E il mensile settembre 2011

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO V - N°9 - SETTEMBRE 2011 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Afghanistan.11 settembre.Casta.Scuola.Guccini.Contadini SETTEMBRE 2011

hanno scritto: Violetta Bellocchio.Emanuele Bompan Alessandra Bonetti.Christian Elia.Roberto Festa Luca Galassi.Jenner Meletti.Enrico Piovesana Massimo Rebotti.Fabio Stassi.Gino Strada hanno fotografato e illustrato: Giada Connestari Paolo Castaldi.Paola De Grenet.Massimo Di Nonno Anna Godeassi.Pierluigi Longo.Fernando Moleres Ivo Saglietti•Roberta Tedeschi.Naoki Tomasini

E-IL MENSILE SETTEMBRE 2011 • EURO 4,00

Afghanistan 11 settembre Casta.Scuola Guccini Contadini



l’editoriale

stoppie e sequoie La casta costa: non è un pezzo di Sardegna deberlusconizzato, ma una realtà incontestabile e molto amara. Tanto più in tempi di crisi come quello che stiamo vivendo. Una realtà vergognosa, vista da fuori. Da dentro si oppone la solita musica, che conosciamo a memoria: attenzione alle derive qualunquistiche, ai movimenti popolari, ai girotondi, a tutto quello che mette in discussione il primato e la funzione della politica, occhio a non fare d’ogni erba un fascio. Giusto: salviamo il 20 per cento dei cani e porci che dovremmo pure chiamare onorevoli e che si definiscono nostri rappresentanti, ma da cui sempre meno ci sentiamo rappresentati. La rimanenza è fuffa, suk, telenovela, acrobazia verbale, cabaret di quint’ordine, attenzione più allo status (loro) che allo Stato (loro ma anche nostro). Sono queste miserabili stoppie che si spacciano per sequoie ad avere cancellato e vilipeso la funzione alta della politica e ad averla sostituita con una finzione, e magari fosse solo un gioco di parole. Avevo la tentazione di definire terra/terra questo numero di settembre in cui molto si tratta di terra: quella frantumata negli Usa, alla ricerca di energie alternative (gas di scisti), quella coltivata nel Tortonese con regole di solidarietà non molto diffuse, quella di Capitanata, col lavoro nero sfruttato da spietati “caporali”, quella tra Pisa e Livorno, così segnata da varie esigenze belliche. Ma c’è anche altro, a partire dal servizio di apertura. In Afghanistan è presto per parlare di primavera di Kabul e di terza via, ma anche lì gruppi sempre più numerosi di giovani si stanno muovendo e organizzando. Sono ragazzi laici, non necessariamente di sinistra, e parlano di diritti umani, di uguaglianza tra i sessi. Non stanno coi talebani né col governo di Karzai e ci tengono a dirlo, mentre nell’ombra, fuorilegge, continuano a fare proselitismo i maoisti. C’è David Cole, una delle voci americane più attente e libere, che spiega cos’abbiamo perso, a dieci anni dall’11 settembre, in nome di una sicurezza che non rassicura. C’è Francesco Guccini che si racconta nella sua casa di Pavana. C’è un bel racconto di Fabio Stassi sulla vita da pendolare. C’è un fumetto di Paolo Castaldi sulla vita da carcerato, a San Vittore. C’è un portfolio sulla scuola nel mondo. Ma, terra terra e tornando all’argomento iniziale, quanti lavori oggi in Italia consentono di intascare 15mila euro netti al mese? Nessuno, credo, o forse qualcuno, se c’è una raccomandazione della casta. Napolitano dà il buon esempio riducendo le spese del Quirinale. Il Parlamento non fa una piega. I tagli della Finanziaria colpiscono solo il welfare (ci vuole un bel coraggio, ma davvero). E un consigliere regionale calabrese guadagna sei volte più del suo omologo in Francia. E un europarlamentare italiano guadagna più del doppio di un francese, di un danese, di un finlandese. Avrà qualcosa di speciale? Lavorerà in proporzione, o meglio? Sono domande banali, nessuno di lorsignori si senta offeso. Non c’è più spazio per gli offesi, è tutto occupato dai cittadini/sudditi.

Manuela Cacciaguerra [emblema]

Gianni Mura


in questo numero 5 le storie

Vieni a farti bella di Andrea Ballone

Alla ricerca dell’incompiuto di Francesca Viscone foto di Angelo Maggio

Lasciateci studiare di Gabriella Saba

Il medico curante

46 l’intervista

Libertà perdute Dieci anni fa l’11 settembre: oggi gli Stati Uniti hanno un nuovo presidente, ma non sono riusciti a invertire la rotta rispetto all’erosione dei diritti civili. E Bagram è la nuova Guantanamo

di Carlo M. Manduca

Colloquio con David Cole di Roberto Festa

L’extraimpresa

foto di John Moore

di Manfredi Lamartina

50 l’inchiesta

12 il reportage

Ombre rosse Si oppongono all’occupazione, al governo di Karzai e ai talebani, sperano in un Afghanistan laico e democratico. Tra i giovani del Partito della Solidarietà e i militanti clandestini di Alo, che hanno le loro radici nella resistenza maoista degli anni Ottanta. Con un’intervista a Malalai Joya di Enrico Piovesana foto di Naoki Tomasini

26 l’incontro

Francesco da Pavana Io scrivo e canto canzoni e basta, dice lui, e volevo fare il giornalista. Però Guccini sa quanto i suoi brani hanno detto ai padri e continuano a dire ai figli di Jenner Meletti foto di Ivo Saglietti

36 la mappa La Repubblica dei costi a cura di Cartografare il Presente

L’odore dei soldi La casta, i suoi sprechi, le ricette sempre rimandate Colloquio con Paolo Flores d’Arcais ed Emanuele Macaluso di Massimo Rebotti illustrazione di Andrea Bersani

40 il fumetto

San Vittore Quattro metri per tre, sei letti e un tavolino: una cella del carcere che sta nel cuore di Milano. Uno spiazzante pomeriggio con chi sta dietro a quelle sbarre scritto e disegnato da Paolo Castaldi

La terra fratturata Venite in Pennsylvania per vedere l’effetto che fa la nuova frontiera dell’energia, quella ricavata dal gas di scisti. Un affare per chi perfora, un Eldorado per chi vende i terreni, molti guai per chi abita accanto ai pozzi di Emanuele Bompan foto di Giada Connestari

60 il portfolio

Fare scuola Ogni giorno, da secoli e secoli, ai quattro angoli del mondo c’è chi insegna e chi apprende (ma vale anche l’inverso). La differenza la fa ciò che sta fuori da quell’aula, la guerra per esempio di Franco Milanesi foto di Fernando Moleres, Massimo Di Nonno, Lorenzo Tugnoli, Myrto Papadopoulos, Federico Mininni, Paola De Grenet e Christian Tasso

78 il reportage Futuro contadino Entro un paio d’anni le sovvenzioni europee all’agricoltura dovranno diminuire drasticamente. Urge un nuovo modello: qualcuno, nei campi, ci sta già provando di Matteo Scanni foto di Massimo Di Nonno

Uomini e caporali Funziona così nel 90 per cento delle aziende agricole del Mezzogiorno: servono braccia per la terra e c’è chi le procura. In Puglia qualcosa si muove per contrastare chi sfrutta i nuovi schiavi di Christian Elia foto di Dino Fracchia e Michele D’Ottavio

98 il viaggio

Trammino blues Divise dal campanile, unite da una rotaia, ora dismessa. C’era una volta tra Pisa e Livorno un trenino elettrico di Luca Galassi foto di Naoki Tomasini

110 il racconto

Anatomia del pendolare Il treno parte alle 6.06. Quattro carrozze per un nome pomposo e bugiardo: la Freccia dell’Alto Lazio. Due ore ad andare e due a tornare, tra Viterbo e Roma. E un sacco di vita, dentro e in mezzo un inedito di Fabio Stassi illustrato da Pierluigi Longo

120 domani

Rete di Arturo Di Corinto Libri di Alessandra Bonetti Cinema di Barbara Sorrentini Documentario di Matteo Scanni Arte di Vito Calabretta Design di Claudia Barana La giusta causa di Massimo Rebotti Musica di Carlo Boccadoro

126 le pagine

di Emergency

le rubriche 34 Spiriti liberi di Giulio Giorello 35 Lessi di Neri Marcorè 58 Televasioni di Flavio Soriga 76 Mad in Italy di Gianni Mura 96 Pìpol di Gino&Michele 97 Decoder di Violetta Bellocchio 106 Polis di Enrico Bertolino 107 Parola mia

di Patrizia Valduga

108 Un fisico bestiale

di Bruno Giorgini

118 Buen vivir di Alfredo Somoza 119 Il capitale di Niccolò Mancini 124 La posta del cuore

di Claudio Bisio

128 Per inciso di Gino Strada

il nostro osservatorio 56 Buone nuove 74 L’Italia è una Repubblica

fondata sul lavoro

94 Casa dolce casa 104 Cessate il fuoco in copertina foto di Lorenzo Tugnoli



con noi Ivo Saglietti

E - IL MENSILE SETTEMBRE 2011

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Matteo Scanni

Giornalista e filmmaker, vive a Milano. Dal 2001 coordina la Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica. Si è occupato di sistemi criminali (O Sistema, Rizzoli), uranio impoverito (L’Italia chiamò, edizioni Ambiente), contraffazioni alimentari (Il paese del maiale, RaiTre) e Paesi Baschi (Euskal kronikak, RaiSat). Su E ha una rubrica di doc e web doc e, solo per questa volta, si è dato all’agricoltura.

Nato a Tolone, in Francia, nel 1948. Inizia a lavorare all’inizio degli anni Settanta in Italia come regista di documentari su temi sociali. Nel ‘78 si trasferisce in Francia per dedicarsi alla fotografia di reportage. Tra i suoi progetti più importanti, quello realizzato in Cile tra l’86 e l’88 durante l’ultimo periodo della dittatura di Pinochet. Ha vinto il World Press Photo nel 2011. Qui ha fotografato Francesco Guccini.

Enrico Piovesana

Nato a Perugia, inizia a occuparsi di esteri creando il sito WarNews.it. Freelance in Iraq per l’Unità e Liberazione e inviato per PeaceReporter in Afghanistan, Pakistan, Cecenia, Sud Ossezia, Sri Lanka, Birmania e Filippine. I suoi reportage sono stati pubblicati da Corriere della Sera, La Stampa, il manifesto, Famiglia Cristiana, l’Espresso, il Venerdì di Repubblica, Diario, Left e Oggi, i suoi servizi video trasmessi da “Annozero” e RaiNews24. Vincitore del Premio Baldoni 2007. È tornato a Kabul a incontrare i giovani afgani di sinistra.

Anna Godeassi Roberto Festa

Giornalista, si occupa di società e politica americana per diverse testate. Sugli Stati Uniti ha pubblicato tre libri. Il suo ultimo lavoro è un documentario sulla destra fascista ungherese, Il Cuore d’Europa. Qui ha intervistato David Cole sullo stato delle libertà civili Usa, a dieci anni dall’11 settembre.

Patrizia Valduga

È nata nel 1953. Vive a Milano. I suoi versi sono raccolti in Medicamenta (1982), Cento quartine e altre storie d’amore (1997), Prima antologia (1998), Quartine. Seconda centuria (Einaudi 2001), Requiem (2002), Postfazione a Ultimi versi di Giovanni Raboni (2006). Italiani, imparate l’italiano! è uscito di recente presso Edizioni D’If. Ha fondato nel 1988 il mensile Poesia, che ha diretto per un anno. Su E cura la rubrica Parola mia.

Illustratrice freelance e sognatrice, lavora con diverse agenzie di pubblicità e varie testate in Italia, Giappone, Corea, Gran Bretagna e Stati Uniti. Tra le sue collaborazioni: la Repubblica, Il Sole 24 Ore, Elle Decor, Glamour, Io Donna, Bravacasa, Gioia, Psychologies, Cosmopolitan, Traveller, Rolling Stone. Disegna per adulti, crea libri per l’infanzia e, per noi, illustra la Posta del cuore

Franco Milanesi

Insegna da quasi trent’anni filosofia e storia in un liceo. Si è concesso una breve pausa dalla scuola addottorandosi in Filosofia politica. Dall’esperienza di insegnamento ha spremuto un breve libro Dietro la lavagna (Giraldi, 2008). Dagli studi di dottorato ha ricavato Militanti. Un’antropologia politica del Novecento (Punto Rosso, 2010) e Ribelli e borghesi. Nazionalbolscevismo e rivoluzione conservatrice. 1914-1933 (Aracne, 2011). Suo il testo del portfolio fotografico dedicato alla scuola.

Naoki Tomasini

Nato a Bergamo 35 anni fa, risiede a Milano. Laureato in Filosofia, scopre il fotogiornalismo nel 2002, mentre presta servizio civile a Ramallah per PalestineMonitor.org di Mustafa Barghouti. Nel 2004 approda alla redazione di PeaceReporter. Da allora ha lavorato in numerosi teatri di conflitto: Gaza, Libano, Siria, Iraq, Afghanistan, Pakistan. Nel 2009 ha lasciato l’onorato desk Medio Oriente per dedicarsi a tempo pieno alla fotografia. Per noi ha viaggiato in Afghanistan e tra Pisa e Livorno.

Francesca Viscone

Vive e lavora in Calabria. Si occupa di Sud e resistenza alle mafie, manipolazione dei media, integrazione dei minori immigrati. Su queste pagine racconta la storia infinita del “non finito”.


storia 26 - Lucia Iraci

Vieni a farti bella storia raccolta da

Andrea Ballone

Lucia Iraci è originaria di Canicattì, Agrigento. Quando aveva 15 anni si è trasferita a Parigi. Dal 2001 è titolare di un negozio di acconciature di lusso a Saint-Germain-des-Prés e da cinque anni, nella periferia multietnica di Barbès, ha aperto il “Salon social Joséphine”, per le donne che normalmente non potrebbero permettersi un parrucchiere.

Taglio, tinta e piega a tre euro. Al “Salon social Joséphine” funziona così. Il negozio però non è aperto a tutte, solo alle clienti selezionate dall’assistente sociale. A Barbès, il quartiere nero di Parigi, ci sono tante donne disoccupate che crescono da sole i propri figli con 450 euro al mese. Smettono di curarsi, si chiudono in se stesse, perdono fiducia, rinunciano alla propria femminilità e arrivano a non guardarsi più nemmeno allo specchio. Io non voglio tagliare i capelli gratis, potrebbe essere umiliante. Però, offrire un servizio completo a un prezzo accessibile può essere un modo per restituire la forza di affrontare la quotidianità. Che si tratti di un colloquio di lavoro o di un appuntamento con un uomo che forse le renderà felici, rispettandole finalmente, qui chez Joséphine non si fanno distinzioni: l’amore e il lavoro sono ugualmente importanti nella vita di una donna. Ecco perché non ci limitiamo all’acconciatura, ma ci occupiamo anche del trucco e prestiamo i vestiti, sempre nuovi, mai sciupati. Un pomeriggio da noi può anche essere un regalo, non solo una necessità. A volte sono i figli a prenotare per la mamma. Le fanno una sorpresa, quando la vedono affannata dal lavoro e dagli impegni. Il salone è aperto tutti i giorni, ci lavorano una parrucchiera, una stilista e un’impiegata. Ci sono anch’io il lunedì, quando è chiuso l’altro mio negozio, quello in centro.

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A Saint-Germain-des-Prés c’è una bella atmosfera. Dalla mia vetrina vedo tre ulivi, la gente che cammina veloce e quella seduta al bistrot Au vieux colombier. Il mio è un negozio molto lussuoso, vengono gran signore e donne ricche. Conoscono bene la mia attività sociale e ne vanno orgogliose. Anzi mi danno una mano. Sono state loro a finanziarmi sin dall’inizio. Sanno che ho cominciato a fare volontariato nel tempo libero e che due anni dopo, nel 2006, ho deciso di aprire il salone nella banlieue e di fondare l’associazione “Joséphine pour la beauté des femmes”. Joséphine è il nome di mia sorella. Ho voluto renderle omaggio dopo la sua morte, perché fu lei, insieme a mia mamma, ad accogliermi quando arrivai per la prima volta in Francia. Partii dalla Sicilia che ero una ragazzina di quindici anni, e per me Parigi significava libertà. Arrivai a Saint-Germain. Il quartiere degli intellettuali era come me lo immaginavo, come lo raccontavano i libri che avevo letto. E fu Joséphine, ancora lei, a trovarmi un lavoro come parrucchiera, il suo stesso mestiere, oltre che la sua passione. Io in realtà non volevo seguire le sue orme, ma dovevo pur mantenermi. Oggi mi sento realizzata. Quando le donne di Barbès vengono da noi, si sentono ascoltate. A poco a poco si aprono: si ride e si piange, spesso nascono quell’amicizia e quella solidarietà che solo tra donne... Al Salon social entrano e trovano tranquillità. È una boule de paix, un’oasi di pace, per chi ne ha più bisogno di altri.

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storia 27 - Angelo Maggio

Alla ricerca dell’incompiuto storia raccolta da

Francesca Viscone foto

Angelo Maggio

Ho visto il non finito, per la prima volta, alle spalle del Cristo di San Luca. Era il 2004 e avevo fatto una ricerca sulla settimana santa. Una foto in particolare mi aveva colpito. La statua di Gesù risorto era di grande espressività, ma aveva come sfondo un bruttissimo fabbricato incompiuto. Ho temuto che ci sarebbero state reazioni negative tra la gente del posto. Così, insieme alle altre, l’ho mostrata al sindaco e nei bar, perché potessero scegliere le più belle per la mostra. Non ti dico il mio stupore: tutti hanno avuto parole di lode per quell’immagine, la trovavano bellissima. La gente in realtà non vedeva la costruzione interrotta, quella piazza le apparteneva, riconosceva il paese, amato e familiare. Era quella la loro identità. Si erano così assuefatti alla bruttezza del contesto che non la percepivano come tale. Ho cominciato a osservare la Calabria e le feste tradizionali in maniera diversa, a vedere cose che avevo ignorato pur essendo da sempre davanti ai miei occhi. Dal 1996 giravo per i paesi e la fotografia mi dava la possibilità di fissare i momenti più intensi delle processioni. Stavano cambiando in maniera veloce e volevo

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documentare quello che accadeva, essere un testimone. Quella foto a San Luca ha cambiato il mio modo di osservare la realtà. Per esempio, ho notato che moltissime icone di santi venivano messe nelle nicchie di case eternamente in costruzione, quasi per mettere i lavori sotto protezione. C’è una piccola statua di Padre Pio in una nicchia che fotografo almeno due volte l’anno. Trovo dentro oggettini sempre diversi, un pezzo di filo elettrico o una presa della corrente che dimostrano la lentezza dei lavori. Ci sono paesi, come San Mauro Marchesato, che hanno una percentuale di caseggiati non finiti enorme. Gli effetti durante le processioni sono bellissimi. A Petilia ci sono gli incappucciati vestiti di viola che portano le croci, il contrasto cromatico sui colori dei rustici è forte. Il manufatto non ultimato non è espressione di desiderio di ricchezza, rappresenta più che altro la delusione delle aspettative. Li chiamano “case della speranza” perché chi ha costruito questi palazzi sperava che i figli li portassero a termine e tornassero a vivere lì. Voleva compiere prima di tutto il suo dovere di genitore. Più è alta la percentuale di emigrati, maggiore è il numero di queste abitazioni lasciate a metà. I proprietari emigrati li abitano solo nel periodo della festa, appendono ai balconi le coperte buone, quelle fatte al telaio o a mano, magari di filato di seta locale, ereditate dalle nonne. Una volta le case venivano completate almeno all’interno, oggi non


Angelo Maggio è nato a Catanzaro nel 1967. Lavora come geometra nelle Ferrovie della Calabria. Ha la passione per l’etnofotografia e documenta la diffusa presenza di edifici non finiti. Si occupa anche di feste tradizionali e foto di scena.

Rosario Perricone

accade più nemmeno questo. Restano con le scale in cemento, di due bagni ne funziona uno, gli infissi ci sono su un solo piano. La costruzione va avanti per stati di avanzamento molto lenti: appena ci sono i soldi si fa qualcosa. Di solito si crea prima la struttura: le fondamenta, i pilastri, i solai per due o tre piani, lasciando ben in evidenza i ferri, con l’intenzione di far crescere ancora l’edificio. Poi si va a tamponare il pianterreno o il primo piano dove si vive e così via, se ci sono altri soldi si chiude, altrimenti si lascia così. Il boom c’è stato tra il 1970 e la metà degli anni Ottanta. Il primo condono edilizio del 1985 ha fatto conoscere il fenomeno e ha fatto sì che venissero regolarizzati persino alloggi degli anni Cinquanta. Tuttavia, anche se condonati, molti sono rimasti incompiuti. Le amministrazioni comunali non rifiutano quasi mai le licenze edilizie perché gli oneri di urbanizzazione e l’Ici rappresentano entrate importanti. L’edilizia è un grande ammortizzatore sociale. Ci sono anche opere la cui costruzione è stata bloccata dalla ’ndrangheta per mostrare il suo potere, sono immobili di privati che non hanno ceduto ai ricatti e hanno preferito andare via. Non possono essere venduti né completati, restano lì, monumenti al potere mafioso. Ma questo non accade solo ai privati. Quando a Sinopoli è stata dismessa la ferrovia, immediatamente è stato costruito un muro sui binari. Lo Stato abbandona il territorio, la ’ndrangheta avanza. La Piana di Gioia Tauro e il Marchesato, la statale 106 da Guardavalle a Bovalino, sono zone dove il non finito è maggiormente diffuso. A Caulonia persino la sede della Provincia si trova in un rustico di cemento: le istituzioni si sono insediate in un simbolo di incuria, di degrado. Anche l’ultima campagna elettorale ha avuto come protagonisti i fabbricati incompiuti: ci sono gigantografie di politici alte quanto i quattro piani rustici che fanno da cornice. A volte si vedono anche grappoli di peperoncino o pomodori

appesi a seccare al sole sulle facciate senza intonaco. Stilo ha solo 500 metri di spiaggia, eppure i Ruga sono riusciti a costruire quasi sulla sabbia due villette gemelle, dopo che nel 1982 avevano ottenuto il permesso per innalzare due chioschetti amovibili. Come ha raccontato Vincenzo Imperitura, le ville sono state sequestrate dalla Procura, dissequestrate dopo sedici anni e restituite ai proprietari con l’ordine di abbatterle. Sei anni dopo il Comune ha chiesto l’intervento dell’esercito, ma nessuna ditta ha voluto mettersi contro questa famiglia. Dopo trent’anni sono state acquisite d’ufficio dall’ente locale ma si attende ancora l’abbattimento. Ci sono palazzacci che mi sono apparsi all’improvviso, senza che li cercassi. Come quello orrendo che faceva da sfondo a una statua di Gesù sopra una colonna di luce. Il non finito è come il peyote, alla fine è lui che ti trova.

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storia 28 - Francesca Giraldi

Lasciateci studiare Sarà che quando insegni psicologia, alla fine ti vedono come una psicologa. Anche se io, in realtà, sono laureata in Filosofia. Sta di fatto che le mie alunne mi confidano molte cose, mi raccontano delle loro vite, a volte mi chiedono consigli pratici. Dico alunne anche se ufficialmente i corsi serali del Pertini (Istituto professionale per i servizi sociali) sono per tutti, uomini e donne. E però il 90 per cento di quelli che li frequentano sono donne. Cinque anni a studiare anatomia e cultura medica, diritto e psicologia e tecniche amministrative e alla fine si prendono quel titolo che serve per lavorare nelle strutture pubbliche e private di assistenza agli anziani, ai disabili fisici e mentali, agli ex pazienti psichiatrici. A metà giugno si è saputo che i corsi sarebbero stati chiusi, e le mie alunne si sono organizzate subito. Hanno formato gruppi su Facebook e convocato sit-in, assemblee. Sono persone semplici, né intellettuali né politicizzate. Ma attraverso questa esperienza hanno imparato quella che chiamo la crescita della consapevolezza, e a combattere per i loro diritti. La chiusura dei corsi serali è figlia dei tagli della riforma, ma ha origini molto più lontane, nel governo Prodi e anche prima. Per tutti noi è stata una doccia fredda. È vero che c’era stato questo stillicidio di soppressione dei serali negli ultimi anni, però non pensavamo certo che avrebbero soppresso una scuola così frequentata, e di eccellenza nella sua categoria, con sei classi di venticinque alunni e un numero di iscritti che tendeva a crescere. Invece, da un giorno all’altro, ci hanno spiegato che soltanto le seconde e le quarte sarebbero andate avanti rispettivamente fino al terzo e al quinto anno, che sono gli anni della qualifica e del diploma. È una decisione che ha preso il ministero in tutta Italia, difficile da accettare, per noi professori e anche per gli alunni. Penso soprattutto alle donne che sono passate da questa scuola negli ultimi quattro anni, durante i quali ho insegnato anch’io. Donne tra i quaranta e i cinquant’anni, di estrazione sociale bassa, che avevano interrotto gli studi perché si erano sposate molto giovani e avevano cominciato a fare figli, ma che poi, una volta cresciuti i figli, hanno sentito questa voglia di riscatto, o solo il desiderio di migliorarsi, di darsi un altro senso. Penso a quelle donne che già lavoravano nei servizi sociali, ma avevano bisogno di un titolo per andare avanti e fare un po’ di carriera. Così motivate da sobbarcarsi quattro, cinque ore di lezione tutti i giorni, dalle 18.30 alle 22.30 o a volte alle 23.30. E dire che molte di loro lavorano a tempo pieno. Se penso che molte hanno dovuto superare le resistenze di mariti arcaici, spaventatissimi che le loro donne non fossero più lì a preparare la cena, o peggio ancora di trovarsi di colpo le mogli istruite, cambiate. E altroché se cambiavano. Arrivavano qui insicure, incerte, e a mano a mano diventavano padrone di sé, con un linguaggio arricchito, e la famosa consapevolezza. Chiudo gli occhi e le rivedo tutte. Un sacco di donne in gamba come Annamaria, parrucchiera a domicilio, che alla soglia dei cinquant’anni ha deciso di riprendere

a studiare, e appena può se ne va in giro per l’Italia con un’amica a vedersi concerti e spettacoli teatrali. O la ragazza nigeriana arrivata qui con la tratta che poi, grazie alla famiglia italiana che l’aveva adottata, è riuscita a frequentare i corsi: un tipo brillante, sveglio. C’erano anche ragazzi più giovani nei nostri corsi, che comunque interagivano bene con gli altri. Qualcuno, tra gli alunni e le alunne, mi dava del tu, ad altri piaceva chiamarmi prof. In ogni caso c’era una bella atmosfera. Per esempio cenavamo tutti insieme, qui nella scuola. Ordinavamo le pizze, oppure le alunne portavano qualcosa da casa, da condividere. Noi non chiediamo cose impossibili. Se hanno deciso di chiuderci non si può fare niente, chiediamo solo di portare fino in fondo le classi già avviate. Che chi ha cominciato, anche quelli che adesso fanno il primo anno, possano alla fine prendere il titolo. C’è un diritto che è stato violato ed è quello alla continuità nell’istruzione. Ed è per questo che ci siamo rivolti alla Regione. Se volesse potrebbe aiutarci, credo, ma l’assessore prima ha detto sì e poi si è tirato indietro. Quello che vogliamo è convocare un grande tavolo con la Provincia, la Regione e le associazioni di categoria. Che si organizzino perché quest’obiettivo, che non è irraggiungibile, venga raggiunto in qualche modo.

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storia raccolta da

Gabriella Saba

Francesca Giraldi, 46 anni, insegnante di psicologia, è laureata in Filosofia. «Fino a quattro anni fa ho insegnato al liceo pedagogico di San Gavino. Poi, sono passata al Pertini di Cagliari perché mi piace cambiare, ma soprattutto perché volevo misurarmi con l’insegnamento in una scuola serale per adulti. Ed è stata infatti un’esperienza molto bella. Peccato sia finita».


storia 29 - Geraldo Badona Monteiro

Il medico curante I miei occhi sono chiusi e il mio pensiero vola. Vola lontano, fino alle coste della Guinea Bissau, una delle più piccole nazioni dell’Africa continentale, tra le più povere al mondo. Sono nato lì cinquantasei anni fa, tra manghi e baobab e case coloniali portoghesi dai muri color pastello. Man mano che crescevo, ai miei occhi si palesava in tutta la sua crudezza la vera piaga della nostra società: l’assenza di sanità, le malattie. Mancava tutto: ospedali, dottori, medicine. Ho iniziato presto a coltivare il desiderio di studiare medicina, per potermi mettere al servizio dei più bisognosi. Mi sembrava la cosa più giusta da fare. Certo, per chi nasce in Africa avere la possibilità di pagarsi gli studi non è scontato. Anzi. Eppure, non ho mai perso la speranza di riuscire un giorno a realizzare il mio sogno. E quel giorno è arrivato davvero. Grazie alla generosità un avvocato di Vicenza, un amico del vescovo di Bissau, ho ricevuto una borsa di studio per venire a studiare qui in Italia. Sono arrivato a Verona nel 1975. Per prima cosa, ho dovuto imparare la lingua italiana. All’Università di Verona ho studiato Medicina e, una volta raggiunta la laurea, mi sono specializzato in Malattie infettive. Per diversi anni ho lavorato come medico tra Guinea Bissau e Burundi. Rientrato in Italia nel 1995, ho iniziato a lavorare presso il Centro di malattie tropicali di Negrar, nel Veronese, dove tuttora presto servizio. Ogni giorno visito pazienti provenienti da ogni angolo del pianeta, in particolare immigrati e missionari. Un’opportunità unica, che mi consente di condividere quotidianamente esperienze umane differenti. Mi capita spesso di assistere la mia gente: i guineani. Mi aiuta ad attenuare la nostalgia per la mia terra. Proprio questa nostalgia mi ha spinto a entrare nell’Associazione per la collaborazione allo sviluppo di base della Guinea Bissau di Verona, che sostiene i progetti

della Cooperativa Madrugada (aurora in portoghese) di Bissau. Grazie ai nostri benefattori e al costante lavoro di tutti i volontari della cooperativa, nel 2004 abbiamo costruito a Bissau un Centro medico, che comprende un poliambulatorio, un laboratorio di analisi e un laboratorio adibito alla produzione di medicinali di base a basso costo. Sono dunque orgoglioso di esser riuscito a integrarmi in un Paese sviluppato come l’Italia, ma lo sono ancora di più se penso a quello che facciamo, pian piano, per portare lo sviluppo a casa mia. Presso l’ambulatorio dell’associazione Cesaim di Verona, in qualità di medico volontario visito e assisto le persone sprovviste di permesso di soggiorno. I nostri pazienti, una volta muniti di una speciale tessera sanitaria, vengono assegnati a uno dei dottori dell’ambulatorio, che diventa il loro medico di base. Per il Cesaim ho anche collaborato con la Questura di Verona. Dovevo emettere certificati attestanti la data di ingresso in Italia delle persone irregolari per consentirne la regolarizzazione. Non dimenticherò mai quel giorno in cui una signora dell’Est Europa cui avevo consegnato uno di questi certificati tornò da me dicendomi che finalmente aveva un lavoro. Voleva darmi mille euro, il suo primo stipendio, in segno di gratitudine per l’aiuto ricevuto. Naturalmente non li accettai. Le spiegai che avevo fatto semplicemente il mio dovere. Qui in Italia sono stato aiutato a regolarizzarmi e, così, ho potuto realizzare le mie aspirazioni. A distanza di tempo ho avuto la possibilità di fare lo stesso con quella donna. Non lo avrei mai immaginato…

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storia raccolta da

Carlo M. Manduca

Geraldo Badona Monteiro (nella foto il primo in piedi da sinistra) è nato nel 1955 a Bissau, in Guinea Bissau. Laureatosi in Medicina a Verona, si è specializzato in Malattie infettive. Al Cesaim di Verona presta assistenza sanitaria agli immigrati irregolari come volontario. Attualmente è medico dirigente al Centro di malattie tropicali di Negrar, vicino a Verona.


storia 30 - Angela Roig

L’extraimpresa storia raccolta da

Manfredi Lamartina

Angela Roig è una giornalista nata ad Arequipa (Perù) nel 1979. Laureata in Scienze della comunicazione con specialistica in Giornalismo, ha frequentato un master in Management and Business Administration in Cile. Si è trasferita a Milano nell’agosto del 2007. Ha fondato il quindicinale freepress Extra Latino. Scrive inoltre per la rivista Comunidad Latina. Da gennaio di quest’anno lavora anche come ufficio stampa per la Fondazione Etholand, che con il progetto Talea si occupa di valorizzare l’immigrazione qualificata in Italia.

La tv racconta la vita italiana principalmente attraverso la pubblicità. Per noi l’Italia era quello: la cena di Natale in una casa dagli angoli smussati, abbracci e sorrisi, un panettone in tavola come un invitato atteso da un anno. Il televisore mandava le sue cartoline in sedici noni e io mi commuovevo, perché da quelle immagini vedevo una nazione con un forte senso della famiglia. Allora gli italiani sono simili a noi, pensai. Ecco perché quando arrivò il momento di lasciare il Perù scelsi l’Italia. Se mi fossi trasferita in Spagna avrei avuto dei vantaggi, lo spagnolo è la mia lingua madre, e per una giornalista sarebbe stato tutto più facile. A me però piace complicarmi la vita. Sono le sfide a scandire il passo di una persona. Se una sfida è troppo grande corri il rischio di inciampare e di cadere, facendoti male. Ma se sei in grado di restare in equilibrio, nonostante l’ostacolo sia più grande del previsto, allora andrai lontano. Quando arrivai a Milano, circa quattro anni fa, era agosto. Apprezzo la città d’estate: non c’è nessuno in giro e le strade sembrano più un invito a passeggiare che un tappeto d’asfalto per le parate delle automobili. Le difficoltà all’inizio erano tante. Noi immigrati non abbiamo una famiglia che ci prepara la pappa anche quando le cose vanno male. Però sappiamo adattarci. Così andai alla sede di una casa editrice che ogni anno pubblica una guida con le attività commerciali della comunità latinoamericana. Proposi di creare un freepress dedicato ai sudamericani che vivono a Milano. Mi piaceva l’idea di mostrare agli italiani i colori, i visi, le storie e le iniziative della mia gente. Il giornale si chiama Extra Latino, quindicinale con una tiratura di trentamila copie, che adesso è distribuito a Milano, Roma, Genova, Perugia, Bergamo, Torino. Questo è un Paese strano. Sembra che abbia paura del cambiamento. Un timore diffuso

a ogni livello. Ricordo ancora lo stupore che provai quando, appena giunta a Milano, non riuscivo a connettermi a internet col wi-fi. Persino in Perù l’accesso alla rete è capillare. In Italia, invece, no. Quasi che la paura per il nuovo costringa questa bellissima nazione ad assumere fuori tempo massimo il ruolo del vecchio che non molla. Tutto pur di non assistere a un presente che percepisce come ostile. E lo straniero appartiene al presente. Basta avere un cognome che suoni esotico alle orecchie di chi dirige un’azienda per essere scartati prima ancora di fare un colloquio di lavoro. Eppure ci sono tanti laureati tra coloro che vengono a vivere in Italia. Dare loro un’opportunità significherebbe dare all’Italia un’opportunità di futuro migliore. Intendiamoci, anche noi non siamo immuni ai pregiudizi. Quando lo scorso anno frequentai un corso di formazione per l’immigrazione qualificata, ricordo che guardavo con una certa diffidenza le comunità nordafricane. Invece la conoscenza reciproca ha sciolto ogni riserva. Per questo non sono d’accordo con chi, tra gli stranieri, sceglie la strada delle grida e delle azioni dal forte impatto mediatico per reclamare i propri diritti. Manifestazioni come queste durano un giorno o una settimana, però poi i giornali si occuperanno di altro e la situazione per gli immigrati non cambierà. Invece ci sono iniziative che durano nel lungo periodo e permettono di trovare delle vie da percorrere. Se tu gridi, insomma, griderà anche l’altro. E alla fine nessuno capirà più nulla.

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la scommessa degli Achuar Gli Achuar sono un’etnia che vive nel folto della grande foresta a cavallo tra Perù ed Ecuador, e per questo vittime designate della disputa sui confini tra i due Paesi andini, che ha già prodotto due guerre, l’ultima delle quali nel 1995. La frontiera tracciata dall’uomo bianco nel diciannovesimo secolo ha diviso un popolo a metà e assegnato a ciascuna delle due parti una “nazionalità” diversa e contrapposta. Le comunità Achuar ecuadoriane che vivono nella regione amazzonica dove si incontrano i fiumi Pastaza e Capahuari, nei pressi del confine con il Perù, stanno consolidando il controllo sul loro territorio grazie al turismo, dimostrando in modo concreto che gli indigeni sono in grado di gestire l’immenso patrimonio naturale che diversi Paesi del Sud America, come Ecuador, Brasile e Cile, hanno riconosciuto loro. Il Kapawi Eco Lodge s’inserisce in questo contesto; non è semplicemente uno dei tanti eco-alberghi nella foresta, è un progetto politico e uno strumento che genera risorse economiche per sostenere un processo di autodeterminazione. Tutta la filiera è di proprietà indigena, dall’agenzia di Quito che vende i pacchetti, all’aereo che porta i turisti nel cuore dell’Amazzonia, fino ovviamente all’albergo nella foresta e alle guide locali. Gli Achuar del Rio Pastaza dicono che, quanta più gente sceglierà di conoscere l’Amazzonia in modo sostenibile, tanto più crescerà la coscienza ambientale e la conoscenza dei diritti delle etnie che la abitano. Dicono anche di credere che la creazione di un santuario binazionale della natura possa porre fine alle ridicole dispute degli Stati per confini tracciati sulla carta e unificare di nuovo un popolo diviso artificiosamente dalla storia. La scommessa è questa. Il turismo, che spesso ha pesanti impatti culturali, economici e ambientali e in America Latina nutre ogni sorta di squali locali e internazionali, qui è invece parte di una strategia di resistenza e di sviluppo. Ogni tre mesi i gestori del sistema turistico si riuniscono con i consigli tribali della zona per decidere insieme quali opere finanziare con i profitti derivati dall’afflusso dei turisti. Parte dei ricavi serve per pagare gli studi dei ragazzi Achuar, che diventeranno guide, cuochi, manager turistici, ma anche medici, avvocati, ingegneri. Gli Achuar stanno dimostrando, nel cuore dell’Amazzonia, la validità dello slogan di Porto Alegre – “un’altra economia è possibile” – e ci ricordano quanto, oggi, le lotte di resistenza possono assumere forme inconsuete, sfruttando il mercato e mantenendo sempre saldi i valori dell’unità, dell’obiettivo condiviso e della partecipazione.

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buen vivir di

Alfredo Somoza

foto Dario Mitidieri [getty images]


la deriva dei derivati il capitale di

Niccolò Mancini

foto Spencer [getty images]

Platt

“Forze demoniache”, “finanza deviata”, “armi di distruzione di massa”. Queste sono alcune delle definizioni con cui spesso ci si riferisce ai derivati, strumenti della cosiddetta “finanza evoluta” di cui sempre più spesso si occupano le cronache dell’andamento dei mercati finanziari. Ma andiamo con ordine. L’introduzione di questi strumenti nelle Borse è avvenuta per rispondere a esigenze di protezione, cioè per fornire alle aziende e ai gestori che rinuncino a una parte del rendimento previsto la possibilità di “assicurare” i propri investimenti dalle oscillazioni impreviste dei mercati. Più semplicemente, un’azienda che acquisti prodotti in dollari avrà tutto l’interesse a proteggersi dalle oscillazioni valutarie, come un gestore che compra un’obbligazione che rende il 5 per cento potrebbe decidere di accettare un rendimento inferiore, diciamo il 4,8 per cento, assicurandosi, con quello 0,2 per cento in meno all’anno, dall’eventualità che il Paese emittente dichiari default (fallimento). Se questo era l’obiettivo, l’evoluzione è stata segnata dall’entrata in gioco, in un così ricco mercato scarsamente regolato (una manna per la speculazione), delle principali banche d’affari di Wall Street e di alcuni hedge funds (fondi altamente speculativi protagonisti, nelle fasi di rialzo ma soprattutto di ribasso, grazie a un’operatività basata principalmente sui derivati), che si sono appropriati di tali strumenti trasformandoli da difensivi in offensivi, e facendone crescere esponenzialmente il giro d’affari. Da anni le principali economie mondiali continuano a fare i conti con questi prodotti, sempre più diffusi, senza riuscire a dar loro una regolamentazione, a causa della strenua opposizione delle lobby finanziate dalle principali banche inglesi e statunitensi, che bloccano sul nascere qualsiasi ipotesi di riforma. Nemmeno la crisi del debito e il timore di fallimento di alcuni Stati sovrani – e l’Italia è tra questi – sembra sia motivo per regolamentare i derivati, lasciando operare indisturbati i collocatori di Cds (Credit default swap), quei prodotti di alta ingegneria finanziaria nati per assicurare dal possibile fallimento degli Stati che si sono trasformati, grazie alla perversa alleanza tra banche d’affari e agenzie di rating, nei possibili boia dello stesso Euro.

