E il mensile ottobre 2011

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E - IL MENSILE. GIÀ PEACEREPORTER • ANNO V - N°10 - OTTOBRE 2011 • EURO 4,00 • PUBBLICAZIONE MENSILE POSTE ITALIANE S.P.A.- SPEDIZIONE IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N°46) ART. 1, COMMA 1, LO/MI

Veleni militari.Libia.Amori.Colombia.Paolo Sorrentino.Massimo Carlotto OTTOBRE 2011

hanno scritto: Cristina Artoni Gabriele Battaglia.Claudio Bisio Gabriele Del Grande.Andrea Milluzzi Angelo Miotto.Antonio Pascale Nicola Sessa•Barbara Sorrentini Stella Spinelli.Gino Strada hanno fotografato e illustrato: Giulio Di Sturco.Luciano Ferrara Alessio Genovese.Simona Ghizzoni Philip Jones Griffiths Francesco Giusti.Francesco Nonnoi Giovanni Panizza.Emiliano Scatarzi Antonello Silverini.Lorenzo Tugnoli

E-IL MENSILE OTTOBRE 2011 • EURO 4,00

Veleni militari.Libia Amori.Paolo Sorrentino Colombia.Massimo Carlotto



A prima vista, non c’è nulla che colleghi Nicoleta Cazacu e Domenico Fiordalisi. Lei, romena, ha avuto a che fare con la Legge. Da vittima, con grande dignità. Lui è la Legge. Lei ha visto morire suo marito Jon, bruciato vivo dal datore di lavoro, dopo più di un mese d’agonia. L’omicida è stato condannato a trent’anni di carcere, poi scesi a sedici, e a versare 800 milioni di lire di risarcimento, ma Nicoleta ne ha ricevuti solo 28. C’è da chiedersi quanto sia stata giusta la giustizia. Ci sono storie che colpiscono l’opinione pubblica e questa, per la sua efferatezza, l’aveva colpita. Poi le storie scompaiono dai tg e dai giornali, in un certo senso finiscono, ma nella realtà non finiscono mai. Per questo Angelo Miotto è andato a casa di Nicoleta Cazacu, per farsi raccontare il resto. Detto così, due sillabe, ma sono anni e anni di vita dura. E Nicoleta li racconta asciutta, senza odio. Com’è possibile? Non lo sappiamo, ma sappiamo di volerle ancora più bene. Domenico Fiordalisi è da circa tre anni procuratore capo a Lanusei. Ha aperto un’inchiesta sul Salto di Quirra (Salto mortale, purtroppo non è un gioco di parole). Anni e anni d’attività, nell’area del poligono di tiro, hanno portato torio in aggiunta all’uranio impoverito (di cui i militari negano l’impiego). Gli animali che pascolano nella zona nascono a volte con mostruose malformazioni, dieci pastori su diciotto sono colpiti da tumori. Ma quel pentolone, a Quirra, non dev’essere scoperchiato. Fiordalisi, racconta Nicola Sessa, ha contro i pastori, i proprietari terrieri, quelli che lavorano al poligono, perfino il vescovo. Eppure, è per quella gente, per la loro salute che sta lavorando. Poteva far finta di nulla, era la strada più comoda. Intorno a lui è cresciuto l’ostile muro dell’omertà. Le minacce alla sua famiglia l’hanno costretto a rimandare moglie e figli nella natia Calabria. Siamo solidali con questo magistrato scomodo e solo e pensiamo che la massa di silenzio che tanti, troppi, costruiscono intorno a Quirra sia direttamente proporzionale alla gravità dei segreti che questo pezzo di Sardegna (ahi, quante servitù militari) nasconde. Nicoleta Cazacu e Domenico Fiordalisi hanno invece due cose in comune: il senso di una giustizia giusta e la solitudine dovuta alla latitanza dello Stato. Su Quirra pubblichiamo anche un racconto di Massimo Carlotto, tanto bello quanto amaro. E il resto lo scoprirà il lettore. Non necessariamente un editoriale dev’essere un catalogo della merce in vetrina. Ho la presunzione di credere che molti servizi di E, oltre a informare, aiutino a sentirsi meno soli. E la soddisfazione di dirigere un giornale che nasce “diverso”, non più bello o più brutto di altri, semplicemente diverso. Angolo di resistenza, ci ha definiti un lettore. Grazie a voi e ai numeri, da angolo stiamo diventando piazza. Gianni Mura

Emiliano Scatarzi

l’editoriale

giusta giustizia


in questo numero 5 le storie

Il gabbiano e il pesce giusto di Nicola Sessa

Passione reporter di Andrea Milluzzi foto di Linda Dorigo

L’avvocato è di casa di Cristina Artoni foto di Rocio Saucedo

Palla prigioniera di Mariella Caruso

L’amico dei tronchi di Anna Maria Volpe foto di Simone Fauni

62 la testimonianza

108 il racconto

di Angelo Miotto foto di Germana Lavagna

di Massimo Carlotto, Michele Ledda, Andrea Melis illustrato da Antonello Silverini

68 il portfolio

118 domani

Senza Jon Jon Cazacu era un piastrellista romeno cui un padroncino italiano, che oggi è in libertà vigilata, diede fuoco undici anni fa. Nicoleta, sua moglie, racconta la vita dopo la tragedia e una battaglia legale senza giustizia

di Stella Spinelli foto di Francesco Giusti

Scarti A quanti interessa veramente dove finisce il sacchetto della spazzatura domestica? Quanti sono disponibili a passare da una logica dell’emergenza nella gestione dei rifiuti – che ha avuto per teatro Napoli ma non solo – al lavoro quotidiano che serve a ridurre quei sacchetti?

26 l’incontro

foto di Luciano Ferrara con un testo di Antonio Pascale

12 il reportage

Accade in Colombia Nella città simbolo della guerra fratricida, nel cuore del Paese, tra violenza nascosta e tentativi di rinascita

L’antidivo Alla vigilia dell’uscita del suo film “americano” che ha per protagonista Sean Penn, un colloquio con Paolo Sorrentino, il regista che ha raccontato Giulio Andreotti e molta umanità italiana di Barbara Sorrentini foto di Luciano Ferrara

36 le cronache

Dopo Gheddafi La resistenza di ieri e di oggi al Raís di Tripoli nella storia di tre fratelli finiti nelle sue carceri di Gabriele Del Grande foto di Alessio Genovese

42 il fumetto

Que viva el Che Ernesto Che Guevara raccontato attraverso la storia di un’immagine scattata da Alberto Korda e diventata l’icona della rivoluzione scritto da Marco Rizzo disegnato da Lelio Bonaccorso

52 il viaggio

Le vie della rivolta A Londra, dopo le fiamme di agosto, per scoprire che c’è un nesso tra come si pensa e si costruisce una città e le esplosioni di violenza testo e foto di Gabriele Battaglia

84 l’intervista

Zeptospazio Qui si indaga l’infinitesimamente piccolo: al Cern di Ginevra con il fisico teorico Gian Francesco Giudice di Gabriele Battaglia foto di Lorenzo Tugnoli

88 le cronache

L’amore nonostante Un centro d’identificazione italiano, due coppie nate ai tempi di Schengen di qua e di là del Mediterraneo di Gabriele Del Grande foto di Alessio Genovese

102 il ritratto

La legge di Quirra In Sardegna, a distanza ravvicinata il magistrato calabrese che sta per chiudere, tra non poche difficoltà, l’inchiesta sui danni provocati dal poligono militare di Nicola Sessa foto di Francesco Nonnoi

Nella mia terra I soldati furono i benvenuti. Poi qualcuno cominciò a sussurrare che di poligono ci si ammala. Ci fu la volta dell’agnello deforme. E cominciai a sentirmi sempre stanco...

Musica di Carlo Boccadoro Arte di Vito Calabretta Teatro di Simona Spaventa Libri di Alessandra Bonetti Architettura di Raul Pantaleo Documentario di Matteo Scanni La giusta causa di Massimo Rebotti Cinema di Barbara Sorrentini

124 le pagine

di Emergency

le rubriche 34 Spiriti liberi di Giulio Giorello 50 Televasioni di Flavio Soriga 58 Mad in Italy di Gianni Mura 82 Pìpol di Gino&Michele 83 Decoder di Violetta Bellocchio 96 Polis di Enrico Bertolino 97 Il capitale di Niccolò Mancini 98 Un fisico bestiale

di Bruno Giorgini

100 .eu di Stefano Squarcina 116 Buen vivir di Alfredo Somoza 117 Parola mia

di Patrizia Valduga

122 La posta del cuore

di Claudio Bisio

128 Per inciso di Gino Strada

il nostro osservatorio 48 Buone nuove 60 L’Italia è una Repubblica

fondata sul lavoro

80 Casa dolce casa 94 Cessate il fuoco

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in copertina foto di Francesco Nonnoi



OTTOBRE 2011

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Nati alla fine degli anni Settanta ai microfoni di Radio Popolare a Milano, si occupano di spettacolo e di scrittura da oltre trent’anni. Ideatori e condirettori di Smemoranda, hanno scritto una quindicina di libri di comicità, di satira, di narrativa. In tv hanno ideato e firmato per più di vent’anni trasmissioni di successo, tra cui “Zelig”. Tra le varie testate a cui hanno collaborato con continuità, Linus, l’Unità, Tango, Cuore, Corriere della Sera. Su E curano la rubrica Pìpol.

La nostra carta Questo giornale è stampato su carta certificata PEFC

www.emergency.it

Nasce nel 1950 a Cimitile, in provincia di Napoli. Fotografo freelance, dagli anni Settanta collabora con le principali testate italiane ed estere. Le sue immagini hanno dato vita a numerose esposizioni e pubblicazioni. In questo numero ha fotografato Paolo Sorrentino e la spazzatura di Napoli.

Gabriele Del Grande

Toscano, viaggiatore, scrittore, giornalista (mai iscritto all’albo) pluripremiato e disoccupato. Nato a Lucca nel 1982, si è laureato a Bologna in Studi Orientali. Nel 2006 ha fondato l’osservatorio sulle vittime della frontiera Fortress Europe. Ha collaborato con l’Unità, la Rai, Rtsi, Redattore Sociale, Narcomafie, PeaceReporter e altri. Per Infinito edizioni ha pubblicato i libri Mamadou va a morire, Il mare di mezzo e Roma senza fissa dimora. Su questo numero di E ha scritto Dopo Gheddafi e L’amore nonostante.

Stella Spinelli

Antonio Pascale

È nato a Napoli nel 1966, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato libri per Einaudi: La città distratta, La manutenzione degli affetti, Scienza e sentimento. Per Laterza: Qui dobbiamo fare qualcosa, sì ma cosa? E per minimum fax: Questo è il paese che non amo. Scrive per il teatro, collabora a Limes, Il Messaggero e II Mattino. Scrive per Il Post e www.salmone.org. Su E si è occupato del rapporto tra Napoli e la sua immondizia.

Chiara Noseda

Nata a Milano, fin da piccola adora disegnare e dipingere. Dopo la laurea in Design della Comunicazione al Politecnico di Milano, collabora con una serie di studi e agenzie creative in qualità di grafica e illustratrice. In questo numero ha illustrato La posta del cuore.

Alle biblioteche carcerarie che ne facciano richiesta verrà attivato un abbonamento omaggio

www.peacereporter.net

Gino&Michele

Luciano Ferrara

Nata a Firenze, cresce fra le colline di Carmignano sognando di fare la giornalista. Nel luglio 2003, sente parlare del progetto PeaceReporter. Entra nella squadra e non la molla più. Ha al suo attivo vari viaggi reportage in America Latina. In questo numero ha scritto Accade in Colombia.

Nicola De Rosa

E - IL MENSILE

Linda Ferrari

con noi

Francesco Giusti

Nato a Lecco nel 1969, fotogiornalista freelance, interessato ai temi sociali, ha fotografato ad Haiti, in Congo e in Egitto, oltre che in molti altri luoghi. Il suo progetto Sapologie ha vinto nel 2009 il secondo premio nella categoria Arts and Entertainment Stories al World Press Photo. Per E ha scattato in Colombia.

Barbara Sorrentini

Laureata in Filosofia, è inviata di Radio Popolare Network ai principali festival cinematografici. Collabora per il cinema con il quotidiano La Repubblica. È tra i selezionatori del premio San Fedele per il medio metraggio. È tra i curatori del Dizionario di cinema per ragazzi (Il Castoro). Qui ha intervistato Paolo Sorrentino.

Guido Guarnieri

Nato a Milano nel 1984, ha studiato Design a Milano, Glasgow e Colonia. Assetato di esperienza e di mondo, lavora a Londra come grafico freelance per tre anni. Vive ora a Parigi dove continua la sua attività di grafico. Per E illustra la rubrica Casa Dolce Casa.


storia 31 - Critical Fish

Il gabbiano e il pesce giusto

storia raccolta da

Nicola Sessa

Critical Fish è la prima pescheria didattica aperta a Roma. Il pesce arriva da una piccola flotta di barche che pescano in modo ecocompatibile: tre barche nel basso Lazio, quattro in Cilento, tre in Calabria e una piccola cooperativa marchigiana forniscono le alici (anche per Rocco). Critical Fish è nata da un progetto delle cooperative MareMare e Arancia. Per saperne di più www.criticalfish.it Rocco è un Larus cachinnans o gabbiano del Caspio. Si riproduce nell’area del Mar Caspio e del Mar Nero, ma diversi stormi si spingono fino in Europa occidentale.

Mi chiamano Rocco lo zoppo. Ho una zampa che non funziona benissimo, ma non m’importa. Sono un gabbiano, ho le ali e posso volare. E in volo, il 20 maggio, sono arrivato fino a Roma, vicino a Porta Pia. Sono atterrato su un grande gazebo bianco. C’era gente allegra, sotto il tendone: si beveva vino e si mangiava tanto pesce crudo. Una festa. La pescheria Critical Fish apriva i battenti. È là che ho conosciuto Francesco e i ragazzi della cooperativa. Si sono inventati un nuovo modo di vendere il pesce, di farlo conoscere ai clienti. Mi sono subito affezionato e da allora, la sera, quando la pescheria chiude, seguo la figlia di Francesco fino a casa. Ho imparato il tragitto e la seguo. Molti penseranno che mi sono fermato là perché mi danno da mangiare delle alici fresche e non scarti. È vero, ma me le guadagno. Ogni sera faccio dei duetti con Francesco: io corro sul

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tendone, lui me ne dice di tutti i colori e i clienti seduti per l’aperitivo si divertono a vedere le mie zampette palmate in controluce. Lo stesso accade con i bambini che vengono la mattina a imparare. Perché Critical Fish è una pescheria didattica: Francesco – pescatore di lungo corso – una biologa marina e uno psicopedagogo insegnano ai bambini la dieta etica e responsabile. Se ho capito bene, il segreto sta tutto nella filiera corta e la differenza, in una vocale: «dalla cattura alla cottura». Francesco lo ripete in continuazione. Secondo la sua filosofia, non ci devono essere intermediari tra il pescatore e il pescivendolo: il pesce è quello giusto, di stagione – quindi a miglio zero e nessuna importazione – e i costi rimangono bassi. Niente pesci d’allevamento. Pare che si faccia un uso spropositato di antibiotici e – checché ne dicano molti veterinari e biologi marini – l’allevamento biologico non esiste. Francesco spiega ai bambini che mangiare una spigola o un’orata nata «in prigione» non è etico: prima di tutto perché per fare un chilo di pesce di allevamento ci vogliono cinque chili di pesce azzurro o di pesce congelato, che in questo modo viene sottratto all’alimentazione umana, e poi perché questi pesci, che nascono nelle nursery e muoiono quando l’allevatore decide che sono della grandezza giusta, vivono in cattività e «il mare non lo hanno visto nemmeno in cartolina». Dall’alto del gazebo, anche io ho ascoltato queste cose e ho visto l’album di disegni con la storia dell’orata prigioniera che hanno preparato per i bambini. Attenzione, se pensate di venire da Critical Fish per comprare tonno o pesce spada, risparmiatevi il viaggio. Francesco vi rincorrerebbe per tutta via Nomentana. Sono pesci a rischio di estinzione e vanno salvaguardati. Tanto che quelli di Critical Fish adesso si sono messi in testa di lanciare una campagna per la moratoria di cinque anni per fermarne la pesca: ristoratori, pescatori, pescivendoli ma soprattutto i consumatori dovrebbero dire stop a pesce spada e tonno rosso. Io sono un gabbiano e non me ne intendo di cose umane. Ma so apprezzare l’umanità. «Il pesce non è una cosa per ricchi», Francesco lo dice sempre. Anche le famiglie con una sola entrata devono avere la possibilità di avere accesso al pesce due o tre volte alla settimana. È per questo motivo che Critical Fish persegue il reddito, non il profitto. Un rapporto sincero con i consumatori, che in genere vengono visti come polli da spennare (o pesci da squamare). Basta andare il sabato mattina ai mercati generali quando c’è la vendita al pubblico: tutto pesce decongelato. Francesco si chiede sempre se i veterinari siano miopi oppure chiudano gli occhi. Io sono Rocco, il gabbiano zoppo. La penso come Francesco e dal 20 maggio non mi sono più mosso.

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storia 32 - Milorad Ivanovic

Passione reporter storia raccolta da

Andrea Milluzzi foto Linda Dorigo

Milorad Ivanovic, 38 anni, è un giornalista serbo. Nel maggio 2011 ha fondato il settimanale Novi Magazin dopo essersi dimesso da vicedirettore di Blic, uno dei più importanti quotidiani nazionali.

Siamo una bella storia. Se questa avrà un lieto fine lo vedremo fra un po’. Oggi comunque posso arrivare in redazione a Novi Magazin e sentirmi soddisfatto, perché non ho l’ansia del guadagno. Vendiamo cinquemila copie, non è affatto male. Fino allo scorso marzo sono stato vicedirettore di Blic, uno dei principali quotidiani di Belgrado. Ogni giorno avevamo 160mila lettori ma i miei editori non erano soddisfatti. All’ultima assemblea del 2010, sul tavolo c’era un utile di sette milioni di euro; loro volevano portarlo a nove e per farlo mi hanno chiesto di licenziare venti giornalisti. Ho pensato: come faccio ad andare dai ragazzi a dirgli «scusate abbiamo guadagnato sette milioni ma venti di voi non avranno più il lavoro?». Mi sono dimesso ed eccomi qui, a Novi Magazin, con sedici giornalisti assunti a tempo pieno, altrettanti collaboratori e l’ambizione di riuscire a scrivere cento pagine di informazione ogni

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settimana. Mi sento rinato. Io vengo da una piccola città lontana da Belgrado, da una famiglia umile, senza tanti soldi e cognomi di richiamo. In Serbia, come credo un po’ ovunque, avere un nome pesante ti aiuta a fare carriera. Ma io non ce l’avevo e ho iniziato dalla gavetta. A sedici anni ero già cronista nel piccolo giornale della mia città. Eravamo in dodici, undici donne e io. Sì, perché nelle testate serbe quasi tutte le persone che ricoprono ruoli di potere sono uomini, ma nelle redazioni questo rapporto s’inverte. Ho fatto molta cronaca di strada. Ho imparato il mestiere e mi hanno promosso al desk. Era arrivato il momento di fare il grande salto: ho lasciato casa dei miei genitori e sono venuto a Belgrado. Era il 1996, avevo ventiquattro anni. Ho abbandonato il nido materno un po’ più tardi rispetto alla media dei ragazzi serbi, che iniziano a farsi una vita propria molto presto, intorno ai sedici-diciotto anni. A mia discolpa posso dire che già lavoravo. A Belgrado sono entrato a Blic. Gli inizi sono stati entusiasmanti, ero in un grande giornale e avevamo la libertà di cercare notizie e scrivere quello che volevamo. Poi sono arrivati i problemi. Blic si è trasformato in azienda


e gli editori hanno iniziato a ragionare come imprenditori. Hanno visto la possibilità di guadagnare sempre di più e così il marketing è diventato più importante delle notizie. Le copie vendute diminuivano, ma non era un problema perché i soldi entravano dalla pubblicità. Alla fine c’è stata la richiesta dei licenziamenti e allora ho detto basta. Sono stato quattordici anni in quel giornale, ero diventato vicedirettore. Va bene così, adesso è un’altra storia. Novi Magazin non ha editori. La nostra sorte dipende da noi e dai nostri lettori. Tutti i giornalisti che sono qui vengono da altri importanti giornali serbi. Hanno deciso come me che quel tipo di giornalismo non andava più bene e hanno scelto di rimettersi in gioco. Ognuno di noi ha investito un po’ di capitale e abbiamo un patto: se alla fine di quest’anno esisteremo ancora, diventeremo tutti azionisti di Novi, se invece avremo fallito, sarà stata comunque una bella esperienza. Siamo giovani, è giusto provarci. Devo dire che, giunti all’ottavo numero, i risultati sono soddisfacenti. Riusciamo a informare su tutto, dalla politica all’economia, così diamo ai lettori una gamma completa di notizie su Belgrado e la Serbia, ma non solo. La nostra ambizione è quella di diventare un magazine regionale per tutti i Balcani, visto che non ci sono prodotti di questo tipo in Serbia. La seconda parte del giornale la dedichiamo ai viaggi e ai reportage. Faccio un esempio: un gruppo di amici ha fondato un’associazione che viaggia per il mondo in bicicletta. Ci hanno regalato – sì, regalato – il fotoreportage di uno di questi viaggi in Libia. Aver fondato Novi Magazin ha portato anche altre

soddisfazioni. A Belgrado c’era un uomo gravemente malato che aveva bisogno di cure all’estero. Non aveva i soldi e così abbiamo organizzato, dalle pagine del giornale, una colletta che gli ha permesso di curarsi in Italia, a Udine. Era dato per spacciato e invece ce l’ha fatta, anche grazie a un medico italiano con il quale ho stretto una bella amicizia. A Novi arrivano spesso lettere di ringraziamento o simili richieste di aiuto. Sono belle sensazioni. Come quelle che mi dà l’essere rappresentante per i Balcani dell’associazione Dartcenter, che si occupa di traumi e stress dei giornalisti. Molti hanno seri problemi per i loro ritmi di vita o per le cose che hanno visto nella loro carriera. Alcuni hanno istinti suicidi e altri si danno all’alcolismo. Io sono astemio e mi ricordo che a Blic ogni giorno, finito il lavoro, ci sedevamo tutti intorno a un tavolo e i miei colleghi bevevano litri di birra per rilassarsi. Io ero l’unico a non farlo. La mia compagna lavora ancora là, è una delle più importanti notiste politiche. Vorrebbe venire a lavorare a Novi, ma abbiamo deciso che almeno uno in famiglia deve avere il posto sicuro. Aspettiamo. Credo che il nostro lavoro abbia bisogno di un pizzico di follia. Ho tenuto una lezione al Festival di giornalismo di Perugia e ho visto molti ragazzi italiani sognare di diventare reporter. Avrei dovuto dire che la priorità è sistemarsi e avere un lavoro stabile, ma raramente ho notato così tanta voglia e passione. Li ho incoraggiati. Non potevo dirgli di lasciare perdere. D’altronde anche Novi Magazin è nato da una pazzia.

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storia 33 - Ada Colau

L’avvocato è di casa storia raccolta da

Cristina Artoni foto Rocio Saucedo

Ada Colau, 37 anni, giurista di Barcellona, attivista della Pah (Plataforma de Afectados por la Hipoteca).

In Spagna siamo giunti alla fase “O adesso o mai più”. Non c’è solo fermento, in realtà siamo esplosi. Sappiamo che i mesi che abbiamo davanti sono decisivi. Le elezioni anticipate del 20 novembre sono una nuova chance per difenderci dall’offensiva dei poteri forti, da un capitalismo che vuole distruggere i nostri diritti fondamentali. Ma sono ottimista. Tutti insieme, con il movimento degli indignados andremo lontano. Tra la Pah (Plataforma de Afectados por la Hipoteca, la piattaforma dei colpiti dall’ipoteca) e il movimento c’è stata un’intesa immediata. La nostra associazione che si batte per il diritto alla casa aveva subito aderito alla prima manifestazione indetta a maggio attraverso la rete. Dopo le prime settimane in cui l’indignazione si è diffusa nel Paese, lo stesso 15-M aveva la necessità di incanalare la propria battaglia in azioni concrete. È qui che abbiamo unito le nostre forze in interventi collettivi per bloccare le espulsioni di famiglie che diventano vittime di mutui esorbitanti. Dopo le prime azioni Stop desahucio! (Stop allo sfratto), siamo diventati un vero fenomeno. In solo due mesi abbiamo impedito settanta sgomberi. Noi dell’associazione, insieme ai partecipanti del 15-M, presidiamo la strada dove è previsto lo sgombero. Poi insieme all’inquilino, l’ufficiale giudiziario e il responsabile della banca cerchiamo una soluzione. In quel caso metto a disposizione la mia professionalità di giurista, anche se le emozioni a volte sono difficili da governare. Vediamo casi di tutti i tipi, persone talmente disperate da aver alle spalle un tentato suicidio. Cerchiamo di sostenere, spiegando che la vergogna per un debito non è ammessa. Il diritto alla casa è un diritto universale. Per fortuna non manca l’appoggio dei molti abitanti che spesso dalle finestre ci incoraggiano e gridano: «Grazie di essere qui». Ma non si pensi che la requisizione di una casa colpisca solo i più poveri. In questo Paese la burbuja immobilia-

ria (la bolla immobiliare), ci ha regalato con l’abisso finanziario una certa omogeneità. Nel febbraio del 2009, quando abbiamo creato la Pah, c’eravamo accorti che l’accesso alla proprietà privata in Spagna stava avvenendo attraverso un indebitamento dei cittadini. Vertiginoso e, soprattutto, al di fuori di ogni controllo. Il risultato è che anziani, giovani, cittadini della classe media rischiano di finire per strada. La spiegazione è semplice: per anni sono stati concessi mutui a famiglie che per pagare devono destinare dal 60 all’80 per cento delle entrate. A livello internazionale il parametro si limita al 30 per cento. Se un cittadino perde il lavoro finisce in un gorgo. Ma in più, ora che il sistema basato sul mattone è crollato, le banche riescono ancora a guadagnare. Con quale escamotage? Semplice. Rivalutano la casa che stanno requisendo basandosi sull’attuale prezzo di mercato. Ma mantengono invariato il debito dell’inquilino che si rifà al prezzo di quando aveva sottoscritto il mutuo. Quindi se una casa è stata valutata 300mila euro quindici anni fa e ora vale la metà, al cittadino cui viene requisito l’immobile resta da pagare il debito che risale a prima del crollo del mercato. Oltre al danno la beffa. I cittadini finiscono per strada, con debiti e interessi onerosi e l’onta di essere morosi. Ecco qui un’altra specificità spagnola. Gli stessi privilegi per le banche esistevano anche negli Stati Uniti, ma poi grazie alla pressione popolare è cambiata. È questa la battaglia per la civiltà che stiamo affrontando. Lo faccio anche per mio figlio. Ha appena cinque mesi e non voglio che cresca con questo sottofondo di violenza che attraversa le nostre società, in cui viene privilegiato un ente finanziario a discapito dei cittadini.

