anche su molte storie personali di uomini che decisero di prendere le armi per combattere i serbi che loro avvertivano come occupanti e oppressori. JOZE PIRJEVEC, «Le guerre jugoslave. 1991-1999», Einaudi, 2006 Sulla base del materiale raccolto, Pirjevec ha ricostruito le sei diverse guerre susseguitesi nel territorio della ex-Jugoslavia dal 1991 al '99 nei loro risvolti politico-militari e nelle loro implicazioni internazionali, concentrando l'attenzione tanto sulle dinamiche interne e sugli aspetti sociali che le hanno condizionate, quanto sull'intervento delle grandi potenze e organizzazioni. Ne è nato un affresco complesso ma di agile lettura grazie all'articolazione del racconto, diviso in sette capitoli fondamentali relativi ad altrettanti nuclei tematici. AAVV, «Kosovo non solo Balcani», LIMES Gruppo Editoriale L'Espresso, Marzo-Aprile 2008 Appena dopo la dichiarazione di Indipendenza, la rivista di geopolitica del Gruppo L'Espresso fa un punto della situazione provvisorio e analizza le conseguenze di un atto che potrebbe avere delle ripercussioni in altre zone del pianeta. Su scala locale, il verdetto è nitido: perde la Serbia, vincono i capiclan del Kosovo. Allargando lo sguardo ai Balcani occidentali, ne guadagnano tutti i campioni della soluzione etnica. Non solo gli albanesi, anche i serbi di Bosnia e i croati di Erzegovina, che vedono più vicino il momento propizio per riagganciarsi alla rispettiva madrepatria.

FILM NINOSLAV RANDJELOVIC, «Autumn on Nobody's Land», Serbia, 2004 Il film è uno spaccato di vita quotidiana nella regione del Kosovo-Metohija, descritta dopo gli eventi del 17 marzo 2004 che hanno inasprito i rapporti tra la maggioranza albanese del Kosovo e la minoranza serba. Durante il pogrom, molti serbi videro le proprie case e le chiese ortodosse bruciate dalla furia albanese. Il documento mostra le sofferenze dei serbi in un terra dove adesso si sentono di troppo. ISA QOSJA, «Kukumi», Serbia, 2005 Hasan, Mara e Kukumi, sono appena usciti da un centro psichiatrico. Sotto i loro occhi scorre l'interminabile dopoguerra del Kosovo. Marginali solo all'apparenza, sembrano aver capito quel pezzo di terra più di chiunque altro. Loro, estranei alle tensioni e agli odi che infiammano il paese, osservano lo scorrere degli eventi interpretandoli con tutta la purezza della loro condizione. Le mille contraddizioni del Kosovo appaiono ai loro occhi come delle storture incomprensibili e impossibili da sopportare.

SITI INTERNET HENRY PERRIT, «Kosovo Liberation Army: The Inside Story of an Insurgency», University of Illinois Press, 2008 Impegnata nella lotta contro la Serbia, l'Uçk o Kla (Kosovo Liberation Army), come meglio conosciuta a livello internazionale, si è guadagnato prima la qualifica terrorista per poi passare repentinamente a esercito di liberazione. In questa storia della ribellione, l'autore fornisce al lettore un dettagliato background storico: i motivi e l'organizzazione della resistenza popolare, strategia, reclutamento, formazione e finanziamento di quella che può essere considerata la meglio organizzata guerriglia del post guerra fredda. L'autore si sofferma con dovi-

www.b92.net/en Nato come costola della Radio B92, il sito fornisce quotidianamente informazioni sulla Serbia, con un occhio particolare alla provincia kosovara. http://www.kosovocompromise.com/cms/item/ home/en.html Raccolta di informazioni e articoli sul Kosovo, Il sito è controllato direttamente dal ministero per il Kosovo di Belgrado. www.balkaninsight.com Approfondimenti, analisi e notizie sul mondo dei Balcani. Una sezione è dedicata al Kosovo.


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Regione Toscana Diritti Valori Innovazione Sostenibilità

mostra-convegno internazionale

terrafutura buone pratiche di vita, di governo e d’impresa verso un futuro equo e sostenibile

firenze - fortezza da basso

29-31 maggio 2009

abitare

VI edizione ingresso libero

produrre

• appuntamenti culturali • aree espositive • laboratori • animazioni e spettacoli

coltivare agire

governare

Terra Futura 2009 è promossa e organizzata da Fondazione Culturale Responsabilità Etica Onlus per conto del sistema Banca Etica (Banca Etica, Etica SGR, Rivista “Valori”), Regione Toscana e Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c. È realizzata in partnership con Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete, Legambiente. In collaborazione e con il patrocinio di Provincia di Firenze, Comune di Firenze, Firenze Fiera SpA, AIAB-Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica, AIEL-Associazione Italiana Energia dal Legno, Alleanza per il Clima, ANCI-Associazione Nazionale Comuni Italiani, APER-Associazione Produttori di Energia da Fonti Rinnovabili, Associazione Cultura & Progetto Sostenibili, AUSER, AzzeroCO2, Centro SIeCI-Mani Tese, CGIL Nazionale-Dipartimento Welfare e Nuovi Diritti, CIA-Confederazione italiana agricoltori, CNCA-Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, Coordinamento Agende 21 locali italiane, Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani, ENEA-Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente, Fairtrade Italia, Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali, Federbio-Federazione Italiana Agricoltura Biologica e Biodinamica, FIBA-CISL, Forum Ambientalista, GIFIGruppo Imprese Fotovoltaiche Italiane, ICEA-Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale, Istituto Italiano della Donazione, Lega delle Autonomie Locali, Kyoto Club, Metadistretto Veneto della Bioedilizia, Parlamento Europeo - Ufficio d’Informazione per l’Italia, Rete di Lilliput, Multiutility, Rete Nuovo Municipio, Touring Club Italiano, UISP-Unione Italiana Sport Per tutti, UNCEM-Unione Nazionale Comuni Comunità Enti montani, UNDP-United Nations Development Programme, UNEP-United Nations Environment Programme, UPI-Unione delle Province d’Italia, Valore Sociale, Wuppertal Institut, WWF. Media partner: Valori, AGImondoONG, Arcoiris Tv, Asca, Carta, Ecoradio, IPS-Inter Press Service, La Nuova Ecologia, Left, Radio Popolare Network, Redattore Sociale, Unimondo, Vitanon profit magazine.

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