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SIERRA LEONE / Centro chirurgico e pediatrico di Goderich

CURIAMO PERSONE Negli ospedali di EMERGENCY ogni uomo, donna o bambino può ricevere assistenza medico-chirurgica gratuita e di elevata qualità. In 17 anni abbiamo curato oltre 4 milioni e mezzo di persone, in Paesi devastati dalla guerra e dalla povertà. Puoi sostenere EMERGENCY con una donazione regolare: garantirai cure a chi ne ha bisogno e autonomia al lavoro dei nostri medici e infermieri. EMERGENCY è una associazione indipendente. Se esistiamo dipende anche da te.

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Ombre rosse di

Enrico Piovesana

foto

Naoki Tomasini


Una nuova generazione di afgani, laica e di sinistra, si sta ribellando all’occupazione occidentale e al fondamentalismo dei talebani e dei signori della guerra tornati al potere con Karzai. I ragazzi e le ragazze del Partito della Solidarietà hanno scelto di fare politica fuori dal parlamento e sono scesi in piazza a Kabul e non solo, i militanti maoisti di Alo lavorano in clandestinità. Sono i protagonisti di una “terza via” che affonda le radici nella tradizione comunista degli shòlai, che negli anni Ottanta lottarono contro i sovietici e contro gli integralisti islamici. Della nuova generazione che dà priorità all’istruzione e alla lotta contro la povertà, l’ex parlamentare e attivista per i diritti umani Malalai Joya dice: «Fanno bene, nel mio Paese la politica si può fare soltanto tra la gente»


L’insolito assembramento “promiscuo”, pur nascosto da un filare di ciliegi selvatici, non tarda ad attirare l’attenzione dei solerti guardiani del parco armati di sfollagente verdi, che per fortuna si limitano a sorvegliare da lontano questo gruppo di ragazze e ragazzi tra i venti e i trent’anni. Studenti universitari, lavoratori, disoccupati. Vengono dalle campagne e dalle città. Sono tagichi, pashtun, hazara, uzbechi, ma per loro non fa differenza: si considerano semplicemente afgani. Alcuni si dicono comunisti, altri laici e democratici, ma sognano tutti la stessa cosa: un Afghanistan libero dall’occupazione dell’Occidente, che ha tradito ogni loro aspettativa, e dall’oscurantismo fondamentalista dei talebani e dei partiti islamici al governo, ormai sempre più vicini. Dieci anni dopo l’11 settembre e la caduta del regime talebano, una nuova generazione sta insorgendo dalle macerie di un Paese imprigionato nel suo passato, impugnando la bandiera di un futuro che oggi sembra ancora utopistico e irraggiungibile, ma che già prende vita nei pensieri e nelle azioni quotidiane di un numero sempre maggiore di giovani. Azioni semplici, ma rivoluzionarie. Come la scelta di trovarsi in pubblico, uomini e donne insieme, a Bagh-e Babur, il principale parco di Kabul, per parlare di politica con due reporter stranieri che hanno chiesto di incontrarli. Arrivando alla spicciolata all’orario convenuto si siedono sull’erba; sono una ventina, tutti attivisti del Partito della Solidarietà (Hambastaghì): formazione extraparlamentare di opposizione, nata nel 2004 su una piattaforma politica di “sinistra”. Hambastaghì è l’unico partito afgano a non essere legato ai signori della guerra del passato, a non essere espressione di minoranze etniche, a riconoscere pari dignità a uomini e donne al suo interno e soprattutto l’unico a essere composto da soli giovani. A partire dal segretario Daud Razmak, 35 anni, ex studente di Medicina originario di Farah. Lo avevamo incontrato il giorno prima nella sede nazionale del partito, un piccolo e anonimo edificio alla periferia di Kabul, frequentato da giovani militanti: uno di loro, incrociato all’ingresso, indossava una maglietta di Che Guevara. «Il Partito della Solidarietà – aveva detto Razmak – ha oltre trentamila iscritti, in continua crescita. Non facciamo politica in parlamento: abbiamo deciso di boicottare le farse elettorali messe in scena dal regime di Karzai e di lavorare tra la gente. Lo facciamo nei villaggi, con attività di alfabetizzazione e sensibilizzazione politica, e nelle città, organizzando grandi manifestazioni di piazza. Negli ultimi due anni le strade di Kabul, Jalalabad, Mazar, Herat sono state attraversate da cortei di protesta sempre più numerosi e con una crescente partecipazione delle donne. Manifestiamo contro le stragi di civili commesse dalla Nato, contro le basi permanenti che gli Stati Uniti vogliono mantenere nel Paese dopo il 2014, contro il terrorismo dei talebani e le ingerenze del Pakistan e dell’Iran, contro il regime mafioso di Karzai e contro il fondamentalismo religioso. Sono nemici molto potenti che possiamo sconfiggere non certo attraverso le elezioni, ma solo con una spinta al cambiamento dal basso, una sorta di pacifica insurrezione generale del nostro popolo».

Il futuro è nostro

I giardini di Babur, sorti nel 1528 per volere dell’omonimo imperatore Moghul che qui giace sepolto, sono un’oasi di tranquillità nel cuore della brulicante metropoli che si estende fuori dalle sue alte mura. Vista dall’alto dei giardini fioriti che si arrampicano a terrazze sulle pendici delle colline, la città quasi scompare immersa nella foschia di polvere e smog. Il primo dei giovani di Hambastaghì a prendere la parola dopo le presentazioni è Anush, occhi vispi, prossimo alla laurea in Medicina. «La priorità è cacciare dal nostro Paese gli occupanti stranieri che stanno qui da dieci anni con la scusa di aiutarci. All’inizio ci abbiamo creduto, ma ormai è evidente che ci hanno preso in

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giro. Dovevano cacciare i talebani e ora trattano con loro, dovevano portare democrazia e sviluppo e invece abbiamo un regime criminale e nessun beneficio per il nostro popolo». Fahim, ragazzone baffuto, faccia buona e sorridente, studente magistrale, è originario della provincia occidentale di Farah, controllata dalle truppe italiane. «Vi posso garantire che dalle mie parti nessuno vuole più i vostri soldati, perché ormai tutti hanno capito che non sono diversi dagli americani: sono loro complici nell’occupazione del nostro Paese e nei crimini di guerra commessi contro il nostro popolo. Nessuno dimenticherà mai i centocinquanta civili uccisi dalle bombe Nato a Bala-Baluk, dove sono gli italiani ad avere il comando». «I giovani d’Italia e degli altri Paesi occidentali dovrebbero aiutarci scendendo in piazza per chiedere la fine dell’occupazione», afferma Basira, insegnante liceale, rossetto e ciuffi ribelli in fuga da un velo turchese.

«Dopo per noi non sarà facile, ma sapremo come cavarcela da soli». Hosman, studentessa di Economia dal viso paffuto e dai modi decisi, annuisce. «Nessuno straniero ha il diritto di decidere il futuro del nostro Paese: non solo gli Stati Uniti e l’Europa, ma nemmeno il Pakistan e l’Iran, che da trent’anni continuano a sfruttare le nostre divisioni etniche per il loro tornaconto». «Finché non abbatteremo le barriere etniche e religiose che dividono la nostra nazione – le dà ragione Noor, magrissimo agronomo dallo sguardo buono – rimarremo deboli e facile preda di ingerenze straniere». Alì, timido perito industriale con i capelli lunghi e gli occhi a mandorla distintivi della minoranza hazara, chiosa telegrafico, stringendo in mano dei fili d’erba: «L’unità nazionale è il presupposto necessario all’indipendenza del nostro Paese». Per Massouda, anche lei giovane insegnante, un velo indaco con cuoricini neri sui capelli ramati, «queste

▲ Giovani

militanti del Partito della Solidarietà (Hambastaghì) discutono di politica nell’antico parco Bagh-e Babur, a Kabul


divisioni, basate su ignoranza e pregiudizi, si possono cancellare solo dando priorità assoluta all’istruzione, alla crescita del livello culturale del nostro popolo. La seconda priorità è la lotta contro la povertà che affligge la nostra nazione». «Sapete cosa farei io?», si lancia in un inglese zoppicante Faiz, studente magistrale, sguardo vivace e calvizie incipiente. «Farei una bella legge per confiscare tutti i patrimoni illeciti, frutto della corruzione e del narcotraffico accaparrati dai nostri politici, e poi li distribuirei al popolo». «Ma questo è socialismo!», chiosa ironico Omid, giovane diplomato vestito in jeans e T-shirt. «Io mi riterrei già soddisfatto da una nuova Costituzione laica, non islamica come quella che abbiamo oggi: una Costituzione che garantisca libertà e diritti fondamentali e soprattutto parità tra uomini e donne». Hosman lo interrompe brusca, guardandolo dritto negli occhi: «Prima di essere sancita dalla legge, l’uguaglianza tra uomini e donne deve essere praticata in famiglia da voi maschi, sennò sono solo chiacchiere. Inizia a lasciare uscire da sola tua sorella! Tu lo fai? Eh?». «Mia sorella è libera di fare quello che vuole!», risponde un po’ piccato, Omid. «Senza il contributo di noi donne questo Paese non cambierà mai», sentenzia con un sorriso Sparkghai, laureata in Sociologia, suscitando l’approvazione delle sue compagne. Il sole sta scendendo dietro i minareti delle moschee del centro, da cui si alza l’eco sovrapposto dei canti dei muezzin che chiamano alla preghiera della sera. Ci accordiamo con alcuni studenti per proseguire la discussione l’indomani all’Università di Kabul. Purtroppo senza ragazze, visto che nel campus è vietato ogni contatto verbale tra le due metà del cielo, pena l’arresto da parte della “polizia universitaria” e l’espulsione. Stessa sorte è riservata a chi fa politica all’interno delle mura di cinta dell’ateneo.

Al Kabul Café

Il campus universitario è un grande parco ben tenuto, attraversato da viali alberati che collegano gli edifici delle diverse facoltà, il rettorato, la biblioteca e lo studentato. Nei giardini ornati da fiori e fontanelle, ragazzi e ragazze – separati – studiano sdraiati sull’erba o seduti sulle panchine. È periodo di esami, e alcune sessioni si svolgono all’aperto. Nella penombra di una pineta davanti al dipartimento di Informatica è in corso un esame di Applicazioni base: «Word, Excel, insomma il pacchetto Office», spiega con un po’ d’imbarazzo il giovane professore vestito all’occidentale. Sui vecchi banchi di legno sparsi tra gli alberi non c’è traccia di computer: solo fogli e penne. Poco più in là, nel giardino di fronte alla facoltà di Sharìa, un altro giovane


docente, barba da talebano e vestito con la tradizionale shalwar kameez, sorveglia i suoi studenti, solo maschi, impegnati in una prova scritta di Diritto islamico. Nell’affollata e buia caffetteria universitaria, divisa in due sale, maschile e femminile, ci aspetta Noor, l’agronomo, con un suo compagno di Hambastaghì, Khair, tracagnotto studente di Lingue dall’aspetto più sudamericano che afgano. Ci sono anche due loro amici, non impegnati in politica: Hesamuddin e Mujtaba, entrambi studenti alla facoltà di Inglese. Seduto ad un tavolino appartato, davanti hamburger e patatine fritte, Noor svela il vero volto dell’ateneo: «È un bel posto, sì – dice con tono placido – costruito ottant’anni fa dal padre di re Zahir Shah, Nadir; non ci sono rette da pagare, nemmeno per l’alloggio allo studentato se uno ha una media alta. Ma, d’altro canto, la qualità della didattica è molto scarsa. Ci sono pochissimi computer, i macchinari scientifici sono pezzi da museo d’epoca sovietica, i libri di testo sono vecchi di trent’anni e i professori sono poco preparati: i migliori vanno a insegnare nelle università private, dove ricevono uno stipendio migliore. Io tutte queste cose – continua Noor – le ho denunciate in un articolo per il giornale con cui collaboravo, il Bakht Daily, di proprietà del fratello del presidente, Mahmud Karzai, quello della Kabul Bank. Il pezzo non è mai stato pubblicato e io sono stato licenziato in tronco. In questo Paese non esiste libertà di stampa». «Qui di libertà e diritti ne abbiamo pochi – dice Khair – ma anche nelle vostre cosiddette democrazie, da quel che so, le cose non vanno molto bene: avete sempre più poveri e disoccupati, aumentano le disuguaglianze sociali e siete governati da mafiosi come quel Berlusconi. Ma è vero che ha una specie di harem? Non è una bella cosa! Come non lo sono tutte le immagini di donne nude che avete sui vostri giornali, nelle pubblicità e in televisione. Forse dovreste preoccuparvi anche della condizione delle donne di casa vostra». «Sì, ma almeno loro – lo interrompe Hesamuddin – sono liberi di avere contatti con le ragazze, mentre io

◀▲ L’ “ala femminile” della riunione al parco con i giovani del Partito della Solidarietà ◀ I ragazzi di Hambastaghì all’ingresso di Bagh-e Babur ▲▲▶Sessione d’esame all’aperto per gli studenti di Informatica dell’Università di Kabul ▲▶La sala maschile della caffetteria universitaria: l’unica donna è una vedova di guerra in burqa che chiede l’elemosina ▶Daud Razmak, segretario del Partito della Solidarietà ▼Manifestazioni di protesta contro l’occupazione Nato organizzate dal Partito della Solidarietà

(archivio Hambastaghì)


per esempio all’interno del campus non posso nemmeno rivolgere la parola alla mia: se ci beccano veniamo espulsi. Possiamo vederci solo in biblioteca con il pretesto di studiare insieme». «Per non parlare delle barriere etniche che impediscono i matrimoni misti», interviene Mujtaba. «Io per esempio sono hazara e mi sono innamorato di una bellissima ragazza tagica che frequenta il mio stesso corso. Vorrei chiederle di sposarci, ma so già che le nostre famiglie non sarebbero d’accordo. È una cosa assurda! I miei figli, quando ne avrò, saranno liberi di sposarsi con chi vogliono». Ostacoli culturali cui si aggiungono scarsissime occasioni di aggregazione giovanile e di vita sociale. «La sera – spiega Khair sconsolato – quando non abbiamo da studiare per gli esami, ci ritroviamo allo studentato a chiacchierare o andiamo a trovare le nostre famiglie. I locali che hanno aperto qui a Kabul sono solo per gli stranieri, noi afgani non possiamo entrarci. Vi pare giusto? Dei cinema poi non ne parliamo: proiettano solo idiozie di Bollywood. Se vogliamo vederci un bel film ci compriamo un dvd e ce lo guardiamo al computer. A me piacciono molto i film storici indiani sulla lotta d’indipendenza dalla Gran Bretagna, ma il mio preferito è Red Salut, il film sulla guerriglia maoista indiana autoprodotto dai combattenti naxaliti: mi affascina la loro storia e condivido in pieno le loro idee». Senza imbarazzo, anzi con una punta d’orgoglio, Khair si definisce comunista e ci confida il suo sogno personale: «Il motivo per cui studio le lingue straniere è quello di tradurre nella mia tutti i testi marxisti e pubblicarli clandestinamente in Afghanistan, così da renderli disponibili al mio popolo». Le parole di Kahir, come quelle di Faiz al parco, rivelano l’anima di sinistra di Hambastaghì che, non per caso, intrattiene contatti con Sel e Rifondazione in Italia, con Die Linke in Germania e con altri partiti della sinistra radicale europea. «Nel nostro partito ci sono comunisti – risponde Noor – ma anche tanti altri che sono semplicemente sinceri democratici che credono nella laicità, nella libertà, nella giustizia e nell’uguaglianza, che sognano un Afghanistan completamente diverso da quello di oggi».

Comunisti e clandestini

I sogni, più o meno di sinistra, dei ragazzi Hambastaghì non sono nati sotto un cavolo. Non sono arrivati sull’onda della recente “primavera araba” – che giudicano come segnale di speranza – né sono il frutto dell’influenza culturale occidentale degli ultimi anni. Le loro idee sono figlie di una tradizione politica ben impressa nella memoria collettiva degli afgani, seppur ignorata

dalla letteratura occidentale: quella degli shòlai, termine che identifica il movimento maoista afgano nato negli anni Sessanta contro la monarchia di Zair Shah, perseguitato come “controrivoluzionario” dal regime filosovietico del Khalq alla fine degli anni Settanta e, nel decennio successivo, protagonista di un’autonoma resistenza “partigiana”, sia contro le truppe d’invasione sovietiche sia contro i mujaheddin islamici sostenuti dagli Stati Uniti. Il principale gruppo maoista afgano, Sazmàn-i Rihayì Afghanistàn (Organizzazione per la liberazione dell’Afghanistan, Alo la sigla in inglese), è attivo ancora oggi, nella più assoluta clandestinità. Decimati dal Khalq, dai russi e dai fondamentalisti negli anni Ottanta, all’inizio degli anni Novanta i pochi militanti sopravvissuti si sono rifugiati nei campi profughi pachistani, come gran parte della popolazione afgana in fuga dalla guerra civile. Dopo la caduta del regime talebano, sono tornati in patria per combattere, questa volta senza armi (almeno fino a oggi), l’occupazione Nato e il fondamentalismo, sia quello dei talebani sia quello dei vecchi signori della guerra tornati al governo con Karzai. Una lotta che i vecchi shòlai hanno affidato a una nuova generazione di ragazze e ragazzi che ancora oggi credono che la versione maoista del comunismo sia l’unica soluzione radicale ai mali di un Paese che è rimasto ibernato nell’era premoderna. Chissà se rafiq (compagno, ndr) Khair conosce Alo, nata proprio all’Università di Kabul dopo i violenti scontri del 1972 all’interno del campus tra giovani fondamentalisti e studenti shòlai. «Sì, certo – risponde – ma non ho mai incontrato nessuno che ne faccia parte: è una specie di organizzazione segreta. Mi piacerebbe molto conoscerli di persona». Entrare in contatto con l’Organizzazione per la liberazione dell’Afghanistan non è impresa facile, tanto meno per un giornalista straniero. Per incontrare le nuove leve ci sono voluti alcuni colloqui introduttivi con diversi “anziani” dell’organizzazione – tutti nascosti dietro sipari che ne celavano l’identità, uno di loro in una stanza decorata con i volti di Karl Marx e Che Guevara – e il rispetto di rigide procedure di sicurezza a tutela dell’anonimato dei giovani membri dell’organizzazione. Insomma, addio incontri al parco e chiacchiere in libertà al bar. Aziz – nome “di battaglia”, volto coperto da kefiah e cappellino – ha ventiquattro anni ed è entrato in Alo nel 2002 per seguire le orme del padre, ex partigiano shòlai. È studente anche lui, Scienze informatiche, ma in un’università privata che si paga facendo due lavori diversi, uno di giorno e l’altro di notte. «Se volevo veramente imparare qualcosa non avevo altra scelta», dice, indicando il suo pc. «E poi all’università pub-

▼ Il simbolo del Partito Hambastaghì ▼▶ Pubblicazioni clandestine di propaganda politica di Alo


blica, strettamente sorvegliata dalla polizia, l’attività politica che porto avanti con gli studenti sarebbe stata impossibile. Dove sono adesso posso agire con un po’ più di libertà: l’anno scorso sono stato espulso per sei mesi su ordine dei servizi segreti, ma almeno non sono finito in galera». Il computer di Aziz è l’unico oggetto moderno di casa sua, un’abitazione molto modesta nascosta tra i vicoli e le fogne a cielo aperto di una delle periferie più povere di Kabul. Lo ha sistemato su un basso tavolino di legno da cui pende una lampadina spenta. «D’inverno lo usiamo come scaldino: ci mettiamo tutti seduti con i piedi sotto il tavolino e accendiamo la

lampadina. Vi assicuro che funziona», dice sorridendo e accendendo la luce e, già che c’è, anche il computer, non connesso a internet. «La rete non me la posso permettere – spiega – come del resto il 95 per cento della popolazione dell’Afghanistan: proprio per questo ho deciso di studiare informatica, perché spero un giorno di poter dare il mio contributo alla modernizzazione del mio Paese». Visti da qui, i giovani rivoluzionari afgani ricordano più i carbonari ottocenteschi che i loro coetanei arabi che si ribellano su blog e social network. Le rondini di questa primavera afgana non cinguettano certo su Twitter.

▲ Aziz,

giovane militante clandestino del gruppo maoista Alo, accende il suo computer ▼ Vecchie fotografie dei partigiani maoisti di Alo attivi negli anni Ottanta


Vecchi e nuovi partigiani

Giù in strada, sotto il sole abbacinante del primo pomeriggio, non c’è anima viva. Solo qualche cane randagio e bambini scalzi che giocano tra i rifiuti e la polvere. Un vento rovente entra dalla finestra gonfiando le tende come vele, insieme all’inconfondibile e petulante suono del carillon cinese che segnala la presenza di uno degli innumerevoli venditori ambulanti di gelati che sciamano per le vie di questa città. Nella penombra della stanza Salim – altro pseudonimo, altro volto coperto – rigira tra le mani una biro parlando dei suoi studi di Ingegneria all’Università di Herat, dove nel 2005, a vent’anni, è entrato in contatto con Alo. La sua attività nell’organizzazione consiste

nel tenere lezioni di marxismo e maoismo a gruppi di giovani militanti che si riuniscono clandestinamente in abitazioni private. Dalle sue parole trasuda la passione per un’ideologia apparentemente anacronistica, ma che, secondo lui e i suoi compagni, si adatta alla perfezione a un Paese semifeudale come l’Afghanistan, che giudicano molto simile alla Cina premaoista di settant’anni fa: enormi masse contadine – l’80 per cento della popolazione – afflitte da miseria e analfabetismo e dominate da ricchi latifondisti e signori della guerra, occupazione straniera – giapponese nella Cina di allora, occidentale nell’Afghanistan di oggi – e un «regime collaborazionista reazionario» al potere. «Il nostro obiettivo imme-

◀▲ Salim, militante di Alo, spiega la strategia dell’organizzazione ▲ Un “anziano” shòlai sfoglia un testo di Mao


diato – spiega Salim – è la liberazione del Paese dagli americani, dal fascismo fondamentalista dei talebani e dei criminali che siedono al governo e in parlamento. Ci auguriamo che ciò possa avvenire in modo pacifico, senza bisogno di una rivoluzione armata, perché il nostro popolo è stanco di guerre e violenze. Ma se l’America e i suoi lacchè non se ne andranno con le buone, non ci tireremo indietro». L’ortodossia ideologica di Salim si riflette anche nella “cura” che propone per il suo Paese. Spiega che lo scopo ultimo di Alo è la creazione di quella che Mao chiamava “nuova democrazia”: un governo rivoluzionario espressione dell’alleanza tra proletariato contadino e piccola borghesia progressista urbana, che faccia pro-

fonde riforme sociali ed economiche, propedeutiche alla «costruzione del socialismo sotto la guida di un forte partito comunista». Il giovane militante è altrettanto certo che si possano evitare gli errori di molti socialismi: «I tempi sono cambiati, la storia va avanti e non torna sui suoi passi. In Russia, in Cina e in altri Stati socialisti la rivoluzione ha solamente sostituito il dominio sul popolo di una classe con quello di una nuova élite. Ma – precisa, agitando la sua biro – non dobbiamo nemmeno rimanere schiavi dei tabù della falsa democrazia borghese che l’Occidente ha esportato con la forza nel nostro Paese: qui in Afghanistan è evidente che non bastano le elezioni e il multiparti-

◀▲Roya, giovane dottoressa di Alo, racconta l’attività della sua clinica di villaggio ▲ Un ex partigiano di Alo con il Kalashnikov appoggiato alla parete di casa sua


Partita persa Kabul, estate 1979. Nella foto i giocatori della squadra di calcio del Beràdar (Fratelli), nelle cui fila militavano democratici e maoisti oppositori del regime filosovietico del Khalq. Molti di loro vennero uccisi o catturati durante la fallita insurrezione di Bala Hissar del 5 agosto 1979. La squadra, decimata, non poté così presentarsi alla finale contro gli avversari storici del club filogovernativo dell’Hindukush, che vinse a tavolino.

In mostra Il viaggio in solitaria di una donna nell’Afghanistan martoriato dalla guerra. È questo il filone portante della mostra fotografica Nur/Luce appunti afghani di Monika Bulaj. In bus, a cavallo, in autostop, a piedi, o a dorso di yak, con o senza burqa, l’artista ha ricercato ciò che i media non mostrano: riti segreti, magie, transumanze, fanatismi, canzoni, dolore, santità, droga, contrabbando, povertà e un affascinante pianeta femminile. Monika Bulaj è fotografa scrittrice, documentarista, pubblica reportage sui confini delle fedi, sui popoli nomadi e diseredati, in Europa, Asia e Africa. È nata a Varsavia e vive a Trieste. Nur/Luce appunti afghani di Monika Bulaj Loggia Foscara di Palazzo Ducale, Venezia, fino all’1 ottobre Ingresso gratuito Info: 041.2747671/41

tismo per avere una vera democrazia che si realizza solo quando il potere è in mano al popolo». Nessun dubbio, per Salim, nemmeno sul paradosso e sulla difficoltà di propagandare il comunismo in un Paese che contro i comunisti ha combattuto per anni, identificandoli come il male assoluto. «La stragrande maggioranza del popolo afgano ha ben presente la differenza tra gli invasori sovietici e i loro servi afgani, che di comunista avevano solo le bandiere, e le decine di migliaia di veri comunisti shòlai che hanno sacrificato le loro vite per difendere il popolo afgano da tutti i suoi nemici: gli sfruttatori feudali, l’oppressione monarchica, la dittatura del Khalq, l’occupazione sovietica e il fascismo fondamentalista sostenuto dagli Stati Uniti». Sono altri, secondo lui, ad aver perso credibilità agli occhi degli afgani: innanzitutto l’Occidente, «che ha tradito tutte le sue false promesse svelando il suo volto imperialista», ma anche i partiti islamici a base etnica dell’ex Alleanza del Nord, che «oggi hanno la faccia tosta di presentarsi come forza d’opposizione dopo aver servito l’imperialismo americano e aver sostenuto per anni il regime collaborazionista di Karzai». Rimangono i talebani che, come riconosce il giovane ingegnere, godono ancora di una forte popolarità soprattutto nelle aree rurali: «Il problema è l’ignoranza, il fatto che molti non sanno che i talebani sono una creatura dell’America, pronta a mettersi nuovamente al suo servizio. Il nostro lavoro sta proprio nel combattere l’ignoranza, che è l’arma più potente in mano ai nostri nemici, sia fondamentalisti sia imperialisti».

Una clinica per le donne

È proprio questo che Roya, ventinove anni, militante di Alo e amante dei Beatles, cerca di fare clandestinamente nel suo villaggio pashtun in una provincia dell’Est. Le parliamo attraverso un tenda appesa al soffitto, che lei sistema continuamente per timore di scoprirsi. C’è in lei un’agitazione che i suoi compagni non mostravano, o quantomeno mascheravano bene. «Dopo essermi laureata in Medicina, sono tornata

nel mio villaggio per aprire una piccola clinica per le donne, grazie alla quale posso svolgere, oltre alla mia professione medica, anche un prezioso lavoro culturale e politico con loro. Le difficoltà sono molte perché si tratta di una comunità rurale conservatrice e tradizionalista, dove regna incontrastata l’autorità del mullah e la vita sociale e familiare è regolata dai princìpi dell’islam

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fondamentalista. A peggiorare le cose contribuiscono le truppe Nato: a forza di rastrellamenti e blitz notturni nelle case della gente, che si concludono regolarmente con l’arresto di innocenti accusati di legami con gli insorti, il sostegno ai talebani è sempre più forte». «Con le pazienti che vengono alla clinica – continua Roya – parliamo della loro condizione in famiglia, dei loro diritti negati, della situazione del Paese e della nostra organizzazione. Con il passare del tempo gli uomini del villaggio hanno iniziato a vedere dei cambiamenti nelle loro donne, e lì sono cominciati i problemi. Ogni venerdì il mullah, durante la sua predica

in moschea, lancia accuse contro la clinica, sostenendo che rappresenta una minaccia all’autorità degli uomini e alla tradizione islamica». Anche Benafshah, coetanea di Roya, milita in Alo lavorando con le donne. Da dietro il velo, parla di suo padre, partigiano shòlai ucciso dai fondamentalisti di Hekmatyar quando lei aveva solo sei anni. Poi racconta una storia che sembra un romanzo. «Io vivo a Kabul, ma sono originaria di un piccolo villaggio. Un giorno ci sono tornata per un matrimonio. C’era tutto il paese, compreso il capovillaggio: un uomo molto potente, noto ex comandante

▲ Mercato

delle pecore ai piedi dell’antica fortezza di Bala Hissar, a Kabul, teatro della fallita insurrezione organizzata da Alo il 5 agosto 1979


Un po’ di storia 1964 Re Zahir Shah concede una Costituzione liberale e avvia riforme democratiche 1965 Akram Yari fonda il movimento studentesco maoista Organizzazione della gioventù progressista (Pyo) 1968 Pyo pubblica il settimanale Fiamma Eterna (Shola-e-Jawid, da cui shòlai, chiuso dopo soli undici numeri) e organizza proteste studentesche, scioperi nelle fabbriche e rivolte contadine 1972 Violenti scontri nel campus universitario di Kabul tra studenti di Pyo e integralisti di Hekmatyar. Pyo si scioglie a causa di dissidi interni 1973 Faiz Ahmad fonda il movimento maoista Gruppo rivoluzionario dei popoli afgani (Rgpa), che nel 1979 verrà rinominato Organizzazione per la liberazione dell’Afghanistan (Alo). Golpe repubblicano del principe Daud Khan (Rivoluzione d’aprile) e instaurazione di un regime di polizia

▲ Benafshah

legge una delle lettere della sua amica: “Cara sorella, ho fatto come mi hai suggerito. Ho creato un gruppo di ragazze con le quali ci vediamo due volte a settimana, con la scusa del corso di cucito. Per favore, mandami altri libri di quelli che ti ho chiesto”

mujaheddin. Era accompagnato da sua figlia, una splendida ragazza di ventidue anni, con lo sguardo fiero di chi è consapevole e orgoglioso del proprio status sociale. Questo la rendeva invisa alle donne del villaggio, forse più invidiose che altro, poiché la ragazza era ambita come moglie dai rampolli delle più ricche famiglie della provincia». Tirando fuori dalla borsa delle lettere spiegazzate scritte a penna, Benafshah racconta di come è diventata amica della ragazza, iniziando con lei un fitto scambio epistolare. «Un giorno mi ha scritto, disperata, che il padre aveva deciso di non mandarla più a studiare e che di fronte alle sue proteste le aveva urlato: “Ecco cosa fa la scuola, insegna ai figli a ribellarsi all’autorità dei genitori!”. Io l’ho messa in guardia dicendole che suo padre, di cui lei andava tanto fiera, era in realtà un criminale di guerra e che non avrebbe tardato a rivelare la sua natura malvagia. L’ha presa male, ma poco tempo dopo i fatti mi hanno, purtroppo, dato ragione». Il padre della ragazza aveva infatti deciso di darla in moglie al nipote di uno degli uomini più potenti del Paese, e al netto rifiuto della figlia aveva reagito con grande violenza. «Suo padre l’ha picchiatta senza pietà, ma lei mi ha scritto che, pur di non sposarsi, si sarebbe suicidata. Io

le ho invece suggerito di procurarsi un documento falso che certificasse la sua sterilità, ragione sufficiente per rescindere il contratto di matrimonio. Così ha fatto, mandando su tutte le furie il padre che minacciava di ucciderla. L’avevo pregata di fuggire, ma aveva paura». Guardando i fogli che tiene in mano, Benafshah ricorda che l’amica aveva cominciato a nascondere tutte le sue lettere nel Corano personale, l’unico posto in cui nessuno poteva ficcare il naso. «Un giorno – prosegue – ha scoperto che, ogni venerdì pomeriggio di ritorno dalla moschea, suo padre riceveva in casa sua gli uomini più potenti della provincia per ubriacarsi con loro e guardare film porno. Tutto questo mentre ordinava la chiusura della scuola femminile del villaggio. La mia amica era disgustata e furiosa e io con lei. Le ho suggerito di aprire una bottega da sarta dove ricevere di nascosto le ragazze del villaggio per continuare a farle studiare. Oggi la sua sartoria è diventata una scuola clandestina e un punto di ritrovo di tutte le donne del posto, che hanno cambiato completamente idea su di lei e la considerano una sorta di eroina. Adesso vuole entrare in Alo e insegnare loro anche il marxismo». «Insomma, era ricca, felice e spensierata: le hai rovinato la vita!». «No – ci risponde lei seria – le ho aperto gli occhi».

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1978 Majid Kalakani, in disaccordo con Faiz Ahmad, esce dall’Rgpa e fonda un altro gruppo maoista, Organizzazione per l’indipendenza del popolo afgano (Sama). Golpe filosovietico del partito Khalq (Pdpa) e inizio di una sanguinosa repressione di massa dei movimenti maoisti (arresto ed esecuzione di Akram Yari) 1979 Alo organizza a Kabul l’insurrezione di Bala Hissar (5 agosto), schiacciata dal regime Khalq. Le truppe sovietiche invadono l’Afghanistan (24 dicembre): Alo e Sama avviano la resistenza armata, combattendo anche contro i fondamentalisti islamici appoggiati in segreto dagli Usa 1980 Il regime Khalq arresta e giustizia Majid Kalakani 1985 Le truppe sovietiche uccidono in combattimento il partigiano “Qubad” (il Che Guevara afgano) 1986 I fondamentalisti islamici di Hekmatyar uccidono Faiz Ahmad 1992 Ritiro sovietico e inizio della guerra civile tra partiti islamici 1996 Avvento al potere dei talebani sostenuti segretanente da Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti 2001 Invasione americana dell’Afghanistan (7 ottobre) 2004 Nasce il Partito della Solidarietà (Hambastaghì), formazione extraparlamentare di sinistra


Malalai Joya: io sto con loro «Vorrei tanto essere libera di scendere in piazza con i ragazzi di Hambastaghì per urlare tutta la mia rabbia contro i nemici del nostro popolo, ma purtroppo non posso farlo se voglio continuare a vivere e a lottare per il mio Paese». Nonostante la fama internazionale, l’attivista e scrittrice Malalai Joya, autrice di Finché avrò voce è ancora costretta a una vita in incognito, protetta dal Defense Committee, nato a questo scopo: i criminali di guerra fondamentalisti tornati al potere con Karzai, che lei ha coraggiosamente denunciato otto anni fa in parlamento, prima di essere espulsa, non gliel’hanno ancora perdonata. «Quel giorno – ricorda – mi urlarono dai loro scranni che ero una prostituta, un’infedele e una comunista. Usarono la parola shòlai, che per loro è un insulto. Invece per me, e per tanti afgani onesti e democratici, gli shòlai che sacrificarono le loro vite per combattere contro il fondamentalismo e contro gli occupanti sovietici sono degli eroi, gli unici che nella tragica storia del mio Paese non si sono sporcati le mani con il sangue del nostro popolo. Ed eroi sono anche i giovani di Alo che ancora oggi continuano a lottare clandestinamente contro gli stessi fondamentalisti e contro l’occupazione Nato, così come le ragazze e i ragazzi di Hambastaghì che scendono in piazza contro questi stessi nemici del popolo afgano. Il Partito della Solidarietà è l’unico vero partito democratico di questo Paese, governato da bestie che dovrebbero stare rinchiuse in uno zoo non in parlamento o, meglio, da criminali che dovrebbero finire davanti alla Corte penale internazionale dell’Aja, invece di essere protetti e sostenuti dalle vostre democrazie occidentali. Hambastaghì fa benissimo a non partecipare alle farse elettorali organizzate da Karzai e dalle forze d’occupazione, a questa squallida caricatura della democrazia. La politica in Afghanistan, l’ho scoperto a mie spese, si può fare soltanto fuori dal parlamento, tra la gente».

V


Conversazione con Guccini

Francesco da Pavana di

Jenner Meletti

foto

Ivo Saglietti

Dice di essere un “gattaro”. In realtà è un gatto. Ti osserva con gli occhi socchiusi e aspetta la domanda, pronto a graffiare nel caso sia troppo stupida. L’inizio non è facile. Cento parole di domanda, tre o quattro di risposta. Ma Francesco Guccini è un gatto buono. «Avete sete? Perché non apriamo una bottiglia?». Vino rosato fresco, arrivato dalla Puglia. «Do da mangiare a Paurina e Menica, le mie gatte, e sono pronto». Un tavolone pieno di libri, lui a capotavola. I gatti sono nutriti, i bicchieri sono pieni, il taccuino è pronto.

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Francesco Guccini È nato a Modena il 14 giugno 1940, quattro giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Proprio a causa della guerra ha trascorso l’infanzia e parte dell’adolescenza a Pavana, il paese dei nonni paterni sull’Appennino pistoiese dove è tornato a vivere ormai da diversi anni. Ha frequentato l’Istituto magistrale a Modena e la facoltà di Magistero Lettere a Bologna, città nella quale si è trasferito nel 1960. Per due anni ha lavorato come cronista alla Gazzetta di Modena e ha insegnato italiano per vent’anni al Dickinson College di Bologna. Ha cominciato a suonare in un’orchestra da balera e a scrivere canzoni alla fine degli anni Cinquanta. Il debutto in proprio, a nome Francesco, senza cognome, è avvenuto nel 1967 con Folk Beat n.1, l’album che contiene brani come Noi non ci saremo e Auschwitz. Da allora, nel corso della sua carriera ha pubblicato altri quindici dischi in studio e sei live. Guccini è sempre stato considerato un cantautore politico, ma gran parte delle sue canzoni sono ispirate a storie intime e personali: amori vissuti, perduti o solo sfiorati, viaggi, incontri, vino e osterie... Alternando toni malinconici e ironici, ha sondato i grandi temi esistenziali (la morte, il senso della perdita, l’inesorabilità dello scorrere del tempo, i rapporti umani, i legami familiari), spesso accostandoli a dettagli della vita quotidiana. Guccini, che si è definito “burattinaio di parole”, è anche sceneggiatore di fumetti e scrittore. Il suo esordio letterario risale al 1989. Da allora ha pubblicato dodici libri, tra racconti e romanzi, di cui cinque scritti insieme a Loriano Macchiavelli. Tra il 2007 e il 2010 sono uscite una biografia, Portavo allora un eskimo innocente (Giunti), firmata da Massimo Cotto, e un’autobiografia Non so che viso avesse (Mondadori). Si è prestato anche al cinema, recitando, tra gli altri, in Radiofreccia di Luciano Ligabue e in tre film di Leonardo Pieraccioni. Nel 2002 l’Università di Bologna gli ha conferito la laurea honoris causa in Scienze della formazione. Due anni più tardi, è stato insignito del titolo di Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana dal presidente Ciampi.