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storia 34 - Marina Signorelli

Palla prigioniera

storia raccolta da

Mariella Caruso

Marina Signorelli, 45 anni, milanese, insegnante precaria e volontaria negli istituti penitenziari. Ha lavorato nel carcere di San Vittore e a Opera. A lei è dedicato un capitolo di Dietro le sbarre di Candido Cannavò.

Il giorno in cui entrai nel carcere di San Vittore, capii di essere finalmente nel posto giusto, quello in cui avrei potuto realizzare quel desiderio che mi aveva folgorata, strappandomi ai lunghi anni di depressione trascorsi a chiedermi quale fosse il senso della mia vita. L’illuminazione mi rese consapevole di ciò che volevo fare: aiutare chi stava in carcere. Ma, soprattutto, volevo farlo utilizzando lo sport, che per me era stato un’àncora di salvezza. È una storia che risale alla mia adolescenza. Avevo sedici anni quando conobbi un ragazzo più grande di me. All’epoca, studiavo e mi allenavo; così trascorrevo le mie giornate. La ginnastica artistica era il mio sport, avevo appena lasciato la selezione regionale e cominciavo a seguire le piccoline che arrivavano in palestra. Ero felice e non avevo dubbi su cosa avrei fatto da grande: l’insegnante di educazione fisica. Ma non avevo fatto i conti con la vita. In quel periodo – erano gli anni Ottanta – erano davvero tante le persone che si bucavano, quante quelle che oggi tirano coca. Mi ci volle poco per scoprire che il ragazzo di cui mi ero innamorata era un tossico. Lo seguivo al parco Lambro, dove andava a farsi. Io guardavo tutto come fosse un film. Ma era realtà. Una realtà dalla quale non mi sono fatta risucchiare. A salvarmi fu l’amore per lo sport e il desiderio di insegnarlo. L’Isef, che oggi è la facoltà di Scienze motorie, accettava novanta nuovi iscritti l’anno e io volevo entrarci. Non potevo fallire.

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E ci riuscii. Il mio ragazzo di allora, invece, “riuscì” soltanto a oltrepassare la porta di una prigione: aveva rubato per procurarsi i soldi per le dosi. Credo che, inconsciamente, fu allora che decisi di voler fare la volontaria in carcere. Ma, ripeto, non ne ero ancora consapevole, anche perché stavo vivendo un momento di serenità: insegnavo educazione fisica ai ragazzi della Milano bene all’istituto Leone XIII e tutto filava liscio. Almeno apparentemente, e così quel pensiero, il sogno del volontariato in carcere, rimase nascosto in un cassetto. Poi arrivò la depressione e cambiò tutto. Persi il lavoro ma non il mio sogno. Nel 2000 entrai per la prima volta a San Vittore come rieducatrice psicofisica nella sezione femminile. Quando ne uscii, era nata una sorta di polisportiva: con la collaborazione di alcuni studenti della facoltà di Scienze motorie, lavoravamo in tutti i raggi maschili e nei piani femminili con i detenuti con problemi di tossicodipendenza. Era bello vederli giocare a calcetto e basket, impegnarsi nello stretching e nel riscaldamento. In quel periodo, all’interno del cortile femminile, con l’appoggio di una persona che non vuole essere menzionata, fu realizzata anche una struttura per poter fare attività al coperto, quando pioveva e faceva freddo. Purtroppo anche questa esperienza ebbe fine, all’improvviso, quando Luigi Pagano, direttore di San Vittore, fu promosso provveditore regionale per le carceri lombarde. E allora ho dovuto ricominciare, alla casa circondariale di Opera, lavorando come volontaria al progetto Free Opera, la squadra di calcio che per qualche anno ha partecipato al campionato di Terza categoria. Ma lo sport dentro il carcere è un’altra cosa. Deve essere impegno continuo e lavoro vero, slegato dal risultato. L’ho dimostrato con Sportivi Dentro, il progetto con il quale – grazie a Edison – sono riuscita a coinvolgere venticinque detenuti comuni e a farli giocare a pallavolo per sei mesi. Mentre aspettavo l’autunno, per poter ricominciare, ho ricevuto una telefonata dal carcere di Bollate che era alla ricerca di un progetto specifico da sviluppare. Intanto, come tutti i precari della scuola ogni anno, sono rimasta in attesa della sospirata convocazione per una supplenza. Infatti insegno ancora educazione fisica ma ho conseguito anche una specializzazione nel sostegno ai ragazzi autistici, affetti da sindrome di Asperger e con problemi specifici dell’apprendimento. Ai miei studenti parlo di droga utilizzando il loro linguaggio: prima di essere insegnante, mi sento educatrice e la scuola deve essere il primo luogo in cui si fa prevenzione. Non serve a nulla fare finta che il problema stia sempre da un’altra parte.

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storia 35 - Vilmo Ferri

L’amico dei tronchi storia raccolta da

Anna Maria Volpe foto Simone Fauni

Vilmo Ferri nasce ad Anzola dell’Emilia (Bo) il 27 settembre 1955. Si definisce un cittadino del mondo. Oggi lavora presso la Cgil, ma la sua principale attività consiste nel piantare alberi e, dal 1992, nel fare la spola Tuzla-Bologna per portare «piccoli grandi aiuti alla popolazione». Adesso ha bisogno di un nuovo furgone.

Sono nato e cresciuto ad Anzola dell’Emilia, ma vivo nel mondo. Ho cinquantacinque anni; delle volte me ne sento venti, altre novanta, dipende da chi incontro la mattina. Ho sempre creduto che nella vita si prendano delle malattie. Quelle brutte si fanno curare dal medico, quelle belle le portiamo nel cuore. Ecco, la mia prima bella malattia mi ha portato in Sudamerica, in Amazzonia, a piantare alberi. Ho deciso di dedicarmi a questa forma di volontariato perché ogni anno, nel mondo, sparisce uno spazio di verde delle dimensioni dell’Austria. La seconda bella malattia è arrivata con la guerra nei Balcani. Una ventina di giorni dopo la fine del conflitto, sono andato a Tuzla, in Bosnia, e da allora ci torno regolarmente una volta al mese. Consegno pacchi carichi di riso, fagioli e biscotti nei campi profughi e, al ritorno, accompagno in Italia bambini malati di leucemia e tumori provocati dall’uranio impoverito utilizzato in guerra. Curare una leucemia costa circa ventimila-trentamila euro. I bambini rimangono qui un anno, un anno e mezzo. Però quando li riporto a casa, sono guariti. Quando non sono in viaggio, lavoro presso la Cgil come tuttofare: riparo impianti elettrici, le porte, do la vernice, aggiusto guasti all’impianto di illuminazione. Ma non c’è niente da fare, la strada chiama e la routine, dopo un po’, mi viene a noia. Ricordo nitidamente il mio primo viaggio. Arrivai non molto lontano da Belgrado, in un campo profughi in cui vivevano bambini svestiti. Più di tutti, mi colpì

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una bimba che aveva quattro anni e portava scarpe misura 42 mentre nevicava forte. All’origine della serie di viaggi che ho fatto, forse c’è proprio quella visione ridicola e terribile al tempo stesso. Per queste missioni, collaboro con un’associazione di Faenza, Cosmohelp, e (anche) grazie ai fondi della Regione riusciamo a curare questi bambini. Per arrivare a Tuzla ci metto tra le dieci e le quattordici ore. Le strade sono quelle che sono e ormai le conosco quasi a memoria. Avrò fatto avanti e indietro almeno trecento volte. È un bell’impegno, ma la cosa più difficile è trovare i soldi. Però ho tanti “fratelli” che mi sostengono anche se non verranno mai con me. In Bosnia ci sono cinquantamila profughi, anziani che vivono con una capra o una mucca in mezzo a campi minati. Per fortuna, molti di loro hanno un parente all’estero che tutti i mesi manda duecento euro, circa il doppio dello stipendio medio di un bosniaco. Purtroppo, il mio “fratello rosso” ha già fatto 320mila chilometri. È anziano e mi rendo conto che è da sostituire. No, non fraintendetemi, sto parlando del mio furgone. Il tempo e la strada hanno messo a dura prova anche quello. Per questo motivo sto cercando 23mila euro. Ne ho già raccolti 16mila perché conosco moltissime persone, ma sono arrivati anche soldi da sconosciuti. Questo gesto da parte loro mi ha colpito molto. Perché, è inutile negarlo, il volontariato si fa in silenzio e senza sbandierarlo in attesa di un qualche attestato di merito; ma, quando un perfetto estraneo apre il portafoglio e ti aiuta a portare a termine un progetto, vuol dire che crede in te e che quello che fai è importante.

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Accade in Colombia di

Stella Spinelli

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Francesco Giusti

Barrancabermeja, città che vive di e per il petrolio, è il simbolo della guerra fratricida che ha insanguinato il Paese. Oggi per le sue strade si passeggia e ci si affolla nei bar: non tutto però è come sembra e una pace senza violenza è ancora da conquistare. Qualcuno ci prova: riunendo i pezzi del movimento che si batte per i diritti costituzionali o su un palcoscenico gremito di ragazzi che credono nella forza del teatro


Una sagoma monumentale in ferro battuto emerge dall’acqua di uno dei tanti laghi che modificano il profilo del Rio Grande de la Magdalena. È il Cristo del Petrolio, che, all’altezza della raffineria più grande del Paese, spruzza dalle mani rivolte al cielo acqua e raggi di luce sulla capitale colombiana dell’oro nero: Barrancabermeja. Il Magdalena Medio è la regione disegnata dai militari nel cuore montagnoso del Paese, attraversato dal fiume che porta lo stesso nome. Trentamila chilometri quadrati ricavati da quattro dipartimenti – Santander, Antioquia, Bolívar e Cesar – e trentuno municipi: ci abitano 900mila persone, quasi 172mila sono assiepate in città. Il caldo umido mischiato all’odore del greggio rende faticoso persino passeggiare, eppure il centro pullula di gente indaffarata e grata a quella puzza di petrolio, dal quale quaggiù tutto dipende. «Noi barranqueños siamo divisi fra chi lavora nella raffineria e chi vorrebbe lavorarci», sintetizza sorridendo Jorge, un uomo di mezza età che vende ananas all’angolo dell’arteria che collega il centro amministrativo e commerciale al porto, toccando la cittadella di Ecopetrol. «La notte, quando la fabbrica dell’oro nero diventa un puzzle di lucine, è quasi suggestivo, non trovate?». Ha un tono ironico Annye Paez, una bella donna avvocato che ha scelto di lottare al fianco dei perseguitati. Da anni lavora per l’Acvc, associazione contadina fra le più organizzate e martoriate del Paese, vincitrice del Premio nazionale di Pace 2010. Guardando giù dal ponte che s’insinua tra le acque ferme circondate da piante affollate di iguana, avverte: «È puro marketing. Il messaggio è che il petrolio va osannato e con esso chi lo raffina, ossia lo Stato, che diventa così strumento della volontà di Dio». Poco più in là, il vecchio molo, ormai surclassato da una recentissima struttura dalle grandi vetrate e del quale non restano che le antiche banchine trasformate in ristoranti. «Noi siamo un Paese in guerra dove niente è quel che sembra», esordisce Annye e racconta come per decenni il Magdalena Medio sia stato la culla della guerriglia che, da oltre sessant’anni, lotta contro il potere centrale inneggiando a principi comunisti. «Qui lo Stato non esisteva», spiega. «Fino al 1990 comandavano le Forze armate rivoluzionarie della Colombia e l’Esercito di liberazione nazionale. I soldati venivano mandati allo sbaraglio sulle montagne o messi di guardia al centro urbano, per proteggere la raffineria. Un esercito nazionale tanto spietato quanto spaventato, che ha disseminato morte e disperazione senza mai guardare in faccia nessuno. Specialmente chi abitava in periferia, al di là del Puente Elevado, nella terra nemica, appunto, cuore delle Farc e dell’Esercito di liberazione nazionale». Si interrompe. «Pesce fresco, frutta», grida un venditore ambulante tra le tante bancarelle sulla riva del fiume, ◀ In

città tra porto fluviale e centro storico cittadella Ecopetrol e il Cristo Petrolero (nella pagina precedente) ▶ La

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continuo via vai di chalupas stipate di passeggeri e di canoe in legno, dalle quali i pescatori gettano le reti artigianali, che si tramandano da generazioni. «O con me o contro di me è la regola non detta che da sempre il governo applica per determinare il confine tra civili e guerriglieri. Chi non sta con l’esercito, sta con la guerriglia: questa equazione ha pesato e pesa sulla vita di tutti», riprende sorseggiando un succo di maracuja. «È una stigmatizzazione che ci discrimina, condannandoci alla povertà in un angolo di Colombia che si è rivelato invece tra i più appetibili: miniere d’oro, terre fertili, acque abbondanti e soprattutto petrolio. Uno stratagemma perfetto, insomma, per im-

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mobilizzare il popolo, soggiogandolo con il terrore e spartirsi indisturbati tanta ricchezza con la multinazionale di turno». Una pausa e poi: «Così il Magdalena Medio si è trasformato in zona roja da riconquistare. E “Barranca”, agli albori degli anni Novanta, è diventata la capitale mondiale dell’omicidio mirato. I germogli del paramilitarismo di estrema destra hanno attecchito in un lampo, avviando la riscossa reazionaria che ha insanguinato l’intera Colombia». Annye fissa il fiume. È determinata quando precisa che Barranca è da sempre simbolo della guerra fratricida colombiana, della quale è impossibile calcolare il numero delle vittime. «Sono cifre in continuo divenire – sospira – ma qual-


che dato certo c’è: quattro milioni e mezzo di desplazados e decine di migliaia di morti».

Armi o cocaina

L’immagine che Barranca trasmette è tutta un’altra: un tipico centro urbano sudamericano, una giungla di gente allegra, traffico e rumori, in cui ogni via si lega all’altra in rettangoli regolari. Perdersi è impossibile. La 49 è la strada che percorre tutto il centro, fino al Parque de la vida, un polmone verde inaugurato di recente, con giochi per bambini, ristoranti e discoteche, punto di riferimento per barranqueños di ogni età. Prima di arrivarci però si incontrano molti

disperati: «Turistas tengo hambre. Turistas». Tirare dritto provoca disagio. All’altezza di plaza Colombia, si apre il quartiere delle banche e dei centri di cambio, dove è ancora il dollaro a dettar legge. «No euros, por favor. No euros», ripetono i bancari. Le case dagli intonaci malandati si alternano a vetrine lucenti di negozi di ogni tipo. Da locali bui arriva un odore di carne alla griglia che riesce a sopraffare persino la puzza di petrolio. Sullo sfondo svetta il Centro commerciale popolare, una torre di negozi dai nomi stranieri e dall’aria condizionata sparata, rifugio di famiglie accaldate e di gente annoiata. Poi, d’improvviso, ecco La Tora: un palazzo di sette piani rosso scuro che non passa

I pacifisti Circa trentamila colombiani si sono riuniti in agosto a Barranca per il primo Incontro nazionale per la terra e la pace. È il più grande evento in nome del dialogo e contro la guerra mai realizzato in Colombia. Comunità indigene, afrodiscendenti e contadine, i tre grandi tronconi del movimento pacifista colombiano, si sono incontrate per ribadire il diritto alla vita, al cibo, all’educazione, alla salute, al lavoro e quindi alla pace. Diritti costituzionali che il governo ha sempre dimostrato di non rispettare. Dall’incontro è nato un coordinamento nazionale per imporre a governo e gruppi illegali di costruire la pace con la negoziazione. E se da una parte hanno ricevuto il placito di Bogotà, dall’altra non si è fatta attendere nemmeno la reazione delle Farc. Il gruppo guerrigliero ha manifestato la sua apertura al dialogo con il governo Santos “a condizione che si impegni a creare le condizioni per le profonde riforme economiche, sociali e politiche che la Colombia necessita e che sole possono garantire una pace duratura, basata principalmente sulla giustizia sociale”.

Crimini di Stato Sono almeno 2.445 i civili (di cui 118 donne e 126 minorenni) uccisi da agenti statali, perlopiù militari, che li hanno spacciati per guerriglieri per ricevere licenze premio o buste paga più gonfie. Tutte le vittime erano giovani poveri, emarginati, studenti o contadini, spesso presi in trappola dietro promesse di lavoretti ben retribuiti. Il procuratore generale della Colombia, Viviane Morales, ha dichiarato che a oggi 3.473 uomini delle forze di polizia sono indagati come presunti responsabili di quelli che in Colombia vengono chiamati falsos positivos. Di questi, 1.411 sono già in carcere. Il caso scoppiò nell’ottobre 2008 in seguito a inchieste giornalistiche e, sebbene molti ufficiali dell’Esercito siano stati destituiti, le indagini vanno avanti lentamente. Secondo le Nazioni unite e molte organizzazioni in difesa dei diritti umani, è stato proprio il sistema degli incentivi garantiti dal governo ad aver favorito l’uccisione di tanti civili innocenti.


inosservato e che ospita tante associazioni in difesa dei diritti umani, spesso oggetto di minacce. Padre Libardo Valderrama Centeno dirige il Programma di sviluppo e pace del Magdalena Medio, voluto dalle associazioni comunitarie, dalla Chiesa cattolica, dai sindacati e dalle amministrazioni locali. Con le varie comunità sono partiti progetti agricoli, educativi, professionali, per dare concrete alternative alla guerra e alle coltivazioni illecite, in zone in cui per sopravvivere le scelte da sempre sono due: o il kalashnikov o la coca. «Quello che il Paese ha perso in questi anni – racconta – nessuno ce lo ridarà mai. Intere generazioni di uomini e donne valorosi sterminate. Gente che sapeva pensare con la propria testa e lottare per un mondo migliore. Barranca ne è testimone: sta rinascendo da un bagno di sangue». Padre Libardo gesticola energicamente. «L’intero Magdalena Medio è l’esempio del dramma nazionale. Dal 1997 a oggi – dettaglia – sono 3.079 i civili uccisi per ragioni politiche, 1.139 dei quali solo a Barranca. E anche qui spaventa il numero degli sfollati per la violenza: 168.524 persone, 24.025 delle quali cacciati dalla città. Il conto precedente? Nessuno lo ha tenuto. Le centinaia di desaparecidos, oltre ai civili ammazzati e poi spacciati per guerriglieri in un certo senso confondono le acque». È un sacerdote sui generis Libardo, veste abiti civili, ama divertirsi e vive sotto minaccia di morte da anni. «Ho smesso di avere paura. Sono cattolico e non posso temere la morte», taglia corto. «Finché comandava la guerriglia regnava un ordine imposto con le armi, ma non fondato sul terrore. Uccidevano anche i guerriglieri, certo, e anche un solo morto ammazzato è troppo, ma gli omicidi di massa, le sparizioni indiscriminate di civili non appartengono a quell’epoca. Sono diventate quotidianità con l’arrivo dei paramilitari: dagli anni Novanta fino a quattro anni fa abbiamo vissuto la dittatura della morte arbitraria. È stato orribile». Tutti i centri urbani della regione sono caduti in mano a queste orde impazzite e los insurgentes hanno ripiegato sulle montagne. «In ballo c’erano il potere e i soldi. Tanti soldi», precisa padre Libardo. Sotto il controllo dei rivoluzionari, infatti, molte zone montagnose sono diventate campi di coca da smerciare alla mafia del narcotraffico. Un business che è servito per finanziare la lunga guerra e che, con il tempo, è diventato motivo di guerra tra le Farc e l’Eln da una parte che, tassando ogni quantitativo di foglie vendute, tendevano ad accaparrarsi sempre più ettari e, dall’altra parte, i paramilitari che avanzavano facendo altrettanto. In mezzo, c’era la gente comune, costretta a scappare per i continui combattimenti. Quando i grandi cartelli dei narcos sono caduti vittime della lotta alla droga capeggiata dagli Stati Uniti, i capi paramilitari, già avezzi a esercitare un potere mafioso, sono diventati onnipotenti. «Finché anche loro non sono crollati per i giochi della politica governativa che prima li ha appoggiati e fomentati e poi li ha scaricati, promettendo in cambio prebende e sconti di pena», precisa il sacerdote. «Si arriva così al periodo fra il 2004 e il 2006, quando la legge Justicia y Paz porta alla smobilitazione paramilitare, ossia alla grande farsa che ha prodotto altri gruppi armati illegali collusi con il potere mafioso, che hanno cambiato soltanto nome e divisa. Non certo facce né intenzioni». E la città lo sa


bene. Certo il coprifuoco non scatta più alle otto di sera. Non è più il luogo dove ogni venerdì pomeriggio arriva un camion a raccattare i morti lasciati in strada per giorni. Ma non ha smesso di aver paura.

Sangue sulla festa

La Barranca di oggi è sempre pronta a hacer rumba e ogni ora è buona per una cerveza bien fria accompagnata da vallenato e salsa sparati a volume assordante. I locali all’aperto sono nati come funghi prima nella città bene, poi nei quartieri popolari. Hanno pergolati e terrazze dove giovani e non si dimenano facendo ondeggiare bottiglie di Aguila e Colombia Club. Ma il passato nessuno lo dimentica. «Come scordarsela la festa della mamma del 16 maggio 1998 in quel campo da calcio laggiù? Impossibile», racconta José, il barista di uno dei tanti pub della Comuna 7, uno dei quartieri più poveri di Barranca e più segnati dalla guerriglia. A raccontare questa brutta storia, però, è qualcun altro: «Erano passate da poco le 21.30 quando un gruppo di uomini armati e incappucciati è arrivato in piena sagra, ha ucciso sette giovani a sangue freddo e ne ha portati via altri venticinque. Avevano tutti fra i sedici e i venticinque anni. A eccezione di José Libardo Londono, che ne aveva settantacinque». Jaime Peña parla scegliendo parole essenziali per non cedere alla commozione: quel pomeriggio ha perso Yesid, suo figlio, sedici anni appena compiuti. «È il più giovane dei desaparecidos il mio Yesid. Dieci anni lo abbiamo aspettato», riprende Peña. «Poi uno di quei paramilitari ha deposto le armi e in cambio di una pena irrisoria ha raccontato la sua verità». Fu un massacro. Li uccisero uno dopo l’altro nell’arco di una settimana, dopo quindici giorni di prigionia. Tre o quattro alla volta. «Mio figlio è stato il secondo a morire», spiega. «Eppure nessuno di loro era un guerrigliero. Lo ha confessato il “pentito”: doveva andare così. È stata una tragedia studiata a tavolino da esercito, polizia e paramilitari per sottometterci, per disarticolare il processo di resistenza sociale che stavamo costruendo. È stato terrorismo di Stato». Che è poi continuato per anni. «Adesso aspetto i suoi resti, per seppellirlo e piangere sulla sua tomba. Fino ad allora non mi darò pace». Alcune vie polverose più in là – a percorrerle nella calura giusto qualche donna con borse di plastica e marmocchi al seguito – sulla porta di un circolo culturale c’è una piccola insegna, Organización Femenina Popular (Ofp). Gloria Amparo Suárez è una delle responsabili, ha una cinquantina d’anni e occhi neri e luminosi. Al chiuso del suo ufficio – «Ora possiamo parlare» – scandisce i concetti con semplicità: «Nei suoi trentanove anni di vita questa associazione è sempre stata nel mirino della violenza, ma

◀ Durante ▶ Vita

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il giuramento delle reclute di città


dal dicembre 2000, al tempo della toma paramilitar, tutto è cambiato in peggio. La guerriglia ci ha sempre tenute d’occhio, ma da quando i paramilitari hanno espugnato la zona, è stato l’inferno. Piombavano nel bel mezzo della notte, buttando giù a calci le porte e trascinando in strada la gente, con la pistola puntata alla tempia. E spesso le irruzioni si concludevano con una mattanza, con i cadaveri fatti a pezzi e lasciati per strada come monito». Gloria precisa che, in questo caos, qualunque associazione in difesa dei diritti umani è stata accusata di simpatizzare per la guerriglia e dunque perseguitata: «L’Ofp però non ha mai chinato la testa e, anzi, ha denunciato ogni singolo sopruso». Più alzavano il tiro, più queste donne gridavano. Lo hanno fatto quando vennero uccisi due leader dell’Ofp e un professore di danza che insegnava ai loro bambini. Hanno continuato quando, il 27 gennaio 2001, una delle loro sedi venne demolita in poche ore. «Da quell’istante vivo braccata: ho denunciato il paramilitare responsabile del blitz e ho smesso di essere libera. Ma non piego la testa. Le forze dell’ordine? Sono complici e conniventi».


La violenza nascosta

Il Paseo de la Cultura, quartiere universitario, è una bella zona, nuova e ben tenuta. Grandi viali e aree verdi con la medesima struttura urbanistica squadrata e regolare. È la parte che Barranca ha dedicato ai suoi ragazzi. Qui sorgono collegi, istituti tecnici, università e biblioteche. È un’altra faccia della città, lontana dal vecchio centro affacciato sul rio. César Jeréz, el profesor, 43 anni, direttore di Prensa Rural, la testata alternativa più letta della Colombia, voce dei movimenti contadini che lottano per la terra e contro lo sfollamento, arriva in bicicletta. Ha fretta. «Vamonos!». La destinazione è una casa anonima, una villettina a schiera senza insegne con un cancellino basso. Apre la porta una giovane donna, bionda e bruciata dal sole. È tedesca e il suo castigliano ha un suono duro: «Bienvenidos a la casa de Peace Brigades». Questa è l’associazione che protegge chi ha scelto di resistere senza armi mettendo a rischio la propria vita. Sono giovani europei o americani che fungono da scudi umani per coloro che vengono minacciati. Sediamo attorno a un

tavolo. «Almeno qui possiamo parlare di tutto, il nemico non ascolta», spiega César. «E poi, circondato da tutti questi stranieri mi sento proprio bene. Sono un intoccabile». Ride sonoramente el profesor, beve un sorso della sua Colombia Club e comincia: «Qualcosa è cambiato a Barranca, certo, ma la pace resta lontana perché il potere mafioso continua a muovere le fila. Chi alza troppo la testa, fa la fine di sempre. A prima vista sembra una città come tante. La gente brulica per le strade, si accalca la domenica nei centri commerciali, porta i figli ai parchi pubblici, le istituzioni sembrano funzionanti e democratiche», spiega. «Ma in realtà è una società che si regge sulla corruzione e sulla sopraffazione, nella quale si muovono i soliti nuclei di potere paramilitare. Per finanziarsi fanno estorsioni e per regolare i conti usano sicari a buon mercato. O paghi o muori. E da questa logica nessuno scappa». Nemmeno gli operai della statale Ecopetrol, soggiogati da contratti a termine infiniti sui quali sono costretti pure a pagare il pizzo. «Dunque sì – precisa César – qualcosa è cambiato: non ci sono più bande armate fino ai denti che vanno in giro sparando

◀▲ Gloria Amparo Suárez, responsabile di una associazione di donne, particolarmente perseguitata durante gli anni della toma paramilitar ◀ Giocolieri e ragazzi partecipano alla giornata della memoria del Festival teatrale ▲ La banda suona al giuramento delle reclute


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parata iniziale del primo Festival internazionale di teatro per la pace ▶Guido Ripamonti al mixer luci durante uno spettacolo teatrale

all’impazzata come accadeva pochi anni fa. È tutto più nascosto. La violenza è più dolce, mai però abbassare la guardia». Appena fuori dalla villetta, c’è una fila di taxi parcheggiati in attesa. César li osserva serio, poi ride e dice a voce bassa: «Negli ultimi anni, le minacce e gli omicidi hanno spazzato via sei organizzazioni sociali molto combattive qui in città. Fra queste il sindacato dei tassisti. Adesso ogni taxi è usato dai paramilitari per vigilare. Li usano per controllare chi entra, chi esce, chi resta». Un’altra risata sonora e, prima di sparire pedalando nel traffico, bisbiglia: «Qui è pericoloso prendere un taxi e parlare troppo. Non scordatelo».

Fuori dal silenzio

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Il taxi resta il mezzo più economico e veloce: con 3.500 pesos, un euro e mezzo circa, ci si muove dappertutto. Unica prevenzione, dunque, è la bocca chiusa e fingersi turisti. Oppure attori di teatro, come i tanti arrivati da molti Paesi sudamericani ed europei per il primo Festival Internacional de Teatro en la Gran Carpa por la Paz, una manifestazione culturale ideata da un’associazione nata fra i giovani della Comuna 7. Anime di tutto, un

italiano che da ventidue anni vive in America Latina, Guido Ripamonti, e la sua compagna messicana, Yolanda Consejo Vargas. Il festival si svolge nel cuore del quartiere universitario, sotto un tendone da circo colorato, eretto nel prato dell’Università industriale, perché, come sottolinea Ripamonti, «nasce in una città che non ha uno straccio di teatro. Bella provocazione, no?». La sua risata è contagiosa. Un metro e novanta di altezza per quarantacinque anni di età, Guido è un milanese fuggito ventenne da una vita agiata per inseguire un sogno: fondare una comune teatrale in Argentina. E così è stato. «Poi, c’è un tempo per tutto –racconta– e, per farla breve, dopo molti anni me ne sono andato con Yolanda in Bolivia e, peregrinando, siamo arrivati a Barranca. È nella Comuna 7, però, che abbiamo deciso di fermarci e da quattro anni abbiamo la fortuna di aver messo in piedi questo meraviglioso gruppo di teatro insieme al quale abbiamo partorito il festival». L’iniziativa ha riunito,

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oltre ai professionisti stranieri, tutti i gruppi di teatro della regione: decine e decine di ragazzini dai paesi più sperduti delle zone rurali, entusiasti di un incontro tanto grande, di quel bagno di teatro ed emozione e dei tanti laboratori creati appositamente per loro. «È un festival che esce dal dolore di Barranca. Un festival fatto dai giovani dei quartieri più segnati, che sono finalmente capaci di gridare al mondo ‘No alla guerra, sì alla vita’. E per una città che era morta è una cosa grande». A restituire la potenza di questo evento è Francisco De Roux, massima autorità dei Gesuiti in Colombia, Premio nazionale di Pace 2001 per il suo lavoro come direttore del Piano di sviluppo e pace del Magdalena Medio, dove ha vissuto nei tredici anni in cui il terrore era sovrano. Per tutti i barranqueños quell’uomo piccolo e mite ma tanto potente, è semplicemente el Pacho sempre pronto ad ascoltare e ad aiutare. «Prima di tutto la vita. È questo che si sta dicendo qua, in questo tendone. Ogni spettacolo teatrale celebrato là sotto lo dice. Ed è fondamentale per questa città, per questo Paese. Presenze come Guido e Yolanda sono state determinanti, perché hanno insegnato a questi ragazzi che è



possibile esprimersi, liberarsi, uscire fuori, usando il corpo, la creatività, l’ispirazione e la musica». Siede in prima fila De Roux, per non perdersi neppure uno di questi appuntamenti. «Certo – prosegue – il passato resta impresso nei cuori di tutti. Anche nel mio, che ho dovuto seppellire trentuno amici uccisi da una violenza che c’è ancora. Ma la gente, ormai, si sta organizzando, inizia a parlare e ad assaporare la libertà. E quelli là non potranno certo uccidere una città intera».

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Conversazione con Paolo Sorrentino

L’antidivo di

Barbara Sorrentini

foto

Luciano Ferrara

«Sono un autodidatta. Facevo Economia e Commercio a Napoli, il cinema mi piaceva molto e ho cominciato a scrivere. Qualche sceneggiatura per la televisione, alcuni corti e poi il mio primo lungometraggio. Ho cominciato nell’ultimo momento utile per fare film più o meno liberamente. Per fortuna si vedono ancora degli esordi fuori dalle regole imposte dal mercato, ma oggi è molto più complicato. In genere però, la lamentela sulle difficoltà del cinema italiano non mi piace, spesso mi pare eccessiva».


Paolo Sorrentino è seduto su un divano rosso sotto la finestra spalancata di un’ampia sala della Indigo, la casa di produzione che lo ha seguito dagli esordi, dieci anni fa, con L’ uomo in più, fino all’ultima esperienza in terra americana dove ha girato This must be the place, con Sean Penn nei panni di un ex rockstar in stile dark, che si mette in viaggio per gli Stati Uniti alla ricerca del criminale nazista che torturò suo padre. È una delle giornate più calde dell’anno e lui è imperturbabile, restio a definire il proprio lavoro e preoccupato di dare risposte semplici. Ma Paolo Sorrentino è tutt’altro che semplice, ce lo dice il suo cinema. Prima di cominciare a parlare si accende un sigaro, che gli dona l’autorevolezza di Orson Welles e la goffaggine spiritosa di Groucho Marx. Quando si comincia, come si convince un produttore a finanziare un progetto? «Per cominciare, il consiglio è sempre quello di avere una valida sceneggiatura. Nel mio caso avevo ricevuto il Premio Solinas e quindi la caccia ai finanziatori per L’uomo in più è partita avvantaggiata». Un cantante e un calciatore omonimi in quel film: Tony e Antonio Pisapia, nella Napoli degli anni Ottanta. Da allora il suo cinema ha raccontato molta Italia. «Non è mai una mia priorità raccontare un Paese e se accade è per riflesso. In genere parto e arrivo con i personaggi, ho una fissazione per certi tipi di cui osservo il mondo, dei quali mi piace immaginare e ricostruire l’universo. Anche se in effetti nel caso di L’uomo in più c’era maggior consapevolezza perché si trattava di un film in costume, ambientato negli anni Ottanta e che mi ha costretto a misurarmi con l’epoca. A ripensarci bene però non vedo molti cambiamenti tra oggi e gli anni Ottanta». Dice? «Secondo il mio modesto punto di vista c’è stata un’Italia fino a metà degli anni Settanta, con una sua innocenza e un suo candore che si sono persi e si è fatta strada tutta un’altra cultura, basata sulla disillusione, il cinismo, sull’imbroglio facilotto sia morale sia finanziario. E questo dura ininterrottamente fino a oggi». Scorrendo le sue immagini, per esempio c’è molto cinismo in Geremia de’ Geremei, il laido usuraio senza umanità nell’Amico di famiglia. «Per questo personaggio ho preso spunto da un uomo che aveva un rapporto morboso con la madre e che vedevo quando abitavo a Napoli». E la disillusione, sempre guardando al suo cinema, è quella rappresentata nella freddezza e nella distanza di Titta Di Girolamo in Le conseguenze dell’amore? «Questo film è nato da un mio interesse di raccontare la mafia in modo non convenzionale, attraverso un uomo enigmatico, silenzioso, ricco ma distante da tutto. Se questi film raccontano brandelli d’Italia è per deduzione o per intuizione, i protagonisti sono tipi umani italiani, densi di problemi, ma potrebbero essere anche stranieri. L’Italia c’è molto ne Il Divo, più che negli altri film».

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Il Divo abbraccia un’epoca che sembra infinita e la sceneggiatura è stata scritta con l’aiuto del giornalista Giuseppe D’Avanzo, scomparso pochi mesi fa. Cosa ricorda di quel lavoro e di quella collaborazione? «Quel film aveva una grandissima mole di materiali storici e con Peppe facemmo un enorme lavoro di raccolta, di selezione e la grande difficoltà fu quella di scegliere cosa tenere e cosa togliere, perché c’era più

roba da eliminare che da tenere. Nel film sembra che ci sia molto, in realtà c’è molto poco perché il protagonista del film è un uomo che ha caratterizzato anni e anni, non solo di storia politica, ma anche di costume sociale. Impossibile fare entrare tutto in un solo film. Per questo ci siamo concentrati su pochi episodi. Peppe D’Avanzo è stata la mia preziosissima guida in un mondo che non conoscevo e mi ha aiutato ad avvicinarmi a


certi personaggi. Ad Andreotti, ai magistrati che hanno indagato su di lui, ad alcuni politici della prima Repubblica. È stata un’avventura affascinante andare a vedere da vicino i meandri del potere di quegli anni. E Peppe, espertissimo, faceva le domande mentre io assistevo silenziosamente in un angolo studiando le tipologie umane che avevo di fronte». E l’incontro con Andreotti? «D’Avanzo lo incalzò per tre ore con numerose domande e siccome sulla mafia non gli dava respiro, Andreotti cominciò a indispettirsi. Pensava a un altro tipo di incontro, con un regista di cinema e di potersi rilassare. Invece si trovò dentro a un interrogatorio serratissimo. D’Avanzo lo mise alle strette per mezza giornata e quando finimmo l’incontro disse: “Non ci ha detto assolutamente niente”. E quella fu una perfetta sintesi della potenza di Andreotti, cioè di un uomo che è capace di parlare per tre ore senza dire nulla». Altri incontri rilevanti? «Tutto ciò che c’è stato di incredibile in questi incontri purtroppo non lo posso raccontare, a parte quello che, tra le righe, ho inserito nel film. È stato interessante scoprire le fragilità e le debolezze umane di questi ex politici, ma ne potrò parlare più avanti. Quando? Forse tra qualche anno. D’Avanzo la chiamava ‘l’inevitabile natura occulta del potere italiano’, che in quegli anni era molto forte. Lo è anche adesso, ma allora aveva una cappa giustificatoria, quella della pace mondiale. In nome di quegli interessi ne sono state combinate di tutti i colori». Giulio Andreotti vide Il Divo? «I produttori organizzarono una proiezione per lui, ma io non andai. Mi dissero che in un paio di momenti si arrabbiò e voleva lasciare la sala. Paradossalmente Andreotti riteneva molto precisa la ricostruzione della sua

vita privata, che in realtà era molto fantasiosa, perché non avendo documenti certi ho dovuto immaginarla. Viceversa riteneva che fossi stato troppo libero e spregiudicato nella parte politica che invece era la più documentata e nella quale, senza inventare nulla, mi ero attenuto ai dati. Una reazione atipica». L’Italia oggi? «Mi sembra un Paese un po’ stanco, con una politica che si è logorata e che non è più capace di fare, di pensare. Per deformazione professionale sono portato a progettare a lungo termine, quindi mi piacerebbe una politica che avesse la capacità di progettare il futuro e che avesse degli slanci utopistici. Invece tutti navigano a vista per salvarsi, fa un po’ tristezza. Certo, accadeva anche nella prima Repubblica, che conosco meglio di questa, ma almeno allora c’erano dei protagonisti politici con maggiore spessore, avevano una provenienza culturale riconoscibile, anche se non la condividevi. Invece qui ora si assiste a uno sperpero di parole in libertà e a una proliferazione di fesserie». Consigli per salvaguardare la propria integrità, quella dei propri figli e dei giovani? «Nelle situazioni drammatiche come questa si sviluppano sempre degli anticorpi e forme di resistenza efficaci. Nel caso mio e dei miei figli, fra tutte le difficoltà abbiamo avuto la fortuna di trovare dei meravigliosi insegnanti che si prodigano per la scuola e che fanno miracoli». Per non parlare di cultura: tagli, finanziamenti fantasma o per i soliti noti, lobby, censura, pochi autori, tanta commedia e qualche cineasta coraggioso che fa tutto da solo. Com’è il cinema italiano visto da vicino? «Io ho sempre avuto più fortuna che difficoltà, ma l’Italia non è il Paese dove puoi fare esattamente tutto. Esistono ancora dei meccanismi finanziari oligopolistici, gli interlocutori sono pochi e più potenti dei registi. Se ci fossero molti finanziatori sarebbe più semplice, tant’è che Il Divo non sono riuscito a farlo né con la Rai né con Mediaset. Era un film non gradito, pensavano che non fosse commerciale, invece fra tutti i miei film è quello che ha incassato di più. In Italia c’è un problema con certi temi, difficili da toccare. Poi c’è il problema serio della chiusura delle sale nei centri storici, destinazione ideale per i film meno commerciali e d’autore e invece c’è la proliferazione dei multiplex. Nel mio mondo ideale lo Stato dovrebbe salvaguardare le sale cinematografiche cittadine. In tutto ciò è una bella sfida riuscire a fare dei film mantenendo integra la propria idea di cinema e ponendosi anche il problema del pubblico. In nome dell’autorialità sono stati fatti un sacco di film che avevano un’apparente patente di film d’arte, ma erano dei bluff. Il rischio è l’omologazione di un cinema che ha scoperto dei codici di gradimento e li ripete all’infinito». In Francia i suoi film sono di culto, vicini a uno stile d’autore molto vivo in Europa. E in Italia a che punto siamo? «In Italia sembra che certi temi, al cinema, non si possano affrontare. Ci sono ancora pochi autori che hanno il coraggio di imporre i propri argomenti, anche se

I suoi film Paolo Sorrentino si fa conoscere al pubblico cinematografico nel 2001 con L’uomo in più. Interpretato da Toni Servillo e Andrea Renzi, questo film originale e con un nuovo stile narrativo irrompe nel panorama un po’ stanco del cinema italiano: selezionato alla Mostra del Cinema di Venezia, candidato a tre David di Donatello, premiato il regista con il Nastro d’Argento come miglior esordiente e con due Grolle d’Oro. Tre anni dopo, Le conseguenze dell’amore, ancora con Toni Servillo, è l’unico italiano in concorso al Festival di Cannes e ottiene diversi riconoscimenti tra cui cinque David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e cinque Ciak d’Oro. Il terzo film arriva nel 2006, L’amico di famiglia, in concorso al Festival di Cannes e selezionato da numerosi festival internazionali. Il 2008 è l’anno de Il Divo. Toni Servillo è Giulio Andreotti, il film attira su di sé numerose polemiche da parte dei politici al governo, ma anche molto pubblico entusiasta. In concorso per la terza volta al Festival di Cannes, Sorrentino ottiene il Premio della Giuria presieduta da Sean Penn, si aggiudica sette David di Donatello, cinque Ciak d’Oro, cinque Nastri d’Argento e una candidatura all’Oscar per il trucco. Nel 2010 viene pubblicato il suo primo romanzo Hanno tutti ragione (Feltrinelli), finalista al Premio Strega. È la storia del cantante Tony Pagoda, che per molti aspetti ricorda quel Tony Pisapia del suo primo lungometraggio L’uomo in più. Nel 2011 Paolo Sorrentino torna in gara a Cannes con This Must be the Place, che uscirà in Italia il 14 ottobre.

Le radici È nato a Napoli nel 1970 dove frequenta il liceo classico. Rimane orfano a 17 anni e si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio per seguire le orme del padre, bancario comunista. Ma interrompe l’università, perché la passione per il cinema lo chiama a Roma. Inizia a scrivere per la televisione e gira alcuni cortometraggi. Grazie al Premio Solinas per la sceneggiatura di L’uomo in più Sorrentino passa al lungometraggio. Vive a Roma con la moglie Daniela D’Antonio, la figlia di 13 anni e il figlio di 8. Va in vacanza di fronte al faro di Strombolicchio, adora la musica degli anni Ottanta, le canzoni da piano bar e Céline.


sono tabù. La maggior parte dei registi, di fronte alla necessità di fare un film, preferisce una via più facile. In questo Paese c’è una rete di relazioni per cui si tende a non fare delle cose per non dispiacere a qualcuno. Insomma è complicata la faccenda, nun me fa parlà».

non ne ha fatto parte, come la mia. Abbiamo sempre e comunque fatto i conti con quella storia, perché comprensiva di tutte le possibili degenerazioni del comportamento umano. Un film è un modo per tenere sempre viva quella memoria».

Per questo ha scelto l’America? Cosa cercava negli Stati Uniti che in Italia non c’è? «Gli ex criminali nazisti. Volevo esplorare il contesto della Shoah attraverso gli occhi di una generazione che

La rockstar interpretata da Sean Penn possiede un’innocenza atipica per la sua età. Che valore ha dato all’innocenza? «Il film è il romanzo di formazione di un uomo di cinquant’anni, ancora molto infantile e il suo tentativo di

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“Sean Penn non discuteva mai le mie scelte, si incuriosiva e si divertiva a immaginare che cosa avrebbe fatto lui”

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Sul nostro sito immagini e video dell’incontro con Paolo Sorrentino

ricostruire un rapporto mancato con il padre. Mi incuriosiva adottare questa caratteristica, tipica soprattutto nei maschi, di procrastinare l’età adulta combinando disastri assoluti. Nel caso di Cheyenne, invece, gli eventi che lo circondano lo portano a formarsi e a diventare adulto. Attraverso l’innocenza ho reso ironica la storia di questo uomo rimasto bambino, che si muove in un contesto troppo grande per lui e incontra personaggi completamente diversi e tutt’altro che innocenti». Spostare la produzione negli Stati Uniti, girare un road movie in spazi ampi e luminosi, scritturare Sean Penn come protagonista e David Byrne per la colonna sonora. È andato tutto liscio? «Sia Sean Penn sia David Byrne hanno per fortuna accettato subito. Ma la mia preoccupazione principale era quella di andare a filmare in una terra già molto vista e raccontata al cinema con il rischio di raccontarla malamente. Spero di essermela cavata: il mio protagonista manca dagli Stati Uniti da trent’anni e quindi, come me, è sprovveduto in terra americana. Sono andato a cercare alcuni dei luoghi che mi avevano colpito nella cinematografia americana, come il deserto che ho fotografato a modo mio. La musica è quella della mia adolescenza, i Talking Heads in particolare che mi hanno segnato in maniera ossessiva.Volevo rivivere da adulto le emozioni esplosive di quando ero ragazzo». Vantaggi e difficoltà produttive rispetto all’Italia? «La difficoltà più grande è stata quella del reperimento dei fondi, un lavoro lungo e preliminare fatto di attese e di angoscia. Ho trovato più analogie che differenze, ho semplicemente fatto il mio film in trasferta, lingua a parte, per me proibitiva. Però è stato anche un vantaggio: il cinema è un luogo in cui si fanno un sacco di domande e le risposte non sono necessarie. Non conoscendo la lingua molte domande rimanevano senza risposta e le cose andavano avanti comunque». Com’è stato dirigere Sean Penn? «Abbiamo avuto uno scambio creativo sul personaggio, io avevo delle idee e lui ha trovato altri dettagli illuminanti. Oltre a una grande capacità tecnica, Sean Penn è in grado di osservare e cogliere aspetti nella vita delle persone da aggiungere continuamente al personaggio. È una spugna nell’assorbire e studiare i comportamenti della gente, ogni giorno c’era qualcosa di nuovo per arricchire il suo Cheyenne. E poi, essendo anche regista sapeva quanto è importante, per chi dirige, stare appartato. Non discuteva mai le mie scelte, si incuriosiva e si divertiva a immaginare che cosa avrebbe fatto lui». E Toni Servillo, in altri suoi film? «Amo molto gli attori in funzione di quello che sarà il risultato finale. Sono sempre impressionato da quello che riescono a fare. Lavorare con loro è la cosa che mi piace meno in un film, per questo li cerco sempre estremamente bravi, mi facilitano la vita e mi liberano degli spazi di tempo per dedicarmi alla ricerca dell’immagine, ai movimenti di macchina e a sghembe idee

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di ripresa. Toni Servillo appartiene a questa categoria». A proposito di recitazione, il suo cameo ne Il Caimano di Nanni Moretti? «Quando andai a fare quella comparsata con Moretti, e c’era anche Virzì, mi ricordo che la troupe era molto contenta che ci fossimo noi, perché dicevano che quando venivano altri registi a recitare, Moretti diventava una persona molto più affabile e docile. Per me è stato, all’inizio, abbastanza divertente, perché fare l’attore non rientra nei miei desideri e Nanni, giustamente, si è relazionato subito con noi come se fossimo degli attori. Aveva delle richieste che non potevano essere esaudite come avrebbe voluto, quindi alla fine eravamo stressati. Moretti fa molti ciak e ha un sistema tutto suo di lavoro che prevede una ripetizione molto lunga delle cose. Però è stato interessante vedere quello che fa un collega». Cantanti e musicisti: i suoi film ne sono pieni e anche il suo romanzo Hanno tutti ragione gira intorno a uno di loro. Perché questa insistenza? «Sono persone che mi piacciono molto. Hanno trovato un giusto equilibrio nella vita nomade, senza la retorica circense, possono essere persone colte senza essere pedanti, sono figure dello spettacolo. Hanno i piedi in una serie di cose che mi piacciono, senza averne le patologie. E poi hanno la possibilità di entrare molto facilmente in contatto con i mondi». Film di riferimento? «Tantissimi, ma se devo dire due registi che mi hanno formato sono Federico Fellini e Martin Scorsese». E i libri? «Tanti, anche i libri. Mi piace molto la letteratura francese di ieri e di oggi». La rete, Facebook e i social network? «Non li conosco. Mi rendo conto che appartengo a una generazione precedente, ma non sono incuriosito dai social network. Da quello che ho capito sono luoghi in cui si devono avere relazioni sociali, mentre la mia ambizione è quella di ridurre il più possibile le relazioni con il prossimo». In progetto film o libro? «Sicuramente ci saranno entrambi, ma ho già messo da parte varie idee che non mi convincevano. E finché non ho deciso è inutile che ne parli». Se dico 30 Maggio 2011, Napoli e Milano? «Sono stato molto contento e sono curioso di vedere che cosa combineranno i nuovi sindaci. C’è stata una bella ondata d’entusiasmo dopo le elezioni, anche per i referendum. Troppo breve però».