L’altro giorno, in Puglia, ho incontrato un amico, “u Gegé”. «Avevo comprato – mi ha raccontato – tre biglietti per il concerto di Francesco a Lecce, per me, mia moglie e mio figlio. Poi il mio ragazzo ha detto: ci sono due amici che non hanno i soldi per il concerto e Guccini non l’hanno mai sentito dal vivo. Allora io e mia moglie siamo rimasti a casa. È giusto che vadano i giovani ad ascoltarlo. Noi ci siamo stati tante volte». E lo diceva come se avesse consegnato non due biglietti ma una bandiera, una fiaccola, un ideale... «Questo succede forse perché sono nazionalpopolare. Certo, ho un pubblico diverso da quello che ascolta altri cantautori. I più raffinati vanno ad ascoltare Paolo Conte, i più popolari seguono Vasco, Zucchero, Ligabue. In mezzo ci sono io, che non sono raffinato come Conte e non sono rock come Vasco e compagnia. E poi ci sono canzoni che ho scritto tanto tempo fa e che funzionano ancora, perché hanno detto qualcosa ai padri e continuano a dirlo ai figli. In televisione ho visto un documentario su una famiglia innamorata di un cantante rock and roll. Padre, figlio e nipote erano vestiti tutti come il cantante, tutti gli stessi jeans, tutti lo stesso ciuffo». Non mi sembra, nel tuo caso, una questione di ciuffo. Chi manda i figli ad ascoltare Guccini lo fa perché dal palco arriva un messaggio… «Io non ho mai voluto insegnare niente a nessuno, e tantomeno lanciare messaggi. Cosa posso insegnare, io? Io canto canzoni e basta. Però, ammetto che dentro queste canzoni ci sono davvero io. Racconto me stesso e la gente che ho conosciuto. E talvolta esprimo le mie opinioni». A proposito di opinioni: “A vent’anni si è stupidi davvero”? «‘Quante balle si ha in testa a quell’età’. Io canto i miei vent’anni, non quelli di oggi. A vent’anni il mondo o è bianco o è nero. Non hai dubbi, pensi che le fedi durino in eterno e anche gli amori. Poi vai avanti nella vita e quante cose cambiano. A vent’anni si è ‘stupidi’ perché a spingere c’è un grande entusiasmo e questo entusiasmo è positivo. Certo, rispetto ai miei vent’anni, le cose sono cambiate. C’è il precariato, adesso. C’è una scuola che non funziona e provoca danni gravissimi. L’entusiasmo diventa merce rara. I nostri genitori ci facevano studiare perché nella vita facessimo un passo avanti, rispetto a loro. ‘Son della razza mia il primo che ha studiato’ (a dire il vero c’era un cugino ragioniere) e mio padre era operaio. Adesso sono invece i genitori che tengono in piedi i loro figli, a volte già con famiglia». A vent’anni, nel 1960, tu che facevi? «Il giornalista, alla Gazzetta di Modena. Ventimila lire al mese, senza contratto, e quando dopo due anni ho fatto due settimane di ferie, mi hanno dimezzato lo ‘stipendio’. Avevo il diploma di maestro elementare, preso al Carlo Sigonio di Modena, corso C, come Luciano Pavarotti, che era in quarta quando io ero in

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prima. Perché giornalista? Volevo scrivere, mi piaceva e imparando a scrivere su un giornale pensavo che un giorno avrei scritto un romanzo». Ecco un titolo del 1961. “Gli ‘stanchi’ del portico del collegio hanno paura di essere conformisti”. Servizio di Francesco Guccini. «I titoli non li facevo io. Parlavo dei ‘fighetti’ del portico del collegio, ma anche di giovani operai. Il giornale è stato però una buona scuola. Se c’erano molte notizie, Barbieri il mio capo mi faceva riempire colonne di ‘brevi’. Se le pagine erano vuote e le notizie poche, Barbieri diceva: “Francesco, devi pompare”. Ecco allora il servizio su ‘il pensionato Ugo Dondi che caduto dalla bici in via Emilia se la caverà in una settimana salvo complicazioni’ o sui ‘temporali violenti che hanno provocato buche nelle strade’. In due anni, mai un delitto. Giro di nera a piedi o in bicicletta. Ma fra stringere e pompare, imparavi a scrivere». Poi, addio a macchina da scrivere, linotype, fuori sacco. «Colpa delle ferie non pagate. Alfio Cantarelli, che sarà poi il batterista dell’Equipe 84, mi dice che nel suo complesso, I Marino’s, cercano un cantante chitarrista. È l’estate 1961, c’è già un ingaggio di due mesi alle terme di Salvarola. Io vado, cerco di portare anche un po’ di modernità. Ci chiamavamo Marino’s perché il capo era Marino, che faceva il fornaio. Poi siamo diventati i Gatti, abbiamo cambiato le divise, fatto entrare altri giovani». Ma a ventiquattro anni ti sei messo a scrivere canzoni mai sentite prima. «È vero, nel settembre 1964 ho scritto Noi non ci saremo e Auschwitz, ovvero il mondo dopo la guerra atomica e l’Olocausto. Lo confesso, non è stato facile scrivere canzoni come queste in tempi in cui i cantanti cercavano la rima fra cuore e amore. Non erano tutti banali: Gino Paoli cantava La gatta, che comunque parlava di amore». “Ancora tuona il cannone, ancora non è contenta di sangue la bestia umana…”. «La paura della guerra atomica è quasi dimenticata, ma i massacri e le guerre continuano. Io ho raccontato e continuo a raccontare, perché anche a chi ha vent’anni oggi non bastano ‘cuore/amore’. Per scrivere Auschwitz avevo letto un paio di libri – di Olocausto allora si parlava poco – e mi sono ispirato a nuove atmosfere che arrivavano dalle canzoni americane. Canzoni che vogliono raccontare qualcosa, come in passato erano quelle dei cantacronache o degli anarchici. Il vecchio e il bambino sa di fantascienza, e assieme ad Auschwitz, è finita in tante antologie scolastiche. E mi chiamano nelle scuole, questi innocenti, e mi fanno ascoltare i loro cori. Il vecchio e il bambino diventa un ‘tre quarti’ agghiacciante, sempre più veloce. E io intervengo e dico: “Calma bambini, questo non è mica un valzerone.”». La stessa foto sui manifesti dei concerti, con la barba nera. E tutti a dire: ecco il nostro Guccini, come sempre con la sua chitarra e la sua bottiglia di vino sul palco. «È un ‘marchio’, questo, che non mi disturba. Quando canti hai bisogno di sciacquarti la gola e il vino è utile. Ma in un intero concerto ne bevo meno di mezza bottiglia, bisogna essere lucidi. E poi il vino dà forza.


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Quando ero bimbo mia nonna, nei giorni in cui non c’era tanto da mangiare, mi preparava un bicchiere di vino con lo zucchero e io ci inzuppavo dentro il pane. Succedesse oggi, che scandalo…». Un altro marchio, l’eskimo. «‘Scoppiava finalmente la rivolta oppure in qualche modo mi ero rotto…’. Non è una canzone sulla rivoluzione. È un addio a una donna che avevo amato. È ironica, per prendere in giro i tentativi di questa bella ragazza di famiglia piccolo borghese di irreggimentarmi, mettendomi addosso il paletò e il ruolo ufficiale di fidanzato. Sullo sfondo c’è il Sessantotto raccontato sei anni dopo, nel ’74. L’eskimo l’avevo davvero, ma l’avevo comprato già nel 1963, quando stavo finendo il servizio militare a Trieste. Costava diecimila lire, al mercato ed era l’unico indumento che potevo permettermi, per poter tornare in borghese a casa mia. Non era ancora un simbolo. A Modena le prime manifestazioni studentesche si facevano in giacca e cravatta. L’eskimo l’ho comprato perché aveva il pelo dentro, così in inverno si stava caldi e a primavera lo staccavi e faceva da impermeabile». Tu magari non vuoi essere Maestro di nulla e tantomeno un lanciatore di messaggi. Ma guarda caso, nei concerti, quando canti La locomotiva gli applausi tirano giù i palazzi dello sport. “La fiaccola dell’anarchia... Trionfi la giustizia proletaria...”. Insomma, anche questo non è un messaggio? «Roberto Leydi, l’etnomusicologo che è stato fra i fondatori del Dams, ha definito La locomotiva “la più bella canzone popolare del dopoguerra”. L’ho scritta in mezz’ora. Solo alla fine ho capito che non aveva l’inizio e anche quello l’ho buttato giù subito. ‘Non so che viso avesse…’. Lo so anch’io, è diventata una canzone simbolo. In Italia, dove ci sono una protesta e una chitarra, è difficile che non venga cantata. Ho sempre cercato di scrivere canzoni con delle cose dentro. Tutte le sere – siamo nel 1971 – in osteria o a casa si prendeva la chitarra, si cercavano storie del passato, soprattutto quelle dell’anarchia. In questo ero aiutato da mio cugino Alberto Prandi, della Federazione anarchica di Carpi. La storia del macchinista ferroviere l’avevo letta in un libro autobiografico scritto da un operaio bolognese, Romolo Bianconi. Nel libro non si capiva se l’attacco della locomotiva contro ‘il treno pieno di signori’ fosse stato un fatto politico o il gesto di un pazzo. Non c’era nemmeno il nome del protagonista, scoprii poi che era Pietro Rigosi. Ne parlai con il mio vicino di casa, che era Il pensionato raccontato in un’altra mia canzone, e lui mi ha confermato: “A Bologna in tanti sappiamo che fu un gesto politico”. E allora mi sono messo a studiare. Con La locomotiva ho cercato di imitare il grande Pietro Gori, poeta e cantore dell’anarchia. ‘Su marciam santa canaglia/e inneggiamo all’Avvenir…’». Grand Hotel, nell’ottobre 1977, dedica la copertina a “Guccini, il padre che tutti i giovanissimi avrebbero voluto avere”. «Pensate voi che vergogna. La foto fu scattata all’osteria della Dame, da un fotografo birichino che non mi aveva detto di lavorare per Grand Hotel. Un padre di tutti i ragazzi? Ma io non mi sento nemmeno un cantante


‘impegnato’. Io sono un cantautore, uno che scrive canzoni e se le canta. Invidio i francesi, che hanno una parola molto bella, chansonnier. I latini, quando videro la prima giraffa, non ne conoscevano il nome e la chiamarono camelopardo. Ecco, cantautore mi ricorda camelopardo». Il mulino dei “Gucini”, dal quale il prozio Enrico, Amerigo, “probabilmente uscì chiudendo dietro a sé la porta verde”, è stato restaurato ed è diventato un bed and breakfast che appartiene ancora alla famiglia. Qui a quattro e cinque anni hai conosciuto l’America.

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«Ero un bimbo e me ne sono innamorato. Nel prato e oltre il ponte c’erano i carri armati che sparavano contro la linea Gotica. Ma c’erano lunghe pause e l’America per me era un cibo mai visto. I soldati aprivano scatole di ananas, pianta che qui non cresce particolarmente rigogliosa. Mi invitavano a mangiare alla loro mensa dove c’era tutto: Coca-Cola, cioccolata… E poi venivano al mulino a mangiare pastasciutta e polenta fritta. I soldati mi avevano fatto anche un giubbottino militare, con i gradi di sergente. Il prozio Enrico, che era stato in America, faceva un po’ da interprete. Qui a Pavana è iniziata la mia vita. Proprio accanto al mulino c’era un ciliegio al quale


“Invidio i francesi che hanno una parola molto bella, chansonnier. I latini quando videro la prima giraffa la chiamarono camelopardo. Ecco, cantautore mi ricorda camelopardo”

mi attaccai disperatamente quando mia mamma disse che dovevamo tornare a Modena, perché la guerra era finita e mio papà stava tornando dal campo di concentramento». Una casa in sasso sotto la statale verso Pistoia. Una Madonna di San Luca sopra l’uscio. Sembra un po’ di essere in piazza. Dalla strada là in alto infatti tanti guardano nel tuo cortile come fossero a un balcone. «Ormai arrivano anche qui, quelli che venivano a cercarmi in via Paolo Fabbri 43 a Bologna. Io non sono come tanti miei colleghi, che si fanno vedere solo se paghi il biglietto del concerto. Ragazzi che partono da Lecce per vedere se via Paolo Fabbri o Pavana esistono davvero, come puoi trattarli male? Quattro chiacchiere, un autografo, una foto assieme. Sono contenti loro e lo sono anch’io». Pausa estiva, poi ancora qualche concerto. «È il mio lavoro. Sui palchi importanti sono salito tardi, quando avevo ormai quarant’anni. Ricordo la prima volta in un palasport. Mi avevano detto: “Vieni a Varese”, ma senza dirmi dove dovevo cantare. Mi trovo lì al Palasport, io solo con la chitarra. Un panico. La paura non c’è più, l’emozione resta. Un goccio di vino, una battuta, e comincio. Le battute servono a rompere il ghiaccio e poi a legare meglio con chi è lì ad ascoltarti. Mi vengono così, non le preparo mai. Per fortuna subito dopo le dimentico». “I vecchi subiscon l’ingiuria degli anni...”. «L’altro giorno ero in macchina con un amico, vedo un anziano che attraversa e dico: “Attento a quel vecchio”. Poi mi correggo subito: “Dovrei dire attento a quel coetaneo”. Avevo 31 anni quando ho scritto Il vecchio e il bambino». Qualche aspetto positivo, nell’invecchiare, ci sarà pure. «No». No e basta? «Forse chi fa un mestiere pesante o vuoto, con la pensione ha tanto tempo libero e può mettersi a fare le cose che gli piacciono. Ma io ho avuto la fortuna di fare ciò che desideravo fin da ragazzo, come lavoro». “A vent’anni si è stupidi davvero”. E a settanta? «Per fortuna si è sempre un po’ stupidi. Certe cose si smussano, certi sogni se ne vanno. A settant’anni, per la precisione settantuno, forse l’unico sogno è sopravvivere. Ma che domande fai? Io non sono un vecchio saggio, sono solo vecchio».

Dietro le quinte Sul sito www.e-ilmensile.it trovate immagini e video dell’incontro con Francesco Guccini a Pavana.

Vorrei solo sapere... «È scesa la sera anche qui a Pavana. Basta così. Solo un consiglio, lo stesso che mi dava il capocronista Barbieri alla Gazzetta: se le notizie scarseggiano, pompa, pompa, pompa...».

E

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la macchina del fango spiriti liberi di

Giulio Giorello

“Ricordava l’albeggiare grigiastro, piovoso, con il mare agitato e la spessa nebbia del Venerdì santo 21 aprile del 1916”, quando era sbarcato sul Banna Strand da un malsicuro canotto con cui aveva lasciato il sottomarino tedesco che lo aveva trasportato al largo delle coste irlandesi: gettato in prigione, in attesa della forca (3 agosto, prigione di Pentonville, Londra), Sir Roger Casement brucia come “in un rogo crepitante” i ricordi di un’intera vita. Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura, nel recente Il sogno del celta (Einaudi, Torino) ricostruisce la parabola di questo “testardo irlandese” che venne trattato sia come “eroe” sia come “traditore”. In qualità di console britannico aveva denunciato gli orrori del Congo belga di re Leopoldo II e della foresta amazzonica tra Perù, Colombia e Brasile al tempo della raccolta del caucciù; ma in piena Guerra mondiale aveva caldeggiato un appoggio diretto della Germania alla rivolta irlandese, facendo spedire un carico di fucili tedeschi agli insorti di Dublino: si era convinto che il destino dell’Irlanda si specchiasse in quello dei popoli delle colonie, che nessuna nazione avesse il diritto di tenerne schiave altre, che gli irlandesi, invece di attendersi concessioni dal potere imperiale, avrebbero dovuto lottare per conquistarsi le loro libertà. La narrazione di Vargas Llosa diventa un’esplorazione dei meccanismi del potere, della logica perversa di ogni forma di imperialismo, dello scarto tra le belle parole dei politici di professione e la dura realtà delle cose. Gli avvenimenti sono di quasi un secolo fa, ma il “cuore di tenebra” dell’Occidente è ancora lo stesso. Casement, il coraggioso “che nuotava nei fiumi equatoriali senza paura dei coccodrilli”, è stato non solo un cittadino del mondo, ma un uomo che ha dedicato la propria vita alla costruzione di una solidarietà al di là di qualsiasi discriminazione di etnia, di religione o di sesso. Per screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica, i servizi segreti britannici fecero circolare una versione manipolata dei suoi diari, ove risultava ampiamente la sua omosessualità. Gli studiosi sono tuttora discordi sull’entità della contraffazione. Comunque, Vargas Llosa ci dice che i grandi personaggi che si scontrano con le ferree necessità della storia non sono “statue di pietra”, ma nodi di contraddizioni e di passioni. Proprio per questo il grido di libertà di Casement oggi risuona ancor più forte che nel 1916: una denuncia non solo dell’infamia perpetrata contro di lui (e per ciò stesso contro qualsiasi omosessuale), ma della vergogna costituita da qualsiasi prevaricazione di esseri umani su altri. E vale anche come risposta alle nostre domande. Vogliamo ancora parlare di globalizzazione? Può darsi: ma che non sia quella del grande capitale o delle teste coronate (ce ne sono anche in quelle che formalmente sono delle repubbliche). Vogliamo ancora parlare di pace? Sempre di più, ma al modo di Sir Roger, che detestava la violenza e tuttavia aveva appreso sulla propria pelle che non c’è pace senza giustizia.

C La copertina di The Sphere del 20 maggio 1916. Sir Roger Casement (a destra) è ritratto sul banco degli imputati insieme a Daniel Bailey nel tribunale di Bow Street a Londra. Sono accusati di alto tradimento

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quella simpatica canaglia

lessi di

Neri Marcorè

foto

Armando Rotoletti

Accettare ogni età per quella che è, con i suoi pro e contro, e viverla di conseguenza è secondo me uno dei migliori auguri che possiamo rivolgere a noi stessi e agli altri. La vecchiaia, da questo punto di vista, è probabilmente il periodo più insidioso: c’è chi si ripiega gradualmente su se stesso rinunciando a ogni ambizione e chi si ribella in modo scomposto al tempo che avanza, illudendosi di incatenarlo a colpi di festini, fondotinta e chirurgia plastica, nonostante l’alto rischio di figurare, anziché giovane, patetico e grottesco. Ognuno è libero di impostarla come meglio crede e può, ovviamente. A me piacerebbe arrivarci sapendo accettare con dignità e fierezza i capelli bianchi, le rughe e le mele cotte la sera, mantenendo al contempo giovane lo spirito e viva la curiosità verso i nuovi piaceri che la terza fase della vita regala: continuare a fare progetti senza avere l’assillo di dover dimostrare qualcosa, potersi liberare gradualmente di convenzioni ed etichette senza troppi imbarazzi o giustificazioni, riconoscere a distanza i possibili attentati agli zebedei ed evitarli con eleganza, permettersi il lusso della sincerità sempre e comunque, abbandonando ogni forma di diplomatica prudenza. Cose così. Ecco, sulla scorta di questa propensione, il vecchiaccio protagonista di Un calcio in bocca fa miracoli (Einaudi) non poteva non diventare il mio eroe già dalle prime pagine. Scorbutico, indolente, cinico e politicamente scorretto, è impossibile resistere alla sferzante ironia con cui infilza chirurgicamente i cretini e i bellimbusti in cui si imbatte. In questo svolge anche una funzione terapeutica e liberatoria, un po’ come Max Aub nei suoi Delitti esemplari, poiché ci vendica simbolicamente di tutti quei soprusi o affronti che subiamo giorno per giorno e ai quali non sempre siamo in grado di reagire prontamente e a tono. Oppure compie per noi quei dispetti meschini verso chi ci sta semplicemente antipatico: anche la vigliaccheria a volte ha il suo perché e concede le sue soddisfazioni. Vi sono pagine esilaranti, come quelle dell’agenda (perché ditemi a chi non è successo di ritrovare in un cassetto una vecchia agenda con dentro nomi di persone che non sappiamo più chi fossero né perché li conoscessimo; ecco uno dei vantaggi degli anni che passano, liberare memoria in testa cancellando dati inutili!) o del galletto di quartiere che facendo finta di niente ci prova con la figlia e che lui scoraggia in modo geniale. Altrettanto, vi sono passaggi quasi commoventi tanto sono lucidi e profondi, metafore e argomentazioni sul valore delle cose, dei comportamenti, delle persone e dei rapporti che le legano. Su tutti, lo scambio di battute sull’importanza del voto scolastico con l’antipatico barista Gastone, suo rivale nella conquista della felliniana portinaia, e quello al ristorante in cui si prende una clamorosa rivincita con la ex moglie davanti alla loro figlia. Marco Presta, ben noto a chi lo sente ruggire conigliamente ogni mattina su Radio2, è impareggiabile nelle battute che punteggiano il racconto e arguto nel costruire un impianto narrativo in cui, sdoppiandosi, a fianco dell’alter ego che rappresenta la sua parte caustica, pone quello che invece rispecchia il lato del suo animo buono e generoso, Armando, ottimista incallito. I due personaggi, legati da profonda amicizia, innescano e alimentano situazioni derivanti proprio da questa diversità di vedute, fino a quando poi, ritrovandosi solo, colui che ha sempre sostenuto il potere taumaturgico dei calci in bocca – e in virtù di questa filosofia ha seminato parecchi disastri lungo la propria esistenza – riesce ad avere la forza e il coraggio di una leggera ma significativa conversione che lo porterà a essere un uomo migliore, più buono e più soddisfatto di sé, sebbene non abbandoni il ruolo di simpatica canaglia ottuagenaria. D’accordo, qui parliamo di un romanzo, ma cambiare in meglio si può sempre, anche in età avanzata, soprattutto se si realizza che non è mai tardi per investire in affetto e amore, i quali tra l’altro, di ritorno, possono alleggerire di parecchio il peso degli anni. Eppure c’è chi in vecchiaia, anziché godersela giorno per giorno e scegliersi il meglio, trasferendo impegni e doveri ad altri, preferisce continuare a tenersi tutto in mano senza mollare di un centimetro. Tanto l’amore se serve se lo compra, che problema c’è?

Y


L’odore dei soldi di

Massimo Rebotti

È stato uno degli argomenti dell’estate. Ma anche dell’estate dell’anno scorso e degli anni precedenti. Nel 2007 La Casta, libro dei giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, furoreggiò nelle letture sotto l’ombrellone. I costi, o meglio gli sprechi, della politica sono, da Tangentopoli in poi, un tema ricorrente in Italia. A volte il dibattito segue strade già battute – le mail modello catena di Sant’Antonio che ci informano su quanto straguadagnino i parlamentari italiani, i gruppi sui social network, le inchieste giornalistiche – a volte la discussione si impenna in ondate di indignazione che tuttavia si infrangono sugli scogli del Palazzo senza lasciare traccia: a uno scandalo ne subentra sempre un altro, a una spesa abnorme ne segue una ancora più ingiustificata. A volte si sconfina nell’illecito, altre nel grottesco, il tempo passa ma l’unica costante è che non accade mai nulla. Nelle scorse settimane più di una volta un segnale diverso è sembrato a portata di mano e invece, finora, niente. Oppure rinviato a data da destinarsi: nessun taglio del numero dei parlamentari, nessuna equiparazione degli stipendi dei deputati e dei consiglieri regionali italiani a quelli dei loro colleghi europei, ancora incognite sull’abolizione delle province. Questa volta però l’aria è cupa e la crisi profonda. L’onda del disgusto per la spesa fuori controllo della politica sale, il Palazzo pare avvertirla ma non riesce – o non vuole – approvare misure inequivocabili per far capire che ha capito. Due opinioni in parte differenti e una mappa per orientarsi in un autunno già bollente in cui nessuno davvero sa come andrà a finire. Tutti adesso parlano dei costi della politica. E nella formula finisce di tutto. Ha senso mettere ogni spesa nello stesso pentolone?

Paolo Flores D’Arcais

67 anni, filosofo, editorialista de Il Fatto quotidiano e direttore della rivista Micromega.

Emanuele Macaluso

87 anni, per decenni dirigente del Partito comunista italiano (a cui si iscrisse clandestinamente nel 1941 in Sicilia). Direttore de l’Unità negli anni Ottanta, ora dirige Il Riformista.

Paolo Flores D’Arcais: «Dire ‘costo della politica’ è troppo vago. Ci sono tanti costi. Come prima cosa quelli che hanno a che fare con l’illegalità. Succede quando la politica, e capita spesso, si intreccia con il crimine. Il costo criminale della politica è enorme, un giro di denaro sul quale non ci sono statistiche affidabili per la semplice ragione che è una voce occulta, perché troppi concorrono a mantenerlo tale. Il secondo costo riguarda la zona grigia che io, di questi tempi, identifico con l’immane sistema delle consulenze, la degenerazione in assoluto più in voga nel sistema politico. Il terzo aspetto è il finanziamento ai partiti che, nonostante sia stato già bocciato dagli italiani in un referendum, esiste e persiste. L’unico finanziamento della politica per me accettabile dovrebbe riguardare la gratuità dei mezzi di comunicazione per partiti e movimenti (spot su radio e tv, spazi pubblicitari sui giornali, locali dove riunirsi e svolgere iniziative). C’è poi lo spreco di denaro per l’esibizione del potere. Magari è una quota

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Emanuele Macaluso: «Il costo della politica è un costo pubblico, nel senso che lo pagano i cittadini. All’inizio il finanziamento ai partiti, negli anni Settanta, nasceva da un’esigenza corretta, quella di sostenere le campagne elettorali. Nel tempo è diventato tutt’altro, fino alla degenerazione di Tangentopoli, che non a caso coincise con la crisi dei partiti di massa. Intendiamoci, anche prima i partiti ricevevano finanziamenti illegali: la Dc, il Psdi, chissà chi se lo ricorda, prendevano soldi dagli Stati Uniti, dalla Cia. Noi del Pci li prendevamo dall’Urss. Quei finanziamenti erano certamente illegali ma non costituivano, secondo me, una degenerazione. Tutta la storia della Prima Repubblica comunque non è paragonabile con quanto succede oggi. Il Pci era arrivato ad avere un milione e seicentomila iscritti e tutti pagavano la quota del tesseramento. Quello che voglio dire è che, oltre alla partecipazione, ai partiti è venuto meno anche l’autofinanziamento. E la corruzione individuale, a quel punto, ha galoppato. Per me c’è una differenza tra la corruzione di adesso e quella di chi intascava la tangenti per un partito. Non sto qui a dire cosa sia più grave, dico che è diverso. Mi ricordo un vecchio militante del Pci con cui ho lavorato per un certo periodo, quell’uomo viveva in una casa che


La Repubblica dei costi Organi costituzionali1

1,98

1,17

to complessivo s o C

Regioni

0,54 Province

Organi a rilevanza costituzionale2 0,53

1,66

23

Presidenza del 0,48 consiglio dei ministri

miliardi 2,5

Uffici di diretta collaborazione dei ministri 0,23 “Auto blu”

Comuni

1,00 3,07

Mil i ar

Note: 1. Gli Organi costituzionali sono composti da Presidente della Repubblica, Governo, Parlamento, Magistratura e Corte costituzionale.

3. Le consulenze sono riferite al 2009.

2. Gli Organi a rilevanza costituzionale sono composti da Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Consiglio Superiore della Magistratura e Consiglio Supremo di Difesa.

N.B. Nei costi sono compresi anche i rimborsi elettorali ai partiti, i trasferimenti per il turismo, pari opportunità, famiglia, comunicazione e affari regionali e protezione civile. Fonti: Il Sole 24 Ore, Corriere della Sera, Uil

Onorevoli stipendi

Emolumenti dei parlamentari italiani per voce di spesa Euro al mese, 2010

Diaria

4.003

Rimborso spese di viaggio

1.110

5.487

Rimborso per i rapporti con gli elettori

4.190

37

Rimborso spese telefoniche

258

Ogni scranno del parlamento corrisponde a 10 euro. Il totale dello stipendio netto mensile raggiunge 15.000 euro. Fonte: Camera dei Deputati

RICCARDO PRAVETTONI - CARTOGRAFARE IL PRESENTE 2011

Consulenze di Enti e Societa pubbliche3

1 Stime 201

di di Euro

Indennità parlamentare

Consigli di amministrazione di Enti e Società pubbliche


Sul gradino più alto d’Europa

Italia

Stipendi annui netti di un parlamentare europeo in Euro, 2005

144.084 144 084 Austria

Gran Bretagna

Olanda

106.583 106 583

Germania

Irlanda

86.126 86 126

Belgio

82.066 82 066

84.108 84 108

72.018 72 018

81.600 81 600

Danimarca

Grecia 68.575 68 575

69.264 69 264

Francia 62.779 62 779

66.433 66 433

59.640 59 640

Lussemburgo

Finlandia

Nota: Gli stipendi dei parlamentari europei sono erogati dagli Stati di appartenenza e riflettono gli stipendi dei parlamentari nazionali.

Fonte: Corriere della Sera (9 giugno)

La spesa delle Regioni...

... e gli stipendi dei consiglieri regionali

P.A. di Trento

Euro mensili al netto dei prelievi fiscali

P.A. di Bolzano

0

2.000

4.000

6.000

8.000

10.000

Val d’Aosta

Calabria

Friuli Venezia Giulia Lombardia

Puglia

Veneto

Emilia Romagna Piemonte

Molise Marche

Liguria Toscana

Spesa pro capite annuale di funzionamento di giunte e consigli (2010) Euro

Lombardia

Umbria Sicilia

Abruzzo Molise Liguria

Lazio

140

Puglia

40 10

Veneto

Basilicata

Campania Sardegna

Incremento della spesa Percentuale, 2009-2010 oltre il 15 10 a 15 5 a 10 1a5 0a1 -20 e -1

minimo Calabria

Germania

massimo minimo Francia massimo

Sicilia

Fonti: Il Sole 24 Ore, Uil

Nota: Gli stipendi dei consiglieri francesi sono determinati in base alla popolazione delle singole regioni. Fonti: L’Indro, Blitz quotidiano, rassegna stampa on line, Il Sole 24 Ore

L’escalation dei costi

Il ragioniere di Montecitorio

Retribuzione media annua dei parlamentari

Stipendi lordi annui dei dipendenti di Camera e Senato Migliaia di Euro, 2007

Euro, indicizzati al potere d’acquisto 2005 160 140

1950

1955

1960

1965

1970

1975

1980

1985

1990

1995

40 20 0

300 250

USA

100

60

2005

ITALIA

120

80

2000

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Fonti: Corriere della Sera; Boeri, T., Merlo, A., Classe dirigente - L'intreccio tra business e politica, Università Bocconi Editore, 2010

Presidente degli Stati Uniti Ragioniere di Montecitorio Presidente della Repubblica Italiana

200 150 100

Primo Ministro norvegese Collaboratore tecnico Barbiere Professore ordinario

50 0

Nota: Gli stipendi dei dipendenti di Camera e Senato sono calcolati in base al livello massimo di anzianità. Fonte: l’Espresso


minima rispetto ad altri costi, ma simbolicamente è importante. Si parla molto di auto blu, ma, da questo punto di vista, trovo che sia più significativo il numero spropositato di dirigenti che hanno alcuni enti locali. In alcune Regioni è cinque o dieci volte superiore rispetto ad altre di analogo peso: insomma ogni cosa è lasciata all’arbitrio. E intanto si moltiplicano organismi finto-democratici che generano solo gettoni di presenza. Non fanno niente, non decidono niente. Infine c’è un ultimo costo, riguarda le campagne elettorali. Negli altri Paesi ci sono tetti alle spese per partiti e candidati. Chi mente sugli esborsi e oltrepassa i limiti, perde il seggio. Se in Italia la magistratura facesse dei controlli seri, succederebbe l’ira di dio».

definire spartana è un eufemismo: un tavolo, tre sedie, poco altro. Era lui, l’ho scoperto dopo, che faceva, tra gli altri, i viaggi dall’Urss per portare i soldi al partito (a proposito, i russi ci davano dollari: se l’immagina provare a spendere dei rubli in Italia?). Per sé non ha mai tenuto uno spillo. Ora, con la scusa che i partiti non ci sono più, ma ci sono le ‘persone’... Ha presente tutta questa enfasi che si mette sulle ‘persone’? Voto la ‘persona’, prima viene la ‘persona’... Ecco, alla fine succede che uno ruba per sé».

Ogni tanto alcune battaglie sui costi della politica sembrano qualunquistiche. Paolo Flores D’Arcais: «Il rischio qualunquismo è sempre in agguato. Si affaccia quando non si fanno più distinzioni. Io penso che tutti i partiti sono pessimi, ma non penso che tutti lo siano allo stesso grado. Di una cosa tuttavia sono certo: pensare che all’interno di questo vero e proprio regime dei partiti possa scaturire la volontà di ridurre i costi della politica è un’illusione. Questo regime si basa sulla grassazione dei cittadini. Nessuna forza politica, statene certi, farà qualcosa spontaneamente. Nessuno farà nulla.

Emanuele Macaluso: «È fuori di dubbio che ci voglia una ripulitura. Altrimenti la situazione resterà immobile: da un lato un finanziamento ai partiti che sfugge ai controlli, dall’altro una contestazione radicale contro tutto e tutti. Io, per esempio, sono favorevole a ridurre gli stipendi dei parlamentari, penso che si debbano rendere uguali alla media europea. Non sono invece favorevole a investire la politica con campagne distruttive: in quel caso si fa tabula rasa e, dopo la tempesta, non resta niente. Tra l’altro, chi difende i privilegi è ben contento che esista qualcuno che fa battaglie generiche. È la miglior garanzia che niente cambi».

C’è un clima da implosione imminente. E l’indignazione cresce. Una situazione che sembra simile ai primi anni Novanta.

Andrea Bersani

Paolo Flores D’Arcais: «Adesso la crisi è più grave, siamo davanti a una Tangentopoli al quadrato. La corruzione è fuori controllo e il grado più generale di corruttela della vita pubblica è maggiore. Rispetto ai tempi di Tangentopoli, oltretutto, gli anticorpi sono fortemente indeboliti: indebolite le capacità di contrasto della magistratura o delle forze di polizia, indebolita l’attenzione degli organi di informazione, la tv in particolare. Indebolito il senso comune delle persone: al giorno d’oggi rubare è generalmente considerato meno riprovevole rispetto agli anni Novanta».

Emanuele Macaluso: «C’è un grande paradosso: Silvio Berlusconi da quasi vent’anni sostiene di condurre una campagna contro la politica e i partiti. Ebbene, al termine di questa ventennale ‘battaglia’, il costo complessivo della politica è aumentato. Bastano piccoli esempi: prima i consiglieri di quartiere non erano stipendiati, prima nessuno tra i parlamentari aveva l’autista. I partiti, da soli, non ce la faranno a intervenire sui costi della politica, tanto più che il cosiddetto – e tanto mitizzato – partito ‘liquido’ ha bisogno come l’aria di finanziamenti esterni, che si tratti di aziende, grandi o piccole, o dello Stato. Oppure crediamo veramente che bastino i due euro che i cittadini versano quando ci sono le primarie? Io penso invece che i partiti debbano avere dei soci paganti alla luce del sole e una forma di finanziamento molto controllata. Con la Seconda Repubblica invece sono emerse alcune figure sociali prima sconosciute, il consulente per esempio. Questo sì che è un costo improprio della politica ed è proprio questo il modo in cui un politico crea la propria struttura personale: ora le chiamano cricche. Prima, mi creda, non funzionava così».

H

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San Vittore

testo e illustrazioni

Paolo Castaldi

Paolo Castaldi Autore di fumetti, storyboarder e illustratore milanese, classe 1982. Debutta nel mondo del fumetto con la storia breve I will never be clean again, scritta da Adriano Barone, con il quale poi realizza The anomaly, sempre per Star Comics. Nel 2008 pubblica la storia breve Non troppo lontano edita dal comune di Settimo Milanese. Sempre nel 2008 inizia la collaborazione con Edizione Voilier, per la quale pubblica il romanzo a fumetti Nuvole rapide in due parti (2009,2010). Nel febbraio 2011 pubblica con BeccoGiallo Etenesh, L’odissea di una migrante (comparsa anche su E, numero di maggio). In veste di illustratore e storyboarder, ha collaborato con importanti client televisivi e commerciali quali Sky, Canal Jimmy, Mtv, Barilla e con vari studi creativi come Real Life Television e Studio Bozzetto.

Le carceri italiane I detenuti in Italia sono 67.961 di cui 2.930 donne e 24.954 stranieri. La capienza complessiva dei 208 istituti di detenzione nazionali è di 45.022 persone. Fra la popolazione carceraria presa in esame 31.854 persone si collocano in una fascia di istruzione compresa fra l’analfabetismo e la licenza media inferiore, mentre sono solo 625 i laureati. Sono 14.117 i detenuti che lavorano. Le attività sportive, ricreative e culturali impiegano 46.376 detenuti. Nel 2010 si sono verificati 66 suicidi, 1.134 tentati suicidi e 5.603 atti di autolesionismo. Dal 2000 fino ai primi mesi del 2011, i suicidi sono stati 631. Nel 2010 lo Stato ha speso 2.780 miliardi di euro: una media annuale di 113,04 euro per detenuto. (Dati del ministero della Giustizia, dicembre 2010)

L’incontro di un illustratore con i detenuti. La tensione, l’aria soffocante, la fisicità del carcere. E la distanza che si annulla parlando di fumetti, di immigrazione, di politica. Di libertà.







11 settembre 2001- 2011

Libertà perdute di

Roberto Festa

foto

John Moore

[getty images]

Dieci anni dopo gli Stati Uniti hanno un presidente che ha da subito dichiarato di voler chiudere l’era Bush. Neanche Obama è riuscito però a interrompere l’erosione dei diritti e l’ossessione securitaria, frutto avvelenato dell’11 settembre. Bagram, in Afghanistan, è la nuova Guantanamo; in nome della lotta al terrorismo le garanzie sono saltate, argomenta David Cole, il più strenuo difensore delle libertà civili negli Usa. E chi ha e avrà il pallino in mano è la rete di organi governativi e società private che, sulla sicurezza, ha costruito il suo potere e il suo business «L’11 settembre ha accelerato processi di limitazione della libertà in atto da decenni. Nemmeno l’elezione di un presidente ‘amico delle libertà civili’, come Barack Obama, è riuscito a frenare il fenomeno». David Cole è stato definito dal New York Times “la più importante voce contemporanea a difesa delle libertà civili”. Il suo lavoro più recente è The Torture Memos. Rationalizing the Unthinkable, analisi di come gli avvocati del governo di George W. Bush siano arrivati a offrire basi razionali a ciò che pareva tabù in una moderna democrazia: la tortura, l’uso della violenza più spregiudicata nei confronti dei detenuti. Cole è però soprattutto l’autore di Enemy Aliens: Double Standards and Constitutional Freedoms in the War on Terrorism, forse il libro più intenso sul destino dei migranti dopo l’11 settembre (come incipit del volume, Cole ha scelto la frase di un filosofo ebreo dell’Ottocento, Hermann Cohen: “Lo straniero deve essere protetto non perché membro di una famiglia, clan, comunità religiosa. Ma perché essere umano. Nello straniero, l’uomo scopre l’idea stessa di umanità”.). Dal suo ufficio di Georgetown University, dove insegna, Cole riprende ancora una volta il filo del tema che più lo appassiona: come difendere la libertà in tempi di attacco alle libertà.