E


gioventù ribelle

spiriti liberi di

Giulio Giorello

foto Giovanni [cesuralab]

Panizza

Le tirannie vanno in pezzi quando “soffia il vento del disgelo”, scriveva nel Seicento John Milton. Dimentico delle parole del poeta (che ebbe l’audacia di invitare i propri concittadini a uccidere un re rivelatosi tiranno), il premier britannico David Cameron plaude alla dura repressione dei ragazzi che su Facebook hanno incitato alla violenza, osservando che il loro modo d’agire è... poco British. Sociologi dell’establishment hanno già sentenziato che quei giovani sarebbero l’avanguardia di un nuovo consumismo. Un parere condiviso da noi anche “da sinistra”: come ha scritto Michele Serra sul Venerdì di Repubblica (19 agosto), ai rivoltosi di Londra basta “un televisore al plasma o un cellulare ‘fico’ per diventare i conformisti di domani” (e quanto sono più pregevoli, a detta dell’editorialista, i “ragazzi” che pacificamente hanno “gremito piazza Duomo” in occasione della vittoria del neosindaco di Milano!). Peccato che giudizi così profondi trascurino l’uccisione a freddo da parte delle forze dell’ordine del “nero” Mark Duggan (4 agosto). E va aggiunto che per le strade di Tottenham o di Croydon non c’erano solo neri o “colorati” o anarchici irlandesi – tradizionali feticci di un’isterica paura del diverso – bensì giovani e meno giovani di tutte le “etnie” o “culture”, stanchi di degrado urbano, discriminazione, povertà: prova non dello strapotere delle gang bensì del fallimento di un’intera classe politica (che fin dai tempi di Margaret Thatcher ha ridotto il welfare in nome del liberismo e a sostanziale vantaggio degli apparati repressivi). Parafrasando Bertrand Russell, “Satana [è uscito] dai sobborghi”: per ricacciarlo indietro bastano i proiettili di plastica della polizia? O si deve ricorrere alle giaculatorie (affiancate dalla repressione fisica) come in Spagna, quando alcuni indignados hanno protestato contro lo sfarzo e il costo della visita di Benedetto XVI? Sul Fatto Quotidiano del 19 agosto ho letto la cronaca della protesta di “atei e gay” contro l’invasività del Papa, ma anche la difesa dei fan di Ratzinger che mai dovrebbero venir considerati come “Papaboys”, bensì come chi cerca “autenticità di valori e dialogo con quel soggetto misterioso chiamato Dio”. In attesa che costoro lo trovino o che Lui trovi loro (ricordiamoci quel che diceva Oliver Cromwell: “Terribile è cadere nelle mani del Dio vivente”), chiediamoci se tutto questo non riguardi anche la nostra Italia, addormentata nei minuetti tra maggioranza di governo e “opposizione di Sua Maestà”, e dove gli unici capaci di ribellarsi paiono i No Tav della Val di Susa. Il vento del Dio di Milton (che non coincide necessariamente con il Dio di Ratzinger) un giorno potrà forse soffiare anche da noi, dove l’ingiustizia non è minore che in altre parti d’Europa. Ci auguriamo ovviamente che ciò avvenga con le modalità pacifiche di un Gandhi e non con quelle violente dei ribelli inglesi del Seicento o del mob (la folla furibonda) che ne ha ricalcato le orme. Però, non si può mai sapere...

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Dopo Gheddafi Dai movimenti di opposizione negli anni Ottanta alle prime manifestazioni nelle strade di Tripoli, fino alla cacciata del RaÏs. La resistenza al regime libico nella storia di tre fratelli che hanno attraversato persecuzioni e carcere prima di vedere realizzarsi l’obiettivo di una vita

di

Gabriele Del Grande

foto

Alessio Genovese

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Quattro strade. Il semaforo, un parrucchiere e qualche albero a gettare un filo d’ombra su un marciapiede scassato. Sembrerebbe un incrocio qualunque della periferia di Tripoli. E invece è il simbolo della resistenza nella capitale libica. Perché è qui, nel quartiere di Fashlum, che la gente è scesa in strada per la prima volta contro il regime di Gheddafi. Era il 17 febbraio. La manifestazione era stata organizzata tre giorni prima, in una riunione segreta tenutasi nello stesso isolato, nella casa di un vecchio partigiano della resistenza libica contro il colonialismo italiano. Un certo Razqi, classe 1901. Lui è morto nel 1979, ma ai figli deve avere lasciato qualcosa di speciale in eredità. Perché quella sera tre di loro erano seduti intorno al tavolo decisi a sfidare la storia. Tre quarantenni, tre storie agli antipodi, con un solo tratto comune: l’amore per la libertà. Jamal 48 anni, un ingegnere aerospaziale vissuto vent’anni tra Londra e Copenhagen. Ismail, 42 anni, un ex agente di polizia, senza lavoro da quando, dieci anni prima, firmò le proprie dimissioni perché contrario ai metodi del regime. E infine Nureddin, 41 anni, un noto chirurgo di una clinica privata di Tripoli. Quella sera, oltre ai fratelli Razqi, c’erano anche Sami Sherif e Nagim Fashi.

Vennero divisi i compiti, decisi gli slogan e valutati i vari scenari.

In piazza

Tre giorni dopo, il 17 febbraio, un’ottantina di persone scesero con loro a manifestare alle quattro strade. Ashsha’ab yurid isqat en-nidham! Il popolo vuole la caduta del regime! Finì dopo un’ora con i lacrimogeni e gli spari in aria delle milizie di Gheddafi contro i manifestanti disarmati. La scintilla era scoppiata. Altri quartieri si preparavano a scendere in piazza. Ma di tutto questo i fratelli Razqi non videro niente, perché nel giro di pochi giorni finirono dritti in galera. Il primo a essere arrestato fu Jamal. I servizi gli stavano addosso da quando era rientrato in Libia dalla Danimarca nel 2009. Perché era vero che aveva smesso di fare politica nel 1991, ma alle spalle aveva pur sempre dieci anni di attività ad alto livello nel Fronte nazionale per la salvezza della Libia, il movimento d’opposizione che per tutti gli anni Ottanta aveva tentato in più occasioni di assassinare Gheddafi. Lo presero un’ora prima dell’appuntamento del 20 febbraio. La sera prima a Fashlum erano scesi di nuovo in strada, ma questa volta erano migliaia, in contempo-


Zawiya Dahmani, dove si era rifugiato insieme a Sami Sherif dopo il massacro del 20 febbraio, quando i miliziani di Gheddafi avevano sparato sui manifestanti di Tripoli confluiti nella piazza Verde per festeggiare la liberazione di Bengasi. Nella capitale ormai si era scatenata la caccia agli organizzatori delle manifestazioni. Jamal era già in carcere, Nureddin era stato arrestato il 26 febbraio, ma grazie a un amico colonnello era riuscito a evadere e si era dato alla clandestinità. Quanto a Ismail, i miliziani erano già stati a casa della madre a cercarlo. E l’omicidio di Najim Fashli, ucciso con un colpo al cuore da un cecchino appostato sui tetti di Fashlum durante la manifestazione del 21 febbraio, non era affatto un buon segno. Il cerchio si stringeva inesorabilmente. E alla fine presero anche lui. Da ex poliziotto, Ismail aveva visto parecchie carceri in vita sua. Ma un posto così nemmeno se lo immaginava. La cella era larga 90 centimetri e lunga un metro e novanta. Grosso modo le dimensioni di una bara, se non fosse stato per l’altezza del soffitto, poco più di due metri, quanto bastava per alzarsi in piedi e cercare di farsi illuminare il viso dall’unico filo di luce che tagliava l’oscurità della cella dalla piccola feritoia sul soffitto. In gergo i detenuti la chiamavano al qabr, ovvero la tomba.

In cella

▲ Jamal

Razqi nella cella dove è stato imprigionato nel carcere di Bu Selim Nella pagina d’apertura Ismail Razqi nella cella di massima sicurezza dove ha passato 91 giorni in isolamento. I detenuti politici che ci sono passati la chiamano al qabr, la tomba

ranea con altri quartieri di Tripoli. La repressione era stata molto violenta, la polizia aveva iniziato a sparare. E intanto da Bengasi arrivavano le notizie di centinaia di manifestanti massacrati sotto il fuoco delle milizie del regime. La decisione di armarsi per difendersi dalle forze armate di Gheddafi, era stata presa all’unanimità. Jamal era stato incaricato di gestire la faccenda, visto il suo addestramento militare. Aveva già una lista con i nomi delle persone a cui affidare i trenta kalashnikov rubati in una caserma di Tajura, un sobborgo di Tripoli. L’appuntamento per ritirarli era alle cinque del pomeriggio. Ma non fece in tempo neanche a uscire dalla casa del cognato, dove si era nascosto la notte prima. Una squadra di trenta agenti sfondò la porta e lo schiacciò con la faccia a terra e la canna fredda di una pistola puntata sulle tempie. Lo portarono via ammanettato e bendato. Quando riaprì gli occhi era davanti ai pezzi grossi della sicurezza nazionale in un carcere segreto nel quartiere di Bu Selim. Lo stesso dove di lì a poco sarebbero finiti gli altri due fratelli. Ismail lo catturarono il 9 marzo in un appartamento a

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Per non impazzire, Ismail disegnava. I muri della cella numero otto parlano per lui. Su una parete ci sono dei graffi. Settantadue, uno per ogni giorno che ci ha passato. All’inizio grattava l’intonaco con le unghie, poi con una linguetta di una lattina di alluminio. In alto sulla parete c’è scritto il suo nome, Ismail Razqi, il nome del quartiere, Fashlum, e la data della prima manifestazione, 17 febbraio 2011. Più in basso, poco sopra il pavimento, Ismail ha disegnato le quattro strade di Fashlum. Dove tutto è iniziato. E più in là il muso di una gattina. Qattusa. Un po’ per avere qualcuno con cui parlare e un po’ per spaventare i ratti che ogni notte entravano nella cella dal “tubo”, come chiamavano in gergo la feritoia sul soffitto. A regolare la vita dell’isolamento c’era il bagno, una volta al giorno, il pasto, una volta al giorno, e la doccia, una volta al mese. Gli interrogatori invece avvenivano a distanza di un paio di settimane l’uno dall’altro. E potevano durare anche una giornata intera. Sei, sette ore in piedi, ammanettati e bendati, con la faccia al muro. Poi le domande e le torture. Spogliati nudi, picchiati, violentati e torturati con la corrente elettrica. Ismail porta i segni degli elettrodi su tutto il corpo. Sono piccole cicatrici rettangolari, come dei cerotti. Quelli che fanno più male sono quelli che non si vedono. Sono quelli che gli hanno attaccato ai testicoli, perché Ismail non sa se potrà più avere figli. Così come non lo sanno Nureddin e Jamal e Sami e tutti gli altri oppositori passati sotto i ferri delle torture. In tutto le tombe erano 78, disposte su sei corridoi. Parlare con gli altri detenuti in isolamento era vietato, ma di notte qualche parola riuscivano lo stesso a scambiarla, sottovoce. Fu così che Ismail scoprì chi erano i nuovi arrivati e che notizie portavano. Alla tomba numero 9 c’era Mabruk Zaghruba, un veterano della guerra del Ciad, arrestato e torturato nonostante i suoi 73 anni e i suoi alti gradi nelle file dell’esercito libico, dopo che un suo discorso contro la dittatura aveva


fatto il giro del mondo sulle tv internazionali. Alla 11 c’era Salah Hammad, uno dei primi organizzatori delle manifestazioni dei berberi sulle montagne Nafusa. Mentre la 4 era la tomba di Hmeida Ben Sliman, un comandante del dipartimento militare della sicurezza interna, passato anzitempo con la rivoluzione. Nel corridoio a fianco invece c’erano le tombe dei due fratelli di Ismail: Jamal, che ci trascorse 71 giorni, e Nureddin, il dottore, che nel frattempo era stato di nuovo arrestato il 13 marzo. Nessuno dei tre fratelli però era al corrente della presenza degli altri. Lo vennero a sapere soltanto più tardi, dopo essere stati trasferiti alla sezione politica del carcere di massima sicurezza di Bu Selim. Accadde una notte di fine maggio. Quella sera Ismail era rimasto sveglio per la preghiera dell’alba, il farj. Quando iniziò a recitare la fatiha si accorse della voce. Quello della cella accanto stava recitando la stessa preghiera a voce alta. Allahu akbar. Il suono arrivava dal piccolo foro sul muro che divideva le celle. Ormai distratto, Ismail lasciò perdere le invocazioni e schiacciò l’orecchio contro il muro con ansia. Non ci poteva credere, era lui. Lo chiamò a pieni polmoni: «Nureddin? Sei tu, Nureddin?!» Il fratello non poté non riconoscere la sua voce roca da fumatore incallito, gli rispose di sì e ruppe in un pianto liberatorio. Di Jamal invece non avevano nessuna notizia. Girava voce che fosse anche

lui a Bu Selim. Ma per averne conferma dovettero aspettare il giorno della liberazione.

Liberi

Il 22 agosto, intorno alle dieci del mattino, la Nato aveva bombardato gli edifici amministrativi della prigione. Le sparatorie iniziarono subito dopo. All’inizio tutti i detenuti pensavano che fossero le armate dei rivoluzionari. Ma dopo un’intera giornata gli spari non erano ancora cessati. E allora tra i prigionieri si diffuse il panico. Qualcuno iniziò a dire che anziché una battaglia fosse una strage. E che le guardie del carcere stessero fucilando tutti i reclusi, come già era successo nel 1996 nello stesso carcere, quando vennero uccisi 1.200 detenuti politici nella sola notte del 29 giugno. Finché il giorno dopo sentirono cigolare il pesante portone di ferro della sezione e videro che erano altri prigionieri che venivano a liberarli. Li accolsero con grida e cori di vittoria al ritmo dei colpi di spranga che uno per uno facevano saltare i grossi lucchetti alle porte delle celle. I rivoluzionari avevano liberato il più grande carcere di Tripoli. Dimagriti e piegati da mesi di torture, i tre fratelli Razqi poterono finalmente riabbracciarsi nel piazzale del carcere. Ma fu soltanto per un momento. Perché nel quartiere intorno c’erano ancora cecchini e sparatorie. Bisognava allontanarsi da quel posto e farlo il prima possibile. Fuori li aspettavano le auto dei cittadini

◀▲ Il complesso di Bu Selim.

Sotto uno dei corridoi del carcere. La camicia rossa è l’indumento che serviva per identificare i condannati a morte ▲ Il dottor Nureddin Razqi. Da quando è stato liberato dalla prigione di Bu Selim lavora come volontario nell’ospedale militare Mitiga di Tripoli


del quartiere che, saputo della liberazione del carcere, erano venuti di propria volontà a dare un passaggio a chi doveva rientrare a casa. Fu poco prima di partire con i due fratelli che Jamal rivide Mohamed e Salim. I due ragazzini di Bengasi. Erano rimasti nello stesso settore soltanto cinque giorni, ma avevano conquistato l’affetto di tutti i centocinquanta detenuti della sezione. Mohamed aveva 17 anni e sei proiettili nella schiena. Salim era di due anni più grande e come Mohamed era stato fatto prigioniero sul fronte, a Ben Jawad, a metà strada tra Bengasi e Sirte. In pochi giorni, i due si erano guadagnati la fama di migliori rapper dell’area. Componevano e cantavano pezzi in rima sul valore della libertà e sulle gesta eroiche della resistenza nelle varie città del Paese martoriate dalle milizie di Gheddafi. E poi avevano avuto l’idea di animare dei dibattiti, come se fossero stati dei talk show televisivi. In cui ognuno dalla propria cella interveniva sul tema del giorno, che poteva essere la democrazia, l’istruzione, i rapporti della Libia con l’estero. Il giorno della liberazione, quando Jamal rivide Mohamed e Salim, si accorse subito che erano armati. Avevano preso due kalashnikov dai ribelli. Ripartivano immediatamente per il fronte, neanche il tempo di passare da casa. Quando Jamal fece per prendere un’arma anche lui, lo tirarono da una parte e lo fermarono. «Zio Jamal – gli dissero – tu sei grande e hai dei bambini. Torna dai tuoi

piccoli, al fronte ci andiamo noi che siamo ragazzi. Se saremo ancora vivi torneremo a trovarti a Fashlum». Mentre rievoca quei momenti, Jamal non riesce a trattenere le lacrime. Sarà che i due ragazzini non sono mai ritornati a trovarlo a Fashlum. O sarà che i sogni a volte si avverano. E che la passione di Mohamed e Salim è la stessa che aveva lui da ragazzo, prima che smettesse di credere ai sogni. Ed è la passione di tutta una generazione di ragazzi che a costo della propria vita ha rovesciato il regime. Tripoli, oggi. Ismail ha ripreso l’incarico in polizia e lavora nella prigione di Jedayda, dove sono detenuti circa cinquecento miliziani del regime e presunti mercenari, per i quali si batte per un processo equo e si esprime contro ogni forma di tortura. Nureddin invece è tornato in sala operatoria, per ora come volontario, all’ospedale militare della base di Mitiga, dove sono ricoverati decine di feriti da arma da fuoco, per i quali si spende con professionalità indifferentemente dalla loro appartenenza alle milizie di Gheddafi o all’armata della rivoluzione. Jamal invece è stato nominato responsabile della sicurezza del quartiere di Fashlum. La sede del suo nuovo ufficio è a pochi passi da quelle quattro strade dove tutto è iniziato.

i


Que viva el Che testo Marco

Rizzo

illustrazioni

Lelio Bonaccorso lettering Maurizio

Clausi

Due giovani autori italiani ripercorrono la vita e il pensiero del Che attraverso la storia del “Guerrillero Heroico”, la celebre foto scattata da Alberto Korda e da questi regalata all’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli. Meno note le circostanze dello scatto: i funerali di 81 cubani vittime di un attentato terroristico pianificato dagli anticastristi appoggiati dalla Cia.

Ernesto Che Guevara raccontato attraverso il percorso di una fotografia. Dallo scatto iniziale a L’Avana nel 1960 fino alla diffusione planetaria di un’immagine diventata ovunque l’icona della rivoluzione.







Buone nuove 12 agosto, Ghana

Andrew Adansi-Bonnah, un bambino ghanese di undici anni, dedica le sue otto settimane di vacanza a una raccolta fondi per le popolazioni afflitte dalla carestia nel Corno d’Africa. Andrew bussa alla porta di agenzie e uffici di Accra, la capitale del Ghana, e nei primi dieci giorni d’agosto raccoglie l’equivalente di 6.500 dollari. Il suo obiettivo è trovarne 13 milioni (20 milioni di cedi ghanesi). Il ragazzo si è mosso dopo aver visto un servizio in televisione che ritraeva bambini somali scheletrici: «In Ghana ci sono degli affamati, ma la nostra situazione non è disperata come quella della Somalia». Prima di cominciare la raccolta fondi, Andrew si è consultato con l’Unicef e il World Food Program dell’Onu. Il primo sottoscrittore della raccolta fondi è suo padre, Samuel Adansi-Bonnah, un maestro che ha donato il suo salario di luglio, circa 500 dollari.

18 agosto, Stati Uniti

a cura di Gabriele illustrazioni

Battaglia

Pierluigi Longo

10 agosto, Germania

Brutta sorpresa per il pubblico di un concerto rock neonazista: la maglietta-ricordo in vendita durante l’evento nasconde un appello a “disintossicarsi” dall’estremismo di destra. Dopo il primo lavaggio, l’originario teschio e la scritta “Hardcore Rebellen National Frei” scompaiono per lasciare il posto a “Se può farlo la tua maglietta, puoi farlo anche tu - ti aiuteremo a liberarti dall’estremismo di destra”. L’autore della burla è il gruppo Exit, che offre sostegno per quanto riguarda sicurezza personale, reintroduzione nella società e autostima a chi cerca di allontanarsi dagli ambienti neonazi.

10 agosto, Gran Bretagna

Il falco pellegrino, l’uccello più veloce del mondo (200 miglia all’ora), torna a popolare le maggiori città britanniche. “Non se ne vedevano così tante coppie da secoli”, commentano sull’Independent. Dopo aver girato al largo dai centri urbani per più di cento anni, i falchi hanno nidificato in luoghi sorprendenti, come la galleria Tate Modern di Londra, il centro commerciale Arndale di Manchester (il più grande della Gran Bretagna) e le cattedrali di Durham e Chichester.

Veronika Scott, giovane designer di Detroit, ha realizzato Element S, un “cappotto” per senzatetto impermeabile, termoregolato e traspirante, che diventa un sacco a pelo di notte. La “S” sta per “survival” (sopravvivenza) e che l’idea le sia venuta proprio a Detroit non è un caso: nella città del Michigan gli homeless sono infatti circa ventimila. Non paga, Veronika ha anche creato un’associazione che dà lavoro a un gruppo di donne senzatetto. Cosa fanno? Il cappotto, naturalmente. L’iniziativa nel suo complesso si chiama “The Empowerment Plan” e ha suscitato l’interesse della Croce rossa internazionale di Ginevra, che sta pensando di creare scorte di Element S da inviare ovunque ci siano emergenze umanitarie. «L’importanza non è focalizzata sui prodotti, ma sulle persone», dice la designer. Ciò che abbiamo chiesto agli homeless, in cambio dei primi cappotti, è che ognuno di loro tornasse da noi per dirci cosa ne pensava. Se ci riportano un capo distrutto o da aggiustare, lo sostituiamo con un modello aggiornato, il tutto senza costi per loro».

23 agosto, Italia

Diminuisce l’abbandono di animali durante l’estate. Secondo dati diffusi da Adnkronos, il fenomeno registra un meno 20,6 per cento rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda i cani, in particolare, la tendenza dura ormai da due anni: nel 2010 gli abbandoni rispetto al 2009 si sono ridotti del 30 per cento circa, mentre quest’anno si registra un’ulteriore diminuzione del 20 per cento. Tra il 23 luglio e il 22 agosto sono arrivate a “Io l’ho visto”, la centrale operativa dell’Associazione italiana difesa animali ed ambiente, 1.947 segnalazioni di cani abbandonati sulle strade italiane. Un anno prima erano state 2.451.


30 agosto, Italia

Il comune di Ossona, in provincia di Milano, comunica l’inaugurazione di un asilo nido intitolato a Teresa Sarti Strada, “fondatrice e presidente di Emergency, insegnante e donna molto impegnata nel sociale”. La nuova struttura, che adotta il metodo Montessori, si propone di accogliere i bambini e le famiglie “nel rispetto delle particolarità di ognuno” e intende integrare “l’eccellenza educativa con quella ambientale e architettonica, essendo il risultato della progettazione coordinata di architetti, artisti e pedagogisti”. In pratica, i piccoli ospiti avranno a disposizione molti spazi, ambienti a loro misura e materiali concepiti per “liberare le loro energie, favorire i loro naturali interessi, far crescere le loro competenze e le loro capacità”.

30 agosto, India

«Voglio salvare la mia gente. Lo scopo della mia vita è questo». Con queste parole, lo chef indiano Narayanan Krishnan spiega la sua scelta di abbandonare una carriera “a cinque stelle” per fornire pasti caldi ai poveri di Madurai, città di un milione di abitanti nello stato meridionale di Tamil Nadu. La sua attività è cominciata nel 2002, quando iniziò a sfamare un anziano disabile mentale abbandonato sotto un ponte e incontrato per caso. Da allora, Krishnan ha servito oltre un milione e 700mila pasti a tutti coloro che sono incapaci di badare a se stessi. Nel 2003 ha speso la sua intera liquidazione per fondare un’associazione no profit, Akshaya Trust, che oltre a sfamare gli indigenti sta costruendo la “Akshaya Home”, un dormitorio che ospita circa quattrocento persone. Krishnan, nel segno di una vita estremamente frugale, dorme nella cucina della struttura. In sanscrito, il termine Akshaya significa “eterno” ed è stato scelto «per sottolineare che la compassione, la pietà non deve mai venire meno o morire. Lo spirito di solidarietà verso gli altri – aggiunge Krishnan – deve prevalere su tutto, sempre».

2 settembre, Stati Uniti

Il governo statunitense decide di fare causa a diciassette grandi banche che avevano venduto “titoli tossici” a Fannie Mae and Freddie Mac, le governmentsponsored enterprise (GSE), specializzate nella vendita di mutui, che nel 2008 furono salvate dal fallimento con i soldi dei contribuenti. La Federal Housing Finance Agency ritiene che gli istituti abbiano “disinformato” sulla qualità dei mutui che intendevano vendere. Come nel caso dei subprime, avevano trasformato i debiti dei contraenti di mutui in titoli azionari, per poi rivenderli agli investitori. Nel farlo, avevano falsificato i dati sui redditi dei debitori, cioè le garanzie sulla solvibilità del mutuo. Sotto accusa, le maggiori banche d’investimento statunitensi: Bank of America, JPMorgan Chase, Citigroup. I legali degli istituti lamentano che la causa potrebbe procurare loro perdite per ben 39 miliardi di dollari complessivi.