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David Cole, iniziamo proprio da Barack Obama. Che giudizio dà del presidente sui temi delle libertà civili e della sicurezza nazionale post 11 settembre? «Ci sono aspetti positivi e altri meno condivisibili. Da un punto di vista politico e personale, Obama è sicuramente sensibile e aperto al tema dei diritti. Appena eletto presidente, ha fatto alcune cose importanti. Ha proibito tortura e interrogatori violenti. Ha chiuso le prigioni segrete della Cia, nelle quali l’amministrazione Bush faceva scomparire i presunti terroristi. Ha cercato di chiudere, senza successo, Guantanamo. Il fallimento non dipende comunque da Obama, ma dall’opposizione del Congresso. Il presidente ha reso anche pubblici i memorandum riservati stilati dagli avvocati del Dipartimento alla Giustizia, che autorizzavano l’uso della tortura da parte della Cia. Si tratta di un buon bilancio, soprattutto perché sin dall’inizio Obama ha cercato di veicolare un messaggio all’America: la lotta contro al Qaeda deve essere combattuta utilizzando la forza militare, ma rispettando il governo della legge. Una rivoluzione, rispetto a George W. Bush, per il quale la lotta al terrorismo doveva essere combattuta a dispetto del governo della legge». Perché allora molti gruppi per i diritti umani mostrano delusione nei confronti della politica antiterrorismo di Obama? «Appunto. Questo è l’altro lato della medaglia. La delusione dei gruppi per i diritti umani è comprensibile. Speravano che l’elezione di Obama rappresentasse un vero cambiamento di politica. Non è stato così. L’am-



ministrazione Obama ha continuato a stendere un velo di segreto e di scarsa trasparenza sulle questioni di terrorismo. Ha cercato in ogni modo di bloccare i processi richiesti dalle vittime delle extraordinary renditions, le consegne straordinarie della Cia. Ha rivendicato l’autorità di colpire gli enemy combatants, i presunti terroristi, senza però mettere in atto procedure trasparenti sulla necessità di colpirli. La cosa forse più grave è però la copertura politica che l’amministrazione di Obama ha garantito a quella di George W. Bush. Non c’è stata alcuna indagine di carattere criminale sulle violazioni dei diritti civili compiute prima del 2008. Non si è pensato a istituire una commissione indipendente che valutasse denunce di tortura, assassini mirati, incarcerazioni illegali». Negli ultimi mesi lei ha dedicato molta attenzione a quanto sta succedendo a Guantanamo, forse il simbolo della “lotta al terrore” di George Bush. Guantanamo è ancora lì, e non verrà chiuso nei prossimi mesi, come aveva annunciato Obama. Che cosa è successo? «Guantanamo è l’immagine più vera ed efficace di quanto avvenuto in America dopo l’11 settembre. Negazione dei diritti, violenza sui detenuti, manipolazione delle paure della gente. Obama voleva davvero chiudere Guantanamo. La scomparsa del carcere simbolo della war on terror era una richiesta della comunità internazionale, e al tempo stesso lo strumento per riportare sul giusto binario la politica estera americana. L’amministrazione non è però riuscita a piegare il volere del Congresso. Deputati e senatori si sono fatti portatori dell’ideologia del “non nel mio cortile”, opponendosi al trasferimento dei prigionieri di Guantanamo sul territorio americano. Si è trattato di una posizione miope, sostenuta da molti tra gli stessi democratici. Contro il Congresso, cui tocca decidere sul finanziamento per la chiusura del carcere, Obama non ha potuto nulla». Il presidente non ha colpe? «Una, soprattutto. Non avere esercitato una sufficiente pressione sul Congresso, non aver voluto usare il suo capitale politico nella battaglia su Guantanamo. Sono sicuro che se l’avesse fatto, avrebbe ottenuto un buon risultato. Obama sarebbe dovuto andare davanti al popolo americano e spiegare perché era necessario chiudere Guantanamo. Non l’ha fatto». Guantanamo non è l’unico lascito carcerario dell’11 settembre. Ce ne sono altri nel mondo, più o meno conosciuti. Uno di questi è Bagram, in Afghanistan. Che cosa se ne sa? «Da anni Guantanamo non accoglie nuovi detenuti. Questo non significa ovviamente che non siano stati fatti nuovi prigionieri, in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Yemen. Dov’è finita questa gente? In carceri più defilate, meno al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, dove è più semplice far sparire i detenuti, senza garantire loro pieno diritto alla difesa. Bagram è sicuramente uno di questi posti. Forse il più affollato, quello che desta più preoccupazioni. Gli avvocati non riescono a entrare, i detenuti non hanno ottenuto il diritto a una revisione legale delle loro posizioni. L’amministrazione Obama continua a negare questo diritto, che invece è stato riconosciuto ai detenuti di

Guantanamo. In questo senso, direi che sì, Bagram è davvero la nuova Guantanamo». Veniamo al lascito giuridico più importante dell’11 settembre: il Patriot Act, la legge antiterrorismo votata nell’ottobre 2001, e le cui disposizioni sono state più volte rinnovate in questi anni. L’ultima volta, due mesi fa, dall’amministrazione di Barack Obama. La legge riduceva drasticamente le libertà civili ed estendeva la capacità di spionaggio e indagine delle agenzie del governo. Cosa rimane, dieci anni dopo, di quel provvedimento? «Il Patriot Act è una legge molto ampia e complessa: 342 pagine. Negli anni una parte delle sue disposizioni sono state abbandonate. Altre restano in vigore. Le obiezioni di costituzionalità sollevate nel 2001 sono tuttora valide. Mi sembra che i problemi più gravi riguardino il trattamento e i diritti degli immigrati e degli stranieri in genere. La legge ha esteso enormemente il potere del governo federale di deportare o non ammettere sul suolo Usa i cittadini stranieri. Le ragioni sono varie, e spesso vaghe. Si può essere accusati di pura affiliazione a un gruppo che viene contrassegnato come terroristico o di aver dato sostegno materiale a un’organizzazione accusata di violenze (e per organizzazione si intende anche la riunione di due persone). La legge non considera il fatto che quella affiliazione, o quel sostegno, possono essere stati forniti senza il proposito di usare violenza, o anche in modo non volontario. L’abitante di un villaggio sudamericano può, per esempio, essere costretto con la violenza a fornire acqua e cibo ai gruppi della guerriglia. La legge americana non fa differenza. L’atto è punito come sostegno materiale al terrorismo. Chi lo compie non può entrare negli Stati Uniti, o è deportabile nel caso vi sia entrato». E per quanto riguarda i diritti degli indagati? «Restano molto scarsi. Il governo federale può spiare i cittadini americani senza un adeguato controllo giudiziario. Può accedere a conti bancari, transazioni commerciali, letture in biblioteca, senza chiedere alcuna autorizzazione. Le autorità non devono nemmeno dimostrare che la persona è indagata per terrorismo. C’è poi il potere del governo americano di chiudere enti di beneficenza sulla base di prove mantenute segrete, che vengono esibite nel corso di sedute a porte chiuse, dalle quali sono esclusi gli avvocati difensori. Come si vede, i problemi sono molti. E molto poco è stato fatto da Bush o da Obama per ovviare a queste violazioni». Perché l’amministrazione Obama, dopo averle rigettate, ha reintrodotto le commissioni militari create da George W. Bush? Il riferimento è ai casi di Khalid Sheikh Mohammed e di quattro altri terroristi confessi. «Si tratta di un’altra occasione persa in direzione di una normalizzazione nella lotta al terrorismo. L’amministrazione Obama era davvero sincera nella volontà di giudicare Mohammed e gli altri davanti a normali tribunali federali, e non attraverso commissioni militari, come deciso da Bush. D’altra parte questi casi avrebbero potuto reggere anche al vaglio dei giudici federali. Le prove ci sono, e sono inoppugnabili. Khalid Sheikh Mohammed ha rivendicato orgogliosamente di essere l’architetto dell’11 settembre. Un suo giudizio davanti

“Obama sarebbe dovuto andare davanti al popolo americano e spiegare perché era necessario chiudere Guantanamo. Non l’ha fatto”


[Reuters/Contrasto]

a un tribunale civile avrebbe dato più forza e legittimità alla condanna. Ancora una volta, però, ragioni di politica interna hanno piegato la volontà di Obama. Più di un membro dello Stato e della città di New York, dove avrebbe dovuto tenersi il processo, ha protestato. Non ne volevano sapere di avere Mohammed e gli altri in una prigione di Manhattan. Il Congresso ha quindi attivato norme che limitano la possibilità di celebrare i processi nei tribunali federali. A Obama non sono rimaste che due opzioni: o giudicare gli accusati davanti alle commissioni militari, o non giudicarli del tutto. Naturale che abbia scelto la prima opzione. L’opinione pubblica non avrebbe capito. Ciò non toglie che le corti federali restino i luoghi più naturali, se si vuole perseguire i sospetti di terrorismo restando dalla parte della legge». Lei citava ora l’opinione pubblica e ragioni di politica interna che condizionano la gestione della politica della sicurezza. Viene in mente la figura di Russ Feingold, l’unico senatore a votare contro il Patriot Act, strenuo difensore dei diritti, ma che non è stato riconfermato alle ultime elezioni. Gli americani continuano ad avere paura? E i politici li seguono cinicamente? «Al Congresso ci sono politici che continuano l’opera di Feingold. Penso ai senatori Patrick Lehay del Vermont e Dick Durbin dell’Illinois. Penso ad alcuni deputati: John Conyers del Michigan e Jerrold Nadler dello Stato di New York. Il problema è che sono una minoranza. Politicamente, è molto più redditizio suscitare le paure degli elettori, o seguire le richieste di una giustizia sommaria contro il terrorismo. Il problema è che le misure draconiane seguite in questi anni non hanno spesso fatto davvero giustizia».

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Le faccio una domanda cui è probabilmente impossibile dare una risposta. Senza l’11 settembre, ci sarebbe stato comunque un processo di limitazione delle libertà, negli Stati Uniti e nel mondo? «Sì, è difficile rispondere, perché non c’è la controprova. Mettiamola così. George W. Bush non era un grande amico delle libertà civili, anche prima dell’11 settembre. Avrebbe con ogni probabilità guidato il Paese sulla strada di una restrizione dei diritti. Del resto questo, negli Stati Uniti, è un processo antico, complesso, che negli ultimi decenni ha poggiato su una Corte suprema resa sempre più conservatrice dai presidenti repubblicani. Quindi, penso che sì, una limitazione ci sarebbe stata comunque. L’11 settembre ha accelerato in modo drammatico un processo in corso. Anche Barack Obama, che ha cercato di frenare questo processo, si è dovuto in qualche modo arrendere alle forze che hanno guidato la restrizione della libertà». Quali sono queste forze? «Sono quelle generalmente definite ‘complesso militarindustriale’, le forze che gestiscono le enormi risorse che questo Paese ha devoluto alla sicurezza dopo l’11 settembre. In mezzo ci sono gli organi del governo che si occupano di sicurezza nazionale, diventati più numerosi e potenti negli ultimi dieci anni; e le tante società private che continuano a guadagnare milioni di dollari negli appalti pubblici. Si tratta di gruppi e forze che hanno reso quasi impossibile la sopravvivenza delle libertà civili. Questo groviglio di interessi è il lascito più drammatico dell’11 settembre. È un’eredità con cui, temo, dovremo convivere a lungo».

B

Milano FilmFestival Anche quest’anno, per la settima volta, il Milano FilmFestival ospita la sezione Colpe di Stato, una rassegna sul mondo del cinema documentario. Qui sotto alcuni dei titoli in programma: You Don’t Like the Truth: 4 Days inside Guantanamo di Luc Côté e Patricio Henriquez. L’interrogatorio, mai visto prima, di una squadra di investigatori canadesi a un bambino detenuto nel carcere di Guantanamo. Quattro giorni di “dialogo forzato” con molte implicazioni legali e politiche. Pax Americana di Denis Delestrac. La militarizzazione dello spazio non è più fantascienza. Porteremo macchine da guerra nell’universo, aprendo la strada a scenari potenzialmente catastrofici, o rinforzeremo gli accordi internazionali di pace? A Bitter Taste of Freedom di Marina Goldovskaja e Malcolm Dixelius. Un documentario sulla giornalista russa Anna Politkovskaja che si dedicò alla ricerca della verità, sino a perdere la sua stessa vita. The Pipe di Risteard Ó Domhnaill. La storia della comunità di Rossport, remoto villaggio irlandese che resiste agli attacchi della Shell Oil. Dal 9 al 18 settembre Per informazioni: www.milanofilmfestival.it


11 settembre 2001- 2011

Libertà perdute di

Roberto Festa

foto

John Moore

[getty images]

Dieci anni dopo gli Stati Uniti hanno un presidente che ha da subito dichiarato di voler chiudere l’era Bush. Neanche Obama è riuscito però a interrompere l’erosione dei diritti e l’ossessione securitaria, frutto avvelenato dell’11 settembre. Bagram, in Afganistan, è la nuova Guantanamo; in nome della lotta al terrorismo le garanzie sono saltate, argomenta David Cole, il più strenuo difensore delle libertà civili negli Usa. E chi ha e avrà il pallino in mano è la rete di organi governativi e società private che, sulla sicurezza, ha costruito il suo potere e il suo business «L’11 settembre ha accelerato processi di limitazione della libertà in atto da decenni. Nemmeno l’elezione di un presidente ‘amico delle libertà civili’, come Barack Obama, è riuscito a frenare il fenomeno». David Cole è stato definito dal New York Times “la più importante voce contemporanea a difesa delle libertà civili”. Il suo lavoro più recente è The Torture Memos. Rationalizing the Unthinkable, analisi di come gli avvocati del governo di George W. Bush siano arrivati a offrire basi razionali a ciò che pareva tabù in una moderna democrazia: la tortura, l’uso della violenza più spregiudicata nei confronti dei detenuti. Cole è però soprattutto l’autore di Enemy Aliens: Double Standards and Constitutional Freedoms in the War on Terrorism, forse il libro più intenso sul destino dei migranti dopo l’11 settembre (come incipit del volume, Cole ha scelto la frase di un filosofo ebreo dell’Ottocento, Hermann Cohen: “Lo straniero deve essere protetto non perché membro di una famiglia, clan, comunità religiosa. Ma perché essere umano. Nello straniero, l’uomo scopre l’idea stessa di umanità”.). Dal suo ufficio di Georgetown University, dove insegna, Cole riprende ancora una volta il filo del tema che più lo appassiona: come difendere la libertà in tempi di attacco alle libertà.

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David Cole, iniziamo proprio da Barack Obama. Che giudizio dà del presidente sui temi delle libertà civili e della sicurezza nazionale post 11 settembre? «Ci sono aspetti positivi e altri meno condivisibili. Da un punto di vista politico e personale, Obama è sicuramente sensibile e aperto al tema dei diritti. Appena eletto presidente, ha fatto alcune cose importanti. Ha proibito tortura e interrogatori violenti. Ha chiuso le prigioni segrete della Cia, nelle quali l’amministrazione Bush faceva scomparire i presunti terroristi. Ha cercato di chiudere, senza successo, Guantanamo. Il fallimento non dipende comunque da Obama, ma dall’opposizione del Congresso. Il presidente ha reso anche pubblici i memorandum riservati stilati dagli avvocati del Dipartimento alla Giustizia, che autorizzavano l’uso della tortura da parte della Cia. Si tratta di un buon bilancio, soprattutto perché sin dall’inizio Obama ha cercato di veicolare un messaggio all’America: la lotta contro al Qaeda deve essere combattuta utilizzando la forza militare, ma rispettando il governo della legge. Una rivoluzione, rispetto a George W. Bush, per il quale la lotta al terrorismo doveva essere combattuta a dispetto del governo della legge». Perché allora molti gruppi per i diritti umani mostrano delusione nei confronti della politica antiterrorismo di Obama? «Appunto. Questo è l’altro lato della medaglia. La delusione dei gruppi per i diritti umani è comprensibile. Speravano che l’elezione di Obama rappresentasse un vero cambiamento di politica. Non è stato così. L’am-



ministrazione Obama ha continuato a stendere un velo di segreto e di scarsa trasparenza sulle questioni di terrorismo. Ha cercato in ogni modo di bloccare i processi richiesti dalle vittime delle extraordinary renditions, le consegne straordinarie della Cia. Ha rivendicato l’autorità di colpire gli enemy combatants, i presunti terroristi, senza però mettere in atto procedure trasparenti sulla necessità di colpirli. La cosa forse più grave è però la copertura politica che l’amministrazione di Obama ha garantito a quella di George W. Bush. Non c’è stata alcuna indagine di carattere criminale sulle violazioni dei diritti civili compiute prima del 2008. Non si è pensato a istituire una commissione indipendente che valutasse denunce di tortura, assassini mirati, incarcerazioni illegali». Negli ultimi mesi lei ha dedicato molta attenzione a quanto sta succedendo a Guantanamo, forse il simbolo della “lotta al terrore” di George Bush. Guantanamo è ancora lì, e non verrà chiuso nei prossimi mesi, come aveva annunciato Obama. Che cosa è successo? «Guantanamo è l’immagine più vera ed efficace di quanto avvenuto in America dopo l’11 settembre. Negazione dei diritti, violenza sui detenuti, manipolazione delle paure della gente. Obama voleva davvero chiudere Guantanamo. La scomparsa del carcere simbolo della war on terror era una richiesta della comunità internazionale, e al tempo stesso lo strumento per riportare sul giusto binario la politica estera americana. L’amministrazione non è però riuscita a piegare il volere del Congresso. Deputati e senatori si sono fatti portatori dell’ideologia del “non nel mio cortile”, opponendosi al trasferimento dei prigionieri di Guantanamo sul territorio americano. Si è trattato di una posizione miope, sostenuta da molti tra gli stessi democratici. Contro il Congresso, cui tocca decidere sul finanziamento per la chiusura del carcere, Obama non ha potuto nulla». Il presidente non ha colpe? «Una, soprattutto. Non avere esercitato una sufficiente pressione sul Congresso, non aver voluto usare il suo capitale politico nella battaglia su Guantanamo. Sono sicuro che se l’avesse fatto, avrebbe ottenuto un buon risultato. Obama sarebbe dovuto andare davanti al popolo americano e spiegare perché era necessario chiudere Guantanamo. Non l’ha fatto». Guantanamo non è l’unico lascito carcerario dell’11 settembre. Ce ne sono altri nel mondo, più o meno conosciuti. Uno di questi è Bagram, in Afghanistan. Che cosa se ne sa? «Da anni Guantanamo non accoglie nuovi detenuti. Questo non significa ovviamente che non siano stati fatti nuovi prigionieri, in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Yemen. Dov’è finita questa gente? In carceri più defilate, meno al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, dove è più semplice far sparire i detenuti, senza garantire loro pieno diritto alla difesa. Bagram è sicuramente uno di questi posti. Forse il più affollato, quello che desta più preoccupazioni. Gli avvocati non riescono a entrare, i detenuti non hanno ottenuto il diritto a una revisione legale delle loro posizioni. L’amministrazione Obama continua a negare questo diritto, che invece è stato riconosciuto ai detenuti di

Guantanamo. In questo senso, direi che sì, Bagram è davvero la nuova Guantanamo». Veniamo al lascito giuridico più importante dell’11 settembre: il Patriot Act, la legge antiterrorismo votata nell’ottobre 2001, e le cui disposizioni sono state più volte rinnovate in questi anni. L’ultima volta, due mesi fa, dall’amministrazione di Barack Obama. La legge riduceva drasticamente le libertà civili ed estendeva la capacità di spionaggio e indagine delle agenzie del governo. Cosa rimane, dieci anni dopo, di quel provvedimento? «Il Patriot Act è una legge molto ampia e complessa: 342 pagine. Negli anni una parte delle sue disposizioni sono state abbandonate. Altre restano in vigore. Le obiezioni di costituzionalità sollevate nel 2001 sono tuttora valide. Mi sembra che i problemi più gravi riguardino il trattamento e i diritti degli immigrati e degli stranieri in genere. La legge ha esteso enormemente il potere del governo federale di deportare o non ammettere sul suolo Usa i cittadini stranieri. Le ragioni sono varie, e spesso vaghe. Si può essere accusati di pura affiliazione a un gruppo che viene contrassegnato come terroristico o di aver dato sostegno materiale a un’organizzazione accusata di violenze (e per organizzazione si intende anche la riunione di due persone). La legge non considera il fatto che quella affiliazione, o quel sostegno, possono essere stati forniti senza il proposito di usare violenza, o anche in modo non volontario. L’abitante di un villaggio sudamericano può, per esempio, essere costretto con la violenza a fornire acqua e cibo ai gruppi della guerriglia. La legge americana non fa differenza. L’atto è punito come sostegno materiale al terrorismo. Chi lo compie non può entrare negli Stati Uniti, o è deportabile nel caso vi sia entrato». E per quanto riguarda i diritti degli indagati? «Restano molto scarsi. Il governo federale può spiare i cittadini americani senza un adeguato controllo giudiziario. Può accedere a conti bancari, transazioni commerciali, letture in biblioteca, senza chiedere alcuna autorizzazione. Le autorità non devono nemmeno dimostrare che la persona è indagata per terrorismo. C’è poi il potere del governo americano di chiudere enti di beneficenza sulla base di prove mantenute segrete, che vengono esibite nel corso di sedute a porte chiuse, dalle quali sono esclusi gli avvocati difensori. Come si vede, i problemi sono molti. E molto poco è stato fatto da Bush o da Obama per ovviare a queste violazioni». Perché l’amministrazione Obama, dopo averle rigettate, ha reintrodotto le commissioni militari create da George W. Bush? Il riferimento è ai casi di Khalid Sheikh Mohammed e di quattro altri terroristi confessi. «Si tratta di un’altra occasione persa in direzione di una normalizzazione nella lotta al terrorismo. L’amministrazione Obama era davvero sincera nella volontà di giudicare Mohammed e gli altri davanti a normali tribunali federali, e non attraverso commissioni militari, come deciso da Bush. D’altra parte questi casi avrebbero potuto reggere anche al vaglio dei giudici federali. Le prove ci sono, e sono inoppugnabili. Khalid Sheikh Mohammed ha rivendicato orgogliosamente di essere l’architetto dell’11 settembre. Un suo giudizio davanti

“Obama sarebbe dovuto andare davanti al popolo americano e spiegare perché era necessario chiudere Guantanamo. Non l’ha fatto”


[Reuters/Contrasto]

a un tribunale civile avrebbe dato più forza e legittimità alla condanna. Ancora una volta, però, ragioni di politica interna hanno piegato la volontà di Obama. Più di un membro dello Stato e della città di New York, dove avrebbe dovuto tenersi il processo, ha protestato. Non ne volevano sapere di avere Mohammed e gli altri in una prigione di Manhattan. Il Congresso ha quindi attivato norme che limitano la possibilità di celebrare i processi nei tribunali federali. A Obama non sono rimaste che due opzioni: o giudicare gli accusati davanti alle commissioni militari, o non giudicarli del tutto. Naturale che abbia scelto la prima opzione. L’opinione pubblica non avrebbe capito. Ciò non toglie che le corti federali restino i luoghi più naturali, se si vuole perseguire i sospetti di terrorismo restando dalla parte della legge». Lei citava ora l’opinione pubblica e ragioni di politica interna che condizionano la gestione della politica della sicurezza. Viene in mente la figura di Russ Feingold, l’unico senatore a votare contro il Patriot Act, strenuo difensore dei diritti, ma che non è stato riconfermato alle ultime elezioni. Gli americani continuano ad avere paura? E i politici li seguono cinicamente? «Al Congresso ci sono politici che continuano l’opera di Feingold. Penso ai senatori Patrick Lehay del Vermont e Dick Durbin dell’Illinois. Penso ad alcuni deputati: John Conyers del Michigan e Jerrold Nadler dello Stato di New York. Il problema è che sono una minoranza. Politicamente, è molto più redditizio suscitare le paure degli elettori, o seguire le richieste di una giustizia sommaria contro il terrorismo. Il problema è che le misure draconiane seguite in questi anni non hanno spesso fatto davvero giustizia».

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Le faccio una domanda cui è probabilmente impossibile dare una risposta. Senza l’11 settembre, ci sarebbe stato comunque un processo di limitazione delle libertà, negli Stati Uniti e nel mondo? «Sì, è difficile rispondere, perché non c’è la controprova. Mettiamola così. George W. Bush non era un grande amico delle libertà civili, anche prima dell’11 settembre. Avrebbe con ogni probabilità guidato il Paese sulla strada di una restrizione dei diritti. Del resto questo, negli Stati Uniti, è un processo antico, complesso, che negli ultimi decenni ha poggiato su una Corte suprema resa sempre più conservatrice dai presidenti repubblicani. Quindi, penso che sì, una limitazione ci sarebbe stata comunque. L’11 settembre ha accelerato in modo drammatico un processo in corso. Anche Barack Obama, che ha cercato di frenare questo processo, si è dovuto in qualche modo arrendere alle forze che hanno guidato la restrizione della libertà». Quali sono queste forze? «Sono quelle generalmente definite ‘complesso militarindustriale’, le forze che gestiscono le enormi risorse che questo Paese ha devoluto alla sicurezza dopo l’11 settembre. In mezzo ci sono gli organi del governo che si occupano di sicurezza nazionale, diventati più numerosi e potenti negli ultimi dieci anni; e le tante società private che continuano a guadagnare milioni di dollari negli appalti pubblici. Si tratta di gruppi e forze che hanno reso quasi impossibile la sopravvivenza delle libertà civili. Questo groviglio di interessi è il lascito più drammatico dell’11 settembre. È un’eredità con cui, temo, dovremo convivere a lungo».

B

Milano FilmFestival Anche quest’anno, per la settima volta, il Milano FilmFestival ospita la sezione Colpe di Stato, una rassegna sul mondo del cinema documentario. Qui sotto alcuni dei titoli in programma: You Don’t Like the Truth: 4 Days inside Guantanamo di Luc Côté e Patricio Henriquez. L’interrogatorio, mai visto prima, di una squadra di investigatori canadesi a un bambino detenuto nel carcere di Guantanamo. Quattro giorni di “dialogo forzato” con molte implicazioni legali e politiche. Pax Americana di Denis Delestrac. La militarizzazione dello spazio non è più fantascienza. Porteremo macchine da guerra nell’universo, aprendo la strada a scenari potenzialmente catastrofici, o rinforzeremo gli accordi internazionali di pace? A Bitter Taste of Freedom di Marina Goldovskaja e Malcolm Dixelius. Un documentario sulla giornalista russa Anna Politkovskaja che si dedicò alla ricerca della verità, sino a perdere la sua stessa vita. The Pipe di Risteard Ó Domhnaill. La storia della comunità di Rossport, remoto villaggio irlandese che resiste agli attacchi della Shell Oil. Dal 9 al 18 settembre Per informazioni: www.milanofilmfestival.it


l’inchiesta

La terra fratturata

Per gli abitanti della Pennsylvania è una miniera d’oro. Per Obama la nuova frontiera dell’energia pulita. Per la lobby del settore un affare miliardario.Viaggio tra i pozzi, i misteri e i guai del gas di scisti


«Non potete avvicinarvi, l’area è contaminata», dice un ragazzo biondo, faccia da surfista e tuta arancione. Stato della Pennsylvania, contea di Bradford, non lontano da Leroy: a meno di 200 metri da qui c’è il pozzo Atgas 2H. Lo scorso 19 aprile, guarda caso il giorno dell’anniversario del disastro petrolifero nel Golfo del Messico, a causa di un difetto di funzionamento dell’impianto, decine di migliaia di litri di

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Emanuele Bompan

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Giada Connestari


un mix di acqua, sabbia e sostanze chimiche hanno inondato i campi intorno e sono finiti nel piccolo torrente Towanda. Quel mix si chiama fracking fluid, dei danni che ha provocato l’incidente, a distanza di mesi, non si sa nulla. Atgas 2H è uno dei 2.667 pozzi di gas di scisti, shale gas in inglese, un tipo di gas naturale non convenzionale contenuto negli scisti argillosi, sedimenti di colore nero ricchi di bitumi, presenti normalmente nelle argille. Per poter intrappolare il prezioso combustibile fossile è necessario “stanarlo” dalle fessure rocciose: a questo serve la fratturazione idraulica, il gas fracking, un’operazione complessa e dispendiosa che consiste nell’iniezione ad altissima pressione di milioni di litri di fracking fluid che frantumano gli strati rocciosi per aprire una via di uscita. Gran parte del fluido chimico rimane nelle cavità, mentre la porzione che viene recuperata si riutilizza molte e molte volte, finché, supercontaminata, viene portata nei centri di smaltimento. Oggi il petrolio costa sempre di più e l’amministrazione Obama vuole acquistarne sempre meno, fino a diminuire di un terzo le importazioni. Ed è così che la scoperta di abbondanti quantità di gas naturale, concentrate nel Nordest degli Stati Uniti, nelle due super riserve Marcellus Shale (500 triliardi di metri cubi di gas nel sottosuolo di Pennsylvania, Ohio e New York State) e Utica Shale (in fase di esplorazione), ha dato inizio a una nuova corsa all’oro. Blu questa volta. Un affare da capogiro: secondo un report della banca d’affari AltaCorp Capital Inc., il gas naturale potrebbe diventare la fonte primaria di energia del pianeta. Ovunque a Los Angeles, New York o Washington D.C., si possono vedere autobus con la scritta “alimentato con gas naturale pulito” ed è solo uno dei tanti spazi pubblicitari comprati dalla lobby del gas per promuovere una fonte “ecologica e abbondante”. Inutile dire che le azioni delle compagnie del settore del gas sono in costante crescita. Tutto bene allora? O gli incidenti come quello di Leroy potrebbero essere solo la punta dell’iceberg?

Una boccata di gas

Craig Sautner, 58 anni, vive in una casa di legno nei boschi di Dimock, contea di Susquehanna, nel Nordest della Pennsylvania. Un’abitazione semplice, alle finestre tende di cotone, come nelle altre case della zona. Il suo giardino è costellato di scritte contro il gas fracking, poste attorno a uno dei camini di sfiato del metano, uno dei tanti pozzi di respirazione che appaiono ovunque. “Don’t frack with us”, recita uno di questi. Non lontano da questo giardino si pompa rumorosamente gas di scisti. «Sono arrivati tre anni fa – racconta Sautner – e hanno iniziato a trivellare con il fracking ovunque. L’acqua ha cominciato a cambiare colore e abbiamo smesso di berla: ci hanno trovato dentro numerose tracce di agenti chimici, oltre a elevate dosi di un idrocarburo, il metano. Da allora la Cabot, la compagnia proprietaria del pozzo, ha installato una cisterna per l’acqua e due volte alla settimana ci consegna taniche di acqua potabile. Tra il rumore, le sostanze tossiche e il traffico di mezzi pesanti, la mia vita qui però è cambiata per sempre. E di certo rischiamo di ammalarci». Tra i vicini qualcuno comincia ad accusare strani sintomi. Come Norma Fiorentino, origini italiane e due nipoti, che vive non lontano da Craig. Al telefono si scusa: «Non vi posso ricevere, scusate, oggi sto malissimo». Al momento (vedi box, ndr) non esistono studi medici completi sugli effetti delle operazioni di fratturazione idraulica, ma molte persone che abitano nei pressi dei pozzi hanno accusato nausea, dolori e forti emorragie dal naso. In molte zone ad alta densità di pozzi sono stati registrati livelli elevati di benzene, un potente agente cancerogeno. Se le conseguenze sulla salute non sono ancora chiare, secondo gli scienziati è comprovata la correlazione tra la contaminazione delle acque e le operazioni di gas fracking. Uno studio della Duke University, pubblicato il 10 maggio dalla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences, ha dimostrato che la fratturazione idraulica è meno sicura di quanto era stato inizialmente ipotizzato. I livelli di metano nei pozzi di acqua potabile, per esempio, sono sempre nettamente superiori se si trovano in prossimità di pozzi di gas naturale e, in particolare quando, nei pozzi più profondi ci sono numerose fratture nella roccia. «Ovvio che fa male!», dice ancora Sautner. «In alcuni casi le concentrazioni di metano sono talmente alte che l’acqua dei rubinetti prende fuoco. Qualche anno fa una casa è addirittura saltata in aria». C’è da dire che poco si sa degli agenti chimici impiegati per la fratturazione delle rocce, molti dei quali non vengono rivelati dalle compagnie che si trincerano dietro il segreto industriale.

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Per limitare l’estrazione del gas di scisti, giudicata dannosa per l’ambiente, la Francia ha scelto la strada della legge. La proposta avanzata dal partito del presidente Sarkozy, l’Ump, è stata approvata dal Parlamento il 30 giugno scorso, ma non ha soddisfatto né i socialisti, né le più importanti associazioni ambientaliste come Greenpeace, Amici della Terra e il Réseau action climat-France, secondo cui si tratta di un provvedimento ambiguo che non blocca in maniera definitiva il ricorso alla fratturazione idraulica. Gli ambientalisti continuano quindi la mobilitazione.

Lo studio Il 18 marzo 2010 l’Epa, l’Agenzia Usa per l’Ambiente, ha dato inizio a un lungo studio per verificare l’impatto della fratturazione idraulica su salute e ambiente. «Stiamo analizzando sette casi studio. I primi risultati alla fine del 2012, con un report pronto per il 2014. Prima nessun commento», spiega Mollie Lemon, responsabile stampa dell’Epa. Ben tre dei sette luoghi presi in esame si trovano in Pennsylvania, uno nell’immenso reservoir Bakken Shale in North Dakota, poi in Texas, Louisiana e Colorado. Secondo alcuni esperti però sette casi non bastano. «Ogni pozzo è diverso e richiede analisi differenti», spiega Mark Northam, geologo della University of Wyoming. La crescente attenzione mediatica sulle analisi dell’Epa ha spinto comunque le società private impegnate nell’estrazione a prendere iniziative di monitoraggio dei pozzi. «È nostra intenzione in futuro elencare pubblicamente il nome di tutti gli agenti chimici impiegati e rendere disponibile ogni informazione», promette Brian Cain, reponsabile delle pubbliche relazioni di Anadarko Petroleum. In attesa di dati certi, si può guardare il documentario Gasland di Josh Fox, il quale, vedendosi offrire centomila dollari dalla multinazionale Halliburton per poter trivellare il suo terreno, ha deciso di indagare sui rischi del gas di scisti. Nel 2010 Gasland ha vinto il premio della giuria al Sundance Film Festival.

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▲Un

terrapieno necessario all’attività di estrazione e altre immagini della zona ◀Craig Sautner nel suo giardino: «È come vivere in una prigione»

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Il no francese


l’inchiesta

Sorvolando gli Appalachi

Curt Ashenfelter, direttore della Keystone Trails Association, un’organizzazione specializzata nella conservazione di sentieri naturali, conosce bene le antiche montagne della Pennsylvania. «Una geologia molto interessante, ricca di risorse naturali», spiega, mentre sorvoliamo i monti Appalachi. L’ambiente da queste parti ha sofferto un distruttivo disboscamento già nell’Ottocento. Sebbene gli alberi siano tornati a ricoprire le colline, il suolo è arido e il sottobosco quasi assente. «Ora le foreste rischiano di essere nuovamente distrutte dalle operazioni di estrazione del gas di scisti», sbotta, mentre manovra il piccolo Cessna a bassa quota. Ovunque appaiono i pad, i terrapieni orizzontali, qualche centinaio di metri di lato, necessari per poter svolgere le operazioni estrattive. Ogni pad è circondato da una rete di stradine sterrate e da un labirinto di piccoli gasdotti che confluiscono nelle arterie principali, estese strisce rettilinee che solcano il paesaggio. «Questo che vedete è solo il 2 per cento del potenziale estrattivo del gas», spiega ancora Curt. «Presto questi boschi saranno ridotti a una scacchiera con conseguenze irreparabili sulla biodiversità. La frammentazione del territorio e la parcellizzazione comporteranno danni ecologici rilevanti in un’area che non è mai tornata a essere quella che era». Ovunque sul terreno si possono vedere affiorare pozze liquide con tinte che variano dall’azzurro al grigio scuro. «Sono le acque impiegate per la fratturazione delle rocce», continua il nostro pilota. «In molti casi vengono riutilizzate più volte diventando via via sempre più tossiche. Le compagnie riescono a catturarne solo una parte e le portano via mentre circa il 75 per cento rimane nel sottosuolo. Non sappiamo dove vanno a finire, mentre quelle di superficie sono sempre a rischio di esondazione. Un argine che cede, una valvola che scoppia: e gli incidenti aumentano con il numero di pozzi».

It’s the Economy, Stupid

Il centro di Pittsburgh appare come un piccola Manhattan postindustriale. Qui si incontrano i tre fiumi che bagnano la città, l’Allegheny e il Monongahela che confluiscono nel fiume Ohio. Tre corsi d’acqua da sempre pesantemente inquinati. «Prima dall’industria del legname, poi dal carbone, dal petrolio, e ancora dall’acciaio», riepiloga Ned Mulcahy, avvocato e vicedirettore dell’associazione per la tutela dei fiumi Three Rivers Waterkeeper. E adesso potrebbe essere il turno del gas di scisti. «I fiumi negli ultimi anni hanno dimostrato segni di ripresa. Sono tornati gli uccelli e l’acidità delle acque è diminuita. Adesso la contaminazione dei corsi e delle falde acquifere potrebbe compromettere questo nuovo e fragile equilibrio». La barca solca le placide acque dell’Ohio e Ned indica uno dei tanti edifici industriali che costellano le rive: «Questo è un impianto di smaltimento nel quale vengono raccolte le acque contaminate della fratturazione idraulica. Si trova a poco meno di otto chilometri da uno dei principali pozzi lungo il fiume che gestisce l’acqua potabile per Pittsburgh. Dicono sia sicuro, ma se quest’acqua contaminasse il fiume centinaia di migliaia di persone sarebbero a rischio». L’ Agenzia per l’Ambiente ne è certa. In uno studio del 2009 è emerso che gli impianti di depurazione non erano in grado di rimuovere alcuni agenti chimici contaminanti. A oggi però nessuna misura è stata adottata. Per il presidente Obama «il gas è una soluzione pulita e sostenibile e un’opportunità per l’America». Cina, Australia e Ucraina inaugureranno nei prossimi mesi una nuova stagione di perforazioni, mentre, in controtendenza, il cauto parlamento francese il 13 maggio scorso (vedi box, ndr) ha bandito l’uso dell’hydraulic fracking per estrarre gas naturale dal suolo patrio. Lo stesso mondo ambientalista è spaccato a metà. Mentre in tanti (Greenpeace, Sierra Club) osteggiano il gas di scisti, per altre organizzazioni green come Natural Resource Defence Council e PennFuture il gas è una risorsa fondamentale contro il surriscaldamento globale. «Ogni problema può essere risolto con ferrei regolamenti e l’utilizzo del gas naturale è un processo inarrestabile», spiega John Quigley, consulente per PennFuture. «Quello che si può fare oggi è tenere il settore sotto controllo». Per gli abitanti della Pennsylvania, il gas è il nuovo Eldorado cui nessuno vuole rinunciare. «In questa zona le operazioni sono iniziate tre anni fa. Prima affittare un ettaro costava otto dollari al mese, oggi qualcuno riesce anche a chiederne cinquemila», spiega Josy Hair, 50 anni, la cui casa sorge a pochi metri dal sito dell’incidente del pozzo Atgas H2 e decisa a rimanere qui. Facile capire perché gli abitanti di questo Stato abbiano sposato senza particolari remore la causa del gas di scisti: «Non mi importa quali siano le conseguenze. Qua prima non c’era lavoro. Ora il gas porta occupazione e ricchezza. I miei figli non dovranno più trasferirsi per cercare lavoro».


l’inchiesta «Faccia male o faccia bene, le multinazionali dell’energia non si fermeranno», commenta sconsolato Bill Kern della piccola associazione Countryside Conservancy, attiva in Pennsylvania. «Con i soldi possono tutto. Sono venuti persino da noi che gestiamo qualche centinaio di acri di bosco a chiederci il permesso di perforare. Ci hanno offerto tre milioni di dollari solo per iniziare le perforazioni e poi mille dollari al mese per ogni ettaro. Come dire, tutti sono stati tentati. È un meccanismo diabolico. Una volta dato il permesso la gente si convince: non succederà a me, i miei figli non ne risentiranno, alla fine andrà tutto bene».

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▲▲L’acqua

finisce nel fiume Ohio tramite una canalizzazione, ma la depurazione non elimina gli agenti chimici ▲ Il traffico di veicoli pesanti che attraversano i paesi è in forte aumento


Buone nuove a cura di Gabriele

Battaglia

illustrazioni Elfo

12 luglio, Messico

Decisione storica della Corte Suprema, che sottrae alla giurisdizione militare i casi di violazione dei diritti umani commessi dalle forze armate e li assegna invece ai tribunali civili. D’ora in poi sarà più facile condannare penalmente gli autori di crimini dietro copertura militare. I dieci giudici della Corte hanno votato all’unanimità per adeguare la giurisprudenza messicana a una sentenza della Corte interamericana dei diritti umani (2009) in merito al caso di Rosendo Radilla, un attivista “scomparso” nel 1974 per opera dei militari. La pronuncia esortava il Messico a modificare il proprio codice per renderlo “compatibile con gli standard internazionali”.

14 luglio, Malaysia

I Penan – popolazione tribale del Borneo – riescono a ottenere che la compagnia malese Shin Yang rinunci a un progetto di deforestazione e coltivazione della palma da olio e se ne vada dalle loro terre. Il governo aveva precedentemente assegnato quell’area alla tribù, dopo la scelta di trasferirla dal suo attuale insediamento per dare il via libera al controverso progetto della diga di Murun. Ma l’area era già stata assegnata alla Shin Yang. I Penan, da parte loro, avevano dichiarato di accettare il trasferimento solo nell’ambito del proprio territorio ancestrale. Alla fine, la compagnia malese ha rinunciato ai propri progetti e lasciato libero il campo per l’insediamento della comunità.

22 luglio, Grand Cayman

L’iguana blu è stato salvato dall’estinzione. Il lucertolone (nome scientifico, Cyclura lewisi) che vive nell’isola caraibica di Grand Cayman, l’ha scampata grazie al Blue Iguana Recovery Program, dopo che nel 2002 ci si accorse che ne erano rimasti solo venti esemplari. Si è scelto di allevare i giovani iguana in cattività fino ai ventiquattro mesi, per poi liberarli quando hanno raggiunto una stazza sufficiente per difendersi da cani e gatti, i loro peggiori nemici con le macchine, i parassiti e la distruzione dell’habitat naturale. Tutti problemi portati dall’uomo. Oggi vivono nella riserva di Grand Cayman circa cinquecento esemplari. Prossimo obiettivo, quota mille.

25 luglio, Italia

I dieci premi conferiti dalla European Physical Society (Eps) ai dieci migliori fisici del vecchio continente sono stati assegnati per metà agli italiani. Un vero record: cinque su dieci. In Italia manca la volontà di investire nella ricerca, non mancano certo i cervelli. Luciano Maiani, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, si aggiudica quello per le alte energie grazie al suo contributo alla teoria dei quark. Paolo de Bernardis domina nell’astrofisica per avere decifrato i primi passi dell’Universo. Nella fisica teorica vince Davide Gaiotto che studia le supersimmetrie della natura.


Tra i giovani fisici trionfano Paolo Creminelli e Andrea Rizzi: il primo indaga la cosmologia, il secondo lavora al superacceleratore Lhc del Cern di Ginevra.

26 luglio, Iraq

Il governo regionale del Kurdistan iracheno approva una legge che vieta le mutilazioni genitali femminili, pratica che affligge oltre il 40 per cento delle donne e ragazze della regione. In base alla nuova norma, chiunque “istiga, assiste o compie” mutilazioni genitali sulle donne sarà condannato a una pena detentiva dai sei mesi ai tre anni e a una multa fino a dieci milioni di dinari (8.500 dollari). Si rendono illegali anche i matrimoni di bambine o comunque quelli imposti.

su The Express Tribune, Sabir Masih confessa così la sua decisione di cambiare mestiere: «Mi sento inutile e sto cercando un nuovo lavoro. Sono sicuro che fino a quando resterà al potere il presidente Asif Ali Zardari non autorizzerà nessuna nuova esecuzione». Il giovane Sabir ha ereditato il mestiere dal padre. Suo zio era invece Tara Masih, il boia che nel 1979 portò al patibolo il primo ministro Zulfikar Ali Bhutto dopo il golpe del generale Muhammad Zia-ul-Haq.

8 agosto, Niger

La giunta regionale toscana si impegna a sostenere economicamente la costruzione di sempre più asili nido aziendali. Per le famiglie – spiegano alla Regione – le risorse assegnate alla prima infanzia sono sempre più importanti. Anche il Comune di Firenze, da parte sua, aprirà due nidi aziendali per i propri dipendenti.

Il Niger ha celebrato il cinquantunesimo anniversario dell’indipendenza con una vasta opera di rimboschimento. Nell’ambito dell’iniziativa sono stati piantati oltre un milione di alberelli di diverse varietà in tutte le otto regioni. Il ministero dell’Ambiente ha precisato che sono stati privilegiati soprattutto gli alberi di Neem, specie molto resistente alla siccità. Dal 1974 il Niger fa coincidere l’anniversario dell’indipendenza con la festa degli alberi per sensibilizzare la popolazione sulla necessità di contrastare la desertificazione in un Paese ricoperto per due terzi da sabbia.

4 agosto, Kenya

9 agosto, Mondo

27 luglio, Italia

Vaccini al fresco grazie a frigoriferi alimentati a energia solare. Uno dei più grossi problemi per gli ambulatori della Rift Valley del Kenya è quello di conservare i vaccini per l’epatite B e altri tipi di malattia per il tempo necessario all’arrivo dei pazienti, che spesso si mettono in viaggio da villaggi lontani. La tecnologia danese “SolarChill”, già sperimentata a Cuba, in Indonesia e in Senegal, produce tra i 150 e i 160 watt di energia al giorno. Questa alimenta speciali frigoriferi solari che non utilizzano batterie, ma pacchetti di ghiaccio che vengono continuamente ricongelati, mantenendo freddi i vaccini anche nelle ore notturne.

4 agosto, Pakistan

Il boia di Lahore è rimasto disoccupato da quando, due anni fa, il governo pachistano ha sospeso le esecuzioni capitali. In un’intervista pubblicata

In occasione della giornata internazionale delle popolazioni indigene, patrocinata dall’Onu, Survival International diffonde nove “piccole curiosità” sui popoli tribali: 1) Ci sono più di cento tribù mai contattate nel mondo. Alcune vivono a meno di cento chilometri da Machu Picchu, la maggiore attrazione turistica del Perù. 2) La popolazione della valle di Baliem, in Nuova Guinea, ha probabilmente “inventato” l’agricoltura molto prima degli antenati degli europei. 3) I Moken, gli “zingari del mare” (delle Andamane), hanno sviluppato una capacità unica di mettere a fuoco gli oggetti sott’acqua. La vista di un bambino Moken è in media del 50 per cento più potente rispetto a quella di un pari età europeo. 4) Si ritiene che i sentinelesi vivano nelle isole Andamane da 55 mila anni. 5) Un sesto delle lingue che si parlano sul Pianeta proviene dalla Nuova Guinea. 6) Le popolazioni tribali hanno creato alcuni degli alimenti base del mondo: manioca, mais e patata sono tutti prodotti indigeni. 7) I cacciatori Hadza della Tanzania, che dipendono dal miele per buona parte della loro dieta, sono guidati agli alveari che si trovano all’interno dei baobab dal canto di un uccello, “la guida del miele”. 8) Le donne Awá del Brasile si prendono cura dei cuccioli di scimmia rimasti orfani, allattandoli. 9) Si ritiene che la lingua dei guaritori Kallawaya della Bolivia, parlata ancora oggi, sia la lingua segreta dei re Inca.

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di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

la tele d’estate La tele d’estate è uno di quei ricordi bui e malinconici degli anni più bui e malinconici della mia vita, l’adolescenza, quando tutto era lento e infinito, i giorni dilatati, le notti insonni, gli ormoni spietati, il mare da qualche parte molto lontano da me, le ragazze abitanti altere e remote di un pianeta mai visto, il divano l’unico rifugio dato. D’estate, nella mia vita, la tele non esiste più, da venticinque anni. Tranne nelle poche ore che passo a casa dei miei, dove c’è uno strano fenomeno, che secondo me non è imputabile a un malfunzionamento dei cavi dell’apparecchio o a un difetto del telecomando, no, secondo me è dovuto alla pressione atmosferica di Uta, alle onde elettromagnetiche delle fabbriche vicine e agli influssi degli antichi stagni. È un maleficio. A casa dei miei la televisione si accende da sola, giorno e notte. E nessuno è riuscito a spiegare il perché, e a porvi rimedio. La televisione comanda, si impone agli abitanti della casa e ai suoi frettolosi visitatori come me. «Tu non mi guardi più», sembra dirmi la tele d’estate nell’infinita estate utese, «ma io sono sempre qui, col caldo assoluto, nella mia normale insipienza di sempre. Tanto ti credi lontano e migliore, nella tua possibilità attuale di movimento, tanto vive e piene giudichi le tue giornate attuali, con tanta euforia bruci le tue notti di adulto, ma io sono qui, a Uta, a casa dei tuoi, e ogni volta che passi lo vedi, che ci sono, e devi ricordarlo, perché scivolano le stagioni, e da adolescenti in un attimo si diventa vecchi, e io sono qui per questo: per i bambini incantati e gli adolescenti scoglionati e i vecchi solitari, soprattutto loro, bisognosi di amicizia, di una compagnia purché sia». Ricordati che devi invecchiare, e morire, e amen. Questa estate ho letto un libro, uscito qualche anno fa, che è bellissimo e parla della tele, di quelli che la guardano con entusiasmo, dell’Italia che va negli studi Rai a vedere se Pippo Baudo è alto come sembra. Si chiama L’Italia spensierata, è di Francesco Piccolo, ed è stato un modo, il mio modo, quest’estate, per ripagare la tele d’estate di quanto mi ha dato da adolescente, nel bene e nel male. Buoni propositi per il nuovo anno (in Sardegna si chiama Cabudanne, il settembre, perché è adesso che comincia l’anno, così era per le campagne, così è per la tv): prometto che guarderò sempre “TV talk”, che seguirò con attenzione “Per un pugno di libri”, (grazie per questi dieci anni, Neri), che guarderò tutto il tg di Sky anche quando non lo conduce Stefania Pinna (ma continuerò a essere più felice quando lo conduce Stefania Pinna). (“Io, io sono venuto a trovarti al mare per guardarti nuotare e baciare i tuoi bambini. Io, io avrei voglia di sapere se di umanissimi ombrelloni sei stanca, se pensi a me”. Federico Fiumani, Caldo)

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[siae]

televasioni


Emergency 235_335:Layout 1

26-07-2011

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Pagina 1

a l e r o b c i d tem e In set 8 ’ l l da Sul primo numero

Il dossier sui problemi legati al Ritorno dalle vacanze con i consigli di esperti in agopuntura, omeopatia, nutrizione naturale e floriterapia

L’approdo all’omeopatia La storia millenaria dell'Ayurveda Guida alla scelta dei prodotti a base di mirtillo Le virtù delle mandorle, alimento completo Il mistero svelato delle proteine vegetali Guida alla lettura dell'etichetta dei fitocosmetici Gli esordi dell'oligoterapia E poi rubriche di aromaterapia, erboristeria "vintage", omeopatia veterinaria, pronto soccorso omeopatico, nutrizione naturale per i più piccoli, le ricette dell'erborista, novità librarie e altro ancora.

La medicina naturale raccontata dagli specialisti .it a in w

ic d e m ra t l .la w w


Fare scuola di

Franco Milanesi

Un’aula. Un adulto legge un testo ad alta voce, scrive qualcosa alla lavagna. Di fronte a lui un gruppo di giovani o giovanissimi che ascolta, legge, traccia qualche segno su un quaderno. Si intuisce che, qui, parlare è soprattutto comunicare contenuti e valori; che dire

è anche un rispondere: a domande, a esigenze. Infine, che responsabilità e serietà sono il sentire comune, il patto che lega le due parti. Sono questi gli ingredienti necessari e sufficienti per fare scuola, sono la sua sostanza e il suo segreto. E


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Cuba

foto Fernando Moleres Scuola pubblica, centro Avana. Orgogliosi di farsi fotografare, con la divisa immacolata e la cartella piena di libri. Essere bambini a Cuba significa poter studiare (fino all’università ) e avere assistenza sanitaria gratuita


“fare scuola” è un bel modo di dire, perché fa vedere come le idee e i sentimenti – non sempre semplici e pacificati – che legano quei soggetti in quell’aula partecipino al pari della calce dei muri, delle lavagne e dei quaderni alla costruzione materiale della scuola,

al suo edificarsi, al suo essere. Oltre questa “essenza”, chiamiamola così, ci sono i dettagli. Si può insegnare in aule con la lavagna informatica, i banchi con la tastiera di un computer, lo spazio pulito della stanza invaso dalla luce. Ci sono lezio-


ni che si tengono in un cortile, in un garage, nelle piazze o sulle scalinate delle chiese come è avvenuto di recente in mezza Europa per contestare i tagli alla scuola pubblica. Sono, appunto, dettagli non certo insignificanti per chi li vive, ma comunque contin-

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Mali

foto Massimo Di Nonno Un bambino in una scuola della periferia di Bamako


genze, che quasi scolorano di fronte all’atemporale grandiosità di ciò che sta avvenendo – il “fare scuola” – che si ripete ogni giorno, qui e là nel globo, da secoli. Se potessimo avere una fotografia di Galileo sullo scranno padovano, circa quattrocento anni fa,

con i visi dei suoi non più giovani ascoltatori, e l’accostassimo a quella di una piccola scuola coranica, nello Yemen di oggi, coglieremmo più l’indecifrabile eguaglianza che lega quelle due realtà delle differenze che le separano. Perché lì sono, ancora e sempre,


“Ho passato la mia vita con la testa tra le nuvole, attraverso il cielo. Io e mio marito abbiamo portato in Brasile le prime mongolfiere�

quei tre soggetti: chi insegna, chi impara, l’aula che li unisce e li tiene legati. La lavagna di Galileo non doveva essere diversa da quella che fa da sfondo alle due giovani studentesse nel Mozambico del 2008. Ma in ogni momento puntuale di questa grande foto-

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Afghanistan

foto Lorenzo Tugnoli Allieve nella zona nord di Kabul. La scuola ospita diecimila studenti. Mancano le strutture, parte delle classi sono allestite in tende nel giardino esterno, molte senza banchi o senza lavagna. Gli studenti si danno il cambio in tre turni giornalieri


grafia che unifica tutti i tempi e gli spazi della scuola, spicca anche l’eccedenza che rende ogni istantanea unica. È il mondo che entra dentro l’aula, mostrando con forza il presente; il mondo che invade l’impossibile perfezione della scuola e riporta il nostro sguardo

su vicende che non sono affatto uguali. La storia si può rivelare con la leggerezza del colore del vestito o della pelle, un foulard, il tipo di lettere scritte. Ma molti fermi fotografici impongono allo sguardo un passato prossimo che quelle giovani vite sembra di-


videre in due distinti mondi: quello di chi ha avuto la guerra addosso, quello di chi non l’ha mai conosciuta. In questo secondo caso circola nelle aule l’aria sottile di una relativa normalità. Le lezioni del mattino, poi la famiglia, i compiti. Oggi non è diverso da ieri, la

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Grecia

foto

Myrto Papadopoulos

Susanna in posa davanti all’obiettivo della fotografa nella scuola elementare dell’isola di Lipsous


stessa cadenza dei fatti si aspetta per il domani. Ma se la guerra è stata vista da poco, o la si vive, la scuola diviene una conquista non garantita, spesso il primo passo per dimostrare a sé e al mondo che si vuole uscire dal terrore. A Sarajevo si sparava sui giovani

che andavano a lezione, ma le scuole, ostinatamente, non chiudevano. Dovevano essere così le facce delle bambine della Bosnia, come quelle delle loro piccole coetanee di Kabul, il luccichio degli occhi, la speranza che quella pace reale, la comunità mite delle aule, si


diffonda finalmente da lì alle strade. Altri volti ancora, altre guerre. Lo sfregio che ricorda una faida o i segni delle nascoste violenze familiari. La storia non è eguale: le diversità si depositano nelle facce e nei corpi dei ragazzi, la porta dove si affaccia

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Cina

Federico Mininni Prima elementare nella scuola Stella rossa a Zhongdien, sull’altopiano tibetano nello Yunnan, in territorio cinese foto


tutto ciò che c’è fuori. L’oscillare tra la costruzione di un luogo atemporale, di riparo e perfezione e l’irruzione forte del presente è, infine, lo stesso incerto procedere di ogni insegnamento. C’è qualcosa dell’esterno che non si vorrebbe fare

entrare in classe, un artificio di eguaglianza, creato anche per ridurre le differenze imposte dalla natura e dagli uomini. Ma si insegna anche e sempre a partire da quel reale che poi accoglierà i ragazzi, in cui dovranno muoversi,


pensare, agire. A scuola si intersecano così, in delicato equilibrio, due principi opposti. Il primo, che la teoria sia altro dall’applicazione e il pensiero non debba correre dietro alle mode, mantenendo un margine di alterità e immunità dal

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Bangladesh

foto

Paola De Grenet

Sonali ha sette anni, è stata colpita con l’acido a diciotto giorni, mentre dormiva con i genitori. Soffre di infezioni e la sua vista è limitata. Le aggressioni con l’acido, per lo più contro le donne, sono comuni in Bangladesh: 2.811 dal 1999 al 2008


risucchio del presente. Non meno, si fa sentire l’imperativo che impone alla scuola di affacciarsi sempre su ciò che accade fuori dalle sue mura, consapevoli che chiudersi e avvitarsi su se stessi, sul formalismo e il passatismo dei programmi, sia un vizio, quasi con-

genito, da correggere. Questo dicono le fotografie qui pubblicate, bellissime. Ma nulla si toglie alla loro qualità se si afferma che anche da altre – più casuali, più imperfette – questo carattere della scuola tra presente e immutabile “essenza” emergerebbe comunque, in


ogni singolo volto, in ogni aula, a interrogarci e chiedere ancora qualcosa.

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Algeria

foto

Christian Tasso

I Sahrawi hanno la percentuale di alfabetizzazione piÚ alta di tutto il Continente africano. Alla scuola di questo campo profughi, l’insegnante, Aziza el-Mami, deve recarsi a piedi, sotto il sole cocente, per la totale assenza di mezzi di trasporto


L’Italia è una Repubblica a cura di

11 luglio, Ostuni (Br)

Claudio Maggi, muratore di 29 anni, è morto per la caduta dal terzo piano di una casa che stava ristrutturando.

13 luglio, Porto Marghera (Ve)

Operaio romeno di 45 anni, Michai Sadasurschi lavorava al petrolchimico di Porto Marghera. Ha perso il controllo di un tubo di metallo ed è rimasto schiacciato.

13 luglio, Cassino (Fr)

Stava lavorando nel cantiere di una palazzina quando un braccio della betoniera ha ceduto e il mezzo si è rovesciato, travolgendolo. La vittima è un operaio romeno di 36 anni.

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra il 10 luglio e il 10 agosto. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

13 luglio, Trepuzzi (Le)

Antonio Parente, contadino di 70 anni, stava lavorando in un terreno di sua proprietà. È stato ucciso dalle fiamme mentre bruciava le steppe della tenuta.

15 luglio, Spoleto (Pg)

Era impegnato all’interno di una cava, quando ha perso il controllo del suo autocarro. La vittima è un operaio di 39 anni.

15 luglio, Guglionesi (Cb)

Antonio Sorella, agricoltore di 67 anni, era alla guida del suo trattore in un campo. Il mezzo si è ribaltato e lo ha schiacciato.

16 luglio, Foggia

Ha perso l’equilibrio mentre potava un albero, è caduto dalla scala e ha sbattuto la testa al suolo. La vittima è Giovanni Turbacci, agricoltore di 65 anni.

18 luglio, Borgo Tossignano (Bo)

Il sessantasettenne Fiorenzo Melandri stava lavorando nel terreno di sua proprietà. All’improvviso il mezzo agricolo che stava guidando si è ribaltato e lo ha schiacciato.

19 luglio, Modica (Rg)

Emanuele Di Raimondo, un ragazzo di 16 anni, era impegnato su una frazione di terreno. È stato colpito da un braccio meccanico mentre caricava il grano sul rimorchio.

19 luglio, Villanova d’Asti (At) È caduto da un’impalcatura nel reparto lavorazione mangimi della sua azienda. Paolo Pedrolo, 54 anni, è morto in seguito al trauma cranico.

20 luglio, Bardi (Pr)

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È rimasto schiacciato dal trattore che stava guidando. Vittima è Giovanni Milani, agricoltore di 72 anni.

21 luglio, Chivasso (To)

Faceva l’operaio nello stabilimento dell’Aset, azienda produttrice di prefabbricati in cemento. Piermarco Canu, 49 anni, è rimasto colpito dalla betoniera azionata involontariamente da un collega.

21 luglio, Laives (Bz)

Un ragazzo di 21 anni è morto mentre era alla guida di un camion all’interno di una cava di ghiaia: il giovane ha perso il controllo del mezzo che è precipitato per un centinaio di metri.

21 luglio, Scandicci (Fi)

Claudio Pierini, 54 anni, ha perso la vita nel magazzino della Coop a Scandicci: è rimasto schiacciato sotto al muletto che stava guidando.

21 luglio, Ruvo del Monte (Pz)

Un agricoltore di 45 anni è stato travolto dal trattore. Il mezzo che stava utilizzando si è ribaltato, uccidendolo.

23 luglio, Gonzaga (Mn)

È stata investita dal carrello guidato da un collega, che non si era accorto della sua presenza. Si chiamava Amedea Renna, 57 anni, era impiegata in un’azienda metalmeccanica.

24 luglio, Riccia (Cb)

Un operaio è stato colpito da una transenna mentre lavorava in un cantiere edile. Il suo nome è Lagtaibi Abderrahman, 38 anni. Arrivava dal Marocco.

25 luglio, San Valentino Castellarano (Re)

L’agricoltore Domenico Sala stava guidando il suo trattore che si è ribaltato. Ha riportato numerose ferite ed è morto dopo alcuni giorni in ospedale. Aveva 73 anni.

26 luglio, Palena (Ch)

Stefan Borcau, operaio romeno di 45 anni, è stato travolto da un albero che aveva appena tagliato. Era impegnato in un disboscamento.

26 luglio, Casteldaccia (Pa)

Un operaio è caduto da un balcone mentre stava lavorando. Si chiamava Rosolino Antonino Tomasello, carpentiere di 60 anni. È precipitato da un’altezza di quattro metri.

26 luglio, Rivarolo Mantovano (Mn) Ha perso il controllo del trattore ed è caduto, battendo la testa al suolo. Così è morto Antonio Somenzi, agricoltore, 64 anni.

27 luglio, Gallarate (Va)

Colpito alla testa da una trave d’acciaio. Questa la fine di un operaio romeno di 50 anni che lavorava in subappalto nello stabilimento Transfluid di Gallarate.


fondata sul lavoro 28 luglio, Saint-Oyen (Ao)

Vittorio Moretti, 28 anni, è deceduto nella galleria della variante di Saint–Oyen. L’operaio è caduto all’indietro da un’impalcatura di pochi metri, ma ha sbattuto la testa contro alcuni tubi ammassati al suolo.

28 luglio, Pasturo (Lc)

Un boscaiolo di 33 anni ha perso la vita sul posto di lavoro. È stato ritrovato a terra dai colleghi per cause ancora da accertare.

29 luglio, Ugento (Le)

5 agosto, Paternò (Ct)

Sono precipitati a terra mentre montavano la grondaia di un capannone. Agatino Guerrera e Fortunato Caprino Miceli facevano gli operai per una ditta in subappalto.

5 agosto, Fubine (Al)

Bruno Castellini, pensionato di 86 anni, ha perso la vita schiacciato dal trattore che stava guidando. L’incidente a Nani, frazione di Fubine, nell’Alessandrino.

5 agosto, Celledizzo di Pejo (Tn)

Giovanni Colitti, edile di 53 anni, è stato schiacciato da un blocco di cemento nel laboratorio della sua impresa. La lastra era posizionata male e si è staccata dal supporto.

Era alla guida di un elicottero precipitato sulle montagne. Roberto Bezzi, pilota esperto, è morto sul colpo. Trasportava i dipendenti di una ditta che dovevano eseguire lavori per la Provincia.

29 luglio, Guspini (Vs)

7 agosto, Polla (Sa)

30 luglio, Sabbioneta (Mn)

8 agosto, Rignano Flaminio (Roma)

Stava lavorando in un cantiere edile Salvatore Concas, operaio di 47 anni. È rimasto schiacciato da un muro che gli è crollato addosso all’improvviso.

Il cinquantenne Lorenzo Lana stava guidando il suo trattore per raccogliere pomodori. Il mezzo meccanico si è ribaltato causandone la morte.

30 luglio, Pergine Valsugana (Tn) Un anziano era alla guida del proprio trattore, quando il mezzo si è ribaltato e lo ha schiacciato. Aveva 88 anni, si chiamava Enrico Fontanari.

30 luglio, Tiezzo Azzano Decimo (Pn)

Antonio Manzione, pensionato settantaseienne, è rimasto travolto dal trattore che stava manovrando nella zona rurale del centro del Vallo di Diano.

Un agricoltore di 80 anni è rimasto schiacciato dal suo trattore. L’anziano era proprietario di un campo nella zona.

9 agosto, Bucine (Ar)

Un operaio di 35 anni di origine egiziana è rimasto schiacciato dalla gru che stava smontando. È successo in un cantiere vicino a dove l’uomo abitava.

9 agosto, Casalnuovo (Na)

Vittorio Grillo, agricoltore di 60 anni, stava effettuando una manovra con il trattore. È rimasto ucciso, incastrato tra il mezzo e l’autobotte che doveva collegare.

La strada ha ceduto al passaggio di un camion per la raccolta dei rifiuti e la voragine che si è aperta ha inghiottito il veicolo. Il conducente, Raffaele Di Monda, 42 anni, è morto sul colpo.

1 agosto, Mesoraca (Kr)

10 agosto, Vallerano (Vt)

2 agosto, Mazara del Vallo (Tp)

10 agosto, Rasun Anterselva (Bz)

Angelo Cistaro, 71 anni, ha perso la vita nel terreno di sua proprietà per il rovesciamento del trattore che stava guidando.

È precipitato dal quarto piano di un palazzo. Carmelo Giglio, operaio di 56 anni, stava demolendo con un bobcat alcune parti di un edificio.

Angelo Fagioni, 75 anni, ha perso la vita in un terreno agricolo di sua proprietà: il suo trattore è finito contro un albero.

Un uomo di 79 anni stava lavorando alla manutenzione di un trattore quando il mezzo, parcheggiato su un ripido pendio, si è mosso e lo ha travolto.

2 agosto, Cisterna di Latina (Lt) 5 agosto, Castelliri (Fr)

Guido Pessia, agricoltore di 71 anni, stava lavorando al disboscamento di un terreno quando la piccola motozappa si è ribaltata ed è morto.

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10 luglio - 10 agosto morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

Mauro Tamburlani, operaio cinquantaquattrenne di Cori, è caduto da un’impalcatura di cinque metri. È morto all’ospedale di Latina dopo alcuni giorni di agonia.


l’aristocasta mad in italy di

Gianni Mura

illustrazione

Roberta Tedeschi

Come sapete, in campo alimentare esiste una filiera. Che poi, nella pubblicità, il bambino sappia riconoscere il latte della Lola e io per le albicocche mi debba accontentare di un cartoncino con su scritto “Campania” oppure “Romagna” è un altro discorso forse dovuto al fatto che la pubblicità e la realtà non sempre coincidono. In Francia ho mangiato buonissime albicocche, voto più alto a St. Paul Trois Châteaux, sopra Orange. Non so come spiegarlo bene, ma sapevano di albicocca come quelle che mangiavo da bambino, arrampicandomi sull’albero (adesso, meglio di no): non grandi, profumate, picchiettate di rosso, netta separazione tra polpa e osso. In Italia, le albicocche quasi sempre sono insapori o hanno qualcosa della patata. Le paghi per buone, ma buone non sono. A questo punto, contemporaneamente e con qualche danno ai neuroni, mi vengono in mente Carlin Petrini, Mariangela Melato, Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Enrico Berlinguer e altre facce più recenti. Petrini, Slow Food, sostiene che da molti anni abbiamo barattato il bello con il buono. Peggio: ciò che crediamo bello, quindi deve essere buono, con un buono meno appariscente, nel senso di meno grosso, meno colorato, meno trionfante. Giusto. Mariangela Melato, quando l’ho intervistata per E, m’aveva raccontato che sentiva i genitori parlare di De Gasperi e Togliatti con uguale rispetto, perché tutt’e due volevano il bene dell’Italia. Non erano belli, neanche Winston Churchill e Konrad Adenauer lo erano, a pensarci. Neanche Moro e Berlinguer, uno con la frezza bianca, l’altro che testimoniava l’inutilità del pettine e non parliamo degli accenti. Ma erano in gamba, rispettati, volevano e facevano il bene dell’Italia. Erano rispettati anche nei titoli dei giornali. “Aldo telefona a Enrico” mai si vide. Mentre Silvio (purtroppo) chiama Massimo (ripurtroppo) o viceversa. Questa è la popolarità. Poi per forza il popolo s’appassiona. A colpi di Nicole, Bruno, Italo, Gianfranco, Umberto, Emilio, Maria Vittoria, Pierluigi, Mara, Antonio, Ignazio, Giulio sembra di vedere “Un posto al sole” arricchito da comparse interessanti: ogni giorno ti chiedi chi fotte non metaforicamente con chi (facile, Silvio), chi cerca di fottere non metaforicamente con chi (sempre lui), chi cerca di fottere metaforicamente qualcun altro (quasi tutti). Non tutti sono belli, ma alle spalle hanno chi consiglia la via del piacione. Cosa resterebbe di La Russa se tagliasse il pizzo? E di Bocchino con un altro paio d’occhiali? Perché Fini da due anni ha sempre cravatte rosine, gialline o azzurrine? Perché Berlusconi continua a raccontare barzellette? Perché alla presenza militare dell’Italia in Afghanistan quasi tutti si dicono contrari e poi votano per i finanziamenti? Quante cazzate può dire Borghezio in due ore? Spande più tossicità lui da solo o il Salto di Quirra in vent’anni? Esiste una difesa dell’ambiente? Pronto, pronto, c’è nessuno? Per forza, non c’è nessuno se devi segnalare che non funziona la lavatrice, vuoi che ti rispondano quando dici che questo governo e buona parte dell’opposizione meriterebbe la sigla P3? Pesante Palla al Piede, per chiarire. È una casta, dicono. Casta diva, perché nasce da una specie di Hollywood de noantri, parlate tanto di me purché si parli. E infatti noi di E parliamo della casta che è vasta, della casta che costa, degli scandalosi compensi, dei privilegi assurdi. In giugno sembrava di sentire un’aria nuova, quasi un vento. Si dev’essere nascosto da qualche parte per non sciuparsi. Tornerà fuori, prima o poi, forte e allegro. Il lieto vento.

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Di Nonno

Futuro

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contadino Nelle campagne d’Italia si può fare la rivoluzione e vivere serenamente. Amando la terra, vivendo di commercio solidale, senza le sovvenzioni comunitarie e fuori dalle logiche della grande filiera e del profitto a ogni costo

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«Se cambieremo stile di vita a causa della crisi? Sì, meno internet e più cabernet!». Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, risposta ai giornalisti presenti al Forum Ocse di Parigi, 30 maggio 2010. Quella di Tremonti era una battuta, tanto per sdrammatizzare, ma il vento della recessione non ha mai mollato. E con i redditi del ceto medio urbano sono colati a picco anche gli stipendi nelle campagne, dove negli ultimi dieci anni si sono volatilizzate cinquecentomila imprese agricole e 19mila metri quadrati di terreni coltivabili. Nel lodigiano e in Sardegna, gli agricoltori esposti con le banche si sono appesi agli alberi, gli stagionali sono rimasti a bocca asciutta, i prezzi all’ingrosso si sono smagriti. In Italia ci sono tre tipi di contadini e curiosamente trovano le proprie coordinate identitarie in un certo tipo di letteratura: i passatisti citano le campagne del grano di Mussolini e gli esametri delle Bucoliche virgiliane, l’indice languido puntato verso un punto indefinito dell’orizzonte dove l’età dell’oro è scomparsa, come inghiottita da un buco nero; i disfattisti tirano fuori Nuto Revelli e Beppe Fenoglio de La malora, ma differiscono dai primi per il tono cosmicamente dolente; infine gli utopisti, neocontadini a tutti gli effetti, di un paio di generazioni più giovani, hanno spostato il confine dei campi nel mondo e assorbito la lezione del popolo di Seattle, ma anche l’invito anarchico all’autosufficienza lanciato dal movimento degli Elfi, gli zappatori senza padroni che hanno creato una rete di microscopici villaggi sull’Appennino tosco-emiliano. Alessandro Poretti ha trentacinque anni e guadagna novemila euro all’anno. È arrivato a Valli Unite nel 2004, pedalando su una bicicletta scassata. Fresco di laurea in Agraria, aveva sentito dire che in provincia di Alessandria c’era un posto speciale dove cercavano gente per la vendemmia, una sorta di comune in versione light, molto concreta, aperta al mercato, per nulla dogmatica. Due anni dopo è tornato con il desiderio di costruire qualcosa. Ora con i soldi che ha risparmiato sta ristrutturando casa, dove vive con la compagna e la figlia Lucia. Verdura e carne arrivano dall’orto e dalla stalla, i vestiti dai sacchi che la gente di città lascia in cascina al cambio di stagione. Quando viene il momento, tira fuori il vino buono dalla cantina e batte le fiere enologiche a bordo di un vecchio camper, il suo primo investimento. Libri e ristoranti sono un extra. «Non vado in giro a elemosinare. Sto bene, mangio e bevo bene, mi sposto parecchio. È chiaro che in questo progetto c’è un elemento politico, stai qui se hai una motivazione forte, non lo fai per soldi ma per condividere, essere solidale, fare incontri». Prima di incrociare la storia delle “Valli”, Alessandro ha lavorato nel settore del controllo qualità a Varese, un’esperienza che lo ha reso allergico al circuito delle certificazioni, che con grandine, peronospora e burocrazia risulta essere la peggiore iattura degli agricoltori italiani. Poi, per riconciliarsi con la passione di vignaiolo, ha seguito un master in enologia e viticoltura. «È stato – ricorda – un percorso naturale. Loro avevano

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bisogno, io volevo cambiare vita: ci siamo incontrati. Sono diventato subito socio e da due anni faccio il presidente della cooperativa». Alessandro rappresenta quel che si dice uno della nuova guardia. La “vecchia” è quella dei fondatori, dei lavoraterra tra i cinquanta e i sessanta, che prima di passare tra le fila dei disfattisti rassegnati hanno saputo inventarsi un mondo intero: quello degli utopisti, appunto.

Il sogno di Valli Unite

Valli Unite nasce nel 1977 ed è il sogno di tre contadini figli di contadini, che invece di andare in fabbrica decidono di unire i campi per sopravvivere con un modello di agricoltura diverso, anche se a lavorare la terra si guadagna un terzo dello stipendio di un operaio. In seguito Ottavio Rube, Enrico Boveri e Cesare Berruti hanno avuto molte occasioni per ripensare alla loro storia. Quando la cascina con la scorta di fieno per l’inverno è andata a fuoco, quando sono stati costretti ad abbattere le vacche perché ci stavano perdendo, quando le banche hanno cercato di mangiarsi la proprietà e quando certi soci di lunga data hanno mollato il colpo. Ma alla fine sono rimasti. Ottavio, barba e capelli bianco latte, gilet di lana cotta, camicia a quadrettoni, una bandana stretta in fronte, a 56 anni è ormai il vecchio delle Valli, ma il suo particolare carisma agricolo è intatto. Ha deciso di tirarsi un poco in disparte, ma la nuova guardia lo cerca ancora come un oracolo. Il concetto che più gli sta a cuore è quello di “contadinità”, una sorta di virtù che comprende, oltre alla conoscenza delle pratiche agricole, il desiderio di migliorarle, e fa tutt’uno con la responsabilità che il contadino deve avere per i propri prodotti, per l’ambiente in cui opera e quindi per i suoi simili. «Negli anni Settanta – racconta – il nostro era ancora un mondo brutto. Stare nei campi era come avere addosso una specie di stigma. La mia vicina di casa, quando usciva a lavorare, si copriva il capo per non abbronzarsi ed evitare di essere additata come contadina al mercato di Alessandria. Ecco, noi tre volevamo dimostrare che si può essere contadini a testa alta, che lavorare la terra può emancipare».

Eurosussidi? No, grazie

Non solo ci sono riusciti, ma poco alla volta sono diventati un simbolo, la prova che si può fare agricoltura senza prendere il becco di un quattrino da Bruxelles. «Finché vedi nei contributi dell’Unione europea la soluzione a tutti i problemi, non hai prospettive», osserva Ottavio. «Sono finanziamenti che premiano le coltivazioni estensive, erogati in base agli ettari e non alle persone che lavorano la terra. Ed è un sistema che incentiva lo sfruttamento delle risorse naturali, per questo non ci è mai piaciuto». Naturalmente la maggior parte dei contadini non la pensa allo stesso modo. Chi ha poderi grandi si aspetta questi soldi per far quadrare il bilancio a fine anno. In realtà la crisi dell’agricoltura italiana è strutturale e viene da lontano. Non che altrove siano rose e fiori, ma la dipendenza dalle sovvenzioni comunitarie è più attenuata e nell’emergenza i ministeri hanno competenze e margini di intervento ampi. Così, mentre il reddito medio dei coltivatori europei vola (+12,3 per cento), quello degli italiani perde terreno (-3,3 per cento).


Secondo la Cia (Confederazione italiana agricoltori), uno dei maggiori sindacati di categoria, tre imprese su cinque hanno il bilancio in rosso. Anche nella Pianura padana – il cuore dell’agricoltura nostrana – i contadini stentano a sostenere gli oneri contributivi e burocratici che si assommano ai già salatissimi costi produttivi. La revisione della Pac (Politica agricola comunitaria) nel 2013 porterà ulteriore scompiglio. Sebbene i dettagli siano ancora materia di discussione in sede di Commissione, le linee portanti della Pac prevedono un taglio netto dei sostegni all’agricoltura estensiva per far fronte alle esigenze dei nuovi Paesi membri, decisamente più poveri di Francia, Italia, Germania, Inghilterra e penisola scandinava. C’è preoccupazione tra chi coltiva mais, cereali e legumi. Meno tra i piccoli agricoltori che producono vini autoctoni e ortofrutta. Chi ha già avviato la riconversione al bio, i contributi dell’Unione non sa nemmeno come sono fatti. A Valli Unite le sovvenzioni comunitarie sono sempre arrivate con il contagocce, così alla fine hanno rinunciato a presentare i moduli. Senza rimpianti. Oggi l’azienda lavora diciotto ettari di vigna, imbottiglia croatina, dolcetto, timorasso, vighèt, bardigà e ha una cantina recensita dalle principali guide enologiche del Paese. La cooperativa dà lavoro a ventisette persone, non tutti soci, gestisce un agriturismo, uno spaccio alimentare e una stalla con mucche, cavalli e maiali. Il fatturato supera il milione di euro, la paga oraria di cinque euro all’ora permette a tutti di vivere dignitosamente. I responsabili di produzione hanno diritto a un piccolo extra ogni mese, ma non è quello che fa la differenza. Il vino è gratis. Di mansionari non ne esistono, sta tutto alla discrezione del singolo: chi non lavora costringe gli altri soci a fare il doppio della fatica, il che capita di rado. «Funzioniamo esattamente come le aziende agricole degli anni Sessanta», spiega Ottavio Rube. «Ognuno si faceva il latte in casa e c’era un ciclo produttivo che andava dagli animali alla vigna, al grano, e di conseguenza al pane, alla frutta, all’orto. Per noi l’autosufficienza è un pre-requisito, ma a differenza di chi ci ha preceduto siamo anche bravi trasformatori dei nostri prodotti. La nostra espansione non è in relazione con gli ettari che lavoriamo, dipende dal legame diretto che abbiamo creato con i clienti di lunga data: poco alla volta si sono trasformati in gruppi di acquisto. Se sei dalla parte del mercato, sei obbligato a mettere i soldi prima di tutto; chi, come noi, nel mercato sta con un piede dentro e l’altro fuori, riesce a essere più libero».