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4 settembre, Colombia

Anche i rifugiati colombiani in Ecuador potranno beneficiare dei risarcimenti previsti dalla Ley des Victimas. Contestata dai movimenti di base che la giudicano insufficiente, la norma riconosce di fatto e per la prima volta i dati ufficiali della Procura generale, secondo cui in Colombia, tra il 1985 e il 2010, si è combattuta una sanguinosa guerra civile che ha provocato almeno 73.183 morti ammazzati e 34.467 desaparecidos. Secondo la Consultoría para los derechos humanos y el desplazamiento (Codhes), ci sono inoltre 5,2 milioni di sfollati, il 10 per cento della popolazione colombiana, e almeno cinquecentomila rifugiati in vari Paesi del mondo. La legge cerca di “stabilire un insieme di misure giuridiche, amministrative, sociali ed economiche, individuali e collettive, in beneficio delle vittime delle violazioni”. Sono considerati “vittime” tutti coloro che hanno sofferto a seguito di infrazioni al diritto internazionale umanitario o di violazioni gravi stabilite nelle norme internazionali dei diritti umani.

5 settembre, Argentina

Lui tenente colonnello, lui capitano: potranno giurarsi fedeltà eterna. Sono i primi due, ma probabilmente altri seguiranno. Il governo argentino ha infatti esteso la legge del 2010 sul matrimonio omosessuale anche ai gay nell’esercito. A diffondere la notizia è stato il giornale specializzato Tiempo Militar, dove si precisa che, trattandosi di matrimonio civile, i due sposi non saranno obbligati a indossare l’uniforme di gala con tanto di decorazioni. Quello di Buenos Aires è stato il primo governo latinoamericano ad approvare una legge sulle unioni civili per gli omosessuali.

6 settembre, Perù

Il presidente Humala promulga la legge che prevede la consultazione preventiva degli indios su tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi che riguardano i loro diritti collettivi. Nello specifico, il confronto avverrà anche su tutte le misure che possono ripercuotersi su esistenza fisica, identità culturale, qualità della vita e sviluppo delle comunità indie. Il presidente annuncia il varo della nuova norma nella città di Bagua, dove nel 2008 e nel 2009 si verificarono incidenti che, secondo la versione ufficiale, provocarono la morte di 34 persone tra indios awajun, meticci e poliziotti. All’origine, la protesta delle comunità locali contro le esplorazioni minerarie e petrolifere che interessano ormai il 70 per cento dell’Amazzonia peruviana. La presenza di Humala a Bagua vuole essere una riparazione per le offese che gli indios hanno subito dal governo del suo predecessore, Alan García.


di

Flavio Soriga

illustrazione

Borislav Sajtinac

una tv in versi Alla fine di questa rubrica di solito c’è il verso di una canzone, o forse si dice il testo, la strofa, ma non fa molta differenza, in fondo, la poesia è ridicola, scriverne e leggerne, ma anche le canzonette, e quelle d’autore, cosa c’è di più ridicolo della presunzione di dire qualcosa cantandola, con le parole a braccetto alle note di una chitarra?, eppure, si sa, l’ha detto una poetessa premio Nobel splendidamente comprensibile e alta, eppure è sempre preferibile questo, di ridicolo, questo di scrivere e leggere poesie a quello di non farlo, eppure ha ragione la Szymborska, sì, autrice popolare e diffidente verso le muse eppure conscia della necessità di cercarne sempre, o immaginarne: meglio soffrire le ironie altrui cercando un angolino nostro di sogno e poesia, di visioni cantate senza cinismo, al ridicolo di chiudersi nella realtà vera e non sognarne un’altra qualunque. A settembre a Seneghe organizziamo un festival, ogni anno, che si chiama Cabudanne de sos poetas, ed è una grande festa di paese con poeti di tutto il mondo, alcuni acclamati e carichi d’alloro, altri giovani o quasi giovani, e poi cantautori e parolieri, e a un certo punto in uno degli incontri poetici della scorsa edizione del festival, a un certo punto un grande poeta si è chiesto, dal palco, perché mai la televisione non desse la parola ai poeti per delle ore, per parlare di poesia e leggere i propri versi. C’è sempre qualcuno che si chiede perché mai la televisione è così ridicola da non avere il coraggio di scrivere poesia. E non c’è una risposta sola, ce ne sono molte, che si possono inviluppare l’una nell’altra, intorcinare in premesse filosofiche e sociologiche e di storia del costume e di marketing, ci sono infinite risposte possibili, chiunque ne può dare una e poi ribaltarla, perché la televisione è come il calcio, anche di più: siamo tutti allenatori della nazionale mancati, e potenziali direttori di rete. A ottobre è bello passeggiare per le città sperando non arrivi la pioggia, e rifugiarsi sotto un portico quando comincia a scendere l’acqua, e ascoltare il bandoneon di Daniele Di Bonaventura sognando dei Sud lontani, le spiagge già dimenticate, gli amori dell’estate. A ottobre è bello fare lunghe colazioni nel bar del centro, leggere i giornali e un libro di Andrej Longo, le poesie di Flavio Santi su frigoriferi e televisori, pensare a programmi futuri in cui Capossela conduca il pubblico per mari lontani, catodici altri mondi ridicoli, ma sempre meno di quelli reali. A ottobre il giorno dura poco, e serve tutta la forza di Neruda per attaccarsi all’energia del mondo. Ode al mattino di pioggia, ode al pomeriggio malinconico, ode alla sera stanca, ode alla tv che non c’è, ode al ridicolo di sognarne una in versi.

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testo e foto di

Gabriele Battaglia

Le vie


Londra, oggi. La cenere degli incendi si è raffreddata, le vetrine sono state aggiustate, le strade spazzate dai detriti. Dopo i giorni della rabbia, in una delle capitali del mondo è tornata una calma apparente. Ma camminando in lungo e in largo per i quartieri da cui è partita la sommossa si trovano tante tracce per spiegare ciò che è accaduto. A cominciare da un nesso molto stretto che lega mercato immobiliare, sviluppo urbanistico e fiammate di violenza Newlon Estate, Heron Wharf, Lee Valley Estate, Bream Close, Ferry Lane Estate. Mark Duggan è stato ucciso in mezzo alle promesse del mercato immobiliare. La ringhiera su cui sono ancora appesi fiori e dediche, il punto preciso, a Tottenham, in cui la polizia gli ha sparato, è sovrastata dal cartello della Newlon, un’agenzia immobiliare che garantisce di “costruire il futuro della Gran Bretagna”. Ferry Lane, dove tutto è cominciato, è una via che a ovest sbocca sul centro commerciale di Tottenham Hale, mentre a est diventa il ponte che attraversa il fiume Lee e le riserve di pesca che lo circondano. Roba per il ceto medio. Lui, Mark, era cresciuto nelle case popolari di Broadwater Farm. È da lì che la gente ha marciato verso la stazione di polizia su High Road per chiedere giustizia. Non ne ha avuta ed è cominciata la riot, la rivolta. Poi, i ragazzi incappucciati hanno preso d’assalto il centro commerciale.

Tutto in due chilometri quadrati, nella Londra che si sovrappone senza amalgamarsi e che alla fine esplode: progetti di edilizia popolare falliti, nuovi quartieri per ceti medi, polizia, shopping. «Ci sono due cose da dire. Primo: esiste un collegamento stretto tra il mercato immobiliare, lo sviluppo urbanistico e le rivolte di agosto. Secondo: la gente è stata provocata a lungo». A parlare è Yasmin Shariff, architetta che lavora soprattutto su progetti sostenibili. «Nel 1985, a Broadwater Farm scoppiarono i famosi disordini in cui, per la prima volta dal 1833, fu ucciso un poliziotto. Era una rivolta razziale. Questa no: è una rivolta della povertà». Dalla stazione di Bruce Grove, per andare a Broadwater Farm si prendono un paio di strade contornate dalle casette a schiera in stile britannico. Poi si percorre un’arteria dal nome pomposo: the Avenue. In fondo, svoltando a destra, compare all’improvviso il com-

della rivolta


plesso di case popolari gestito dal Consiglio di Tottenham. Realizzato alla fine degli anni Sessanta, ispirato ai principi di Le Corbusier, è composto da dodici edifici sopraelevati su piloni e in origine tutti interconnessi attraverso un passaggio al primo piano. In realtà il formato-palafitta era stato scelto anche perché il complesso veniva edificato nella conca formata dal fiume Moselle, che periodicamente la allagava. «In Gran Bretagna – continua Shariff – gli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale furono l’epoca d’oro dell’edilizia popolare: Londra era stata quasi rasa al suolo e il Paese era alla bancarotta. Ma c’era l’idea di ripartire da zero e costruire un futuro utopico. I guai cominciarono quando fecero i primi palazzi secondo il modello francese, cioè in altezza, alienanti. La cattiva architettura si innestò sui problemi sociali, perché sia la costruzione degli stabili sia la loro manutenzione erano fatte male. Le parti comuni erano inospitali, anche se sarebbe stato facile ed economico risolvere i problemi: bastava tenerli puliti e metterli in sicurezza». A dispetto di Le Corbusier, il passaggio “socializzante” tra gli edifici di Broadwater divenne presto ricettacolo di spaccio e traffici loschi, mentre le tensioni razziali crescevano in tutto il Paese. Nel 1985, una donna di colore, Cynthia Jarrett, morì apparentemente d’infarto durante un’ispezione di polizia nel suo appartamento. Fu l’inizio della rivolta che ebbe termine solo dopo l’uccisione di Keith Blakelock, un poliziotto rimasto isolato dalla sua squadra, aggredito e massacrato. Nel successivo programma di riqualificazione da 33 milioni di sterline, il passaggio sopraelevato fu smantellato, venne istituita la figura del custode e i palazzi furono ristrutturati. Il tasso di criminalità scese drasticamente. Nel ventennale della rivolta (2005) i giornali si riempirono di articoli che magnificavano l’esperimento “riuscito”. Ma il sogno novecentesco di edifici-città messi in comune da un passaggio sopraelevato era finito. «L’aspetto utopico dell’edilizia popolare venne compromesso», insiste l’architetta, «troppi soldi e troppa gente che non aveva la più pallida idea di che cosa fosse l’architettura cominciarono a determinare le decisioni politiche. Dopo la ristrutturazione si creò addirittura una lista d’attesa per avere un appartamento in quest’area. Ma il problema è che i soldi del governo si mischiarono a quelli di costruttori e immobiliaristi privati, secondo un modello di “rinnovamento urbano”». La parola chiave è gentrification. Noi diremmo “imborghesimento” o qualcosa del genere. Ex quartieri popolari vengono ristrutturati con soldi misti pubblico-privati, gli abitanti originari espulsi o messi a vivere fianco a fianco con il ceto medio che dà la propria impronta ai quartieri. Broadwater Farm restò popolare, ma ghetto: un mondo a parte rispetto alla nuova Londra che avanzava. Questo, fino a ieri. Ancora Shariff. «In inglese abbiamo un modo di dire: the straw that broke the camel’s back (la pagliuzza che ha spezzato la schiena al cammello). Quando le ingiustizie si accumulano troppo, basta un nonnulla e tutto esplode. A Broadwater la gente ha fatto una marcia pacifica verso la stazione di polizia; è stata ignorata e quindi ha usato la tecnologia di cui dispone, i telefonini e

Facebook, per autoconvocarsi ed esprimere la sua rabbia. Dato che non era né organizzata né premeditata, la rivolta è diventata razzia: “Andiamo, spacchiamo e prendiamoci quello che ci pare”. È stato un comportamento non costruttivo, ma io so che è conseguenza delle pessime decisioni del governo». «Tutto è cominciato qui», dice un anziano signore di origine africana, completo scuro, in attesa dell’autobus W4, unico collegamento tra “the Farm” e il mondo esterno. «Si sono trovati in quel prato e poi sono andati in giro a spaccare tutto, come allora». Mentre una volante di polizia gira tra gli edifici, l’uomo aggiunge che «qui non si sta male, è sicuro, al limite vanno a fare disastri altrove. È un po’ come il Bronx, ci sono posti così dappertutto nel mondo». Tuttavia non sa dire quali servizi e attività sociali ci siano nella “Farm”. «Io sto in un monolocale, alle famiglie numerose assegnano più stanze, ma qualcuno le subaffitta per soldi. Se vuoi trovare un’occasione, devi chiedere un po’ in giro». Un grande graffito raffigura bambini di tutti i colori che giocano sotto i volti protettivi di Bob Marley, Gandhi e John Lennon: un’icona per etnia. Ogni palazzo si chiama come una base della Royal Air Force. Il primo che si incontra è Croydon che, ironia della sorte, è anche il nome di un borough lontanissimo, teatro di razzie che hanno fatto eco a quelle di Tottenham: Croydon a Broadwater chiama e un altra Croydon risponde, in un tam tam londinese del saccheggio.

Croydon: il bersaglio

Croydon, 8 agosto 2011, ore 23.45, quattro giorni dopo l’omicidio di Mark Duggan. Alcuni edifici e una fila di auto parcheggiate vengono incendiati da bande di giovani. Un uomo è ferito da colpi d’arma da fuoco mentre un enorme rogo distrugge Reeves, un negozio d’arredamento che aveva più di cento anni. 9 agosto, ore 12.42. Il ventiseienne rimasto ferito il giorno prima muore all’ospedale. Le immagini che hanno fatto il giro del mondo sono quelle della storica esposizione di mobili di Reeves Corner in fiamme. Costruito nel 1867 è sopravvissuto a tutto, ma non alle riot di agosto. Ora non ce n’è più traccia, le macerie sono già state rase al suolo per lasciare il posto a chissà che cosa, l’area è recintata con pannelli. Croydon, estremo sud di Greater London, dove gli incappucciati sono arrivati come la corrente di un fiume, giù in discesa lungo le vie commerciali di questo borough in cui vengono a fare compere anche dalla “città”. Hanno marcato il punto di partenza, uno stabile incendiato su London Street, poi hanno assecondato la forza di gravità saccheggiando ciò che trovavano, ma solo se gli piaceva: Richer Sounds, la catena di elettronica di consumo, e Argos, che merita un discorso a parte. Immaginate un incrocio tra il vecchio catalogo Postalmarket, il bancone dei salumi al supermercato, Ikea e le vendite online. Il tutto, frullato in un ambiente simile alla sala d’imbarco di un aeroporto. Cerchi quello che ti piace su un catalogo

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che comprende tutto ciò che può essere consumato da un essere umano, digiti il codice del prodotto, paghi in contanti o a credito, ricevi un numero, segui il tuo ordine su un tabellone elettronico e ritiri al bancone. Argos è l’esagerata facilitazione del consumo. “Loro” hanno consumato senza pagare. Dopo, il fiume ha fatto una curva giù per Church Street e ha travolto il vecchio negozio The House of Reeves (“qualità dal 1867”), superfluo ai loro occhi. Un villaggio trasformato in enorme centro commerciale, Croydon è questo. Claudia vive qui da otto anni e ha l’occhio allenato di chi ha lavorato come commessa: «William Hill, Paddy Power, Coral, hai notato che le agenzie di scommesse nascono come funghi e sostituiscono le altre attività? E sai chi è che tiene botta? Game on, Game Station, Cex, i negozi di giochi online». Messaggio ricevuto: cerca soldi facili che tanto non c’è lavoro, e già che te ne stai a casa, almeno non annoiarti. La commerciante indiana di abbigliamento militare si presenta come San. È arrivata qui nel 1986, via Kenya (dove è nata). «Il problema è la gioventù che è cambiata, noi comunque siamo stati fortunati: fino a pochi giorni prima avevamo i coltelli esposti, se ci fossero stati durante le razzie, avrebbero sfasciato le vetrine per rubarli». Mentre parla, una donna corpulenta dai capelli rossi crolla sul marciapiede di fronte, ubriaca alle tre di pomeriggio. Un uomo, capelli lunghi e maglietta dei Metallica, attraversa Church Street a passo svelto, urlando insulti, chiaramente alterato. Lo seguono due poliziotti, un uomo e una donna. Un’auto con lam-


peggiante frena all’altezza del marciapiede di fronte, scende un agente enorme, in borghese, che sbatte per terra l’uomo e lo ammanetta per poi tirarlo in piedi di forza mentre lui sbava e urla: «Fottiti, fottiti, io me ne andavo per i fatti miei e tu mi hai buttato giù». Arriva un cellulare e se lo porta via. La gente guarda e poi torna a fare compere. Sedicimila poliziotti sul territorio affinché lo shopping continui: questa è la ricetta del premier Cameron.

Da Hackney a Dalston

Hackney, 8 agosto 2011, ore 16.45. Gruppi di giovani sono ripresi dalle telecamere mentre si scontrano con la polizia antisommossa nel centro del quartiere, attaccano le volanti e saccheggiano i negozi. Ore 23.45. Tra le 250 e le 300 persone si riuniscono nel complesso abitativo di Pembury, incendiano automobili e si scontrano con la polizia lanciando bombe molotov. «Un altro posto dove andare è Dalston, cioè Hackney – suggerisce Shariff – anche lì è esplosa la rivolta. Era un’area molto povera, dove gli speculatori immobiliari hanno investito parecchio, costruendo case per i new urban professionals. I poveri sono stati ulteriormente alienati: te ne stai nel tuo brodo di povertà e osservi tutte queste cose meravigliose, ma non hai nessuna possibilità di avere un lavoro e godere di quanto ti viene messo sotto il naso». Quando Old Street diventa Hackney, si capisce che cosa intenda l’architetta: due mondi si sovrappongono senza amalgamarsi e dando vita a quei contrasti che tanto piacciono a uno sguardo esterno. Vecchi edifici di mattoni rossi ormai in rovina e cartelli di demolitori a cui seguiranno poi i piani di riqualificazione. C’è una Hackney City Farm (fattoria urbana di Hackney) con annesso Frizzante Cafè Restaurant che promette un “Agriturismo Night” tutti i giovedì. Quando gli inglesi utilizzano l’italiano, un certo italiano, la gentrification è garantita. Bianchi biondi fanno jogging su Kingsland Road, figure paonazze che sfrecciano incuranti di fianco a neri e asiatici seduti a chiacchierare o semplicemente sfaccendati. In Mare Street, mentre passo, sta andando a fuoco il Devran Supermarket, una di quelle drogherie gestite da asiatici dove si trova di tutto. Due vetrine più in là, stesso isolato, c’è l’immobiliare Ikon, inglesi bianchi. Sono tutti sul marciapiede, asiatici e British, muratori e commercianti, mentre il fumo esce dalla porta e gli oggetti si accumulano in strada; c’è anche uno scheletro di plastica con addosso una tunica islamica. Discutono animatamente, poi un grosso inglese carica all’improvviso come un cinghiale, mulina i pugni e stende un piccolo asiatico che strillava più degli altri. Pompieri, un vecchio muratore, l’impiegato dell’immobiliare, tutti si mettono in mezzo. I vigili del fuoco tirano un nastro per separare i due mondi più che per circoscrivere il luogo dell’incendio. Un signore pachistano scrolla le spalle, tutti guardano e si fanno gli affari loro.

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Il buco nero

Pochi metri più avanti, su per la strada percorsa dalle sirene di polizia, ci sono una chiesa metodista, i nuovi loft in affitto dei Mare Street Studios, un negozio cinese di cianfrusaglie da cui esce musica assordante e, di fronte, la London School of Fashion. Un uomo vestito di tutto punto in completo nero, camicia bianca e cravatta sgargiante, siede su un muretto. I pantaloni gli arrivano al polpaccio e porta le scarpe da tennis senza calze. Parla da solo. Lì vicino c’è London Fields, «un parco che è stato completamente ripulito dal degrado e dalle gang», spiega James Pallister, giornalista di The Architects’ Journal. «Ora se uno arriva come me da un piccolo villaggio del Nord, ci gira con gli occhi sgranati per quanti fighetti alternativi ci trova, per il clima alla moda che si respira. Ebbene, questa nuova fauna, tutta bianca, non ha nessuna interazione con gente che vive da sempre a quindici metri di distanza». Ancora verso nord ed ecco gli alti palazzi vetrati di Dalston Square, una grande area di sviluppo immobiliare sorta come un fungo in mezzo ai vecchi edifici in mattoni rossi. Il progetto di “rigenerazione” è simile a decine di altri. I proprietari dell’area e i committenti sono pubblici – in questo caso, il Consiglio di Hackney e la società dei trasporti di Londra – e il costruttore è privato: Barratt Homes. «La gentrification di Dalston – dice Shariff – si basa su due tipi di investimento: privato e pubblico. Ma gli sviluppatori urbani, i privati, sono molto avidi. Quando guardi il progetto, ti accorgi che gli appartamenti, carissimi, sono davvero minimali: si vive in ambienti minuscoli e inoltre non c’è nessuno spazio per socializzare. La Gran Bretagna sta costruendo case che non sono “socializzanti”. Non puoi invitare a cena più di due persone. Sono palazzi che incoraggiano l’isolamento, non i rapporti umani».

Quartieri popolari mandati in rovina, nuovi progetti immobiliari belli solo a un primo sguardo. Ecco lo scenario urbano della rivolta di agosto.

London by night

James Pallister: «Forse ha ragione il critico Joseph Rykwert quando dice che è la città a determinare inevitabilmente la violenza. Si sta compressi, troppe tensioni si accumulano. Quando sei anni fa mi sono trasferito qui da Durham, gli amici non volevano crederci: “Ma che ci vai a fare a Londra? È sporca, è un casino”». Yasmin Shariff: «Londra ha sempre avuto zone ricche di fianco a zone povere, perché nasce da villaggi sparsi che a un certo punto sono stati accorpati. In questi villaggi c’era un centro agiato e un circondario più umile. Ma quando si sono collegati tra loro, è diventato difficile capire quale fosse il centro e quale la periferia». La città-agglomerato appare in tutta la sua bellezza al tramonto, dal tetto del parcheggio multipiano di Peckham, dove il collettivo d’arte Bold Tendencies ha aperto il Frank’s Bar. Isabel, psichiatra al Trinity College, indica gli avventori ai tavoli: «Guarda dove siamo, tutti bianchi. Odio la gentrification e poi finisco qui». Proprio qui sotto, in Rye Lane, gli incappucciati hanno saccheggiato il supermercato Tesco. Hanno fatto razzia di champagne.