I pionieri del biologico

Valli Unite è stata una delle prime aziende italiane a produrre interamente biologico, anno di grazia 1983. A quei tempi c’erano solo pionieri, nessun sistema, nessuna rete. La scelta si è rivelata non solo sostenibile, ma economicamente vantaggiosa. Altri soldi sono stati risparmiati costruendo le stalle con materiali di recupero e un impianto di riscaldamento alimentato a legna. «Grazie all’aiuto di Legambiente – aggiunge Alessandro – siamo stati tra gli sperimentatori del fotovoltaico nelle campagne. I 40 kilowatt che oggi produciamo ci garantiscono energia sufficiente a gestire tutte le attività». Per questi ‘irregolari’ il tema chiave è quello dell’accesso all’agricoltura. Fare il contadino costa: almeno


duecentomila euro per affacciarsi sul mercato. Ma chi inizia raramente dispone di una cifra simile. A Valli Unite non amano le banche: la moneta di scambio sono il lavoro e la condivisione. Questa originale visione ha portato negli anni a Costa Vescovato decine di giovani che in città non sono riusciti a dare un senso alla propria vita. I più arrivano da Milano, e chiedono di fare esperienza con i piedi nella terra, altri da Belgio e Olanda, nel solco di una tradizione di apertura all’Europa che le Valli hanno sempre ricercato. Come dicono i vecchi ridacchiando, un modo intelligente per viaggiare senza spostarsi. Ad altre latitudini tornano le stesse esperienze. Genuino clandestino è il nome del movimento di contadini (duecento nella campagna romana, cento a Bologna, una sessantina in Campania) che da una decina d’anni organizzano mercatini autogestiti nelle grandi città del Nord come forma di resistenza ai mercati generali e alla grande distribuzione. Spesso non sono contadini di prima generazione, ma precari, disoccupati, ex insegnanti che hanno scelto di tornare alla terra con un progetto politico. I “genuini”, riuniti in associazioni che si chiamano Terra Terra a Roma, CampiAperti a Bologna, la Ragnatela Autoproduzioni a Napoli, rifiutano la logica delle certificazioni bio e vendono direttamente al pubblico prodotti trasformati in casa con il marchio Genuino clandestino. Questo meccanismo di autodenuncia, che si è tradotto in una potente campagna di advertising, ha col tempo allargato la cerchia dei consumatori, al punto che oggi chi vuole entrare nel circuito deve prima dimostrare di essere davvero biologico e consumer friendly. Michele Caravita, 43 anni, quattro figli, è il presidente di CampiAperti, associazione di produttori e consumatori a sostegno dell’agricoltura a filiera corta, orientata all’autoconsumo e alla vendita diretta. Abita a Savigno, nella Valle del Samoggia, e come tanti della sua generazione si definisce un “neocontadino”. «Sono nato e cresciuto in città – racconta – ero iscritto a Filosofia, ma ho mollato a due esami dalla fine, poi per anni ho fatto il muratore. Ho acquistato questo posto nel 1993 insieme ad altre due famiglie; tre ettari di terra, un piccolo fondo. Volevamo trasferirci in campagna, vivere insieme e lavorare la terra, non avevamo grande esperienza nel settore. Prima abbiamo sistemato le case, poi pagato i debiti e solo alla fine siamo arrivati all’agricoltura. Non è stato un passaggio automatico. Se fai il contadino i soldi per comperare la terra mica ce li hai, campi e attrezzi te li paghi con lo stipendio». Come tutti i principianti dell’agricoltura, Michele ha iniziato con un orto, che in genere richiede un basso investimento e garantisce subito un prodotto vendibile.

Oltre la grande distribuzione

Il punto di riferimento della sua azienda non è mai stata la grande distribuzione, ma i mercatini autogestiti di Bologna, un settore che ha conosciuto una crescita esponenziale. La svolta è arrivata nel 2001, con il G8

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2013, fine dei sussidi? La Politica agricola comune (Pac) è un insieme di direttive dell’Unione europea che periodicamente sono sottoposte a revisione. L’obiettivo strategico è garantire la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare a lungo termine per i cittadini europei e sostenere le comunità agricole locali, integrandone il reddito quando necessario. Il prossimo aggiornamento della Pac fisserà le regole di programmazione finanziaria per il periodo 2013-20 e dovrà far convergere i differenti interessi dei principali membri (Francia, Italia, Gran Bretagna, Germania, regione scandinava), tenendo conto delle esigenze dei nuovi membri: Repubblica Ceca, Lettonia, Lituania, Ungheria, Polonia, Slovenia, Slovacchia. Attualmente la Pac, prevista dal Trattato istitutivo della Comunità, assorbe il 34 per cento del bilancio dell’Ue, una quota che numerosi Stati membri chiedono di tagliare drasticamente. L’ipotesi operativa è di ridurre i pagamenti diretti agli agricoltori trasferendo le risorse su un fondo per lo sviluppo delle regioni rurali.

di Genova, dove finalmente si è parlato di agricoltura fuori dagli stereotipi. «Quando abbiamo sentito Bovè, Dufour e altri grossi personaggi della Confédération Paysanne dichiarare fallito il modello dominante di agricoltura, abbiamo capito qual era la nostra strada», ricorda. «Tornati a casa, ci è venuta voglia di provare a mettere insieme le aziende biologiche dei colli bolognesi. Abbiamo organizzato una serata e attaccato i manifesti per pubblicizzarla. Ci immaginavamo la sala vuota, invece qualcuno si è fatto vivo. Di lì a poco è nata l’Associazione contadini biologici Valle del Samoggia. L’idea era produrre cibo sano a basso costo, che fosse acquistabile anche dalle famiglie a basso reddito come le nostre». Il momento per trovare un terreno comune di azione era quello giusto. Il fermento di Genova aveva messo in moto alcuni collettivi bolognesi che cercavano un contatto con i contadini del territorio per dare concretezza alla loro idea di pratica politica quotidiana. E dopo essere passato attraverso l’esperienza di un primo coordinamento per la sovranità alimentare, il gruppo è approdato alla decisione di creare un’associazione legalmente costituita, che ha preso il nome di CampiAperti. «Oggi riuniamo cinquanta aziende bio della provincia di Bologna», dice Michele. «Produttori e consumatori si conoscono bene, siamo una rete che sta sul mercato, conosciamo le regole ma abbiamo tutto un altro modo di costruire la nostra sopravvivenza economica e le nostre relazioni. Il nostro rapporto con i Gas (Gruppo d’acquisto solidale) è ottimo, sono il 50 per cento del reddito. Siamo stati i primi a strutturare il si-

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In queste pagine momenti e protagonisti dell’esperienza di Valli Unite ▶ Ottavio Rube, uno dei tre fondatori



Geografia del biologico Dai registri del Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica (Sinab), risulta che gli operatori del settore sono 47.663. La maggiore concentrazione di aziende produttrici si registra in Sicilia e Calabria, mentre le aziende di trasformazione sono soprattutto in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. La superficie convertita ad agricoltura biologica è di 1 milione 113.742 ettari. I principali orientamenti produttivi sono i cereali, il foraggio, i pascoli, seguiti dall’olivicoltura. Il più grande mercato del biologico in Italia sono le mense. La crisi non ha frenato il boom del bio: negli ultimi sei mesi le vendite sono aumentate del 9 per cento, mentre l’intero settore vale tre miliardi l’anno (il 72 per cento al Nord, il 28 per cento al Centrosud). Un italiano su due ha già messo nel carrello almeno una volta un prodotto bio. L’Italia è leader in Europa sia nella produzione sia nell’esportazione, con un saldo commerciale positivo di 900 milioni. Il modello distributivo è il tallone d’Achille del biologico italiano. I punti vendita sono 1.100, concentrati al Nord: più del 50 per cento della spesa viene fatto qui. I Paesi più biologici al mondo sono l’Australia con 12,02 milioni di ettari coltivati, l’Argentina (2,78), il Brasile (1,77), gli Usa (1,7), la Cina (1,5) e l’Italia.

Agricoltura: i numeri I cittadini europei che dipendono dall’agricoltura sono 27 milioni. In Italia risultano attive 1.630.420 aziende agricole e zootecniche. Rispetto all’anno 2000, la riduzione è stata del 32,2 per cento; è cresciuta invece la loro dimensione media unitaria, che è passata da 5,5 a 7,9 ettari. A scomparire sono state soprattutto le aziende con meno di un ettaro di terra coltivabile. Metà sono gestite da responsabili che hanno più di 65 anni. A causa della crisi, i prezzi dei beni coltivati sono in caduta libera: frutta -28,8 per cento, ortaggi e legumi -4,4 per cento, cereali -5,1 per cento. L’Italia è il primo produttore europeo di prodotti ortofrutticoli, con 30 milioni di tonnellate, ma ne esporta appena l’11 per cento.

stema delle cassette in abbonamento da spedire in città. Questo trucco ha dato grande impulso al mercato del bio nelle valli bolognesi, perché se sai a quante famiglie devi consegnare, puoi programmare la produzione e contare su un reddito fisso».

Spesa in campagna

Le cassette hanno un prezzo fisso (10, 15 o 20 euro) e arrivano a duecento famiglie. Chi vuole, può farsela direttamente in azienda, prendendo dagli espositori il raccolto del giorno e lasciando i soldi in un barattolo. «Spesso ci contattano nuovi Gas – aggiunge Michele – ma siamo costretti a dirottarli su altre aziende della zona. A noi basta quello che facciamo, anche volendo non riusciremmo a star dietro a tutte le richieste. Quando mi va bene guadagno 1.100 euro al mese. Vivere con 14mila euro all’anno è possibile se hai una casa tua e non paghi affitto, se produci l’80 per cento di quello che mangi, se ti riscaldi a legna e hai pannelli solari che riducono l’uso del gas. Perdi qualche migliaia di euro quando c’è neve o arriva una gelata, se non hai margine dall’anno precedente rischi. Ho quattro figli e con quella cifra sto a galla. Anzi, ho assunto quattro persone, in regola. L’agricoltura contadina ha un futuro, quella industriale è superata». L’ultima invenzione di CampiAperti è Genuino clandestino, campagna nazionale per la libera lavorazione dei prodotti agricoli nata in contrapposizione alle logiche dell’agroindustria. L’idea è di commercializzare i saperi e i sapori della terra che le norme igienico sanitarie delle grandi aziende di trasformazione alimentare bandiscono dal mercato. Pane e prodotti da forno, vino, conserve, farine e granaglie, pasta fresca, uova e miele: alcuni di questi beni venduti presso i mercati dei produttori biologici di Bologna sono illegali, secondo gli attuali regolamenti sanitari nazionali che impongono il rispetto di determinati standard di dimensioni e materiali e la lavorazione in laboratorio anziché in cucina. Per lanciare il brand si sono mobilitate in tutta Italia 350 aziende, che ogni giorno portano nei farmer’s market della penisola il meglio della produzione bio locale. «Quando ho capito che potevo vivere facendo il contadino? Beh, ho fatto tanti anni il muratore – ammette Michele – e a Bologna i vecchi del mestiere mi hanno insegnato a contare le ore. Mi dicevano: “Non importa per chi hai lavorato oggi, l’impurtànt l’è sgner giò l’aura”, l’importante è segnare le ore. Così quando sono venuto qui a lavorare la terra, per deformazione, mi segnavo le ore che passavo nei campi. Volevo vedere alla fine dell’anno quanto me le ero pagate. Il primo bilancio è stato fallimentare: due euro. Ma poco alla volta sono migliorato e ho imparato come si gestisce un campo di zucchine. Finché sono arrivato a cinque euro all’ora. Così mi sono detto: forse è venuto il momento di prendere qualcuno a darmi una mano. Adesso mi riposo».

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In Italia, nei cantieri e nelle campagne, lavorano sotto un caporale circa quattrocentomila persone e il 90 per cento delle aziende agricole del Mezzogiorno non è in regola. In Puglia il fenomeno ha assunto dimensioni drammatiche, ma c’è chi sta provando a sradicare questa piaga che adesso si allarga a Lazio, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Anche perché non c’è una legge che punisca chi continua a sfruttare i nuovi schiavi

di

Christian Elia

foto

Dino Fracchia [buenavista]

Michele D’Ottavio [buenavista]

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Vedi il segno del suo passaggio, vedi il frutto del suo lavoro, ma di lui non c’è traccia. La prima sensazione che la Capitanata, cuore della provincia di Foggia, restituisce è che l’essere umano è svanito. Distese infinite, piatte come un tavolo da biliardo, animate da qualche balla, tanti alberi e pochi fiori. Dov’è l’uomo? Ogni tanto, come a rompere la noia, un casolare abbandonato. Ma le terre abbandonate non sono. Tra i campi di grano e quelli di pomodori, battuti da un vento caldo, ci si imbatte nella strana umanità della Capitanata. Un paio di occhi scuri, che squarciano la penombra di una vecchia casa colonica, di quelle spuntate come funghi negli anni della Riforma agraria, quella che non è mai stata relizzata sino in fondo. «Mi chiamo Sheikh, vengo dal Senegal». Storie diverse, tutte uguali di fronte allo sfruttamento. «Ho cinque figli, il più grande dieci anni, il più piccolo sette mesi. Li ho dovuti mandare tutti in Senegal. Hanno sofferto... Sono nati e cresciuti a Macerata dove vivo da vent’anni, ma come faccio? La fabbrica di laminati

in cui lavoravo è fallita. In Senegal almeno la scuola è garantita. Faccio la raccolta, prendo i soldi e vado via sei mesi. Spero di stare di meno, che mi chiamino da Macerata perché è ricominciato il lavoro. Soldi... si possono chiamare soldi tre euro all’ora? Lavori dieci ore al giorno e solo se riesci a mettere insieme duecento ore di lavoro al mese, puoi sentirti meno preoccupato. Ma è difficile. È il lavoro più duro che puoi immaginare. La schiena ti esplode alla fine della giornata, ma io non ho alternative. Rubare mai. Qui basterebbe poco per stare meglio. Ci sono le cisterne, ma perché non c’è acqua potabile? Siamo costretti a prendere quella non potabile, dai campi. Si sta male a berla, quando ci laviamo ci ritroviamo tutti bianchi. Se non cambia nulla torno in Senegal e sarà quel che sarà. Comincio a invecchiare, ho cinquant’anni ormai, non vedo più bene. La schiena mi fa male, ma passa. Prima o poi passa». Sheikh è uno dei tanti, così tanti che corri il rischio di non capire che sono troppi. E che non sono tutti uguali. Sheikh è il simbolo di un mutamento. Per


Senza Stato, né legge

tanti anni, i braccianti stagionali arrivavano dall’Europa dell’Est. Arrivano ancora, ma sono cambiati i luoghi di provenienza. Dalla Polonia pochi, tanti dalla Romania. Vengono solo per la stagione dei pomodori, poi tornano a casa. Di africani, per anni, qui non se ne sono visti. Molto più remunerativa, per loro, la stagione in spiaggia. La crisi economica, però, dal 2008 a oggi, ha portato tanti africani (magari in Italia da anni, come Sheikh) a ricorrere alla raccolta nei campi per guadagnare qualcosa. Cambiano gli attori, mai lo spartito. Il padrone, il caporale, il bracciante. Qui funziona così da cento anni. Della strana umanità della Capitanata fa parte anche Daniele Calamita, segretario generale della Flai Cgil, che si occupa dei lavoratori dell’agroalimentare. È in giro con la carovana di Stopcaporalato, la campagna nazionale lanciata dal più grande sindacato italiano contro una delle forme di sfruttamento più gravi che esistano nel mondo del lavoro, agricolo ed edile in particolare.

«La Flai Cgil combatte da sempre il caporalato e, nel 2011, con Fillea Cgil (che si occupa degli edili) e numerosi deputati abbiamo deciso di presentare una proposta di legge per l’istituzione del reato di caporalato», spiega Calamita. «Oggi, il caporale rischia al massimo una multa di 50 euro. Noi proponiamo che diventi un reato in modo che questi farabutti possano venire arrestati. Non abbiamo voluto fissare un termine cronologico alla campagna, ma con una carovana che gira per l’Italia sosteniamo questa iniziativa, spiegando alla gente che cos’è il caporalato, una piaga che si allarga a macchia d’olio anche al Nord. Raccoglieremo le firme sul sito della campagna (www.stopcaporalato.it) e poi la legge farà il suo iter». I dati del sindacato sono inquietanti. Almeno quattrocentomila persone lavorano sotto caporale in Italia, tra agricoltura ed edilizia. Di questi, almeno sessantamila vivono in condizioni di assoluto degrado, in alloggi di fortuna e sprovvisti dei minimi requisiti di vivibilità e agibilità. Il lavoro nero incide per il 90 per cento nell’agricoltura nel Mezzogiorno, per il 50 al centro e per il 30 al Nord. Nel 2009, nel settore, si sono registrati 53mila infortuni, 125 morti, quattromila malattie di origine professionale, con un incremento del 113 per cento rispetto all’anno prima. La Flai Cgil, oltre alle tradizionali aree ad alta intensità di caporalato, denuncia l’infezione di zone nuove come il Lazio, l’Emilia Romagna, il Veneto e la Lombardia. La Puglia, che più di ogni altra regione conosce il fenomeno, guida la campagna. Nel 2006, il Consiglio regionale pugliese ha votato la legge che vincola i finanziamenti alle aziende, agricole e non, al rispetto dei diritti dei lavoratori. Che risultati ha dato? «Tangibili, purtroppo, no», risponde Calamita. «La Puglia resta però molto attiva su questa tematica e noi chiediamo alla Regione un ulteriore sforzo rispetto all’applicazione delle nuove norme. In quella legge, infatti, gli indici di congruità non sono ancora stati definiti. E sono i parametri utili a capire se le aziende impiegano manodopera illegale». Il processo è in atto ma, per ora, le campagne sono abbandonate alla strana umanità della Capitanata, senza ombra di Stato, né di legge. Nelle strade poderali, tra due onde di grano giallo, passa un pullman rosso fuoco, la clinica mobile di Emergency. «I pazienti che assistiamo vengono dall’Africa subsahariana occidentale», racconta Agnese, la mediatrice culturale. «Nella zona di Rignano Scalo sono francofoni e musulmani, a Tre Tiroli più anglofoni e spesso cristiani. Quasi tutti uomini, sui 30-35 anni, anche se ci sono persone più grandi, donne e interi nuclei familiari. Più della metà sono irregolari, alcuni non hanno mai avuto il permesso, altri lo hanno perso non avendo più il lavoro, altri sono in attesa dell’asilo politico o dello status di rifugiati. I problemi sono tanti. L’alcol, per esempio, ma anche casi come quello di un ragazzo diabetico, che viveva in condizioni disumane e che da tre mesi non aveva l’insulina, perché non riusciva a comprarla. Sempre affaticato, non riusciva a lavorare e quindi a

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Lo sciopero Il fenomeno del caporalato è presente nei settori dell’edilizia e dell’agroindustria, dove un numero sempre maggiore di operai e braccianti, italiani e migranti, sono sottoposti al ricatto e allo sfruttamento da parte di caporali, spesso al soldo di organizzazioni criminali. Dalle categorie degli edili e dell’agroindustria della Cgil è partita la campagna Stopcaporalato che chiede di riconoscere il caporalato come reato, prevedendo sanzioni adeguate e clausole di salvaguardia per i migranti non in regola che vogliono denunciare gli sfruttatori. Per adesioni: www.stopcaporalato.it E, in agosto, la Puglia è stata teatro dello sciopero dei braccianti contro il caporalato.


guadagnare i soldi per acquistare le medicine. Dopo esserci occupati dell’aspetto medico, lo abbiamo aiutato a normalizzare la sua situazione. La salute non è solo la malattia, ma istruzione, integrazione, casa, informazione. Se manca tutto questo, la salute diventa un problema ancora più grande». La clinica mobile di Emergency si ferma davanti a un casolare, avvisando tutti i braccianti. Poco più in là, sotto un albero che regala un momento di refrigerio, un gruppo di africani si stringe attorno a un uomo. Padre Arcangelo Maira, maglietta celeste, bermuda e sandali, fa parte dell’umanità della Capitanata.

Oggi loro, ieri noi

«Siamo la nostra storia», dice. «Io sono siciliano, da quattro anni sono arrivato in queste terre. Sono un migrante anch’io. Figlio di migranti. Sono nato che mio padre era già in Svizzera. L’abbiamo raggiunto, stranieri lì e furistiri a casa. Solo sul treno che faceva avanti e indietro mi sentivo a casa. Vivevamo nell’ombra, bambini educati al silenzio, perché la legge elvetica era dura con noi», spiega, circondato da ragazzi africani, davanti a un casolare che cade a pezzi, dove vivono in sessanta. «La Svizzera deve tanto agli italiani, come l’Italia deve tanto alle persone

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come mio padre, che hanno dato lavoro e ricchezza. Come persone, non come bestie da soma. Solo che noi italiani abbiamo dimenticato la nostra storia. Non ci sentiamo parte di un’esperienza comune. Ci siamo sentiti dire che rubavamo donne e lavoro, oggi diciamo lo stesso a chi arriva. Nessuno ci dava la casa. Oggi, a Manfredonia, nessuno affitta casa a questa gente. Lavoriamo per questo: renderli consapevoli dei loro diritti, aiutare la comunità locale ad aprirsi a questi esseri umani. Nel 2009 gli immigrati hanno dato allo Stato italiano undici miliardi di euro e in servizi ne hanno presi dieci. Eppure rendiamo loro la vita impossibile, anche di fronte alla necessità di manodopera. Io amo questa terra, è anche mia. Dopo sei anni di Africa, da missionario, arrivare qui e lavorare con gli africani, in una terra che la ricorda, mi fa sentire bene. Questa gente chiede solo tre cose: avere i documenti, imparare la lingua italiana e potersi curare. Ma più di tutto vuole una relazione con noi. Mi dicono: perché non ci salutate per strada?». Il sole tramonta su una dura giornata di lavoro. Chi ha ancora la forza, o chi è rimasto a casa perché il caporale non lo ha chiamato, improvvisa una partita di pallone. Altri spingono con lentezza i pedali di una bici, tornando verso un rudere che sono costretti a chiamare casa.

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Sfrutta, paga e te la cavi «Quattro o cinque anni fa, in Puglia come in altre terre del Sud, si riteneva che il caporalato non esistesse più, oggi nessuno può negare l’esistenza del fenomeno. Una battaglia politico-culturale, mossa più dalle associazioni che dai partiti, sicuramente è stata vinta. Ma ora serve una legge». Alessandro Leogrande, tarantino classe 1977, vive a Roma. Vicedirettore del mensile Lo straniero, giornalista e scrittore, è l’autore di Uomini o caporali, libroinchiesta sul caporalato. Caporalato, norma o eccezione? «C’è un dato strutturale drammatico, rilanciato dalla Cgil: il 90 per cento delle aziende agricole nell’Italia meridionale è fuori dalle regole. È un’illegalità ad ampio spettro, che va dalla semplice evasione contributiva, passando per il lavoro nero, per casi di sfruttamento che via via arrivano alla riduzione in schiavitù. Nel mezzo si registra tutta una serie di casi di sfruttamento e interposizione di manodopera violenta, non di semplice lavoro nero. E sono sostanzialmente inattaccabili, perché manca una legge che definisce reato il caporalato. Viviamo un paradosso: i casi particolarmente gravi possono arrivare a una condanna per riduzione in schiavitù, ma per il resto ci sono solo sanzioni amministrative. In base alla legge Bossi-Fini si punisce l’impiego di manodopera clandestina, ma se un imprenditore sfrutta rumeni o altri cittadini comunitari è inattaccabile. Nel mezzo non c’è niente. E per tante imprese, vista la modica somma delle sanzioni, il gioco vale la candela». È possibile tracciare una geografia dello sfruttamento bracciantile? «Si può parlare di una piena globalità delle campagne pugliesi. Dopo l’uscita del libro, nel quale denunciavo casi di riduzione in schiavitù di polacchi, con numeri imponenti visto che almeno settecento persone tra Bari e Cracovia avevano presentato denuncia, di polacchi non ne arrivano più. In compenso ci sono i rumeni: lo sfruttamento è simile e in alcuni casi peggiore. La velocità della sostituzione è stata impressionante». La Puglia, a livello di governo locale, ha reagito? «In Puglia, a differenza di altre regioni, sono state prese delle misure. Non solo a livello sindacale e associazionistico, laico e cattolico, ma anche istituzionale, con la legge del 2006. Ci sono poi altre iniziative, come quella degli alberghi diffusi nelle campagne, dove a un prezzo modico i braccianti possono trovare soluzioni abitative più dignitose. Gli scettici possono ritenerle gocce nel mare, ma si tratta di esperimenti positivi, che introducono comunque una riflessione. In definitiva possiamo dire che in Puglia sono avvenuti episodi di sfruttamento peggiori di quelli di Rosarno o della Campania, ma che è anche la terra nella quale c’è stata una qualche reazione. Il peggior alleato del caporalato non è la sottovalutazione del problema, ma il provincialismo che ti porta a pensare questi fenomeni come prodotto locale di un’onda lunga del passato. Esiste una storicità, ma è compenetrata dalla modernità. Girando per i borghi agricoli pugliesi incontri una percentuale di stranieri come in via Padova a Milano o all’Esquilino a Roma».

Rispetto al passato c’è una differenza enorme: la scomparsa della solidarietà tra sfruttati. «Esiste una grande differenza tra il ‘cafone’ di ieri e il ‘cafone’ postmoderno. Un tempo bracciante, caporale e padrone – pur sulle rispettive posizioni – condividevano la stessa comunità di riferimento. C’erano scontri di classe durissimi, ma lo stesso orizzonte culturale: il borgo, il dialetto, il santo patrono. Fino a relazioni parentali, seppur indirette. Oggi la forza lavoro è iperframmentata, per provenienza, lingua e cultura. Il casolare dove dormono africani o rumeni, che magari dista cinque chilometri dal centro di Cerignola, è in realtà una terra di nessuno, lontana mille miglia dalla comunità locale. C’è poi una seconda spiegazione, quasi pasoliniana. Molti dei padroncini italiani di oggi sono ex braccianti. La maggior parte delle aziende sono piccole e i caporali sono stranieri che sfruttano i loro stessi connazionali». La società civile, in Puglia e altrove, è pronta a cambiare l’approccio socio-culturale di fronte allo sfruttamento? «Bisogna lavorare molto, ogni giorno. Girando molto per il Sud ho avuto spesso la percezione che se ti trovi in una città manca la consapevolezza di quello che avviene anche a soli pochi chilometri di distanza. Nei paesi caldi del caporalato, invece, la percezione c’è. Anche quando presentavo il mio libro, ogni tanto, incontravo delle resistenze, soprattutto tra i piccoli proprietari terrieri che hanno una piccola impresa impoverita, che sente la crisi. È ovvio, però, che la soluzione dei loro problemi non può essere certo la contrazione dei costi del lavoro oltre la soglia della dignità umana. Per il rispetto della legge, ovvio, ma soprattutto perché questo imbarbarimento dei rapporti umani e di lavoro ha prodotto una deriva razzista. Si realizza un paradosso per il quale se ti considero un lavoratore di serie B, un cittadino di serie B senza documenti e diritti civili, finirò per considerarti anche un essere umano di serie B. Questo viene per lo meno minimizzato dall’opinione pubblica. Bisogna continuare a denunciare, per arrivare a una piena consapevolezza del problema, soprattutto nelle Rosarno d’Italia».

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a cura di Stella

Spinelli

illustrazione

Guido Guarnieri

Casa dolce casa 10 luglio, Mandrogne (Al)

Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dal 10 luglio al 10 agosto. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2010 sono state 127.

Moussad Mouch, marocchino di 59 anni, è stato arrestato con l’accusa di aver ucciso sua moglie, Fadma Assour, di 41. La donna è stata trovata morta nella sua casa di Mandrogne, alle porte di Alessandria. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, la vittima è stata accoltellata tredici volte. Per i carabinieri di Alessandria e per il pm Riccardo Ghio si tratta di un delitto passionale.

16 luglio, Mornese (Al)

Francesca Beretta, 58 anni, è stata uccisa a botte dal figlio, Lorenzo Cavanna, calciatore di 26 anni. L’omicidio è avvenuto in una casa di campagna di Mornese, nel Monferrato, dove la famiglia risiedeva da alcuni mesi, dopo aver lasciato Arenzano, in provincia di Genova. Dopo aver commesso il delitto, intorno a mezzogiorno, Cavanna si è barricato in casa. Sul corpo della vittima sono state rinvenute le tracce delle percosse e delle ferite da oggetto contundente. Il figlio non ha opposto resistenza ai carabinieri che lo hanno condotto nel carcere di Alessandria.

22 luglio, Legnano (Mi)

Ha chiamato il 118 dicendo di aver trovato la madre morta in casa, ma dopo poche ore ha confessato: «L’ho uccisa io». Lo ha fatto a mani nude, colpendola ripetutamente. Si chiamava Annunziata Romeo e aveva 66 anni. Lui, Salvatore Madau, ne ha 40 e non era nuovo a gesti di violenza.

24 luglio, Buccino (Sa)

Carla Radu aveva 35 anni e due figli. Una di quindici anni e l’altro di undici. Era rumena, come il marito, ma da anni viveva in Italia. È stato lui, Costel Tudor, suo coetaneo, a ucciderla. Era convinto che la moglie lo tradisse. L’ha presa a martellate al culmine di un litigio, fracassandole il cranio. Poi ha ucciso, strangolandolo, il bambino che era entrato in cucina sentendo gli urli.

28 luglio, Termini Imerese (Pa)

Agostino Bova, di 56 anni, ha sparato contro moglie e figlia al termine di un alterco. Poi si è tolto la vita. La donna, Margherita Carollo, di 51 anni, è morta sul colpo. La ragazza, Ornella, 30 anni, è stata trasportata d’urgenza all’ospedale di Palermo in condizioni disperate. Bova, operaio della Fiat di Termini Imerese, era stato licenziato un anno e mezzo fa per motivi disciplinari.

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1 agosto, Baschi (Tr)

È morta all’ospedale Sant’Eugenio di Roma Rosa Sequino, di 44 anni, originaria della Campania, ricoverata da mercoledì 27 luglio con ustioni di terzo grado sul 90 per cento del corpo. Suo marito, Luciano Brancaccio, operaio casertano quarantenne, l’aveva prima cosparsa di benzina e poi data alle fiamme. Il fatto era avvenuto ad Acqualoreto, nel comune di Baschi. Il marito, fermato dai carabinieri che lui stesso aveva chiamato, è rinchiuso nel carcere di Orvieto. Ha negato l’intenzione di uccidere la moglie e precisato di volerla solo intimidire per il suo rifiuto di firmare le carte del divorzio.

4 agosto, Caccamo (Pa)

Salvatore Muriella, 62 anni, è entrato all’alba nella casa di cura privata di Caccamo, dove da due anni era ricoverata la madre, Rosa Gallitano, di 84 anni. Dopo aver tramortito l’infermiere di turno con un colpo alla testa, ha cosparso di benzina il corpo della donna e le ha dato fuoco. Le fiamme hanno fatto esplodere la bombola di ossigeno che era in camera e nella deflagrazione sono rimasti feriti altri due pazienti della casa di cura. Separato, venditore ambulante, pregiudicato, Muriella è stato rintracciato e arrestato. Le cause del gesto sarebbero da ricondurre a questioni economiche.

Un anno dopo, Ceglie del Campo (Ba)

Chiara Brandonisio, la donna di Ceglie del Campo uccisa a colpi di spranga la mattina dell’8 luglio 2010, è stata ammazzata da Domenico Iania, piacentino di 53 anni. Lo scrive il gup del Tribunale di Bari, Michele Parisi, nelle motivazioni della sentenza di condanna dell’imputato a trent’anni di carcere, spiegando perché ha riconosciuto l’aggravante della premeditazione. La donna di 34 anni aveva avuto per circa cinque mesi una relazione virtuale con Iania e lo aveva lasciato senza averlo mai incontrato di persona. L’uomo aveva minacciato di suicidarsi in diretta via webcam. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il killer è partito dalla sua casa di Morfasso, nel Piacentino, per raggiungere la Puglia. Giunto a Ceglie all’alba, ha utilizzato le ventiquattr’ore successive per studiare i movimenti della vittima. Dopo averla trovata, l’ha pedinata e infine aspettata sulla strada che Chiara percorreva ogni mattina in bicicletta per andare a lavorare. Lì l’ha colpita alla testa ripetutamente con una spranga di ferro fino a ucciderla. Poi ha abbandonato l’auto al limite di un precipizio, ritornando nel Piacentino in treno e in autostop. È stato arrestato a cinque giorni dal delitto, il 13 luglio, a Piacenza, dove è tuttora detenuto. Iania aveva precedenti specifici per il tentato omicidio dell’ex moglie nel 1993.

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e se non rimane nessuno? pìpol di

Gino&Michele

illustrazione di

Cappellosenzatesta

«A volte qualcuno perde una guerra. Purtroppo c’è sempre qualcun altro che la ritrova». Abbiamo scovato la battuta sopra citata in internet, senza l’autore. Ogni tanto capita di sentire e di celebrare, raccontandole in giro a nostra volta, delle frasi, delle storie interessanti, o divertenti, o semplicemente belle, vive. Quasi tutte hanno un autore e dei protagonisti conosciuti. Poi, magari dopo tanto tempo, qualcuno ci suggerisce che l’autore, il protagonista non è quello che ci aspettavamo. E che anche la storia non è poi così vera. Poco importa. In questo mondo fatto di notizie (ri)costruite in vitro, il verosimile può assurgere a più reale del reale. Se il contesto è corretto, non cambia la sostanza delle cose. *** Questa “parabola” che segue, per esempio, è attribuita al Mahatma Gandhi. Capirete dopo averla letta che non è poi così importante che sia stata detta proprio da lui. Perché è già sua. Un uomo chiese un giorno al suo Dio come erano fatti l’Inferno e il Paradiso. Dio condusse l’uomo davanti a due porte. Aprì la prima. L’uomo vide una tavola rotonda perfettamente imbandita. Al centro della tavola si trovava un enorme recipiente contenente cibo dal profumo delizioso. Attorno al tavolo molte persone. Magre, però. Scheletriche e dall’aspetto emaciato. Avevano tutte un’aria terribilmente affamata, si guardavano in cagnesco. L’uomo osservò meglio quei suoi simili: attaccati alle loro braccia avevano tutti dei cucchiai dai manici lunghissimi. Ognuno di loro poteva raggiungere il piatto e raccogliere un po’ di cibo, ma poiché il manico del cucchiaio era più lungo del suo braccio non riusciva ad accostare il cibo alla bocca. L’uomo capì dove si trovava. Dio gli confermò: «Hai appena visto l’Inferno». Poi gli aprì la seconda porta. La scena che l’uomo vide era identica alla precedente. C’era la grande tavola rotonda imbandita e al centro il recipiente pieno di cibo che gli fece venire di nuovo l’acquolina. Le persone intorno alla tavola avevano anch’esse i cucchiai dai lunghi manici. Questa volta, però, erano ben nutrite, serene, in pace, e conversavano tra loro sorridendo. L’uomo disse a Dio: «Non capisco!». «È semplice – rispose Dio – essi hanno compreso che il manico del cucchiaio troppo lungo non consente di nutrire se stessi, ma permette di sfamare il proprio vicino. Perciò hanno imparato a nutrirsi gli uni con gli altri! Inferno e Paradiso sono uguali nella struttura. La differenza la portiamo dentro di noi». *** Questa ormai diffusissima poesia, invece, ci è stata recapitata in Facebook. La mettiamo, nel caso qualcuno ancora non la conoscesse. Era stata sempre – vero e verosimile! – attribuita solo a Bertolt Brecht. In realtà è di un pastore luterano tedesco: tale Martin Niemöller, che la scrisse negli anni Trenta. Brecht la rielaborò. Questa è la versione brechtiana, la più conosciuta. In chiusura aggiungiamo tra parentesi quella di Niemöller, legata al Nazismo. Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare. (Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico. Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi presero gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.) *** Belle, belle tutt’e due, no? E intanto l’estate sta finendo, come dicono i poeti, quelli canterini...

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il destino della scostumata decoder di

Violetta Bellocchio

foto Maurizio

Galimberti

“Sesso, una cittadina di provincia e una star del cinema”. Ecco gli ingredienti chiave di una buona storia, secondo la commedia In & Out, dove un conduttore televisivo diventa il mentore di un insegnante coinvolto suo malgrado in un piccolo scandalo. In realtà, la storia ha bisogno di un quarto elemento: la scostumata. La donna che si è macchiata di una colpa, meglio se erotica, e che ora, le piaccia o meno, ha gli occhi di tutti puntati addosso. Se questa è la formula, difficile trovare un attacco più efficace di “segretaria ventenne di un circolo del Pd prende parte a un film porno”. Succede a San Miniato, e la trama è subito raccontata alla perfezione. Il segreto viene a galla quando il dvd arriva in paese: i vicini mormorano, le videoteche fanno incassi record, il circuito chiuso di battute e commenti è alimentato dal risvolto politico: da un lato «anche le compagne sbagliano», dall’altro «quelli di sinistra moralizzano sulle escort e intanto le loro mogli...». E per la scostumata, che destino è previsto? Per prima cosa, abbandonare circolo e partito, barricarsi dietro occhiali scuri e tendine tirate. Poi cambiare città, oppure sperare che la comunità la perdoni, dopo un adeguato periodo di lutto. E se invece trasformasse la sua lettera scarlatta in un punto d’orgoglio? Magari nel trampolino per la fama nazionale? C’è già passata Jessica Rizzo, trasformatasi da anonima casalinga marchigiana in ricca professionista dell’hard. Insomma, si chiude la porta della politica, se ne apre un’altra. Però la donna di San Miniato non si è affatto dimessa per lo scandalo: si era allontanata da quel circolo, mesi prima di girare il film. Oggi non chiede scusa a nessuno, ma non va nemmeno ospite a “La vita in diretta”. Non importa. Lo scandalo prevede sempre una colpa, identificata come tale, se non dalla protagonista, dal contesto in cui va in scena. E che una donna adulta e padrona di sé possa rompere una regola non scritta, senza voler per forza “dare spettacolo”, non è accettabile. Non è un buon finale.

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Trammino Pisa - Livorno


blues

di

Luca Galassi

foto

Naoki Tomasini


La terra di mezzo tra Pisa e Livorno fu prima d’acqua e poi di fuoco. Palude salmastra bonificata dai Medici, dai Lorena e dai fascisti, subì l’incendio della guerra, che riempì il suo ventre di bombe. Quelle di ieri, l’ultima delle quali è stata fatta brillare a maggio, e quelle di oggi, conservate nel sottosuolo avvelenato di Camp Darby. L’acqua scomparve per gradi, tra Pisa e il mare. Scomparve pure gran parte di ciò che vi era stato costruito. Quanto è rimasto ha invece perso la sua funzione, è diventato altro, o giace in un malinconico abbandono. La terra di mezzo unisce due città divise dal campanile. Pisani e livornesi, forse loro malgrado, la condividono. È una terra a metà. Luogo sospeso dove metà di tutto appartiene a ciascuno.