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In Gran Bretagna, il tasso di disoccupazione si aggira attorno all’8 per cento. Il 10 per cento delle famiglie più ricche ha un reddito annuo di cento volte superiore al 10 per cento di quelle più povere: oltre 853mila sterline contro 8.800. Rispetto a un maschio bianco di religione cristiana, un maschio musulmano di origine pachistana, bengalese, o un cristiano di origine africana, ha un reddito inferiore tra i 13 e i 21 punti percentuali. Circa la metà delle famiglie bengalesi o pachistane sono in stato di povertà. La Gran Bretagna è il Paese con la minore mobilità sociale dell’area Ocse: il 50 per cento del vantaggio economico di un padre ad alto reddito si trasferisce ai figli, contro il 20 per cento di Australia, Canada o dei Paesi scandinavi. Negli ultimi dodici anni 333 cittadini britannici sono morti mentre si trovavano in stato d’arresto. I poliziotti processati sono stati 13, nessuno è stato condannato. A Londra, il tasso di disoccupazione si aggira attorno al 9,5 per cento. Dal 1993 è sempre superiore rispetto al resto dell’Inghilterra. Dal 2007 l’indice è tornato a crescere. Tra aprile e giugno 2011 sono stati persi altri 22mila posti di lavoro, portando a circa 400mila i disoccupati che percepiscono un sussidio (erano poco più di 200mila nel 2008). Il borough di Haringey, a cui appartiene Broadwater Farm, è il quinto più povero di Londra (quarto per quanto riguarda la povertà infantile). Il 61 per cento dei bambini cresce in famiglie a basso reddito. È la seconda zona dove è più difficile trovare lavoro di tutta la Gran Bretagna. I disoccupati che percepiscono sussidi sono più di 10mila. Cinque circoscrizioni del borough di Croydon rientrano nel 10 per cento di quelle più svantaggiate del Regno Unito. Il 45 per cento dei bambini cresce in famiglie a basso reddito. Hackney è il borough più povero di Londra e dell’intera Gran Bretagna. Il 67 per cento dei bambini cresce in famiglie a basso reddito. I disoccupati che percepiscono sussidi sono circa 11mila.


chiamare le cose per nome mad in italy di

Gianni Mura

foto Philip Jones Griffiths [magnum photos/contrasto]

Marie Cardinal scrisse Le parole per dirlo nel 1975. Il libro ebbe grande successo anche in Italia, dove arrivò un anno dopo. Racconta la storia di una donna che torna a sentirsi viva e libera dopo sette anni di analisi. Il titolo mi è tornato in mente leggendo il messaggio di un lettore, P.B., che invocava “un’ecologia delle parole”, a partire da guerra. E qui il titolo sarebbe Le parole per dirlo. Ce ne siamo accorti, davanti alla tv, leggendo i giornali: “guerra” è una parola scomoda, conviene svestirla della divisa e rivestirla di altri nastri, altri suoni, altri aggettivi. È già successo, nella storia, però mantenendo la parola “guerra” e accostandole santa, fredda, lampo, civile, preventiva e perfino umanitaria, che tecnicamente è un ossimoro ma nella realtà una schifezza, perché se esiste al mondo qualcosa che va contro l’uomo, gli uomini, le donne, i bambini, insomma l’umanità, questo qualcosa è la guerra. So che un linguista se la caverebbe meglio, ma credo che la praticaccia da giornalista a qualcosa serva, nel campo degli eufemismi. Anche a ricordare vecchi titoli sui giornali sportivi. Trapattoni “andava” al campo d’allenamento, ma l’Avvocato come minimo “si recava”, più spesso “compariva”, “appariva”, “irrompeva” o “faceva un blitz”. Verbi tra il religioso e il militaresco, verbi usati per inconscia (o no?) genuflessione al potere. Ma oggi in Italia le omissioni e i camuffamenti della parola “guerra”sono solo in parte riconducibili alla genuflessione di fronte al potere, di qualunque colore, dignità e consistenza esso sia. Sono piuttosto il segnale, ancora più pericoloso e sordido, di un camuffamento della realtà, dell’amara pillola indorata per farla mandar giù al popolo bue, è l’apoteosi del “si fa, ma non si dice”, come cantava Milly. Molti nostri politici (parola forte, ammetto) a parole deprecano o rinnegano la guerra, come recita l’articolo 11 della nostra Costituzione, ma nei fatti votano a favore delle missioni militari, ovviamente definite umanitarie. Per l’Afghanistan, dove c’è guerra da dieci anni (il doppio della Seconda guerra mondiale) si parla di conflitto, di presenza italiana, di missione italiana. Si passa all’affettuoso “i nostri ragazzi” quando sono feriti, o tornano a casa in una cassa fasciata dalla bandiera. Caduti in una guerra che ufficialmente non esiste. Perché la si chiama in altro modo, sennò c’è il rischio di turbare le famiglie o, hai visto mai, la pubblica opinione. Perché la guerra gode di ottima salute e propizia ottimi affari (sporchi di sangue, molto sporchi), ma la parola “guerra” è malaticcia e bisogna lasciarla tranquilla, pronunciarla il meno possibile, andare contro l’ecologia delle parole e contro la realtà visibile, innegabile eppure negata. Noi di E siamo contro la guerra, contro tutte le guerre, e abbiamo l’abitudine di chiamarla per nome, niente trucchi e niente inganni. No alla guerra. Saremo utopisti, pacifisti, illusi, coglioni (da dentro non parrebbe) ma in buona compagnia, da Tacito a Einstein. Chi preferisse quella di La Russa e Frattini sa dove andare: in fondo, a destra, ma talvolta anche a sinistra.

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12-09-2011

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a l e o r c i tob d e t o n I 15 l a d Sul secondo numero

Il dossier per favorire

La buona digestione con il punto di vista degli specialisti in omeopatia, oligoterapia, Ayurveda e medicina psicosomatica

L’erba Celidonia in omeopatia e fitoterapia Scopri il tuo omeotipo: phosphorus È arrivato il pepe del Sichuan un gusto elettrizzante L’autoipnosi per i momenti bui Una parola chiara sulle fonti vegetali del calcio I fiori di Bach contro lo stress L’Iperico per i traumi E poi rubriche di aromaterapia, erboristeria "vintage", omeopatia veterinaria, la prima colazione per i più piccoli, le ricette dell'erborista, curarsi in vacanza, novità librarie e altro ancora.

La medicina naturale raccontata dagli specialisti .it a in w

ic d e m ra t l .la w w


L’Italia è una Repubblica a cura di

11 agosto, Ragusa

19 agosto, Atena Lucana (Sa)

11 agosto, Caluso (To)

20 agosto, Rubiera (Re)

12 agosto, Ombriano (Bs)

23 agosto, Parma

12 agosto, Giovinazzo (Ba)

24 agosto, Noto (Sr)

16 agosto, Cicerale (Sa)

24 agosto, Grignano Polesine (Ro)

Roberto Blanco, operaio di 48 anni, è stato schiacciato da una trave di circa 30 tonnellate all’interno dell’azienda Tidona Prefabbricati di Ragusa.

Un contadino di 83 anni, Domenico Actis Milanesio, stava lavorando nel terreno di sua proprietà. È morto per il ribaltamento del trattore.

Era al lavoro per rifare il pavimento di una chiesa. Il ventiseienne Diego Gallia stava manovrando il suo escavatore che si è rovesciato. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro è il nostro osservatorio sulle morti bianche. Si tratta di un elenco parziale e incompleto, ricavato da fonti secondarie, degli infortuni mortali avvenuti tra l’11 agosto e il 12 settembre. A cura di rassegna.it, sito d’informazione su lavoro, politica ed economia sociale, che dal settembre 2010 porta avanti un monitoraggio quotidiano delle vittime.

Agricoltore di 83 anni, Vincenzo Orabona è caduto in una cisterna d’acqua nel terreno di sua proprietà.

Domenico Capasso, 26 anni, stava guidando il suo trattore quando ha perso il controllo ed è scivolato. Il mezzo meccanico lo ha investito, uccidendolo.

17 agosto, Cassano allo Ionio (Cs)

Un imprenditore di 40 anni, Franco Gallipoli, era al lavoro in un villaggio turistico. È stato colpito da un infarto mentre sistemava il climatizzatore di un locale.

Un agricoltore ottantenne si stava recando a lavoro nei campi col suo trattore. Nel tragitto si è scontrato con un autocarro.

Arsim Jahiri, 27 anni, era impegnato nella bonifica di uno stabilimento ceramico. Il tetto dello stabile ha ceduto, facendolo precipitare da circa dieci metri.

Operaio di 35 anni, Antonello Bove stava lavorando alla ristrutturazione di un tetto ma la struttura ha ceduto. È caduto da un’altezza di circa dieci metri.

Giuseppe Sparacino, agricoltore di 27 anni, è rimasto schiacciato dal suo trattore che si è ribaltato.

Riccardo Stevavin è deceduto per un malore mentre lavorava nella serra di un’azienda agricola. Si è accasciato al suolo colpito dal caldo asfissiante. Aveva 43 anni, faceva l’operaio.

25 agosto, Montescudo (Rn)

Maurizio Mereu, carpentiere edile di 31 anni, stava lavorando sul suo trattore quando è stato sbalzato fuori dal mezzo meccanico.

18 agosto, Luzzano di Moiano (Bn) 26 agosto, Cesena Elettricista di 38 anni, Nicola Varone stava controllando il funzionamento delle luminarie per la festa del paese. Improvvisamente è rimasto folgorato.

Colpito da un muletto elevatore all’interno dell’azienda Mp Service. Manuel Sbrighi, 40 anni, è morto dopo tre giorni in ospedale.

18 agosto, Pago Veiano (Bn)

26 agosto, Brindisi

Stava lavorando su una macchina agricola quando è caduto in un dirupo. La vittima è Salvatore Mercuri, pensionato di 81 anni.

19 agosto, Quattordio (Al)

È precipitato dal tetto della casa in ristrutturazione. Giovanni Porzio, pensionato di 76 anni, era impiegato nello stabile come coordinatore della manutenzione.

19 agosto, Valderice (Tp)

Schiacciato dal trattore che si è ribaltato. Così ha perso la vita un agricoltore di 86 anni, Mario Catalano.

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Giuseppe Lo Re, operaio di 55 anni, colpito al torace da un carrello elevatore mentre lavorava alla Ovid di San Vito dei Normanni. Ha perso la vita dopo tre mesi di ricovero.

26 agosto, Fregona (Tv)

Agricoltore di 75 anni, Pietro Uliana era alla guida del trattore quando il mezzo si è ribaltato.

28 agosto, Castelnuovo di Garfagnana (Lu)

Stava guidando il trattore carico di legna quando si è scontrato con un’auto. La vittima è Paolo Giannotti, 65 anni, agricoltore.


fondata sul lavoro Ndoc Gomila, albanese di 44 anni, è caduto dal tetto di un cantiere da un’altezza di 8 metri. Il suo permesso di soggiorno era scaduto. Il titolare dell’azienda è stato arrestato per l’impiego di manodopera clandestina.

30 agosto, Serle (Bs)

Carlo Ragnoli, 60 anni, stava guidando il suo trattore nei boschi. In un punto di pendenza elevata il mezzo si è rovesciato e lo ha travolto.

31 agosto, Ortona (Ch)

Operaio di 39 anni, Massimiliano Bucci lavorava alla fabbrica di pasta De Cecco: è rimasto schiacciato da una pressa.

31 agosto, Lido Chiatona (Ta)

Un pulmino di braccianti si è schiantato contro un’auto sulla statale jonica. Tra le tre vittime c’è una lavoratrice agricola di 36 anni, residente a Brindisi, che si stava recando al lavoro.

1 settembre, Lecce

6 settembre, Ghisalba (Bg)

Una pala lo ha colpito ed è rimasto con la testa schiacciata da un macchinario nella Fabbrica Italiana Pallets. La vittima è Lakhvir Singh, di origini indiane. Aveva 38 anni, abitava a Martinengo.

7 settembre, Montecatini Terme (Pt)

Un imprenditore edile di 44 anni, Francesco Maraia, è caduto da un’impalcatura di circa tre metri sbattendo la testa. Stava facendo un sopralluogo in un cantiere.

7 settembre, Avezzano (Aq)

È rimasto folgorato dai fili dell’alta tensione mentre stava disarmando un tetto. La vittima è Aurelian Lucian Moldovan, operaio romeno di 40 anni.

9 settembre, Valli del Pasubio (Vi)

Un operaio di 46 anni è morto dopo essere stato colpito dalla caduta di un albero. Fabio Roso, di Torrebelvicino, era dipendente dei servizi forestali della Regione Veneto.

9 settembre, Erbusco (Bs)

Operaio di 38 anni, Claudio De Pascalis, è morto folgorato mentre stava effettuando una riparazione in una villetta di viale Grassi, nel capoluogo salentino.

Era alla guida di un muletto che si è ribaltato, schiacciandolo sotto il suo peso. La vittima è Nicola Moratti, 34 anni, dipendente di un’azienda vinicola della Franciacorta.

2 settembre, L’Aquila

10 settembre, San Polo di Piave (Tv)

Nicola Salvi, 52 anni, è stato colpito dalla lastra di un macchinario che stava montando nella ditta di prefabbricati Forex nel nucleo industriale di Bazzano.

2 settembre, Gubbio (Pg)

Roberto Ceccarini, 72 anni, è morto dopo essere stato investito dal suo trattore.

2 settembre, Casteltermini (Ag)

Stava lavorando sul tetto di una palazzina quando ha messo un piede nel vuoto ed è caduto da diversi metri d’altezza. La vittima è Girolamo Lo Manto, pensionato di 68 anni.

3 settembre, Carona (Bg)

Eugenio Conti, operaio di 55 anni, è morto all’ospedale di Bergamo dopo due giorni di ricovero. Era caduto da un ponteggio sul tetto di un’abitazione in alta Valle Brembana.

3 settembre, Ravenna

Agostino Calamini, agricoltore di 75 anni, è morto sul colpo schiacciato dal trattore che si è ribaltato a causa della pendenza del terreno.

Imprenditore agricolo di 56 anni, Giorgio Bonotto è morto all’ospedale di Treviso per le ferite subite il giorno prima cadendo da un silos all’interno della sua azienda.

12 settembre, Arpino (Fr)

Sei persone hanno perso la vita nel rogo della fabbrica di fuochi d’artificio Cancelli. Sono ancora ignote le cause dell’esplosione che ha coinvolto due dei bunker dell’azienda, danneggiato gli altri quattro e distrutto tre auto. Le vittime sono il titolare della fabbrica, Claudio Cancelli, 65 anni; i figli Gianni e Giuseppe, 42 e 45 anni; due operai, Franceso Lorini, 33 anni ed Enrico Battista, di 30; e Guido Campoli, 35 anni, dipendente di un’altra ditta, la Pirotecnica laziale Veroli.

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11 agosto - 12 settembre morti sul lavoro

Maurizio Galimberti

29 agosto, Cambiano Castelfiorentino (Fi)


di

Angelo Miotto

foto

Germana Lavagna

Senza Jon C’è un dopo in ogni storia che spesso la cronaca non illumina. Jon Cazacu, piastrellista rumeno in nero, il 14 marzo del 2000 veniva bruciato vivo a Gallarate da un piccolo imprenditore edile italiano, Cosimo Iannece. Nicoleta, sua moglie, racconta la vita dopo, sua e delle sue figlie, e la lunga odissea giudiziaria. Con il tempo la pena per Iannece è passata da 30 a 16 anni. Ora, nel silenzio, è in regime di libertà vigilata. Il risarcimento, stabilito in 800 milioni di lire, ha visto solo un rocambolesco acconto di 28. Una storia di confine fra giustizia, interpretazione del diritto e capacità di guardare avanti

Quegli occhi neri, undici anni fa. Neri e profondi, segnati e gonfi, senza più lacrime. Era il giorno del funerale. A Rumnicu Valcea, sulle sponde dell’Olt che scorre, c’è una fabbrica siderurgica, componenti per idraulica. Jon Cazacu, ingegnere, lavorava là, prima della crisi e dei licenziamenti. Una moglie e due figlie. Parte per l’Italia, permesso turistico, i soldi inviati a casa, tre chiamate alla settimana alla moglie, un progetto semplice: risparmiare. Per ritornare. Undici anni dopo quegli occhi neri, non più stravolti, mi guardano dalla poltrona di una sala-cucina. Neri, profondi, tornano ad accompagnare le parole: Nicoleta, vedova Cazacu, oggi le due figlie sposate, tre nipoti, due generi – paradossi del destino – che lavorano come piastrellisti, proprio come Jon quando venne ucciso. Una donna forte e insieme fragile, un senso di giustizia saggio e innato, fatto a pezzi passo dopo passo nel percorso obbligato di tribunali e questure,

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nei messaggi alla politica del Paese che le ha strappato il marito. «Era il 14 marzo del 2000, ero in Romania. La telefonata di mio marito non arrivava, ero preoccupata. Avevo la sensazione che stesse succedendo qualche cosa. Pensavo che non stesse bene. Magari un’influenza. Quella telefonata non è mai arrivata». La sua casa è a Gallarate, la stessa cittadina dove Cosimo Iannece ha dato fuoco al marito. È rimasta qui. Ha voluto portare qui a vivere le sue figlie. Nicoleta ha un sorriso disarmante; sempre elegante, curata, mai un particolare fuori posto. «Poi è arrivata la moglie di un uomo che lavorava con Jon in Italia. Cinque del mattino, bussava furiosamente alla porta. Ho pensato a un disastro, una morte. Mi ha detto che c’era stata una discussione fra il datore di lavoro e tutti loro, ma che quello che era ricoverato in ospedale era mio marito, ma non era in condizioni preoccupanti. Ma io le risposi, guarda tu dici così, ma io non credo, conoscendo mio marito, perché non avrebbe mai mandato qualcuno a dirmi una cosa così se fosse stato ancora in grado di parlarmi. Aspettammo un’altra telefonata dall’Italia. Le ore erano lunghissime. Al telefono il marito di questa donna volle



parlare solo a lei. Io la vedevo impallidire e rispondere a monosillabi. Mi sono sentita tremare le ginocchia, mi sono appoggiata al muro, sono scivolata giù. Era chiaro che mio marito era morto o era in condizioni disperate». La foto di Jon è poco più grande di una fototessera. Nicoleta la adagia su un centrotavola a uncinetto. La prende da un sacchetto di plastica, come uno scrigno nascosto. La busta, una volta trasparente, è opaca, stropicciata dall’usura. Le sue mani che prendono e ripongono, che riprendono e rimettono a posto, in quella tasca di fogli e scrittura a mano, corsiva. «Mi sono messa a urlare, mi ricordo che i vicini di sotto hanno picchiato sul soffitto, spaventati da quei rumori di una casa da sempre silenziosa». Quando sei arrivata in Italia? «Il 21 marzo, sette giorni dopo». Era già a Genova, reparto grandi ustioni. «Sì. Arrivato da Gallarate. All’ospedale lo aveva portato proprio Cosimo Iannece, dopo averlo tenuto in fiamme dentro la casa, impedendogli di aprire la porta, senza che potesse almeno rotolarsi nella ghiaia lì fuori. Lui cercava di aprire la porta, l’altro la teneva chiusa». Jon riusciva a parlare? «Era lucidissimo». Vi siete parlati per un mese intero? «Fino al giorno in cui non è più riuscito a parlare. Ma fino ad allora sì. Mi ha raccontato lui tutto». Cosa ti disse? «Che questo Iannece, un martedì sera, il 14 marzo, si era presentato a casa di mio marito e dei suoi compagni. Vivevano in dieci in subaffitto, sempre di Cosimo, che pretendeva da ciascuno di loro la cifra che lui pagava per un mese. Si è presentato con una bottiglia di benzina, ha schiacciato il campanello. Gridava: ti brucio, ti ammazzo. Erano le nove o le dieci di sera e mio marito e i colleghi non capivano di che cosa parlasse, non c’era stata nessuna discussione. Era arrabbiato perché mio marito era uscito al mattino per cominciare un altro lavoro, che aveva concordato sempre con Cosimo. Ma Jon era andato un giorno prima, senza riuscire ad avvisarlo, non rispondeva. E il giorno stesso si era dimenticato il cellulare a casa. Cosimo ha pensato che gli avesse mancato di rispetto, voleva dargli una lezione. Mio marito era un punto di riferimento per tutti, per questo Cosimo ha pensato che avrebbe intimorito tutti. Gli ha rovesciato addosso la benzina e nell’altra mano aveva l’accendino. Lui ha preso fuoco come una torcia viva, fino a quando è riuscito a uscire dall’altra parte del terrazzo, dove gli altri ragazzi lo hanno spento con un giubbotto o un tappetino. Ormai era troppo tardi. Cosimo è andato da mio marito che gli gridava: “Ma cosa mi hai fatto?”. Lui ha risposto: “Io quando mi incazzo, mi incazzo”». Quando Jon ti ha vista in ospedale, come ha reagito? «Non voleva farsi vedere da me in quelle condizioni. Si rendeva conto che c’era rimasto ben poco di quello che era stato e per di più temeva per la mia vita. Mi disse di tornare subito dalle mie figlie, che erano sole. Io ho detto: “Mettiti in testa che da qui senza di te non me ne

vado via. Non mi mandare a casa, arrabbiati, ma io non me ne vado”. Le bruciature lo avevano ridotto come un mostriciattolo. Di mio marito ho ritrovato solo gli occhi. Era in una camera iperbarica, isolato dal mondo esterno, era già in condizioni disperate. Mi avevano messo una sedia. C’era una tendina a lamette che tiravano su quando arrivavo e abbassavano quando andavo via. E anche quando mangiava, perché lui non voleva che io vedessi che mangiava imboccato dagli altri». Alina e Florina, le vostre figlie? «Ali aveva compiuto 16 anni e Flo aveva 17 anni e mezzo». Sei rimasta in Italia un mese? «Di più. Perché per riportarlo a casa ci ho messo un’altra settimana, dopo la morte. Non potevo tornare a mani vuote. Anche se tornavo con una bara, portavo alle mie figlie il loro papà». Alina e Florina i volti bianchi, i vestiti neri, avvinghiate alla bara di legno, dentro la casa. Il pope che arriva, le candeline accese, il profumo dell’incenso. Il canto misto alle urla di strazio mentre la bara scende le scale, donne in nero. La lunga processione con decine e decine di persone fino alla cattedrale, racchiusa come in una gabbia di legno, ponteggi di una ristrutturazione in corso. Undici anni dopo i ricordi hanno una dimensione quasi onirica. Si fermano alcune immagini, altre sono come inchiostro sotto la pioggia. Nelle volte della chiesa ancora candele, ancora incenso. Le macchine per strada lampeggiavano con i fari e suonavano clacson, mentre Jon Cazacu tornava alla sua terra, passato il fiume, prima di una collina con un prato verde, il bosco subito dietro. I fotogrammi si affastellano disordinati. La cassa che viene fatta scendere nella buca e una delle figlie, che viene trattenuta mentre si lancia verso la fossa, ancora aperta. Lo strazio negli occhi e nei volti scavati. Il lamento del pianto. Poi, il giorno dopo, il grande pranzo nel cortile dell’asilo nido di Rumnicu, dove Nicoleta lavorava come sarta, per i più piccoli. Jon Cazacu era un buon calciatore. I suoi amici, quelli che ho incontrato in Italia e in Romania undici anni fa hanno ripetuto un aggettivo. Un uomo giusto, dicevano. Era arrivato in Italia nel 1998. Lavoretti saltuari, qualche volte andava a lavarsi in una chiesa, ma non si sedeva a mensa, perché – Nicoleta lo dice fiera – Jon pensava che se sei in condizioni di procurarti il pane, lo devi lasciare a chi invece non ne è capace. Sanatoria Turco-Napolitano, documenti da presentare. È Cosimo Iannece che presenta la lettera per la questura, ma dimenticando una firma. E così per Jon inizia un interminabile va e vieni dagli agenti. «Non bastava mai. L’ultima volta un poliziotto lo ha quasi buttato fuori con una certa arroganza, dicendogli di uscire dalla questura prima che lo sbattesse fuori lui a calci. Dopo la morte di Jon in Italia il primo permesso che mi diedero era turistico, durava solo tre mesi. Fuori faceva freddo e ci tenevano all’aperto. Sono entrata sulle

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“Di mio marito ho ritrovato solo gli occhi. Era in una camera iperbarica, isolato dal mondo, era già in condizioni disperate”


scale e mi sono messa in un angolo. Gli agenti volevano cacciarci. Ma io avevo freddo. E sempre lo stesso agente che aveva insultato mio marito, un omone, mi disse: “Se non esce lei la butto fuori io”. “Si sbaglia”, gli ho detto. “Questa non è la sua proprietà, è un posto pubblico. Ci sono regole e le rispettiamo tutti, anche lei. Non siamo animali, siamo esseri umani”. Hanno confabulato, poi è arrivato il rinnovo del permesso. Era una questione di due minuti. Forse non avevo ancora pagato all’Italia il tributo dovuto». Il permesso di soggiorno di Nicoleta, dapprima turistico, diventa straordinario. Un problema, perché con quella formula nessuno voleva darle lavoro. Se la “straordinarietà” finisce, finisce di colpo e lei sarebbe tornata di colpo illegale. Meglio un permesso per motivi giuridici, visto che c’era un processo in corso. Ma non ci fu nulla da fare. Il processo al Tribunale di Varese, pubblico ministero Giuseppe Battarino, racconta molte cose dell’assassino, Cosimo Iannece. Non era nuovo a casi di violenza sui suoi lavoratori in nero. Ci sono altri due episodi con referti medici e ospedale per i malcapitati, l’ultimo era un rumeno, solo un mese prima del rogo. Nelle indagini viene scoperta una contabilità “in nero”, a casa di una segretaria. Poco prima di essere arrestato sempre Iannece aveva comprato una casa e alcune autovetture, tutte intestate al fratello, allora diciannovenne. Nicoleta Cazacu non si costituisce parte offesa, ma lo fa a nome delle sue due figlie. Per lei non vuole soldi, solo giustizia. Un primo assegno di 28 milioni viene messo sul tavolo del giudice. E in un momento di pausa della seduta, ricorda l’avvocato Ugo Giannangeli – c’è ancora stupore nella sua voce – avviene una cosa incredibile. Quel rettangolo di carta viene sottratto dal fascicolo dell’avvocato e fatto scivolare via. L’avvocato ricorda ancora oggi il momento in cui fu obbligato a chiamare urgentemente il pm per ottenere di veder ricomparire di colpo l’assegno. Quei 28 milioni di vecchie lire sono l’unica cifra che Iannece ha versato alla famiglia Cazacu. Eppure, in primo grado, la sentenza parlava chiaro. Trent’anni di carcere e 800 milioni di lire di risarcimento per le figlie. Ma Iannece risultava nullatente. Per arrivare ai 30 anni di reclusione, la Corte riconobbe il mezzo insidioso e l’aggravante dei motivi abbietti. Due aggravanti che verranno smontate in base a ragionamenti giuridici che hanno dell’inverosimile. I motivi abbietti (vedi box) non verranno confermati con una sentenza che ha dell’incredibile: il litigio


Processo a ostacoli Primo grado. Cosimo Iannece viene giudicato con rito abbreviato: trent’anni di carcere, per omicidio premeditato, con le aggravanti del mezzo insidioso (la benzina) e dei motivi abbietti. Il primo appello. Confermati i trent’anni, ma viene esclusa la premeditazione e l’aggravante del mezzo. La premeditazione viene eliminata per la tempistica del fatto e l’aggravante con una serie di dissertazioni legali. Restano i motivi abbietti. In Cassazione. Il processo viene rinviato: la Corte d’Appello non aveva infatti fornito risposta alla richiesta di derubricare l’omicidio da volontario a preterintenzionale (quando il risultato dell’azione va al di là delle intenzioni di chi lo commette). «In realtà – sostiene Giannangeli – la Corte d’Appello, aveva escluso ogni altra ipotesi». Si va al giudizio di rinvio. E qui avviene un nuovo errore, secondo i legali della famiglia e secondo la Procura generale di Busto Arsizio. Se da una parte viene confermato l’omicidio volontario, la Corte si esprime anche sull’aggravante dei motivi abbietti, seppur non richiesta. «Qui è l’errore clamoroso – sostiene ancora Giannangeli – i giudici dicono no all’aggravante dei motivi abbietti. E così si arriva ai sedici anni di carcere. Per me si tratta di una serie di errori incredibili in Cassazione e nel rinvio. Ma lascio a voi giudicare dalle parole della sentenza». Sentenza della Terza corte d’Assise d’appello di Milano, ottobre-novembre 2003, pagina 55: “Per essere qualificato abbietto, il motivo deve essere spregevole, disapprovato dalla generalità dei cittadini. Il motivo abbietto è quello che rivela nella gente un tale grado di perversità da destare un senso di ripugnanza e disprezzo in ogni persona di moralità media. Tale non è il motivo che tragga origine da un litigio concernente un rapporto di lavoro”. Il ricorso della famiglia e della Procura generale contro queste parole viene respinto.

avviene per cause di lavoro, quindi non è possibile applicare quell’aggravante. Il risultato è una diminuzione della condanna a 16 anni. Iannece presenta vari ricorsi contro i magistrati, tenta di ricusare i giudici e accusa di complotto pm e avvocati della famiglia. Sconterà la sua pena nel carcere di Busto Arsizio, ma solo in parte. Ora si scopre che, dopo un periodo di affidamento ai servizi sociali a Como, Iannece è in regime di libertà vigilata, a Salerno. Conti alla mano, con la buona condotta, la fine pena è per la seconda metà del 2013. Sempre che, ci avvisa una fonte giudiziaria, i magistrati di sorveglianza non valutino che la pericolosità sociale persiste e allunghino la libertà vigilata. Nonostante la situazione favorevole, Iannece non si stanca di presentare ricorsi. Uno di questi pende di fronte al Tribunale di Sorveglianza di Milano, per eliminare anche la libertà vigilata. Nicoleta scuote la testa. «Quando Cosimo porta Jon in ospedale con la sua macchina, lo fa perché dietro di lui c’erano gli altri ragazzi rumeni che lo controllavano. Nessuno mi leva dalla testa che, altrimenti, lo avrebbe abbandonato in qualche posto». Cancellate le aggravanti, eliminati i motivi abbietti, un caso giuridico che è andato avanti sul binario di battaglie surreali in punta di interpretazione. Alla fine cosa pensi di questa giustizia? «Sembrerà strano, non dico che ho perdonato Iannece. Magari non sarò abbastanza cristiana. Credo nel Signore, credo perché mi ha dato la forza. Ma non sono perfetta, non sono una santa. La forza di perdonare non l’ho trovata. Una richiesta di perdono non l’ho mai sentita. Non ho mai visto un vero pentimento. Se uno si pente per avere uno sconto di pena, mi sento presa in giro. Non voglio esserlo e non mi faccio prendere in giro. Ma non ho mai odiato questa persona. Penso al mio dolore, è come avere due gambe e camminare solo con una. Il mio problema è che finché lui pagava i suoi conti con i suoi sbagli, con la sua scelta, con le sue azioni, era da qualche parte, in qualche modo subiva anche lui una punizione, non poteva vedere la sua famiglia, non poteva fare quello che voleva, tutto per le conseguenze delle sue azioni. Non credo di odiarlo nemmeno adesso. Ma ho dentro una grande rabbia, enorme, non tanto verso di lui, ma verso la giustizia italiana. Non è la giustizia che non funziona. Sono le leggi che non funzionano, la giustizia è giusta, ma ti imbatti nelle leggi, sono queste che ostacolano l’arrivo o lo svolgimento normale della giustizia. Perché le leggi con un se, con un ma, con una virgola, con un puntino di sotto, hanno cambiato tutto. Poi può essere interpretata, quindi lascia la possibilità a delle persone – perché i giudici sono esseri umani – di interpretare anche a piacimento, direi, la legge, il senso della legge. Ho una grande rabbia e di questa non so se riuscirò a liberarmi per il fatto che qualche giudice si permette di interpretare la legge a seconda di quello che a lui sembra normale. Io ce l’ho con quelle leggi che promettono: “Facciamo provvedimenti per la protezione della fascia debole della società”». Avevi scritto una lettera a Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente della Repubblica. «L’avevo resa pubblica perché pensavo che non l’avrebbe mai letta. La risposta è stata che gli dispiaceva per il mio “disagio”. Per la politica non ho subito un danno

enorme. Ho subito un “disagio”, ma lui non poteva intervenire in questa vicenda perché non lo può fare. Io non glielo avevo chiesto. Avevo scritto solo per dirgli che faccio parte di quella parte debole della società, so cosa vuole dire essere schiacciati, io chiedevo soltanto che esercitasse i poteri che sono scritti nell’articolo 36 della Costituzione, e cioè di fare richiesta specifica al Parlamento per avere leggi per la fascia debole della società. Nel mio caso, mio marito è diventato quasi un carnefice. Dopo il processo ho incontrato una persona che mi ha detto: “Suo marito se l’è cercata, alla fin fine...”. L’immagine che ha dato il Tribunale, con la legge italiana, è quella di un ladro di lavoro che è arrivato dall’estero a rubare soldi agli italiani. Hanno girato tutto come fosse una guerra fra poveri». Lo è stata? «Certo lo è anche stata. Ma è altrettanto vero che viene alimentata in maniera voluta e consapevole e ben elaborata dai politici. Perché è un vecchio detto: dove due litigano il terzo ci guadagna sempre. E chi è questo terzo in una società in cui ci sbraniamo? Chi sta bene in questo momento in cui tutti noi facciamo fatica ad arrivare a fine mese, quando vedo pensionati in giro che vanno a frugare nei resti del supermercato per prendere quel mezzo pomodoro o quel broccoletto un po’ bruttino. Chi si è arricchito in questo periodo? Chi se la gode? Chi va a guardare le partite di calcio con le auto blu? Chi le utilizza quando vanno a fare shopping, quando il traffico è impazzito? Chi sopporta questa spesa? Loro seminano la guerra. Mi ricordo un’ipotesi di contratto che faceva differenza fra salari per lavoratori italiani e stranieri. Quando mi hanno invitato a una riunione di lavoratori, allora io ho ascoltato tutto quello che dicevano e i lavoratori erano d’accordo con questa ipotesi. Allora ho detto: “Non avete capito che noi stranieri stiamo diventando nelle mani dei politici di questo governo la corda con cui verrete impiccati voi, lavoratori italiani. Perché lavorerete anche voi in nero: o lavorerete anche voi a queste condizioni oppure fuori”. Mi presero per matta, ma avevo ragione io». E i rapporti con la politica? Ricordo addirittura una frase di Berlusconi, pronto ad aiutarti. «Tante promesse, tante parole, pochi fatti. E credo che con questo ho detto quasi tutto. Per due anni ho combattuto per avere qui le mie due figlie, quel poco che mi era rimasto. Ho dovuto fare sforzi economici, fisici, per avere una casa. La questura mi diceva che per avere un permesso diverso da quello turistico dovevo avere una residenza. Non ce l’avevo. Ho dovuto affittare una casa. Da sola. Ho dovuto trovare un lavoro. Ho avuto degli incontri, ma alla fine nulla di concreto». Perché sei rimasta in Italia? «Probabilmente fa parte del mio carattere. Sono una che non molla mai la presa. E poi devo riconoscere che qui ho subìto il danno più grande della mia vita. Ma qui ho anche incontrato persone che mi hanno aiutato in maniera incondizionata, fra cui molti giornalisti. E per quanto ti manchi la tua terra, quando sai di avere trovato un posto in cui esistono soggetti tremendi, ma anche persone che hanno un cuore così grande da aprirti la porta di casa senza conoscerti, farti da madre e da padre,


io credo che uno se vuole fare qualcosa nella sua vita oltre a piangersi addosso, resta in un posto in cui sa di avere una spalla su cui piangere. Qui ho versato le lacrime più amare della mia vita, ma qui ho trovato anche la spalla su cui piangere. Ho incontrato queste persone, che per me sono diventate una famiglia. Ho una grande famiglia in Italia». Undici anni dopo. Le figlie sono grandi, mariti piastrellisti anche loro. Hai tre nipotini, la tua casa, il lavoro. Non hai avuto giustizia e il tempo è fuggito avanti. Oggi cosa provi? «È una domanda difficile. Ho un compagno, ho i miei nipotini, li guardo. Ma mi manca sempre qualche cosa. In tutto questo tempo ho imparato ad apprezzare di più la vita. A essere molto più generosa, sembra un paradosso. Chi mi conosce e ricorda la mia vicenda, dice: “Come puoi dare agli altri in questa maniera, quando hai subito quello che hai subito?”. Non te lo saprei dire. È un dolore. Io corro sempre, non voglio pesare sulle spalle delle mie figlie, non porto loro dei problemi, sono io quella che deve aiutarle. Sono giovani, hanno dei progetti ben più ampi. Loro non lo dicono, ma lo capisco; risentono del fatto che quando hanno bisogno di una spalla per piangere, mancano quelle belle larghe di un papà. L’amore di un marito è molto importante, ma quello di un genitore è un’altra cosa. Acqua e aria, faccio questo paragone. Né senza una, né senza l’altra si può vivere. L’amore di un marito ti fa scavalcare le montagne, quello di un padre ti dà sicurezza, appartenenza,

“L’amore di un marito è molto importante, ma quello di un genitore è un’altra cosa. Acqua e aria, faccio questo paragone”

www.e-ilmensile.it Sul nostro sito immagini e video dell’incontro con Nicoleta Cazacu

è quell’amore non condizionato che tu sai che non te lo potranno mai togliere. Ho provato a fare di tutto per non far mancare l’amore e l’aspetto economico. Ma ho sempre paura di aver sbagliato, perché per poter offrire le cose materiali, che sono indispensabili, ho dovuto far venir meno la mia presenza. Se devi lavorare tanto da sola non puoi essere sempre presente come mamma tutte le volte che c’è bisogno. Io vivo con questo senso di colpa, che qualche cosa alle mie figlie ho tolto. Ma adesso abbiamo un rapporto fantastico, sono per loro madre, ma anche amica e confidente. E loro sono le mie confidenti. Questo, per me, è la cosa più bella che può capitare nella vita». Nicoleta va veloce in camera da letto. Torna con una lettera che la figlia minore, Alina, le ha scritto, la notte di prima di tornare a Rumnicu Valcea, staccandosi dalla madre. È la lettera dell’amore di una figlia per una madre molto particolare. Nicoleta inizia a leggere, le trema la voce. È il dono di una donna che ha ripercorso in una mattina undici anni della sua vita e che ancora una volta non ha timore a raccontare i suoi sentimenti. Il led rosso del registratore si spegne. La penna rimane sopra il foglio bianco del taccuino, sul divano.

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Scarti di

Antonio Pascale

foto Luciano

Ferrara

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“Ho passato la mia vita con la testa tra le nuvole, attraverso il cielo. Io e mio marito abbiamo portato in Brasile le prime mongolfiere�





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Patologia

dell’immondizia Per esempio, davanti ai cumuli di rifiuti cosa ho fatto io, come cittadino e scrittore? Ho scritto, in svariati anni d’attività, decine e decine di articoli, molti dei quali avevano una caratteristica comune: erano di stampo patologico. In questo, credo, di aver rappresentato bene uno dei nostri più comuni vizi nazionali; preferire, cioè, la patologia alla fisiologia. Siamo o non siamo un popolo attratto dalla patologia e poco interessato alla fisiologia? È come se fossimo dominati da una sorta di istinto che ci porta a esaltarci quando il danno è sotto i nostri occhi. Commentarlo ci dà soddisfazione, come a dire: «L’avevo detto io». Presi dal turbine emozionale ci riteniamo depositari di un sapere incontrovertibile; dunque mettiamo sul tavolo una serie di soluzioni pronte all’uso, tutte molte belle, ma di una bellezza metafisica e geometrica. In fondo è la vecchia battuta di Nenni: «Una cosa rimpiango nella vita, di aver trascurato delle cose che si potevano fare – di modeste dimensioni, ma utili – nell’attesa di qualcosa di bellissimo, formidabile, ma impossibile». Così è per la questione rifiuti; la soluzione deve essere suggestiva, accattivante, non praticabile ora, semmai in un lontano futuro: rifiuti zero, impatto zero, no inceneritori. Di contro siamo poco interessati alla fisiologia: come funzionano le cose? Spesso infatti è proprio la mancata conoscenza del funzionamento di un sistema a provocare il danno. Insomma la fisiologia è una disciplina preventiva. Ma il fatto è che questa disciplina richiede uno studio costante, umile – piccole e modeste cose – e comunque silenzioso, e per questo meno emotivo, quindi poco adatto alla drammatizzazione, sia intellettuale, sia civile, sia politica. A quanti interessa davvero dove va a finire il nostro sacchetto? A pochi, davvero. Occhio non vede, cuore non duole. Questo disinteresse cronico ha fatto sì che invece della lungimiranza fisiologica abbia prevalso la minuzia patologica; per cui, il rifiuto si mette in discarica, come si faceva una volta con le nostre deiezioni. Quando poi la discarica è colma, se ne fa un’altra. Questo è stato l’atteggiamento di noi tutti, dunque, ogni volta che abbiamo votato, abbiamo espresso la classe politica che più ci somigliava. La mancanza di un partito dei fisiologi ha, poi, naturalmente provocato un innalzamento del tasso di incompetenza. Termovalorizzatore? Per carità. Inquina, produce diossina e CO2. Vero. Ma quanta? E qui serve il fisiologo che misura. Stare un mese sotto un inceneritore corrisponde a stare un quarto d’ora in via del Tritone a Roma. Per coloro che amano la campagna, un tagliaerba a due tempi equivale a 156 automobili. I quattro inceneritori della regione Lazio sono equivalenti – rispetto all’ossido di carbonio – a nove ciclomotori. Rispetto ai composti organici volatili e incombusti equivalgono a tre motorini. Dunque, in mancanza di un sano metodo di misura, scientifico e condiviso, cosa ha fatto la classe politica napoletana in questi anni? Ha cercato la competenza? No, ha drammatizzato anch’essa. Ha creato la fase dell’emergenza. Un ossimoro, visto che dura da oltre un decennio. Il riassunto di questi anni mette in luce solo patologie e

incompetenze diffuse. Per esempio, la gara per costruire due termovalorizzatori venne vinta dall’Impregilo, nonostante il voto basso espresso dalla Commissione tecnica, 4,2 contro 8,6 dei concorrenti. I contratti vennero firmati da Antonio Bassolino che, come è noto, ha dichiarato di non averli mai letti, ma di essersi fidato del suo staff tecnico. Non credo fosse composto da fisiologi. Successivamente, i vari Commissari straordinari hanno avuto solo il compito di ripianare i debiti accumulati dall’Impregilo: cento miliardi di vecchie lire o di girare la testa dall’altra parte quando, giorno dopo giorno, si mettevano in atto truffe. Dov’era il Commissario quando l’Impregilo invece di trattare secondo le norme il Cdr (combustibile dai rifiuti, la parte di organico che, diciamo così, brucia bene) e farlo secondo un procedimento lungo e costoso, ne preparava uno falso, non separato dalla frazione umida, che puzzava e rilasciava percolato? Dov’era il Commissario quando ci ritrovammo con otto milioni di ecoballe inutilizzabili? Dov’era il Commissario quando la camorra faceva le veci dello Stato smaltendo illegalmente rifiuti tossici? Che fare ora? Mettere a punto la solita inchiesta indignata? Non sarebbe meglio affidarsi alla fisiologia e quindi cercare di spiegare (nelle scuole, nelle associazioni culturali) come funziona il ciclo dei rifiuti? Certo è una pratica il cui svolgimento durerebbe molti anni, ma conviene farla, non per questa generazione (che ha fallito) ma per i nostri figli, affinché siano più preparati e più saggi di noi. La saggezza in questo consiste: sapere che ogni nuova acquisizione culturale comporta una piccola perdita e dei rischi da gestire. Questo vale sempre e da noi, purtroppo, vale soprattutto per la questione rifiuti. P.S. In questo periodo entra in funzione anche a Napoli la raccolta differenziata. È una buona notizia. Separare i rifiuti aiuta a gestirli meglio e soprattutto crea un ordine mentale: è incredibile la quantità di materiale che ci passa tra le mani ogni giorno ed è incredibile la quantità di cose di cui non abbiamo bisogno (disse Socrate guardando scaricare delle merci). La buona notizia tuttavia ha bisogno di un supporto pratico e tecnico. I fisiologi ci dicono che il riciclaggio dei rifiuti è un’attività industriale piuttosto complessa. Richiede impianti adatti all’uso e un’organizzazione (uomini e mezzi) di sostegno. Se non esiste, la raccolta differenziata non risolve alcun problema. C’è un altro punto. Anche in condizioni di riciclaggio ideale resteranno sempre delle scorie da gestire. I dati parlano di un 20 per cento di rifiuto intrattabile, ovviamente da incenerire. Dunque, l’esperienza ci dice che i Paesi con le quote di riciclaggio più alte sono quelli con il maggior numero di inceneritori. Questo è lo stato dell’arte, ma l’ingegno umano è infinito e chi ha soluzione diverse deve solo dimostrarne la validità. Dimostrare, non dichiarare. Per le dichiarazioni ci sono gli intellettuali patologici.

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Casa dolce casa a cura di Stella

Spinelli

illustrazione Guido

Guarnieri

5 agosto, Vadua Canavese (To)

«Ho sognato che mi stava tradendo e ho sparato. Poi mi sono svegliato e l’ho vista morta». Salvatore Scaldone, 51 anni, dopo essersi costituito, ha raccontato così ai carabinieri l’omicidio della moglie, Mariella Gili Vinardi, 46 anni. La coppia, che ha due figli poco meno che ventenni, litigava da tempo e pare che lei volesse la separazione. Il pubblico ministero di Torino, Marco Sanini, ha contestato la premeditazione come aggravante dell’omicidio.

Casa dolce casa è l’osservatorio mensile sulle donne uccise in Italia da uomini che conoscevano, che hanno amato, di cui si fidavano. Si chiamano femminicidi e rimandano alla relazione di potere tra i generi, che resta tuttora un fattore che ordina la società. I dati pubblicati, vista l’assenza di ricerche ufficiali sul fenomeno, sono raccolti dalla stampa e riguardano il periodo di tempo dal 5 agosto all’8 settembre. Questo monitoraggio viene effettuato in collaborazione con la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna (www.casadonne.it), associazione impegnata da diversi anni contro la violenza sulle donne, alle quali offre sostegno, ascolto, consulenze e case-rifugio, con una particolare attenzione ai figli minori. Da tempo inoltre la Casa svolge un lavoro di ricerca sul femminicidio dal quale ogni anno deriva un’indagine-quadro sulle donne uccise: nel 2010 sono state 127.

17 agosto, Cervinara (Av)

Ha ucciso la moglie Elisa Affinita, di 40 anni, con un colpo di pistola al cuore. Si chiama Michele Rivetti, 53 anni. La tragedia è scaturita da motivi passionali e si è consumata nel cortile della casa dove vivevano con i quattro figli e la madre della vittima. Rivetti è disoccupato e ha precedenti penali. Ha confessato tutto al figlio maggiore ed è stato arrestato.

17 agosto, Milano

Sgozzata per un rimprovero. Vincenzina Roberto aveva 79 anni ed è stata uccisa da Gianluca Calvi, 29, suo nipote, che si è poi gettato dalla finestra dopo essersi pugnalato all’addome. La lite è cominciata in cucina. L’uomo non aveva precedenti ma era in cura da uno psicologo per problemi d’insonnia dovuti a una tossicodipendenza dalla quale era uscito nel 2007. Gianluca è stato ricoverato in ospedale in condizioni non gravi.

19 agosto, Bolzano

Cecilia Weiss ed Erich Windegger avevano entrambi 48 anni, genitori di tre figli di 25, 20 e 16 anni. Lui l’ha uccisa con tre colpi sparati con un fucile da caccia regolarmente registrato, poi ha puntato l’arma alla testa e si è tolto la vita.

25 agosto, Casalpusterlengo (Lo)

Silverio Peviani, 55 anni, ha ucciso sua moglie, Luisa Dametti, 53, e poi si è tolto la vita. Lei era bancaria, lui tecnico di laboratorio. È accaduto al culmine di un litigio. Silverio ha impugnato un coltello da cucina e ha colpito Luisa per tre volte al basso ventre. Poi ha avvertito la sorella e si è pugnalato al petto. Quando la donna è arrivata erano entrambi morti. La coppia aveva tre figli: Andrea, Matteo ed Elisabetta, rispettivamente di 30, 28 e 17 anni.


26 agosto, Celano (Aq)

Halina Renata Kaminska, 41 anni, polacca, è stata pugnalata a morte dal compagno, Dino Stornelli, 42 anni, con il quale conviveva da tempo. L’uomo l’ha attesa in casa, mentre Halina partecipava a una festa di paese e appena ha varcato la soglia l’ha aggredita. Dopo averla uccisa, si è impiccato nella villetta in legno che stava costruendo per andarvi a vivere con Halina, socia con un’amica, di un call center. Con la coppia viveva anche il figlio sedicenne nato da una precedente relazione della donna, che viveva in Italia da dieci anni.

31 agosto, Desio (Mb)

Valeria Mariani, bancaria, 27 anni, lo aveva lasciato da alcuni mesi, ma Giovanni Avogadro, 31, non si era rassegnato e ha deciso di ucciderla. L’ha attesa sotto casa alle otto del mattino e le ha sparato sette colpi di pistola. Poi ha rivolto l’arma semiautomatica contro se stesso, sparandosi alla tempia. Avogadro era incensurato e lavorava come idraulico in Svizzera.

4 settembre, Monopoli (Ba)

Ha utilizzato un’ascia che aveva tra gli attrezzi del mestiere Domenico Maggio, elettricista di 49 anni, che a Monopoli ha ucciso la moglie, Addolorata Palmisani, 45 anni, con la quale era in corso la separazione giudiziaria. Fatale un colpo alla testa, sferrato durante l’ennesimo litigio. L’uomo, rintracciato poco dopo, ha confessato. La coppia ha due figli, di cui uno minorenne.

5 settembre, Reggiolo (Re)

È morta all’ospedale Maggiore di Parma, dove era stata trasportata in gravissime condizioni dal 118, Beatrice Mantovani, 35 anni, ferita a Reggiolo dal marito, Ivano Ferrais, 47, che poi si è suicidato con un colpo di fucile. Lo stesso con il quale ha sparato a lei. La coppia era separata da pochi mesi. Lasciano una figlia di cinque anni.

5 settembre, Briosco (Mb)

L’ha uccisa soffocandola con un cuscino e poi si è tolto la vita impiccandosi a una trave di legno. Pjetri Pierin, albanese di 44 anni, non aveva accettato la decisione della moglie Lindita, 37, di mettere fine al loro matrimonio. Dopo aver lasciato i due figli di 11 e 4 anni dalla sorella di lei, ha portato la coniuge nella villetta di Briosco dove i due lavoravano come giardiniere e colf. Lì si è consumato l’omicidio-suicidio. I carabinieri hanno rinvenuto i corpi la mattina seguente, dopo che la cognata dell’uomo aveva denunciato la scomparsa della coppia.

8 settembre, Luzzi (Cs)

Adriana Sestito aveva 30 anni ed è morta ammazzata dal suo ex fidanzato, Emilio Tolmino, 55. Lo aveva lasciato lo scorso luglio, ma Emilio non accettava la separazione dopo anni di convivenza. E così, durante una lite scatenata per motivi di gelosia, l’ha crivellata di colpi per poi telefonare ai carabinieri ai quali si è consegnato.