Il filo della memoria è di ferro, forgiato nel doppio binario di una linea che non c’è più: la ferrovia Pisa-TirreniaLivorno. Veniva chiamata il trammino e portava gli operai alla Fiat di Marina e i vacanzieri a Tirrenia. Comparse e tecnici la prendevano per arrivare agli stabilimenti della Cosmopolitan film, dove si giravano i kolossal. Tagliava campi e pinete, ansimando a sessanta all’ora lungo una terra rubata al mare e alla malaria dai granduchi, lanciata nel futuro da Mussolini e approdata al presente tra militari americani e magnati russi. Oggi costeggia l’Arno, affondata nei rovi. Nel 1943 il traffico di passeggeri raggiungeva i tre milioni e mezzo. Il 31 agosto di quell’anno, le bombe dei B-17 americani devastarono la stazione di partenza, nel quartiere pisano di Porta a Mare. Mille i morti, nei rifugi allagati dall’Arno. Gli obiettivi erano lo scalo ferroviario, la fabbrica di vetro Saint-Gobain e la Piaggio, che costruiva motori per gli idrovolanti. La linea venne ripristinata solo in parte, perché gli americani si erano appropriati del tratto tra Marina e Calambrone per costruire la base Nato di Camp Darby. Nel ’47 le corse ripresero, ma per conoscere un declino inarrestabile. Qualche anno dopo la motrice investì un carretto, e la modernità travolse il trasporto su rotaia. Dopo l’incidente, il quotidiano Il Telegrafo titolò: “Il trenino è in agguato”. Cominciava un’epoca nuova. Con il boom dell’auto la gomma cancellò il ferro. La periferia industriale di Porta a Mare riprese lentamente a vivere, prosperando fino agli anni Ottanta. Oggi attraversa una fase alterna: se dopo decenni di crisi la Saint-Gobain ha assistito a un inatteso rilancio (i francesi hanno investito cento milioni di euro scongiurando i temuti licenziamenti), parte della cantieristica navale è in crisi, gli operai degli storici Cantieri di Pisa, proprietà del Gruppo Baglietto, hanno passato mesi in cassa integrazione, mentre i nuovi capannoni per la nautica da diporto, spuntati come funghi anche in previsione della ristrutturazione della darsena, sono ancora vuoti. La Piaggio, invece, costruisce ancora pezzi di ricambio. Poi verrà trasferita per sempre a Pontedera per lasciar spazio al megaprogetto di Matteo Colaninno, che attraverso la valorizzazione degli immobili vedrà sorgere un residence con centinaia di appartamenti. Il percorso del trammino non esiste più. Ma le stazioncine sono intatte, abitate dagli ex dipendenti, ai quali sono state date in affitto dopo lo smantellamento, avvenuto nel settembre del 1960. Ornata con fioriere,

gli orti tra i binari, polli e conigli nelle gabbie, quella di San Piero a Grado ospita Aldo e Osanna Madrigali. La coppia apre casa come da usanza antica, contadina. Offrono un dolce e del vino. «Osanna, sì, mi hanno chiamato così. Quando in chiesa dicono “nell’alto dei cieli” io faccio i corni in terra e gli scongiuri». Aldo faceva il meccanico per la Compagnia trasporti pisani. «Aggiustavo le corriere. Ma prima ho fatto un po’ di tutto, perché si era contadini poveri. Anche se in famiglia eravamo in quattordici, per chiudere la porta si metteva una seggiola di traverso, a dire che la nostra casa era sempre aperta». D’estate a San Piero si «scotevano le pine» e arrivavano gli stagionali a raccogliere pinoli. «Pulivamo il granaio, e gli ospiti dormivano lì. Mangiavamo fagioli a pranzo e a cena». E il trammino? «Il trammino non c’è più, siamo rimasti noi. In affitto nella stazione a quattrocento euro al mese».

Tonnellate di bombe

A San Piero a Grado una basilica romanica celebra la leggenda: l’approdo di San Pietro dalla Palestina in terra pisana. O livornese. Ma allora non c’erano province, e la terra era una, repubblica marinara. La chiesa è definita “Monumento messaggero di pace” dall’Unesco. Eppure, giusto di fronte, immerse in un idillio di lecci e pini domestici, sono sepolte tonnellate di bombe. Da Camp Darby decolla la guerra. Partirono dai 125 bunker della base, nitidamente visibili cliccando su Google maps, tutti gli ordigni scaricati sull’Iraq nel ’91 e il 60 per cento di quelli sganciati in Kosovo nel ’99. Anche le bombe per la Libia, dicono alcuni, sono uscite dalla pancia di Camp Darby. Nella base entrano una linea ferroviaria e il canale rinascimentale dei Navicelli, che arriva dritto nel porto di Livorno. A pochi chilometri c’è l’aeroporto militare. Presto canale e aeroporto verranno ampliati. Il primo per far passare due chiatte armate anziché una. Il secondo sarà lo snodo aeroportuale italiano di tutte le missioni militari all’estero, a totale disposizione della Nato. Da Camp Darby è pronta alla guerra, in ogni momento, un’intera brigata meccanizzata: dai carri armati agli stuzzicadenti.

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Pisa quella che un tempo era la stazione di partenza del trammino oggi è la sede della compagnia di trasporto pubblico ▶I vecchi binari affiorano tra rovi, pini ed erbacce ▼Barriera Margherita, capolinea del trammino a Livorno


Perché la base fu costruita proprio tra Pisa e Livorno? Perché è un territorio perfetto. Ponte strategico nel Mediterraneo, avamposto ideale durante la Guerra fredda, centro di ascolto elettronico (si dice che fu uno dei punti della rete Echelon). Perfetto anche per la conformazione geomorfologica: monti alle spalle e mare di fronte disegnano un’enorme antenna naturale, come una parabola satellitare. Se n’era accorto il cervello in fuga Guglielmo Marconi, che nel 1911 fu fatto rientrare dalla Cornovaglia. Da lì, nel 1901, aveva lanciato la prima trasmissione radio transatlantica. Il re Vittorio Emanuele III gli aveva donato la più grande stazione radiotelegrafica d’Europa. Di fronte a Camp Darby, a Coltano, sorgevano torri alte fino a 250 metri per lanciare onde radio alle colonie d’Africa, accendere le lampadine del Cristo Redentore di Rio e – secondo una narrazione metà storica e metà leggendaria – captare e rilanciare l’s.o.s. lanciato nel 1912 da Harold Bride, l’addetto radio del Titanic, prima che il transatlantico affondasse. Della stazione rimangono oggi i piloni di ancoraggio delle antenne, un centro Rai e una vecchia palazzina diroccata, che il Fondo per l’ambiente italiano ha segnalato per la ristrutturazione. Il sindaco di Pisa, Marco Filippeschi, vorrebbe costruirci un museo e un laboratorio. Ma i fondi non ci sono. E allora si aspetta. Coltano fu terra di prigionia. Gli americani vi avevano raccolto i prigionieri di guerra e trentamila repubblichini di Salò. Anche il poeta Ezra Pound vi soggiornò brevemente, rinchiuso in quella che chiamò poi “la gabbia dei gorilla”, un cubicolo infuocato dal sole di agosto. I suoi Canti pisani furono ispirati dalla cattività. Ammirava il fascismo, anche se si dichiarava pacifista. Parlava di “guerra di merda”, nel Canto LXXII, dedicato all’amico Marinetti. E nel suo testamento spirituale scriveva: “Ciò che sai amare rimane, il resto è scoria”.

Una colata di cemento

Il trammino puntava verso il mare. A Marina di Pisa neanche gli operai ci sono più, e lo stabilimento metalmeccanico ex Fiat è stato abbattuto quattro anni fa per far spazio al porto di Boccadarno. Costruivano idrovolanti, qui. Anche quelli che partirono per il Polo con Roald Amundsen. Gli abitanti non rimpiangono quei tempi, perché l’investimento è cospicuo: 150 milioni di euro per la nautica da diporto (400 posti barca), nuovi residence (550 alloggi) e un’area commerciale (42 esercizi). Dalla bocca dell’Arno la linea devia verso Livorno. Nella stazioncina di Marina vive dal 1958 Alfredo Bargagna, ottantasette anni. «Mi alzavo alle cinque, le mie giornate duravano venti ore, dalle cinque a mezzanotte. Ogni mezz’ora un treno. D’estate la stazione si affollava: sette-ottocento persone, che dovevo scansare per andare a girare gli scambi. Facevo i biglietti, spazzavo il piazzale e pulivo i gabinetti. Accendevo i semafori coi lanternini a petrolio. Con ’ste giornate dense mi toccava far l’amore sulla sedia». Bargagni esce da casa e apre il cancello che dà su quella che una volta era la banchina. Accanto all’orto, le galline. «Volete un ovo? È fresco di stamani». Smise il lavoro di casellante quando la linea chiuse. Ha fatto l’autista di autobus e il contabile, prima di andare in pensione. «Qualche mese fa ci hanno aumentato l’affitto». Non paga quanto l’ex collega di San Piero? «No, qui costa seicento. Siamo


◀Il

cantautore livornese Bobo Rondelli ▶L’attore Mario Spallino alla Cantina senese di Livorno ▼Osanna e Aldo Madrigali nella loro casa, la stazioncina di San Piero a Grado ▼▼A Boccadarno nascerà il nuovo porticciolo turistico

vicini alla spiaggia della villeggiatura, sa, Tirrenia...». Il fascismo ha costruito Tirrenia nel 1932. Gli studi Pisorno (fusione di Pisa e Livorno) avrebbero dovuto glorificare il regime e divenire il centro cinematografico d’Italia. Il primo film fu Camicia nera di Giovacchino Forzano, girato nel ’33. Con la guerra, divennero deposito d’armi per gli americani. Diventati Cosmopolitan, dopo un periodo di splendore neorealista negli anni Cinquanta e Sessanta, chiusero nell’87, con Good morning Babilonia dei fratelli Taviani. Da allora, un’onda immobiliarista di cemento e di lusso ha invaso il litorale fino a Livorno. La terra di mezzo non è più il mesto paesaggio delle colonie marine fatiscenti e della pineta del Tombolo, il “paradiso nero” ritratto nell’omonimo film del ’47, dove i soldati di colore americani se la facevano con le segnorine. Schiere di cantieri stanno trasformando gli studi Cosmopolitan in un albergo (che si aggiunge ai due campi da golf del resort a cinque stelle), le colonie del welfare fascista Rosa Maltoni (la madre di Mussolini), Vittorio Emanuele II e Firenze in villette residenziali con pisci-

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Bobo Rondelli

ne, campi da tennis, centri fitness. Seicentomila metri quadri da affittare o comprare. In prima fila, i russi, che già a Rimini e Viareggio sono l’ossigeno alla domanda immobiliare nel settore del real estate di pregio.

Prima comunisti, poi fascisti...

A Livorno le stazioni erano i varchi della cinta daziaria: barriera Garibaldi a nord, barriera Margherita a sud, una corsa sferragliante in mezzo alla città. Laddove un tempo c’erano i binari, oggi c’è il nuovo mercatino americano, un’istituzione livornese, trasferito nel 2009 da piazza Garibaldi dopo le proteste dei residenti. Al mercatino lavora dal ’77 Piero Salvini. «Rispetto all’epoca – spiega – siamo diventati un po’ un supermercato. Non abbiamo più solo “pezzi” militari. Dopo la guerra si comprava l’aspirina, il burro di arachidi, il dentifricio sbiancante. Oggi c’è davvero di tutto. Ma trovare cose che arrivano dalla base... beh, se si ha qualche amico dentro, non è escluso che sia possibile». Come nacque il mercatino lo spiega Mario Spallino, attore e regista, allievo di Vittorio Gassman e Giorgio Gaber. «Nacque per sopravvivenza, dai disertori del Tombolo, molti dei quali erano di colore. Rubavano dentro Camp Darby. Qualunque cosa. E se la facevano con le famose segnorine. Quando i disertori venivano arrestati, le segnorine prendevano le merci dai nascon-

digli e le vendevano al mercatino. Sopravvivevano così. Non erano ben viste dai livornesi, che le insultavano e le spogliavano perché andavano coi neri. Questi ultimi spesso finivano gettati nei canali. A quei tempi il razzismo era molto forte, anche coi comunisti al potere». Come è noto, la scissione a Livorno si consumò nel ’21 al Teatro Goldoni. Qui rimasero i socialisti. Al teatro San Marco andarono i comunisti. Racconta Spallino: «Quando Costanzo Ciano, gerarca livornese, convocò un’adunata al Goldoni, disse: “Dove sono finiti i sovversivi che frequentavano questo teatro?”. “A sor Costanzo, siamo sempre qui. Siamo sempre gli stessi”, gli fu risposto dal fondo del teatro. Prima comunisti, poi fascisti, poi comunisti. Livorno è così. È questo alternarsi di passioni estreme». Con Spallino andiamo a mangiare il cacciucco alla Cantina senese, davanti alla Darsena nuova. I camerieri hanno una maglietta con la scritta Enjoy Cacciucco, al posto di Enjoy Coca-Cola. «Sapete come dicono che morì Costanzo Ciano, detto “il ganascia” per il suo appetito?», domanda Spallino. «Su una puttana. Dopo un’indigestione di cacciucco». Enjoy cacciucco.

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«Fuori Livorno sto male. A Roma sto male. A Milano sto male. C’è troppa gente. Che me ne faccio di veder tanta gente?». Bobo Rondelli si muove da Livorno il meno che può. “Viaggio d’andata senza ritorno, bella Livorno, mi fermo qui, dentro a un bordello come a Paris”, canta in Madame Sitrì. Davanti al porto vecchio beve acqua gassata. Non fuma e non beve più, perché «ho dato troppo – dice – e ora è meglio che vada piano». La livornesità dei suoi canti si condensa nei motti schietti, nell’irridere la malasorte, nell’attitudine agrodolce dell’esistenza. «Qui c’è ancora un senso della comunità che non è stato distrutto dalla tv. La tv è stata bella quando la si guardava tutti insieme al bar. Tutti ’sti canali non è mica libertà, è isolare le persone... Più sei solo e più guardi la tv. Più guardi la tv e più diventi solo. Qui si giocava per strada. C’erano i flipper, le strade erano libere dalle automobili, c’era il carretto col cavallo, si montava dietro. Le canzoni duravano tanti mesi. Oye como va di Santana è durata un’eternità. Ora c’è il compra consuma crepa». «Ogni luogo – sostiene Rondelli – ha bisogno di qualcuno che sia il cantastorie della comunità, e io mi son preso questo ruolo. Amo Livorno perché ha ancora la capacità di schierarsi col debole che arranca, con chi non mangia, con chi non arriva a fine mese. Fosse tutta l’Italia come Livorno, non ci sarebbero stati tutti ’sti Cavalieri neri». Berlusconi? «Lui come altri, penso a La Russa, per esempio. Non è un caso che il ministro della Guerra sia lui e che abbia quella faccia, da pupo siciliano. Una battuta che faccio di solito è: “Non credo in Dio, però ho visto il Diavolo”. Ecco». Se a Livorno c’è Rondelli, a Pisa ci sono i Gatti Mézzi, dove “mézzi” oltre che per bagnati sta per ubriachi. In Cacciucco blues si burlano dei livornesi e del monumento ai Quattro Mori, di fronte alla Darsena, costruito per glorificare Ferdinando di Toscana: “E guardando i quattro mori tristemente ti consoli, mentre ir tuo pensiero corre a chi ’nvece cià la torre”. «Mah – fa Rondelli – io gli rispondo parafrasando l’amato Johnny Cash, e il suo Folsom Prison Blues: “I hear the train a comin’, it’s rolling round the bend... Pisa-merd”». Diceva così? «Eh sì, ma nella versione originale, che pochi conoscono».


a cura di

Antonio Marafioti foto Muzaffar [ap/lapresse]

Salman

Cessate il fuoco

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vittime

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Messico Colombia

Un manifestante mostra le mani con la scritta: “Sì alla libertà, no alla violenza” durante una protesta a Damasco

Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dall’11 luglio al 10 agosto, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.peacereporter.net

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Libia Algeria Somalia Sudan Etiopia Nigeria Costa D’Avorio

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Bahrein

Afghanistan

Il 15 luglio Zainab Ahmed Hasan al-Jumaa, di 47 anni, è morta dopo aver inalato i gas lacrimogeni sparati dagli elicotteri della polizia. È accaduto durante una manifestazione a Sitra, uno dei centri nevralgici dell’industria petrolifera nazionale. Zainab è la trentatreesima vittima delle proteste che da metà febbraio contrappongono la popolazione sciita, che chiede maggiori libertà civili, al governo sunnita del re Hamad bin Isa Al Khalifa.

Un convoglio di soldati francesi in forza alle truppe Nato ha ucciso una famiglia di tre persone. È accaduto lo scorso 28 luglio nel distretto di Alasai, provincia settentrionale di Kapisa. Le vittime – un uomo, una donna incinta e un bambino – stavano viaggiando a bordo di un’automobile quando gli uomini in divisa hanno aperto il fuoco. Secondo quanto reso noto dai portavoce militari francesi, la macchina non si sarebbe fermata al checkpoint nonostante ripetuti avvertimenti. Dopo aver esploso alcuni colpi in aria i militari hanno diretto il fuoco sulla vettura, uccidendo i passeggeri. L’ambasciatore francese ha immediatamente inoltrato le scuse ufficiali di Parigi al governo di Kabul, ma il presidente Hamid Karzai ha dichiarato che nessuna scusa potrà riportare i morti in vita.

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India Siria Domenica 31 luglio il presidente Bashar al-Assad ha ordinato un’incursione dei carri armati dell’esercito nella città di Hama, simbolo della rivolta popolare iniziata lo scorso febbraio. I tank sono entrati nella città all’alba e hanno sparato sulla gente riunita per le strade. Il bilancio è di oltre cento morti, tra cui donne e bambini, e altrettanti feriti. Oltre ai mezzi corazzati, che hanno fatto fuoco sui civili con un ritmo di circa quattro colpi al minuto, l’esercito ha usato le mitragliatrici pesanti sulla folla e impiegato i cecchini che si sono appostati sui tetti degli edifici. I cadaveri sono stati abbandonati per le strade.

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È di ventuno morti e 140 feriti il bilancio del triplice attentato dinamitardo di Mumbai. Il 13 luglio tre ordigni sono stati fatti scoppiare in diverse zone della città: nel quartiere centrale di Dedar, all’Opera House e a Zaveri Bazaar. Il ministro degli Interni, Palaniappan Chidambaram, ha ricondotto l’accaduto a una matrice terrorista di stampo islamico. Le esplosioni sono state provocate in un raggio di dieci chilometri e a pochi minuti di distanza l’una dall’altra. A Zaveri l’ordigno sarebbe stato nascosto dentro una centralina elettrica nei pressi della fermata dell’autobus. A un’altra fermata, quella di Dedar, la bomba sarebbe invece esplosa proprio mentre centinaia di pendolari tornavano a casa dal lavoro. L’ultima carica esplosiva, quella all’Opera House, sarebbe invece stata occultata all’interno di un ombrello. Gli inquirenti sospettano che dietro gli attentati ci sia la mano del gruppo clandestino Indian Mujahiddin. L’attacco è arrivato a quasi tre anni di distanza dal 26 novembre 2008, quando un’altra serie di attentati costò la vita a 195 persone.


volontari e volenterosi polis di

Enrico Bertolino

illustrazione

Federico Appel

Un’altra estate sta per chiudersi. Finite le vacanze, ognuno torna alla propria routine, sperando di trovare tutto come lo aveva lasciato: la casa, gli amici, i parenti, ma soprattutto, considerati i tempi che stiamo vivendo, il lavoro e i risparmi. Non quelli nascosti in casa, forse a tutt’oggi i più sicuri, ma quelli che abbiamo depositati in banca, dove ormai di sicuro ci sono solo spese, commissioni e tassi debitori. Ognuno rientra con un bagaglio di ricordi, pieno di immagini, sensazioni e felicemente stanco, cioè stravolto ma felice per quel che ha fatto, o tristemente riposato, a causa di quel micidiale mix di abitudini e noia che è il relax forzoso e che non ti fa vedere l’ora di tornare a lavorare. Questo è ciò che può accadere a chi va semplicemente in vacanza. Ma ci sono anche altre persone che hanno deciso di investire diversamente le settimane che potrebbero dedicare al loro riposo. Da anni li chiamiamo in tanti modi diversi ma sono comunemente noti come “volontari”, quelli che cioè appartengono al grande universo del volontariato. I volontari passano le vacanze – e spesso non solo quelle – in luoghi dove nessuno penserebbe mai di andare, ad aiutare gente che non conoscono e talvolta a rischiare addirittura la propria vita. In genere, sono persone normali che decidono di fare una cosa speciale, dedicando il proprio tempo al prossimo, senza aspettarsi nulla in cambio, con il solo obiettivo di mettere la propria competenza al servizio di chi ne ha bisogno. Il volontario non si annoia di certo in “vacanza“, non si chiede se e quando deve tornare, semplicemente perché non ha il tempo di farlo. Come ogni essere umano, a volte anche lui forse vorrebbe potersi lamentare, come chi in ferie non si è divertito perché ha scelto il posto o la compagnia sbagliati. Ma, venendo a contatto con gente che ha ragioni ben più gravi delle sue per lamentarsi senza che abbia potutto scegliere luogo e condizioni in cui stare, il volontario non si pone il problema e continua a spendere il suo tempo e le sue energie, dando prova di una dote che purtroppo si sta perdendo: una sana, sacrosanta e civile coerenza. Questa premessa che, lo ammetto, è un po’ lunga e forse anche retorica, mi serve per sottolineare la differenza che noto tra il volontario e una figura che, a prima vista, parrebbe assomigliargli ed è sempre più diffusa nella nostra società: il “volenteroso”. È un personaggio molto attuale e abbastanza controverso, il volenteroso, poco chiaro nei suoi contorni. Un po’ come i responsabili in politica, ha un gran voglia di fare del bene ma soprattutto di comunicarla a tutti e con ogni mezzo a disposizione. Si fa trovare sempre documentato e preparato sulle grandi emergenze umanitarie nel mondo, delle quali parla con cognizione, senza poi però far seguire alle parole alcuna azione che possa portare qualche beneficio reale alla causa che tanto gli sta a cuore. Il volenteroso “supporta” , “condivide”, “appoggia”, “partecipa”, ma raramente “agisce”. Ha tanta buona volontà ma si guarda bene dal trasformarla in comportamento, in azione, perché questo comporterebbe un impegno personale. E di impegni, i volenterosi, proprio per questa loro generosità nell’aderire, ne hanno presi talmente tanti – dalla tutela dell’ambiente alla difesa dei diritti del cittadino – che poi concretamente non riescono a mantenere fede a tutti i buoni propositi. Così, in un mondo ormai dominato dall’egoismo di massa, da Kabul a Lampedusa, dall’Aquila a Gaza, nelle grandi Ong, nelle piccole associazioni e nei singoli comportamenti del proprio privato, i volontari continueranno a essere la spina dorsale di un sistema solidale comunque forte ma ancora troppo poco conosciuto e soprattutto riconosciuto. Forse perché per un volontario che ha passato le vacanze lavorando in silenzio – e per fortuna ce ne sono tanti – ci sono almeno tre volenterosi che per ora si sono solo iscritti ma lo hanno già fatto sapere a tutti.

E


parola mia Patrizia Valduga

Incisione del XVIII secolo del dipinto di Giorgio Vasari I sei poeti italiani: in primo piano Dante (a sinistra, seduto) e Petrarca. Dietro, Guido Cavalcanti, Giovanni Boccaccio, Cino da Pistoia e Guittone d’Arezzo

ma il vero padre non è Dante Ma è proprio Dante il padre della lingua italiana? È vero, c’è stato da subito un gran numero di commentatori della Comedìa (che diventa divina nel 1555), a cominciare dal figlio Jacopo; e però nella canzone di Franco Sacchetti per la morte di Boccaccio (20 dicembre 1375) troviamo: “Come deggio sperar che surga Dante,/ che già chi il sappia legger non si trova?” A poco più di cinquant’anni dalla morte era già difficile da capire. E se per tutto il Quattrocento continuano i commenti, le cose non migliorano: “E chi è colui che sappia ciò che Dante si volesse dire in quel verso: ‘Già veggia per mezzul perdere o lulla’? Certo io credo che nessuno altro che noi fiorentini”, si domanda e si risponde il Monsignor Della Casa, quello del famoso Galateo. L’opinione critica ufficiale del Cinquecento considera Dante bizzarro e “vitando”, da evitare. Qualcuno lo ama e lo difende (“di Dante dico, che mal conosciute/fur l’opre suo da quel popolo ingrato”, Michelangelo), ma ai più piace poco. Nel Seicento, Giovan Battista Marino lo mette nel suo canone, ma lo usa (lo cita) virandolo in chiave comica o grottesca. Nel Settecento Giambattista Vico cerca di rilanciare la Commedia, ma non ci riesce. Chi ci riesce è invece Vittorio Alfieri, che consegna ai romantici un “gran padre Alighier” perfetto per loro: guerriero e esule, mistico e magico. Da Francesco De Sanctis in poi la critica continua a riscoprire “il Ghibellin fuggiasco” (Foscolo), e anche oggi continuiamo a riscoprirlo, di rimbalzo dall’estero o come viatico di attori sul viale del tramonto. Ma con poco frutto, visto che si pubblica La Divina Commedia in italiano d’oggi, (Libreria Editrice Fiorentina) o Viaggio nell’aldilà - La Divina Commedia per i ragazzi (Ars Europa Edizioni). Certo, è il nostro primo grandissimo, ma non è stato il primo a dare dignità letteraria al volgare, e non ha fatto scuola. Il padre della lingua che parliamo, a parer mio, è Francesco (Petrarca).

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[corbis]

di


un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

la forma della paura 1. Considerare la scienza come la più fedele possibile umanizzazione delle cose; impariamo a descrivere sempre più esattamente noi stessi, descrivendo le cose e la loro successione (F. Nietzsche). 2. Il Laboratorio di Fisica della Città dell’Università di Bologna ha scritto una equazione in grado di prevedere in senso statistico quando in una folla può innescarsi il panico. La folla che fisicamente sta in una piazza come quella virtuale nel cyberspazio: si pensi soltanto al panico in Borsa. 3. Alla voce "panico" recita lo Zingarelli: “Timore repentino che annulla la ragione e rende impossibile ogni reazione logica”. Quindi una follia, un impazzimento. Non rimane altro che chiamare gli psichiatri, altro che equazioni. 4. In natura il meccanismo del panico interviene in situazioni più o meno estreme come strategia per tentare di garantire la sopravvivenza degli individui – almeno alcuni, al limite uno – che potranno perpetuare la specie o la colonia, di cellule tanto quanto di formiche. 5. Nel mondo dell’homo sapiens la paura fino al panico può diventare un artefatto, una costruzione artificiale per affermare uno o più poteri, una o più oppressioni, una o più violenze. Una strategia di manipolazione delle coscienze per il dominio. 6. Martha Stout ha scritto un libro nel quale racconta dell’11 settembre e del suo uso: The Paranoia Switch. How Terror Rewires Our Brains and Reshapes Our Behavior – and How We Can Reclaim Our Courage. 7. Insomma nasce una scienza della paura, contro la paura. Chiamiamola: l’ottimismo della ragione. 8. Tornando alla nostra equazione, si può costruire un modello fisico-matematico, quindi implementarlo al calcolatore e fare degli esperimenti virtuali atti a mettere in luce i parametri di controllo dell’intera dinamica di folla, dall’auto-organizzazione al caos, fino allo stato di panico, che comincia da pochi individui per poi propagarsi. 9. Al di là dell’efficacia matematica, questi studi e modelli sono utili per aprire una discussione che non abbia paura della paura, ma anzi renda trasparente il meccanismo che installa il panico, costruendo un comune e solidale discorso pubblico, una razionalità condivisa. 10. Perché quando si scopre la forma della paura evidenziandone le nervature, la paura stessa si disinnesca, tornando a essere non un buco nero di follia, e/o uno strumento di manipolazione e oppressione, ma una strategia della natura per la salvezza, che va di pari passo con cooperazione e solidarietà.

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Anatomia del pendolare di

Fabio Stassi

illustrazioni

Pierluigi Longo

Fabio Stassi Siciliano di origine, classe 1962, vive a Viterbo e lavora a Roma da bibliotecario. Scrive sui treni, nelle ore di pendolarismo. Ha pubblicato tre romanzi (Fumisteria, È finito il nostro carnevale, La rivincita di Capablanca) e la piccola enciclopedia dei personaggi letterari (1946-1999) Holden, Lolita, Zivago e gli altri. Il suo editore è minimum fax e i suoi ultimi libri sono stati tradotti in tedesco.

Prima delle sei di mattina, il mondo ha il colore dell’alba. Ma non è rosata come quella dei greci. È nera e fredda per gran parte dell’anno, e non dà affatto l’idea di nascere all’interno di una conchiglia. Uscire a quest’ora ha un suo sapore di avventura e di pericolo. È come rinnovare, ogni giorno, la cerimonia di una partenza, avvicinarsi alla pellaccia dura delle cose senza trucchi o stratagemmi e assistere all’avvicendarsi delle stagioni osservando per anni sempre lo stesso viale. Alberi secchi come diapason dopo la potatura dell’inverno, abitati dagli uccelli in primavera, frondosi d’estate, un lago di foglie e fango in autunno. Lo spettacolo della natura e della ferrovia. E il passaggio degli esseri umani. Ogni pendolare ne trattiene un dettaglio perché all’alba le impressioni sono più forti e durature. Comincia dai vestiti. Dalle stampelle che si appendono in bagno la sera prima. Portafoglio e chiavi sulla scarpiera, e le scarpe allineate con cura sotto al lavabo. Non si deve dimenticare nulla: lo zaino sulla sedia della cucina, e aver messo via gli occhiali, e un libro, così da non disturbare, l’indomani, chi continua a dormire. A letto non si va quasi mai oltre la linea rossa delle dieci e trenta, al massimo le undici. Un po’ per sfinimento, un po’ per il pensiero del risveglio. Si sa che ogni infrazione costa cara. Il numero digitale che appare sul display della radiosveglia, sei, sette ore dopo, è la prima notizia che risale la coscienza. Ed è una notizia che suona sempre un po’ irreale e quasi buffa, come di uno scherzo cattivo che ti ha giocato il destino. La mia segna le 5 e 20, ma è avanti di qualche minuto: una precauzione infantile che tutti i pendolari usano. I gesti seguenti hanno un ordine obbligato: il primo è il più difficile, tirarsi fuori dal letto. Gli altri vengono da sé, in punta di piedi: accendere il fuoco sotto la caffettiera già pronta, andare in bagno, aprire l’acqua, vestirsi... Neppure il mio cane si alza, a quell’ora. La colazione è un esercizio di solitudine e di funambolismo. La cucina vuota, solo la luce che piove da una mensola, fuori dalla finestra la notte ancora.

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Anatomia del pendolare

A volte si ascoltano le prime notizie alla radio, più spesso non se ne ha il tempo. Si beve il primo caffè della mattina, si indossa il giaccone e ci si carica lo zaino sulle spalle. La stazione di Porta Fiorentina è alla fine di viale Trento, in prossimità delle mura. Doveva essere venuta su in mezzo alla campagna, poi fu occupata dagli eserciti stranieri e sfiorata dalle bombe; ora è circondata da centri commerciali e blockbuster che non ne hanno intaccato l’aria separata e solitaria. Somiglia ancora a un luogo dove si fugge o ci si nasconde, come la stazione di Astapova, in Russia, nella quale morì Tolstoj. Ciascuno ci arriva a modo suo. I più in macchina, scendendo dai quartieri in alto, gli altri a piedi, perché scegliere di abitare qui vicino è una elementare strategia di sopravvivenza. All’interno non c’è mai stata un’edicola. La più vicina si trova a duecento metri e solo chi ci passa davanti può rifornirsi di un giornale perché conta ogni minuto. Basterebbe un ragazzo, con un rotolo di quotidiani e di riviste sotto il braccio o un carrello qualsiasi, come nei film americani, ma non se ne sono mai visti. Di fronte c’è pure una sede della Biblioteca comunale, in uno sciatto edificio di cemento, ma nemmeno la fantasia più sfrenata può immaginare uno spaccio ambulante di libri per i viaggiatori. Alle sei neppure la biglietteria è aperta, solo il bar. Le banchine sono attraversate da ombre veloci. Due binari soli, perché gli ultimi servono di rimessa. Entrambi corrono verso Roma – siamo all’interno di un anello ferroviario – ma per direzioni opposte: uno via Capranica-Sutri, l’altro, il mio, via Orte. Il primo ha un percorso più naturale e breve, ma dopo La Storta il treno che ci viaggia diventa una metropolitana di superficie della capitale, uno stillicidio di fermate e sedili scomodi con il poggiatesta solo da una parte. L’altro all’inizio si allontana, sconfina in Umbria, ad Attigliano, ma ha un poco più di rispetto per il sistema nervoso periferico e centrale. Mezzo chilometro più avanti, c’è persino una terza ferrovia, la Roma Nord, che viaggia per i Cimini e arriva a Porta del Popolo, ma in un tempo improbabile. Alla fine, da qualsiasi lato si giri, la durata è sempre la stessa: due ore e passa da quando si esce di casa a quando si entra in ufficio, se tutto va bene. Ogni mattina penso che Roma, per le generazioni precedenti alla mia, era stata una conquista. Chi ci veniva da Palermo o da Caltanissetta, chi da Rimini, chi dalle Marche, qualcuno dalla misteriosa Basilicata. Roma attraeva e accoglieva. Se ora conto invece sulle dita il numero dei miei amici, figli di quelle emigrazioni e di quel miracolo economico, mi accorgo che quasi nessuno di loro la abita più. Come se una forza opposta e centrifuga ci avesse spinto tutti fuori. Sillabo tutti i giorni i tanti luoghi della dispersione. Luca a Quito, Mimmo in Irlanda, Marco in Norvegia... A me è toccata in sorte la destinazione più vicina. Una provincia scavata nel tufo, tra pini e castagni, con un errore di mare nell’aria. Viterbo. A una distanza relativa dal mio luogo di lavoro. Eppure se calcolo tutti i chilometri di rotaie che ho percorso, in sedici anni di pendolarismo, ne viene fuori un numero astronomico, pari al diametro del sole, venticinque volte il giro della Terra. Il mio treno parte alle 6 e 06. Quattro carrozze, due nel gelo e due riscaldate sempre troppo o troppo poco. Da qualche anno ha pure un nome: la Freccia dell’Alto Lazio. L’Azienda ha il dono dell’ironia. Eppure tutte le mattine ci entro con una strana trepidazione. Salto su e mi avvolge un’aria di ricreatorio. Con un po’ di inventiva, si potrebbe definire un odore di oceani e di transiberiane. In realtà, è solo un puzzo di vita agra. Non lo senti più perché negli anni ti ha impregnato le mani, e i capelli, e i vestiti, perché fai parte del viaggio, perché tu sei quell’odore, come cantava Gaber. Nessuna lavatrice potrebbe più mandarlo via. Ma ci si affeziona a tutto. Alla luce gialla del neon. Allo stesso paesaggio visto mille volte dietro un finestrino. Alla gommapiuma lacera dei sedili. La linea fino ad Attigliano fu inaugurata il 16 agosto 1886 e quest’anno fa il centoventicinquesimo compleanno. Ferma a Montefiascone, Grotte di Santo Stefano e Sipicciano. Stazioni con le persiane chiuse che ci passano davanti, i muri scritti e senza intonaco, le sale d’attesa abbandonate. Poi si innesta sulla linea di Firenze e procede per Orte, con uno scalo a Bassano Romano. Attraversa il Tevere su un ponte di ferro. Roma Tiburtina e Roma Termini, le ultime tappe. Centoventicinque anni e 125 chilometri (la lunghezza complessiva dell’intera tratta) sono due archi perfetti per monitorare lo sviluppo di un Paese. Si potrebbe

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raccontare la storia d’Italia partendo da un orario ferroviario. Quelli di una volta, gli orari ufficiali delle strade ferrate, delle tramvie, della navigazione e delle messaggerie postali, erano fatti con molta cura. Sono andato alla Biblioteca centrale delle Ferrovie a vederne qualcuno. Il più vecchio è del 1898. Pubblicazioni mensili, che costavano una lira. A tenerli in mano si ha la sensazione di sfogliare dei piccoli atlanti geografici, un romanzo d’appendice. Le cartine sono ripiegate, le giri e ci trovi le strade ferrate di tutta l’Europa Centrale, a colori. La pubblicità promuove i Transatlantici “La Veloce” per l’America, il Fernet Branca e la scrematrice Frau. Una tabella riporta le “tariffe pel trasporto dei viaggiatori, bagagli, cani e velocipedi”. Ma a metterne a confronto i risultati ne esce un impietoso ritratto fotografico della nazione, almeno da questo lato della penisola. Il 3 novembre del 1898 si partiva da Porta Fiorentina alle 9 e 40 e si arrivava ad At-


Pierluigi Longo Pierluigi Longo è nato a Tripoli nel 1969, ha sempre vissuto a Milano dove si è diplomato all’Istituto europeo di design. Dal 2001 fa parte dell’Air Studio. Ha pubblicato con le maggiori case editrici italiane e all’estero ha collaborato con New Scientist, Courrier International e la casa editrice HarperCollins.

tigliano alle 11 e 05. Ma già il 1 febbraio del 1938 la differenza con oggi, in media, è di appena dieci minuti (55 contro 45). Poco più di un’ora per Orte, all’incirca lo stesso. Dall’altro lato dell’anello (via Capranica-Sutri), per alcune corse, sempre prima della guerra ci si metteva addirittura di meno: un’ora e 24 contro un’ora e tre quarti di adesso. La situazione è un’alternanza di piccoli peggioramenti e miglioramenti nei decenni successivi, ma la sostanza non muta. Nasce qualche leggenda: un Espresso del 1977, un Regionale che non fermava a Orte di qualche anno fa. Non durarono una stagione. Negli anni Ottanta, la linea rischiò addirittura la chiusura perché ritenuta di nessun interesse nazionale. Il dottor Gerba, decano dei pendolari, oltre cinquant’anni di viaggio sulle spalle, mi dice quando lo incontro, ormai sempre più raramente, che a sua memoria non è cambiato nulla. Mettila come vuoi, sempre due ore sono. Due ore per andare,


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Anatomia del pendolare

e due per tornare. E bisogna ringraziare il cielo se non incappi in qualche ritardo. Magari a Orte ti buttano sulla lenta, la famigerata, già il nome... Allora le lancette si mettono a correre, e le ore si fanno tre, tre e mezza. Gli faccio notare che per l’Azienda, la differenza tra la lenta e la direttissima, che tutto lascia prevedere sarà presto riservata esclusivamente agli eurostar e alle frecce rosse, è solo di quindici minuti... Non mi risponde neppure. «Tu quando hai iniziato?», mi chiede invece. «Era marzo – gli dico – ma ricordo meglio che libro avevo: Il cavallo e la torre, di Vittorio Foa». C’è una frase, di quell’autobiografia, che mi è rimasta in testa. Una citazione di Vico, che Foa prendeva come epigrafe per la sua vita e le sue disavventure tra il fascismo e il carcere. “Sembrano traversie e sono opportunità”. «È con questo spirito che ho iniziato a viaggiare – dico al dottor Gerba – ma è sempre più difficile mantenerlo». Ed è vero, perché i treni mi hanno dato molto tempo per leggere e per scrivere. Sono stati una grande opportunità umana, anche se a prezzo di una stanchezza fisica che ogni anno si fa più corrosiva e intima. Il pendolarismo è un’altalena di inerzia e di movimento che a lungo andare ti svuota perché non si appartiene mai veramente a nessun posto se non al proprio treno. «È un lavoro usurante il nostro», dice Pino. Pino, come me, si è trasferito a Viterbo in seguito alle tante traversie della vita. Porta baffi alla Ghandi e ha gli occhi di pane. Una ruga d’espressione gli scende al centro della fronte, ma in realtà è il segno che gli ha lasciato un cartello stradale non visto all’alba mentre correva verso i binari. Viene da Castelsaraceno, un piccolo paese di fronte ad Aliano, il luogo di confino di Carlo Levi. Una volta l’anno il mal di schiena lo immobilizza. Lui lo chiama il colpo del treno e non della strega, perché i sedili, sostiene, ci impongono da anni posture sbagliate e nessuno di noi ha il tempo di fare stretching o ginnastica orientale. «Ma il guaio peggiore non è per la schiena – dice ancora Pino – è per le orecchie». Viaggiare è uno choc acustico continuo. Io ho perso il 40 per cento delle frequenze alte dal timpano sinistro e il dottore che mi ha esaminato era convinto che fossi un cacciatore o che lavorassi in un luogo rumoroso. Una biblioteca, ho risposto, ma avrei dovuto dire un treno. «Siamo macchine da 67mila chilometri l’anno», interviene Giuseppe. «Devono farci il tagliando». Giuseppe è il più ciarliero del gruppo. Muove ritmicamente una gamba per tutto il tempo, anche quando dorme. Ha un chiodo fisso. «Se consideriamo le ore di pendolarismo come ore di lavoro – dice – noi accumuliamo venti ore in più a settimana che fanno otto anni aggiuntivi ogni quindici di viaggio». Secondo il suo schema, venticinque anni di contributi per un pendolare equivalgono a quaranta effettivi. Ha già inoltrato domanda di pensionamento, nessuno gli ha mai risposto. Ma tutto il treno è una riserva di umanità. Le amicizie che nascono in queste condizioni possono diventare indissolubili, tante sono state le malasorti che abbiamo attraversato insieme e che ci hanno unito. Soste incomprensibili nelle gallerie; la precedenza data ai “treni dei signori” e vissuta come un sopruso, una prepotenza; i passaggi a livello che non funzionano; una pecora investita; le attese estenuanti, i nubifragi, le esondazioni del Tevere. Il ritardo più grave superò le cinque ore. Tutte le mattine, un pendolare di Montefiascone attraversa i vagoni e tiene il conto. Decine di passeggeri, che diventano centinaia, sosta dopo sosta. C’è Alfonso che sale a Viterbo e scende a Orte, dove prenderà il Perugia per Terni. Lavora lì, alle acciaierie. Ci sono i ciambelloni e i thermos di caffè di Daniela. E i contratti di lavoro a scadenza continua dei quarantenni Paola, Federica, Marzia, Gianluca, Luca, Gigi... C’è Eros che ha lavorato sotto terra, nei metanodotti, e ora è un tecnico di polizia con la passione delle biciclette. Gli piace aggiustarle. Ne parla come di donne. Dice che la loro anima è nel movimento centrale, nella corona dei pedali. Guarda sempre fuori dal finestrino, nella speranza di avvistarne qualcuna, legata a un albero e lasciata lì per sempre, e sarebbe capace di scendere in corsa. Il pendolare più giovane è un bambino senegalese che viene su ad Attigliano. Alla stazione di Grotte, registro invece un marito che ogni giorno accompagna sua moglie, aspetta che salga sul vagone e che il convoglio riparta. Non si muove finché non scompariamo alla sua vista. In certe ore, gli scompartimenti si trasformano nelle sale di una


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biblioteca o di un dormitorio. Chi lavora al computer, chi studia, chi si sistema un foulard colorato o un fazzoletto dietro la testa. Per lo più circolano gialli o spy-story, le avventure dei templari, qualche guida turistica di un Paese esotico. Paola che legge Paul Auster. Sonia il giornale. A volte appare un classico, come una benedizione, perché i migliori alleati per ridurre al silenzio i tipi come Giuseppe sono ancora Anna Karenina e il conte di Montecristo. Ma il libro più sorprendente che ho visto è stato Il testamento di Jean Meslier, le ultime volontà di un prete ateo, comunista e rivoluzionario del ’700. Lo aveva tra le mani un sacerdote. Di ritorno, nel pomeriggio, ci si ritrova a Orte per prendere la coincidenza per Viterbo. Ma è qui che spesso ci aspetta la delusione perché le coincidenze sono come delle amanti scontrose e impulsive, non aspettano. Da molto tempo, l’Azienda ha cancellato dal Regolamento questa parola. La scena la conosciamo fino alla nausea: si arriva trafelati con un treno da Roma, in ritardo di qualche minuto, e la coincidenza è già partita, vuota, ma in orario, oppure è stata soppressa. Sembra di precipitare in quel film di cui Antonio Albanese fece un bel remake: la storia di un uomo che vive sempre lo stesso giorno. Il giorno della marmotta, nell’originale. Il protagonista si alza, ogni mattina, e tutto si ripete esattamente allo stesso modo. Noi lo chiamiamo il giorno della marmotta di Orte o di Attigliano. Se si trova qualcuno con cui protestare, ti viene detto che tutto dipende dal Coordinatore del Movimento di Roma. Ho provato molte volte a parlarci, ma non ci sono mai riuscito. Me lo immagino un uomo davanti a un pannello con una centralina luminosa, che muove i treni come se stesse continuando a giocare sul parquet della sua casa d’infanzia. Nutro da anni il dubbio feroce che nessuno di quelli che si occupano di trasporti e li regolano, dai politici ai dirigenti ai giornalisti, abbia mai viaggiato su un treno. Perché la vera anomalia è la puntualità. Ogni pendolare ha il suo quaderno nero. Una sfilza ordinata di numeri che negli anni vanno sbiadendo. Tabelle di minuti andati persi: 151 in dieci giorni di chissà quale novembre, ventidue ore in un mese sciagurato, quattro ore e 43 minuti in un altro... Piccoli furti quotidiani, ma in una casa che è stata già ampiamente derubata. Ogni scippo si aggiunge al resto e la somma è la vita. Ora le cose vanno un poco meglio, ma solo per via dell’ultimo e definitivo trucco: sono aumentati i tempi di percorrenza anche sugli orari ufficiali, vista l’impossibilità di rispettarli. Ciascuno di noi conserva pure a casa segreti carteggi con l’Azienda. Lettere che custodisce gelosamente. Un fascio di risposte ai reclami inoltrati, quando si aveva ancora la forza di farli e li si compilava diligentemente a ogni ritardo. La più esilarante che abbia mai ricevuto è questa: “Gentile cliente, facendo seguito al reclamo da Lei inviato a questa Sede, La informiamo che non risulta che il giorno 28 settembre, data in cui ha compilato il modulo per le segnalazioni, il Reg. 34368, Viterbo-Roma Tiburtina, abbia subito disservizi. È infatti partito da Viterbo con un minuto di ritardo ed arrivato a destinazione con un anticipo di un minuto sul proprio orario di arrivo”. Certe mattine, scendo in stazione e il treno non c’è. Giunge dopo molti minuti, senza motivo, da un binario immerso nel buio. Io canticchio dentro di me una vecchia canzone di Chico Buarque de Hollanda, Pedro Pedreiro, che pensieroso aspetta il treno che non arriva mai, e finisce con l’aspettare ancora, con l’aspettare il sole, e la fortuna, e l’aumento, e il mese che viene, e il giorno in cui non si aspetterà più niente, e di nuovo solo e soltanto la speranza afflitta, benedetta e infinita del fischio di un treno, mentre sua moglie aspetta un altro figlio... È così la vita dei pendolari. Un popolo di fantasmi, come quello degli operai. Non appariranno mai in una pubblicità televisiva. Le loro facce non sono telegeniche: hanno uno scontento negli occhi, e una rabbia, e vivono in una nebbia in cui nessuno vuole entrare. Alcuni di loro incarnano solitari, sulla banchina di una stazione, il congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni. Una disperazione calma, senza sgomento.

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Rete

Il web 2.0 controlla tutti di

Arturo Di Corinto

Abbiamo creduto a lungo che sul web fosse tutto gratis, invece lo paghiamo con i nostri dati personali. E non stiamo parlando dei dati ottenuti in maniera fraudolenta attraverso il phishing o il furto di identità online – al mercato nero questi dati valgono fino a un centesimo di euro per un indirizzo email, due euro per i dati anagrafici completi, e 750 euro per la carta di credito con data di scadenza e pin – ma delle informazioni che generosamente e volontariamente cediamo durante le nostre interazioni in rete per avere in cambio dei servizi. Il commercio di dati personali è il senso profondo del web 2.0, l’evoluzione in senso partecipativo della rete che si fonda su un modello di business che unisce gratuità e pubblicità. Le aziende offrono gratuitamente email, spazio web, piattaforme di blogging, servizi di traduzione e motori di ricerca e in cambio veicolano pubblicità. Più esattamente vendono spazi pubblicitari, tanto più costosi per gli inserzionisti quanto più sono mirati, cioè ritagliati sulla conoscenza di chi li vedrà. Non è diverso da quello che fa l’Auditel per la televisione tradizionale. Ma con internet cambia tutto. Ogni volta che visitiamo un sito, che inviamo una email, che compriamo un biglietto del treno o dell’aereo, i nostri dati vengono registrati e collegati a potenti database da cui una manciata di aziende ricostruisce i gusti, i desideri, le inclinazioni personali e la nostra capacità di spesa. Si chiama datamining il processo per cui i nostri dati vengono trasformati in informazioni commerciali. La maggior parte dei siti che visitiamo infila dei tracking files, file di tracciamento, nel nostro browser. Con quale scopo? Ritagliare offerte commerciali mirate su questi profili da visualizzare sullo schermo del pc. E allora? Che c’è di sbagliato? Beh, pensate se, dopo il primo acquisto, il commesso di un centro commerciale cominciasse a seguirci e ad annotare quello che compriamo negli altri negozi per aspettarci poi all’uscita e farci un’offerta che proprio non possiamo rifiutare. Inquietante, no? Quindi attenzione alla privacy e a non cedere troppo facilmente i propri dati personali. Intanto per sapere chi traccia la nostra navigazione online si può sempre installare il software offerto da ghostery.com, almeno per essere informati su chi ci segue.

Libri

Domani

Eredità con sorpresa di

Alessandra Bonetti

Quando si sposa un’epoca, si rischia di rimanerne intrappolati. Lo sa Edmund de Waal, giovane ceramista inglese, che dopo aver ricevuto in eredità una collezione di preziosi ninnoli giapponesi – netsuke, si chiamano – decide di ripercorrerne la storia. Che inizia a Parigi nella seconda metà dell’Ottocento: l’epoca è quella delle guizzanti pennellate degli impressionisti, le dame spumeggianti, i dandy alla Marcel Proust e la scalata dei nuovi ricchi. E voilà, un’opera di maniera e di buone maniere. Ma de Waal, che gli oggetti li crea, li maneggia e li interroga, plasma le storie con rigore e passione. Fra scandali, crolli finanziari, rigurgiti antisemiti, guerre mondiali, serate a teatro e figli degeneri, non si sa più se tra le mani si ha un romanzo o la cronaca di un secolo. Ma la lettura non è di quelle che si possono lasciare sul più bello per interrogarsi. La capacità di ascoltare cose e persone distingue anche Colin Thubron, settantaduenne viaggiatore solitario, che in Verso la montagna sacra parte per il Tibet. A piedi, attraverso la regione più remota del Nepal, lo Humla, si inerpica fino ai 5.600 metri del monte Kaila. Una salita e un’incursione nella profondità di un paesaggio crudele, testimone di secoli di traffici, pellegrinaggi e soprusi. Fra bandiere di preghiera buddiste, lattine di Pepsi-Cola e vecchi recipienti di olio per motore, Thubron ascolta: il capo di una famiglia thakuri dolersi dell’invasione cinese, l’insegnante di una scuola la cui figlia studia in Alabama e Dendu che a Yangar, un villaggio sospeso fra le rocce, indossa abiti occidentali e fa contrabbando di legname. Poi c’è il monaco ragazzino – “l’adolescenza lo attende come una bomba a orologeria” – e Iswor che non è ancora sposato perché vuole una donna istruita. A volte cala il silenzio: “Non l’imbarazzante vuoto occidentale bensì un gradevole intervallo gioiosamente riempito di rutti e rumori di bocche che masticano, tra gente per cui mangiare non è dato per scontato”. Ben più magra l’eredità di Italo, il protagonista di Dov’eravate tutti, che nel 1993 ha undici anni, deve fare l’esame di quinta elementare e al governo c’è Silvio Berlusconi. Diventa maggiorenne, è sdraiato sulla spiaggia insieme a una ragazza e al governo c’è sempre Silvio Berlusconi. La prima volta? La laurea triennale? “Potrà sembrare strano, ma l’Italia prima di lui o senza di lui, per me non è mai esistita”. Lo spunto, racconta il precocissimo autore, è una notizia di cronaca: un professore esasperato che investe con l’auto due studenti. L’insegnante – diventato un indagato – è un padre “individualista, autoritario, imprenditoriale, lievemente xenofobo e moralista” cui il figlio, testimone e voce di una generazione confusa, chiede il conto. E vuole risposte. Edmund de Waal, Un’eredità di avorio e ambra, Bollati Boringhieri, 18 euro, 398 pp. Colin Thubron, Verso la montagna sacra - Il monte Kaila. Un pellegrinaggio in Tibet, Ponte alle Grazie, 16 euro, 224 pp. Paolo di Paolo, Dov’eravate tutti, Feltrinelli, 15 euro, 208 pp.

Esempio di netsuke, piccole sculture giapponesi generalmente in avorio o in legno, la cui origine risale probabilmente al XV secolo


Documentario Cinema

La legge della strada di Barbara

Sorrentini

Shane e Shaun non sono così diversi. Estate 1983, l’Inghilterra ai tempi della Thatcher, il periodo in cui il regista Shane Meadows era adolescente. Quando gli skinhead e i punk mescolavano le proprie identità, le discriminazioni razziali erano ai massimi livelli, la crisi economica e le privatizzazioni lasciavano la working class a casa e la tv cominciava a proporre spazzatura. A più di tredicimila chilometri di distanza intanto, inglesi e argentini avevano appena finito di combattere per stabilire a chi appartenessero le isole Malvinas, arcipelago al largo dell’oceano Atlantico in territorio argentino, ma usurpate dai vincitori che gli cambiarono il nome in Falkland. Da questa battaglia nazionalista, condotta innanzitutto per restituire popolarità alla Lady di Ferro, il padre di Shaun non fa ritorno. Lui ha dodici anni, ha appena finito la scuola e non ha amici. Viene deriso per i pantaloni a zampa d’elefante ereditati dal babbo e, a causa di questo look bizzarro accompagnato spesso da un’espressione rabbiosa, viene notato da Woody, il leader di un gruppetto di skinhead che lo accoglie come una mascotte. Birra a fiumi, tatuaggi, camicia a scacchi, capelli rasati e vandalismo gratuito: Shaun diventa uno di loro. Ma accade di peggio quando incontra Combo, un ex galeotto, aggressivo e ignorante, che fa sembrare gli skinheads degli agnellini. Con la sua sete di vendetta convince il ragazzino a seguirlo, riempiendogli la testa con discorsi razzisti contro i «pachistani che ci portano via il lavoro e le case più economiche, spargendo nell’aria puzza di curry» e facendo perno sulla furia inesplosa del ragazzo verso chi ha mandato suo padre a combattere per le Falkland. L’attore che interpreta Shaun, Thomas “Tommo” Turgoose, non ha avuto una vita facile e, prima del film, si trovava in un istituto per ragazzi svantaggiati esclusi dalla scuola. Era lì per un disordine da deficit di attenzione ed è stato scelto per This is England grazie a quel misto di innocenza e durezza, frutto anche dell’emarginazione che il ragazzo aveva dovuto subire. Il regista Shane Meadows ha raccontato che in Tommo ha rivisto se stesso, ricordandosi di quando gli insegnanti gli dicevano che sarebbe finito in prigione e che avrebbe avuto il peggio dalla vita. A Uttoxeter, la piccola cittadina di campagna in cui viveva, anche Meadows è stato uno skinhead e durante i suoi anni giovani ha vissuto alcuni episodi di violenza da cui poi si è tirato fuori facendo il regista. Ecco perché Shaun e Shane non sono così diversi. This is England, in uscita a inizio settembre

Breve ma intenso di Matteo

Scanni

Il “corto” italiano langue. Considerato in passato una prova artistica imprescindibile per chiunque aspirasse a una regia maggiore, il film breve (“short film” in inglese, quello sotto i venti minuti, per intenderci) è diventato un pallido protagonista dei festival cinematografici e documentaristici, almeno dei circuiti maggiori, dove prevalgono i metraggi intorno all’ora. Potrà non piacere, ma a differenza dei colleghi di Berlino, Cannes, Toronto e New York, i selezionatori di Venezia, Roma e Torino riescono a malapena a scovare una manciata di validi lavori nostrani da inserire nei concorsi. Certo, le eccezioni esistono: Corto in Bra, Milano Film Festival e Biografilm, festival di Bologna, si sforzano di pescare le migliori opere in circolazione. Ma non fosse per il web, il genere rischierebbe di rimanere un puro esercizio di stile, snobbato dai cineclub e ovviamente dalla tv. Ma appunto, c’è l’eccezione della rete, luogo di elezione per questa particolare forma espressiva, dove anche i filmmaker italiani cominciano a fare capolino. Tanto per citare qualche esempio dell’importanza che hanno assunto nel mondo i “corti” sul web, a Los Angeles, sede del più importante short film festival del mondo (lashortsfest.com), Levi’s e il Museum of Contemporary Art a giugno hanno generosamente finanziato e ospitato i lavori realizzati da alcuni dei più talentuosi registi della West Coast con personaggi di primo piano della street art (http:// workshops.levi.com). Il 16 settembre a Londra saranno invece annunciati i vincitori del Virgin Media Shorts (virginmediashorts.co.uk), che darà a dodici registi la possibilità di presentare il proprio film, oltre che in rete, anche nei cinema inglesi e metterà in tasca al primo classificato un assegno da 30mila sterline con cui produrre il prossimo corto. Sempre online, a primavera tornerà il Vimeo Film Festival (vimeo.com/awards), che nell’edizione 2011 ha premiato con 25mila dollari e due milioni di clic Last minutes with Oden, di Eliot Rausch, Lukas Korver e Matt Taylor. Stesso format anche per per l’Online Shorts Festival di “Independent Lens”, trasmissione di punta della Pbs, la tv pubblica statunitense, vinto da C. Beck di Deb Wallwork e Bullet Proof Vest di May Lin Au Yong. E se la giuria non azzecca il verdetto, pazienza. Sul web il giudizio del pubblico è sovrano.

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Design

I segreti del bosco

Werner J. Hannappel

di Claudia

Arte

Gianfredo Camesi, Espace mesure du temps - Portraits de la mémoire - Autoportraits 2000, Acrilico e fotografia su legno, 12 elementi, 50x50 cm ciascuno

Spazio e Tempo di Vito

Calabretta

Gianfredo Camesi non è un fotografo ma un artista che utilizza vari strumenti linguistici: la scultura, l’installazione, la pittura, la performance, il testo, la fotografia. Per questo motivo è particolarmente interessante, per parlare del suo lavoro, utilizzare la mostra che gli dedica il Museo Cantonale d’Arte di Lugano. Ci consente infatti di capire quale sia oggi il ruolo della fotografia nel sistema della produzione artistica contemporanea, attingendo alla esperienza, singolare e ricca, di un artista che ha pienamente raggiunto la maturità. Camesi si è confrontato con alcune tendenze importanti che hanno popolato l’arte dagli anni Sessanta in poi ed è riuscito a sviluppare un atteggiamento artistico soggettivo che, nel corso del tempo, si è articolato in molte opere sempre contraddistinte da un livello qualitativo avvincente. All’interno di questo atteggiamento interdisciplinare, la fotografia ha un ruolo paritetico rispetto agli altri strumenti e in questa mostra possiamo apprezzarne in particolare la funzionalità concettuale, cioè il fatto che essa, nell’arte contemporanea, non sia tanto importante per ciò che noi riconosciamo a prima vista in un’immagine (per esempio una montagna, un bosco, una nuvola, un volto, noi stessi allo specchio oppure un corpo decomposto...) ma per il significato con cui quell’ immagine contribuisce all’opera. Un bosco con una nuvola, infatti, può avere semplicemente la funzione di proporre forme tondeggianti in uno spazio e confrontarsi con altre forme presenti nello stesso quadro. Un volto che ci guarda in modo austero e statico, diviso a metà da un cordino tirato da una stecca di legno, diventa uno spazio umano sul quale il cordino prende una misura. Che si tratti di un paesaggio o di un ritratto, la fotografia diventa il luogo di un confronto concettuale in cui si mette in relazione lo spazio e il tempo. Possiamo così comprendere perché Gianfredo Camesi utilizzi spesso l’espressione «spazio misura del tempo». Gianfredo Camesi Eccéité, Museo Cantonale d’Arte, Lugano, dall’11 giugno al 18 settembre

Barana

Nel bosco, dal mattino alla sera, vi potrebbe capitare di sentire lezioni di teoria e pratica per imparare a progettare oggetti, a partire dai “semilavorati” messi a disposizione dalla Riserva Naturale del Monte Beigua in provincia di Savona. Si osservano e rielaborano legni, radici e licheni con il metodo proposto dai “resigner” Giovanni Delvecchio, Andrea Magnani ed Elisabetta Amatori che dal 2007 organizzano Resign Academy. La metodologia fa perno sull’importanza del processo creativo di riutilizzo in cui la materia di partenza, sia essa un vecchio mobile o un elemento naturale, è in continua trasformazione, sempre aperta a evoluzioni ulteriori. Il laboratorio, ovunque ubicato, diviene così il luogo dove sperimentare il modello della “Bottega 2.0” basato su metodologie di lavoro incentrate sulla condivisione del sapere, la rivalutazione della lavorazione manuale e la creazione di relazioni. È qui che i resigner creano. Lavorando con diversi materiali si offre la possibilità di riscoprire il valore delle cose, in modo da ricombinarle in nuovi oggetti dall’elevato valore intellettuale e simbolico. Il risultato non è quindi riconducibile a un semplice oggetto ma alla capacità di riattivare la circolazione e la diffusione delle idee. I prodotti finali sono quindi da leggere come oggetti che iniziano un nuovo percorso progettuale oppure come semplici ragionamenti sul fare design. Durante le giornate della Resign Academy viene trasmesso un sapere artigianale intrecciato a una serie di lezioni per comprendere, per esempio, la “mitologia contemporanea” oppure il “design 2.0” teorizzato insieme al critico Stefano Caggiano a partire dal pensiero di Rem Koolhaas. L’architetto olandese sostiene che i cambiamenti nel sentire apportati dalle nuove tecnologie investiranno presto anche il design degli oggetti che saranno “sentiti” sempre meno come prodotti finiti e sempre più come dispositivi creativi e partecipati. Aperti e in trasformazione. I prodotti finali potranno essere visti, oltre ovviamente all’interno del bosco, anche sul sito www.resign.it - info@resign.it Resign Academy, Sassello (Sv), dal 9 al 18 settembre


Rebotti

Era l’autunno dell’anno scorso e al liceo Agnesi di Milano era in corso l’ennesima assemblea dei genitori: all’ordine del giorno le casse vuote dell’istituto (ancora in attesa, come tantissimi altri, dei rimborsi da parte dello Stato), strutture cadenti e supplenti mancanti. Niente di particolarmente nuovo negli anni bui della scuola pubblica sotto il governo di Mariastella Gelmini, se non fosse che, quella sera, a qualche genitore è venuta l’idea di scrivere a Napolitano. A dire la verità nemmeno la petizione è una trovata così nuova, il punto però è quello che è successo dopo. Dal liceo di Milano la raccolta si allarga in fretta, prima alla provincia poi ad altre città. Spontaneamente, senza l’intervento di alcuna organizzazione. Si raccolgono firme vere, al freddo sui banchetti, niente click sul mouse di un computer. La petizione è in dodici punti: si esprime lo stato di abbandono della scuola pubblica, la disparità di trattamento con l’istruzione privata (basta mettere a confronto i tagli e i fondi previsti dalla Finanziaria 2010), la richiesta di mettere la scuola al centro della discussione pubblica. «Quando le persone capivano di cosa si trattava», dice Marta Gatti, maestra elementare a Concorezzo, vicino a Monza, «si formava subito la coda: c’era un sacco di gente arrabbiata, che si sente vittima di un’ingiustizia: tutti capiscono cosa vuol dire se da un anno con l’altro ti ritrovi con alcuni insegnanti in meno». Firmano genitori, studenti, professori. A un certo punto la raccolta si ferma perché si vogliono consegnare le firme prima che inizi il nuovo anno scolastico. Totale: 43.730. Il Quirinale fa sapere che possono essere spedite, ma i promotori preferiscono portarle di persona. E così un piccolo gruppo si presenta a Roma, con un carrello, due scatoloni e un cartello che dice: “Aiuto Presidente”. Due prefetti, incaricati dal capo dello Stato, li ricevono in una delle stanze del palazzo: «Fare un discorso politico, con numeri e cifre, secondo noi non sarebbe servito a molto», ricorda la maestra Gatti «e così ognuno ha raccontato cosa succede nella propria scuola. La mia, per esempio, accoglie anche bambini con grave disabilità, abbiamo progetti molto avanzati, sono venuti anche da Tokio a studiarli. Quest’anno abbiamo cinque maestre in meno e i laboratori in cui tutti i bambini, disabili e no, lavoravano insieme non li potremo più fare. I prefetti scuotevano la testa in silenzio». Buon anno alla scuola pubblica.

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www.retescuole.net

Prova d’orchestra di Carlo

Boccadoro

Nonostante le quattro ore di durata, il Guglielmo Tell di Rossini (che questa nuovissima incisione ci propone nell’edizione originale in francese) non annoia nemmeno un attimo ed è una delle opere più fresche ed entusiasmanti che vi possa capitare di ascoltare, soprattuto quando viene eseguita con la brillantezza e l’energia che in questa registrazione Antonio Pappano e l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia riescono a estrarre dalla partitura. Realizzata dal vivo a Roma nel 2010, in occasione di un’esecuzione concertistica, questa performance mette in risalto la straordinaria bravura dell’orchestra e del coro, che in questi anni di intenso lavoro con Pappano hanno raggiunto una generosità di suono e una duttilità che poche compagini simili al mondo sono in grado di esprimere. Per forza di cose, mancando la regia, alcune pagine di raccordo e alcuni momenti unicamente legati all’esecuzione in teatro sono stati omessi, ma, nonostante la mezz’ora di musica mancante rispetto alla partitura, il senso e l’immensa architettura formale di questo capolavoro emergono intatte all’ascolto. Alla guida di ottimi solisti vocali, tra cui si distinguono il baritono Gerald Finley (che già si era fatto ammirare recentemente al Metropolitan di New York come protagonista del Doctor Atomic di John Adams) e il contralto Marie-Nicole Lemieux, Antonio Pappano dimostra di essere ancora una volta straordinario nel tenere le fila, senza alcun cedimento, di un discorso musicale così ampio, mettendo anzi in risalto, con tutta l’abbagliante gamma di colori che Rossini ha scritto nella partitura, le qualità profetiche della musica. Con il suo linguaggio avanzato il Guglielmo Tell di Rossini già proietta a grandi passi la sua ombra verso l’esperienza teatrale di Verdi. Cd strepitoso. Gioachino Rossini : Guillaume Tell (3 Cd EMI 02882628), euro 33,90

© Musacchio & Ianiello licensed to EMI Classics

di Massimo

Musica

La giusta causa

43.730


la posta del cuore di

Claudio Bisio

cuore@e-ilmensile.it illustrazione

Anna Godeassi

Ciao a tutti. È settembre (per voi che leggete), tempo di ripensamenti, come cantava il poeta Guccini, tempo di propositi per l’anno che verrà: voglio imparare l’inglese, voglio iscrivermi a un corso di tango, voglio prendere il patentino nautico, voglio avere più tempo per leggere, voglio fare ginnastica almeno due volte la settimana... Il bello dei propositi è rinnegarli, disattenderli, rimuoverli. Non vi dico i miei (quelli che ho scritto sopra più tanti altri) che di anno in anno trascrivo da un’agenda all’altra. A settembre. Perché sono rimasto a un inizio anno di tipo scolastico, anche l’agenda parte sempre da settembre (rigorosamente Smemo sedici mesi, che poi ne uso solo dodici, ma fa niente). Scusate questo inizio da inizio anno un po’ personale; non voglio togliere spazio a voi, che mi scrivete sempre più numerosi. Intanto una piacevole novità: hanno iniziato a farsi sentire anche gli uomini. Improvvisamente. Cosa è successo? Paura di restare indietro? Rimossa la “vergogna” di scrivere a una rubrica del cuore? Forse. Bene così comunque, “meglio tardi che mai” (avranno pensato alcuni maschi) mentre molte femmine da tempo dichiaravano “Se non ora, quando?”. E allora ecco subito la lettera di Alessandro: Caro Claudio, a 22 anni mi sono ritrovato a dover riflettere sulla mia vita, su dove sto andando e dove realmente vorrei andare. In passato ogni mia scelta è stata dettata dalla ragione, ogni sfida mi ha permesso di crescere imparando dagli errori e di apprendere la soddisfazione di vedere i risultati dei miei sforzi. Chi mi conosce però sa del mio bisogno di “caricare le batterie”, di provare intense emozioni, per poter affrontare la quotidianità con una energia incosciente e impetuosa. Le emozioni le ho sempre ricercate in vari modi, in un solitario giro in moto al calar del sole o a un concerto fra migliaia di persone, tutte diverse ma unite da una sola passione. Durante i concerti, osservando il volto del mio cantante preferito, Luciano Ligabue, ho appreso un concetto che finirà per rivoluzionare la mia vita: l’importanza di amare ciò che si fa. Questa nuova consapevolezza mi ha costretto a chiedermi se sto affrontando la mia vita con passione, perciò ho incominciato a seguire il mio Cuore, a credere solamente a ciò che mi diceva, fino ad acquisire una nuova visione sul Mondo, meno egoistica e più umana.

Il mio Cuore mi ha guidato fino a farmi conoscere Emergency e le straordinarie persone che ne fanno parte. Ogni volta che ascoltavo le loro testimonianze provavo un brivido che non avevo mai conosciuto. Grazie alle parole tanto semplici quanto meravigliose di Teresa Sarti – «Se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene» – ho compreso il significato di quel brivido: «Voglio fare anch’io il mio pezzettino». Ho scelto quindi di dare il mio contributo volontario a uno dei tanti gruppi Emergency locali e ciò mi ha permesso di provare un sentimento unico, bellissimo: l’amore verso ciò che faccio. Per concludere, nonostante la mia giovane età, mi prendo la libertà di dare un consiglio personale, dettato dalle esperienze che sto vivendo e dalla gioia che mi danno: non dimenticate mai di ascoltare il vostro Cuore. Alessandro E per par condicio un’apologia del Cuore da parte di Giorgia. Che non ha bisogno di commenti. Cuore. Il suo battito, quella musica che ci accompagna da sempre, ancor prima di entrare a far parte del mondo... Ho visto come nei neonati ritorni la pace solo appoggiandoli sul petto della mamma, come quel suono così familiare li riporti con la mente a quel luogo di protezione, che era il grembo materno, in cui sono stati (nella maggior parte dei casi) per nove mesi. Se non ci fosse il cuore non ci sarebbe la Pace! Abbracciando la persona che ami quando si riesce a percepire solo il battito del suo cuore, anche in mezzo al traffico, lì capisci di essere una cosa sola. Se non ci fosse il cuore non ci sarebbe l’Amore! Il cuore è quell’organo che nutre e ossigena il nostro corpo e se stesso. Se non ci fosse il cuore non ci sarebbe la Vita! Nutre e ossigena la nuova vita che cresce. Se non ci fosse il cuore non ci sarebbe la Famiglia! Muta nel suo “parlarci” in ogni momento della giornata, è la voce della nostra anima. Invia tanti segnali e, quando la senti, capisci subito se una persona è spaventata o tranquilla, è in salute o ha bisogno di cure. Se non ci fosse il cuore non saremmo “Umani”!

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Giorgia


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Ricominciare a camminare di

Cecilia Strada

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Mattia Velati

1995, Kurdistan iracheno. Un’area abitata da tre milioni di persone, infestata da dieci milioni di mine antiuomo – in gran parte di fabbricazione italiana – e teatro di combattimenti quotidiani tra le diverse fazioni di combattenti che si disputavano il territorio. A pagare il prezzo maggiore, come sempre, i civili. È in questo contesto che, nel 1995, Emergency ha cominciato a lavorare in Iraq. Riattivando un ospedale abbandonato, poi aprendo altri due centri chirurgici dedicati alle vittime di guerra. I nostri medici e infermieri ricevevano ogni giorno decine di feriti, molti da mine antiuomo: intervento chirurgico, amputazione, fisioterapia, dimissioni. Ma non bastava: «Soran è in carrozzina, la carrozzina non passa nemmeno dalla porta di casa». I nostri pazienti, a volte, non potevano nemmeno tornare dalle loro famiglie, in abitazioni inadatte a una vita da disabili. Allora abbiamo avviato un programma di abbattimento delle barriere architettoniche: e sono tutti tornati a casa. Ma non bastava: «Che vita avrà Marwan, bambino senza gambe, in un Paese in guerra?». I nostri pazienti erano destinati a essere, per tutta la vita, un peso per la propria famiglia – che è esattamente la logica perversa delle mine, progettate in molti casi non per uccidere, ma per ferire e mutilare, per piegare il nemico con un “esercito” di disabili. Allora abbiamo aperto un centro di produzione protesi: per ridare gambe, braccia e dignità ai nostri pazienti. Marwan ha ricominciato a camminare. Ma non bastava: «Khalid faceva il muratore, come potrebbe riprendere il suo lavoro con due braccia di plastica?». Allora abbiamo avviato una serie di corsi professionali per i nostri ex pazienti, insegnando loro un nuovo mestiere che fosse compatibile con il nuovo corpo: falegnameria, sartoria, produzione di oggetti artigianali... Dopo sei mesi ricevono un diploma e hanno di nuovo un lavoro. Khalid è diventato sarto. Ancora, non bastava: «Ma chi darà lavoro a questi ragazzi? C’è tanta di quella disoccupazione, nessuno assumerà proprio loro, che lavorano con le protesi...». Allora abbiamo avviato il programma cooperative: aiutando i nostri ex pazienti a organizzare delle cooperative di lavoro o delle botteghe artigiane nei loro villaggi di origine, e finanziandole fino a raggiungere la completa autonomia. Ne abbiamo aperte 270.

A questo punto, forse, può bastare. Periodicamente, i nostri ex pazienti vengono a trovarci al centro di produzione protesi e reintegrazione sociale che ancora gestiamo a Sulaimaniya. Così capita di vedere Khalid, che è tornato a essere il capofamiglia, che mantiene la moglie e i tre figli con la sua bottega di sarto. Capita di incontrare Marwan, che fa il falegname, e spesso il venerdì gioca a pallone con la maglia di Emergency: è imbattibile nei calci di rigore. Capita di incontrare Faris, ragazzino che i nostri chirurghi avevano operato nel 1997 per una brutta amputazione da mina. Oggi è un ragazzone, si è sposato, ha avuto un figlio, e passa una volta al mese, solo per un saluto: «E mi raccomando, se vi serve qualcosa, se posso darvi una mano, chiedete pure!». Faris, ragazzino saltato su una mina nel ’97, oggi viene a chiedere a noi se abbiamo bisogno di aiuto. Questo è il senso, straordinario, del nostro lavoro.

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Centro di riabilitazione e produzione protesi di Sulaimaniya (Iraq) Nel 1998 Emergency ha costruito a Sulaimaniya un Centro di riabilitazione e reintegrazione sociale per offrire la possibilità di una vita autosufficiente agli amputati da mina. I pazienti vengono sottoposti a trattamenti di fisioterapia e all’applicazione di protesi realizzate nel Centro. Emergency provvede anche alla reintegrazione sociale dei pazienti mutilati e dei disabili organizzando corsi di formazione professionale. I diplomati dei corsi ricevono assistenza economica e gestionale per l’apertura di cooperative o di botteghe artigiane per la lavorazione del ferro, del legno e del cuoio, per la sartoria e per la produzione di scarpe. Per facilitare i movimenti e garantire l’autonomia dei pazienti nelle loro abitazioni, Emergency ha avviato l’Home modification programme, un intervento di abbattimento delle barriere architettoniche. Il Centro è l’unica struttura specializzata e gratuita nella zona ed è diventato un punto di riferimento per tutto l’Iraq, per la Siria e l’Iran.

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I numeri del Centro Inizio attività cliniche: febbraio 1998 Capacità: 41 posti letto Struttura: laboratorio ortopedico (5 sezioni: stampo, modifica, forno, macchine e laboratorio), fisioterapia, 5 laboratori per i corsi professionali (sartoria, lavorazione della pelle, del ferro, falegnameria, produzione calzature), aula didattica, uffici e locali di servizio Personale nazionale: 92 persone, circa la metà delle quali portatrice di handicap Dall’apertura al 30/06/2011 Pazienti trattati: 6.028 Prestazioni di fisioterapia: 38.976 Protesi di arti superiori: 772 Protesi di arti inferiori: 5.630 Ortosi: 755 Corsi di formazione professionale: 27

Apprendisti diplomati: 446 Cooperative avviate: 270 Nel 2010 Pazienti trattati: 363 Prestazioni di fisioterapia: 2.014 Protesi di arti superiori: 39 Protesi di arti inferiori: 451 Ortosi: 25 Corsi di formazione professionale: 2 Apprendisti diplomati: 30 Cooperative avviate: 28 Gennaio-giugno 2011 Pazienti trattati: 138 Prestazioni di fisioterapia: 798 Protesi di arti superiori: 5 Protesi di arti inferiori: 187 Ortosi: 14 Corsi di formazione professionale: 1 Cooperative avviate: 10


per inciso di

Gino Strada

un’attesa disarmata 18 agosto. Devo scrivere per il mensile e, come sempre, sono in ritardo. Mi è però difficile scrivere qualcosa che verrà letto tra qualche settimana, perché qui in Sudan vivo, insieme con molti altri, un’attesa che cresce ogni ora. Francesco è stato rapito quattro giorni fa. Non abbiamo avuto più sue notizie. Le “rivelazioni” delle solite “fonti autorevoli” strombazzate da qualche quotidiano non fanno che produrre nervosismo. Sappiamo benissimo che si tratta di banalità camuffate. La semplice verità è che fino a questo momento di Francesco non abbiamo saputo nulla. Ci stiamo riflettendo, ovviamente. Ogni momento. Perché Francesco è stato rapito? Un fatto occasionale, fortuito? In Sud Darfur vi sono stati negli scorsi anni numerosi rapimenti di stranieri. Forse Francesco si è semplicemente imbattuto in un gruppo di delinquenti che hanno visto l’opportunità di fare soldi. O forse si tratta di delinquenti “politicizzati”? Gruppi armati che usano i rapimenti per “mettere sotto pressione” i propri avversari nel conflitto che ancora fatica a spegnersi in quella regione, nonostante negli ultimi anni il processo di pace sia andato avanti. E chi può averlo fatto? Gente di Nyala? Difficile, la popolazione ben conosce e apprezza il lavoro del Centro pediatrico attivo a Nyala da oltre un anno. Decine e decine di bambini che ogni giorno le madri di Nyala portano a far visitare. Qualcuno venuto da fuori, che magari ha potuto agire con qualche complice? E le appartenenze etniche e di clan? E i possibili legami con qualcuno del nostro staff? E cento altre domande che continuiamo a ripeterci, ogni volta formulate in modo leggermente diverso. Siamo al lavoro per riportare a casa Francesco, presto e in buona salute. Abbiamo trovato molte persone e istituzioni pronte a collaborare, c’è grande ottimismo, speriamo di avere presto delle risposte per capire meglio come muoverci. A proposito, il governatore del Sud Darfur ci ha chiesto che il personale di Emergency si muova solo con scorta armata. In questo caso, ovviamente, si tratterebbe di militari governativi. Gli abbiamo risposto «no, grazie» in modo risoluto. Proprio per le stesse ragioni alla base della sua proposta o richiesta, e cioè per ragioni di sicurezza. Noi non ci sentiamo più sicuri se attorno a noi c’è gente armata. Non si tratta di uno stato d’animo, bensì di una convinzione che nasce da una valutazione concreta dei rischi. Perché la persona in armi che ti “scorta”, specie in una situazione di conflitto, ha sicuramente molti più nemici di te e più alte sono le probabilità che si incrocino e si sparino addosso. E tu nel mezzo, “scortato”? Noi ci sentiamo tanto più sicuri quante meno armi ci stanno vicino. E adesso ai telefoni, per cercare ancora di capire. Spero che tra i primi lettori di questo pezzo su E ci sia Francesco.

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