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di

Gino&Michele

L’esercito di terracotta messo a guardia della tomba del primo imperatore cinese Qin Shi Huang, a Xi'an, nella provincia dello Shaanxi in Cina

il prezzo del fucile Un tale, terminate le festività natalizie, invece di togliere le complicate, invadenti e un po’ desuete luminarie dai balconi di casa sua, le lasciava appese, incurante del fatto che fossero inutili e anche alquanto kitsch. Da gennaio a primavera la gente passava, vedeva la cometa ancora accesa e commentava: «Va’ lì el Poldo! L’haa desmentegà i luminari, ha dimenticato le luci di Natale, a l’è propri un pistola, è proprio un bel pirla!». Poi dall’estate in avanti: «Te vist el Poldo? L’haa giamò tacà su i luminari! Ha già montato le luci! Ah, se l’è prevident! O signur... sarà anca prevident ma a mi me par semper un gran pirla...». Poi, col passare degli anni il tale Poldo incominciò a saltare qualche Natale a casa perché andava a farsi un viaggetto, infine addirittura cambiò abitazione, ne prese un’altra più adatta a lui. Ma le luci ai balconi di quella vecchia, non le tolse mai. Le luci natalizie del Poldo continuarono fastidiose, inutili, dispendiose ad accendersi e spegnersi tutto l’anno. C’era una volta in Europa un tale Paese (ma non era il solo), che finita la guerra decise di tenere caserme, eserciti, armamenti in perfetta attività. Centinaia di migliaia di soldati di leva, più i professionisti, più armi, mezzi, caserme... La gente passava, che so, per il Friuli e diceva: «Ma perché tutto quello spiegamento inutile di forze se siamo in pace?...». «Come, perché! In caso di guerra. In attesa che ci attacchino. Metti che l’anno prossimo...». Qualcuno ha mai fatto il conto di quanto ha speso l’Italia in pace dal 1945 al 2005, anno in cui è cessata la leva obbligatoria? In sessant’anni quanti ospedali civili non costruiti? Quale assistenza per gli anziani? Quante riforme scolastiche, libri, computer...? *** “La mia famiglia era così povera che a Natale mio padre usciva di casa e sparava un colpo di pistola; poi rientrava dicendo: Babbo Natale si è suicidato”. Jake LaMotta *** “Dappertutto nella folla si scorgevano uomini in divisa, marinai della grande flotta ancorata nell’Hudson, soldati con le mostrine delle divisioni dal Massachusetts alla California, che a tutti i costi volevano farsi notare e constatavano invece come la grande città fosse più che sazia di militari, quando non erano ben ammassati in belle formazioni e scomodi sotto il peso dello zaino e del fucile”. Francis Scott Fitzgerald, Primo Maggio (May Day), 1920. *** “Quando ho perso il mio fucile l’esercito mi ha fatto pagare 85 dollari. Ecco perché in marina il capitano affonda con tutta la nave”. Dick Gregory *** Pace Pax, Peace, Paix, Mir, Salam, Shalòm, Vrede, Paqe, Fred, Eríni, Kunammwey, Shanti, Sula... Un po’ di lingue per dire pace: italiano, latino, inglese, francese, russo, arabo, ebraico, olandese, albanese, svedese, greco, micronesiano, indiano, afgano... *** Una giovane donna compra a un bric-à-brac un’antica lampada a olio che naturalmente si rivela subito una lampada magica. La donna inizia a strofinarla e appare immancabile il genio. La donna: «Posso avere i miei tre desideri come da copione?». Il genio: «No, mia cara! Sto invecchiando e non ce la faccio più, oggi come oggi posso offrirti un solo desiderio da esaudire». La donna prende una cartina geografica: «Ok, vorrei la pace in Medio Oriente. Vedi la cartina? Vorrei che questi Paesi la smettessero di farsi la guerra!». Il genio butta un occhio alla cartina e sbotta: «Tesoro mio, questi Paesi sono in guerra da tempi lontanissimi! Non credo di poterci fare niente, te l’ho detto, non ci ho più l’età! Non puoi chiedermi l’impossibile. Già, perché anche per me esiste l’impossibile! Lascia perdere! Dai, chiedimi qualcos’altro». La donna ci pensa un po’, e poi fa: «Non sono ancora riuscita a trovare l’uomo giusto: un uomo sensibile, dolce e affettuoso, capace di condividere, che sappia cucinare non per fare esibizioni da grand gourmet ma che quotidianamente aiuti ai fornelli, che sappia rendersi utile nei lavori domestici, di cui ci si possa fidare sia nelle cose piccole sia in quelle grandi, che sia un bravo amatore senza ansie né necessità di esibizioni, che ami il calcio senza considerarlo una religione, che non passi tutto il tempo a dire quanto è figa quella e quanto ha avuto culo il suo collega che ha fatto carriera, che non sia sempre nevrotico, che si lavi almeno il giusto e che non sia sempre in punta di qualche giovane collega carina». E il genio sospirando: «Dai qua, fammi rivedere un po’ la cartina!».

K

[getty images]

pìpol


di

Violetta Bellocchio

diritto al lieto fine Solo i buoni hanno diritto al lieto fine. Almeno, questo dicono le fiabe. È una logica che ritroviamo in storie come Slumdog Millionaire, dove l’eroe supera anni di sfortuna rimanendo onesto e leale, e da lì nasce la sua rivincita. È anche la cornice più utilizzata – in Europa – quando c’è da raccontare un immigrato non in regola. La sua vita diventa una gara e la possibilità di un lieto fine si misura su due opposte definizioni di “bontà”. Manuel Bravo arriva a Londra dall’Angola nel 2001 insieme al figlio Antonio. Chiede asilo politico, ottiene solo un visto temporaneo. La notte prima del rimpatrio si suicida, così che il figlio possa evitare l’espulsione fino alla maggiore età. Oggi Antonio ha 19 anni e rischia di nuovo, ma è diventato un perfetto “ragazzo inglese”: parla con l’accento di Leeds, è di fede e osservanza cristiana; vuole iscriversi a Ingegneria, ma ha già un lavoro da elettricista; ama il calcio, ama il tè. Gli piace persino il pub quiz, il rito serale dei coetanei bianchi. Perciò sì, Antonio Bravo merita il lieto fine. Ha superato un trauma orribile, ha accettato la cultura di massa della nazione che lo sta ospitando e adesso è proprio come tutti gli altri. Esiste soltanto un modo per cui lo straniero può essere “buono” e restare un diverso: avere un grande sogno. Una cosa clamorosa. Magari sfondare nel mondo dello spettacolo. Era successo al ballerino albanese Kledi Kadiu, sbarcato in Italia da clandestino e diventato una stella della tv, l’idolo di mamme e bambini. E un anno fa, in Inghilterra, è successo a Gamu Nhengu, un’adolescente prodigio nata nello Zimbabwe che ha partecipato come cantante a X Factor. Veniva data per vincente, ma ha perso; tre settimane dopo, la sua famiglia sfiorava la deportazione. A quel punto, ancora di più, per Gamu si dovevano usare parole come “riscatto” e “Cenerentola”. Si doveva scrivere quanto fosse particolare, speciale, meritevole. Una figlia rara e “fortunata”, in un mare di fogli di via.

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Il regno del nucleare buono

Zeptospazio di

Gabriele Battaglia

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Lorenzo Tugnoli

Tra Ginevra e le montagne del Giura, sotto terra, si indaga l’infinitesimamente piccolo. Duemila persone, tra scienziati e tecnici, fanno a pezzi i protoni e scoprono particelle elementari, molto più piccole dell’atomo. Quei lavoratori della scienza sono l’esercito del Cern, già Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire e oggi Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare

Del Cern si parla talvolta come di un covo di apprendisti stregoni che scherzano con i buchi neri, i mostri cosmici che inghiottono tutto quello che incontrano sulla loro strada. E poi c’è quella “n” di Cern, cioè “nucleare”, parola che rimanda a Hiroshima e Nagasaki, a Chernobyl e Fukushima. Insomma, che cosa combinano là sotto? Quali sorprese si attendono per il futuro? L’abbiamo chiesto a Gian Francesco Giudice, fisico teorico in forza al Cern dal 1993 e autore di Odissea nello zeptospazio, saggio che spiega ai profani le meraviglie del nuovo acceleratore Large Hadron Collider (LHC), dei progetti in corso e di strumenti grandi come cattedrali che misurano oggetti molto più piccoli di quanto la nostra immaginazione riesca a concepire. Il Large Hadron Collider è definito “acceleratore”. È la macchina nella quale scoprite le particelle e sulla quale si basano i progetti più innovativi del Cern. Che cos’è in parole povere? «È un gigantesco microscopio. Un tunnel di ventisette chilometri, cento metri sotto terra, che genera delle radiazioni così potenti da permetterci di osservare distanze minuscole. Funziona così: si accumulano protoni – strappando gli elettroni da atomi di idrogeno – si accelerano e vengono immessi nel tunnel, dove sono guidati da magneti bipolari: lunghi tubi – il gioiello tecnologico della macchina – che generano campi magnetici giganteschi. Il fascio di protoni viene così guidato e mantenuto in

un’orbita circolare. I protoni sono poi fatti collidere frontalmente uno con l’altro per osservare i prodotti di questi urti, ovvero le particelle, attraverso i rivelatori, macchine fotografiche sofisticatissime, che le identificano e poi ne misurano energie e traiettorie. Da questo, i fisici teorici ricavano le informazioni». Fa pensare a un circuito in cui delle macchine circolano e si scontrano. Voi studiate i rottami che si staccano quando avviene il frontale. «È un’analogia azzeccata. L’unica cosa da aggiungere è che, nei termini delle nostre dimensioni umane, l’energia in gioco non è poi così enorme. Due protoni che collidono nel LHC sprigionano un’energia corrispondente a quella di due zanzare in volo che si scontrano. Sembrerebbe quasi una delusione: costruire una macchina così enorme per ottenere l’urto di due zanzare. Cosa c’è di impressionante? Il fatto è che questa energia è concentrata in uno spazio piccolissimo. Questo permette di generare le particelle che lo scontro delle zanzare non sarebbe certo in grado di produrre».

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Più veloce della luce «La relatività l’abbiamo sperimentata tante volte, è una certezza, per questo prendiamo il nuovo risultato, che la mette in discussone, con molta, molta cautela». Ci va con i piedi di piombo il professor Antonio Masiero, direttore dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare di Padova, nel commentare l’esperimento che il 22 settembre ha scosso il mondo scientifico: i neutrini hanno impiegato 60 nanosecondi in meno della luce nel percorrere i 730 chilometri che separano il Cern e il Gran Sasso. «Se fosse vero, il risultato sarebbe sorprendente», continua il professore. Ci toccherà sostituire la locuzione ‘più veloce della luce’ con ‘più veloce dei neutrini’? «La teoria della relatività prevede che quella della luce sia la velocità massima raggiungibile in natura e che nessuna particella dotata di massa possa superarla. Tant’è che negli acceleratori come l’LHC di Ginevra, facciamo viaggiare i protoni a velocità che sono il 99,9 periodico per cento di quella della luce, ma mai la stessa. Dato che la relatività si basa sulla ‘simmetria di Lorentz’ tra spazio e tempo, è prendendo la velocità della luce come costante che si stabilisce un ‘prima’ e un ‘dopo’. Se esiste una velocità maggiore, dovremmo ripensare la causalità, cioè il fatto che un effetto deve sempre seguire una causa». Ma cosa sono i neutrini, queste particelle elementari dotate di massa che però attraversano i corpi? «Il passaggio attraverso la materia non dipende dalla massa, ma dalle interazioni tra particelle», spiega Masiero. «I neutrini sono particolari perché hanno una ‘interazione debole’, il che significa che possono attraversare tutta la terra senza fermarsi: non vedono gli atomi, non interagiscono elettromagneticamente con gli elettroni e gli altri componenti degli atomi. Al Gran Sasso, per esempio, vediamo solo pochissimi dei neutrini che ci mandano dal Cern di Ginevra». L’importante è vederli quanto basta per capire quanto corrono. Questa scoperta – che fa pensare a una rivoluzione scientifica – è l’ultimo grande risultato ottenuto in mezzo secolo di esperimenti. Tra i più importanti, quelli condotti dal Cern sulle correnti neutre (‘73), sulle particelle W e Z, reponsabili dell’interazione debole (‘83) e sull’antidrogeno (‘95). Per non parlare dell’invenzione di ciò che diventerà il World Wide Web.

Le particelle elementari sono gli elementi base della materia, indivisibili, più piccole dell’atomo. Perché si studiano le loro interazioni e perché ad altissima energia? «La ragione principale è che scendendo a dimensioni sempre più piccole osserviamo che la complessità dei fenomeni naturali si riduce agli elementi basilari. Nel mondo delle particelle scopriamo le leggi fondamentali che ci fanno comprendere il funzionamento della natura nella sua globalità e l’evoluzione dell’universo. Si usano grandi acceleratori perché un microscopio normale ci permette di scendere a qualche frazione di micron, la grandezza dei batteri, ma non alle dimensioni infinitesimali. Basti pensare che se le distanze misurate dal LHC fossero grandi come un’arancia, noi saremmo giganti alti da qui alla Stella polare. La luce normale che utilizza un microscopio ottico ha una lunghezza d’onda definita, per andare oltre bisogna creare radiazioni artificiali molto più potenti, che si realizzano accelerando dei protoni ad altissime velocità. Parliamo di un miliardesimo di miliardesimo di millimetro. È lo zeptospazio, che sta al di là della nostra percezione sensoriale non solo nel senso che ci fa girare la testa, ma nel senso che le leggi fisiche di quella dimensione sono diverse dalle leggi fisiche del nostro mondo. La cosa importante è che sono proprio quelle le leggi fondamentali della natura. La nostra percezione sensoriale in qualche modo ci inganna, ci fa rilevare leggi fisiche che sono solo approssimazioni di quelle dello zeptospazio: molto più semplici, fondamentali, basate su principi di simmetria». A quelle dimensioni chi o cosa incontriamo? «Le particelle elementari. Noi abbiamo una teoria, il modello standard, che descrive la materia in termini di quark, leptoni – uno di questi è l’elettrone – fotoni, le particelle W e Z e così via». Stiamo parlando di fisica sperimentale. Può aiutarci a capire quali sono le applicazioni nella vita di tutti i giorni? «Mi preme sottolineare che questi esperimenti e tutta l’attività del Cern sono di ricerca pura. Io credo che la società ne abbia bisogno, perché durante questi studi si creano le condizioni per invenzioni che sarebbero impossibili nelle ricerche finalizzate ad applicazioni ben precise. Noi cerchiamo di rispondere alle domande che l’umanità si è sempre posta, i grandi quesiti sul significato dell’universo, della materia. Ciò nonostante, si producono sviluppi utili per la società. Il web è l’esempio tipico. È un sistema nato per permettere ai fisici di scambiarsi informazioni che poi il Cern ha aperto gratuitamente alla società. Dal punto di vista informatico il passo successivo è il grid, che già ci consente l’analisi dei dati raccolti nel LHC. È un sistema in cui anche la potenza di calcolo, oltre all’informazione, è distribuita. In pratica, molti computer vengono connessi per compiere calcoli complicati, permettendo così un utilizzo molto più efficiente delle risorse. Ci sono poi sviluppi collegati alla ricerca degli acceleratori. Uno di questi

è l’adroterapia, cioè una terapia contro il cancro che utilizza fasci di particelle chiamate adroni. Rispetto alla radioterapia, permette di distruggere le cellule tumorali con molta più precisione, anche in profondità nei tessuti. Consente di agire nei casi di tumori molto vicini a organi vitali, senza intaccarli. I raggi x distruggono tutto quello che incontrano lungo la loro traiettoria; con gli adroni, invece, si può depositare l’energia contenuta nel fascio con molta più precisione. A Pavia c’è già un laboratorioospedale operante, il Centro nazionale di adroterapia oncologica (Cnao) . L’altro esempio è la luce di sincrotrone, cioè la radiazione elettromagnetica emessa quando si piega un fascio di particelle cariche. Fornisce una sorgente molto intensa di raggi x. Viene usata come microscopio in tantissime applicazioni, dalla nanotecnologia alla microelettronica, nella produzione di strumenti chirurgici oppure nei test di materiali; nello studio di proteine, in farmacologia e anche nelle tecniche di chirurgia e di restauro». Nel 2011 di che cosa andate a caccia? «È un momento eccitante perché dopo un inizio con qualche incidente e ritardo, l’ultimo anno è stato molto positivo. La macchina ha funzionato meglio delle previsioni, permettendo anche un ottimo controllo dei fasci di particelle. Adesso i fasci di protoni hanno una vita media superiore al passato. Con il nuovo anno si lavorerà a intensità ancora maggiore, il che ci permetterà di entrare in una fase cruciale, perché il numero di dati previsti per il 20112012 sarà sufficiente a investigare con grande cura l’esistenza o non esistenza del bosone di Higgs, cioè una particella che noi immaginiamo ci sia, ma che non è ancora stata osservata. Questo è un obiettivo, ma l’aspetto più affascinante del LHC è proprio la ricerca verso l’ignoto». Dicono che create i buchi neri. È pericoloso? «È la cosa che ha avuto più spazio sui giornali ed è un po’ triste, perché dal punto di vista scientifico non è così interessante. La probabilità di creare


un buco nero pericoloso è assolutamente nulla. La discussione ha avuto inizio perché esistono teorie speculative secondo cui, se il mondo ha più dimensioni, aumenta la produzione di buchi neri. Per cui il LHC potrebbe creare un buco nero. Ma anche secondo queste teorie, i buchi neri evaporano in un tempo di dieci alla meno ventisei secondi, quindi non sarebbero pericolosi. Inoltre il LHC non sta creando collisioni inedite nell’universo. Siamo quotidianamente colpiti da raggi cosmici che consistono in particelle prodotte da sorgenti astrofisiche con energie di molto superiori a quelle che riusciamo a produrre nel LHC. Gli scontri avvengono continuamente, sulla Terra hanno già prodotto l’equivalente di centomila programmi LHC e nell’universo ne avvengono circa tremila miliardi al secondo. Se queste condizioni fossero pericolose, noi non saremmo qui a parlarne».

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Si parla di particelle e viene in mente l’atomo, il suo utilizzo politico e bellico. In che senso il vostro lavoro tende invece a esiti pacifici? «Il Cern è stato fondato nel 1954 con l’idea di mettere insieme le risorse dei diversi Paesi europei, che dopo la guerra erano limitate, e creare un programma di ricerca competitivo con quello degli Stati Uniti, per permettere a molti scienziati di tornare in Europa e di studiare in un laboratorio avanzato. Questa competizione con gli Usa non è “contro”, nel senso che moltissimi fisici statunitensi hanno partecipato al Cern fin dalla sua fondazione. Allo stesso tempo, in piena Guerra fredda, tanti fisici sovietici sono entrati e hanno lavorato al Cern. Nello statuto c’è scritto esplicitamente che non si possono fare ricerche militari, quindi non ne sono mai state avviate, neanche quelle che potrebbero avere alcune applicazioni militari. Se si viene al Cern ci si accorge subito del clima di grande apertura. Certo, c’è un sistema di sicurezza, ma serve a proteggere strumenti molto sofisticati, non la segretezza degli esperimenti. Abbiamo un numero di visitatori che supera qualsiasi altra attrazione turistica di Ginevra, centinaia di migliaia di persone ogni anno, e l’Italia è in prima fila. Anche chi non è scienziato resta colpito da questi strumenti, nei quali si può vedere la precisione microscopica all’interno di dimensioni colossali. Mi preme sottolineare quanto sia importante il ruolo della scienza nell’avvicinare persone diverse, nel superare qualsiasi problema razziale o di pregiudizio, proprio perché non rientra nella mentalità degli scienziati, che hanno bisogno di comunicare e scambiare; che si giudicano reciprocamente sulla base della creatività e dell’intelligenza. Credo che un’educazione scientifica serva anche all’educazione civica».

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Gabriele Del Grande foto

Alessio Genovese

L’amore nonostante Due donne di notte davanti a un Centro di identificazione ed espulsione italiano. A Chinisia, non lontano da Trapani, s’incrociano i destini, tra Tunisia ed Europa, di due coppie nate al tempo di Schengen

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Il sole già alto del mattino, un volo Ryanair in discesa sull’aeroporto di Trapani e tutto intorno il silenzio dell’estate sulle campagne siciliane. Sakina si tiene stretta al palo d’alluminio che regge il gazebo nel piazzale di cemento. Ha un sorriso compiaciuto e si diverte a mandare baci nella direzione dei poliziotti davanti al cancello del Centro di identificazione ed espulsione di Chinisia. Alcuni si guardano con aria sospetta per capire a chi di loro siano dedicate quelle improvvise e inadeguate attenzioni. Ma non è agli uomini in divisa che guarda Sakina. I baci sono per l’uomo dietro le sbarre, il tunisino con la maglietta viola e le mani aggrappate ai ferri della gabbia, che le dice in labiale «je t’aime». Glielo dice in francese, perché Sakina l’arabo non lo conosce. Il suo vero nome è Patricia e viene da Parigi. È nata nel 1967 da madre andalusa e padre francese. Ha alle spalle un matrimonio andato a rotoli e cinque figli. Ma davanti a sé ha una nuova vita da ricostruire insieme a Khayri. Per questo è a Trapani: è venuta a riprendersi il marito. Che sia una tipa tosta lo si capisce da subito. Lo sguardo da dura, la voce pronta ad aggredire e quella grossa croce tatuata sul braccio sinistro sopra il disegno di un cuore trafitto, ricordo di una gioventù nella banlieue. Sakina ha tradito soltanto un momento di debolezza, quando ha visto per la prima volta il campo di Chinisia. Quella sera aveva gli occhi pieni di lacrime e parole cariche di rabbia e disperazione: «Mi brucerò viva davanti al Centro, sarò la prima martire, ma mio marito non rimarrà rinchiuso in quella gabbia». Eppure a vederla oggi Sakina sembra un’altra. È bastato un attimo. Quando l’ispettore di polizia di turno ha autorizzato il colloquio col marito, Khayri non ha

badato tanto alle formalità. E l’ha abbracciata, con gli occhi chiusi e le parole sussurrate. In quel momento i lineamenti contratti del viso di lei si sono sciolti al pianto e al sorriso. Il primo, dopo mesi di separazione. Il primo da quando Khayri la cacciò dalla Tunisia. Sakina ricorda ancora la data. Era l’8 aprile. Non avevano mai litigato così pesantemente. Ma Khayri quella volta non volle saperne. La caricò di peso su un taxi per Tunisi, con un biglietto aereo per Parigi. Doveva andarsene e subito. Di tutto il resto avrebbero poi parlato al telefono. A Khayri avevano già ucciso un fratello, Ridha. Non avrebbe permesso alla mafia di ammazzargli anche la moglie. Finché le minacce erano per lui, riusciva a sdrammatizzare. In fondo erano anni che faceva politica. A Gabès lo conoscevano tutti come artista impegnato. Quante statue, quanti quadri, quanti striscioni stampati nella sua tipografia e quante bandiere. Come quella lunghissima, che cucì nei giorni dei cortei a Nahal, con i nomi di tutti i martiri della Rivoluzione dei gelsomini.

Libertà persa e ritrovata

Il primo avvertimento arrivò di notte, con gli spari in aria sotto casa. Poi ci fu quella telefonata e quelle minacce mai così esplicite e per la prima volta rivolte alla sua compagna. Il messaggio era chiaro: Khayri si era esposto troppo durante le manifestazioni contro la dittatura. Ed era arrivato il momento di pagare il conto ai clan mafiosi locali, legati all’ormai deposto regime di Ben Alì e impegnati in una lotta per il mantenimento del potere nella Tunisia post rivoluzionaria. Khayri amava la Tuni-


sia, amava la libertà e la rivoluzione. Ma amava di più la sua donna. E così decise di abbandonare la sua terra. A Lampedusa è stato messo in gabbia. Gli ci sono voluti due mesi per tornare in libertà, quando il giudice di pace ha ritenuto credibile la sua richiesta d’asilo e ha disposto il suo trasferimento in un centro d’accoglienza per richiedenti asilo politico. Quel giorno Sakina è con lui. Ricominciano insieme da Trapani. Dal gusto del primo gelato di mandorla e fichi su una terrazza di fronte al mare. E poi via. La musica a tutto volume in auto, i finestrini aperti, tra le saline e i vecchi mulini a vento. Prima di spendere i pochi soldi rimasti per una camera d’albergo dove ritrovarsi. Per poi ripartire, il giorno dopo, senza documenti. Destinazione la Francia. E la libertà. La stessa libertà che qualcun altro a Chinisia si è dovuto riconquistare con la forza. Perché Sakina non è l’unica donna arrivata in Sicilia a riprendersi il marito.

Un figlio in arrivo

Winny è partita dall’Olanda. Capelli biondi, occhi verdi e un sorriso sempre pronto a illuminarle il viso, salvo poi sfumare in uno sguardo malinconico e offuscato dai cattivi pensieri. La gravidanza la fa sembrare più grande dei suoi ventitré anni. I poliziotti di guardia al Centro di identificazione ed espulsione di Chinisia, dove è rinchiuso suo marito Nizar, la riconoscono da lontano e la fanno accomodare senza nemmeno chiederle i documenti.

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È autorizzata a visitarlo due volte al giorno. I colloqui si tengono nel tendone sul piazzale, sotto lo sguardo attento e un po’ invidioso di cinque agenti che li controllano a vista. Parlano poco e in inglese. Il resto è fatto di sguardi. Lui appoggia le mani sul pancione per sentire i calcetti del piccolino. Sarà maschio, il nome ancora non l’hanno scelto. L’unica cosa sicura è che appena nascerà, Nizar si farà un altro tatuaggio sul braccio. Una piccola stella con le iniziali del figlio, accanto alla stella più grande con la W di Winny. Quella se l’è fatta tatuare in Grecia, prima del matrimonio. L’amore era sbocciato con l’estate del 2010 sull’isola di Kos, dove lavoravano entrambi come animatori in un villaggio turistico. Lei aveva ventidue anni e lui ventotto. Dopo soli tre mesi lui le chiese di sposarla e lei, che al matrimonio non aveva mai creduto, gli rispose di sì. Dopo la festa di nozze, si trasferirono a Sousse, in Tunisia, dalla famiglia di lui. Comprarono un terreno e iniziarono a costruire casa. La rivoluzione passò veloce, come un temporale, senza intaccare i loro progetti. Le grane arrivarono dopo, con la gravidanza. Il pancione cresceva e Winny, preoccupata dopo le prime visite negli ospedali di Sousse, aveva deciso di partorire in Olanda. Nizar non obiettò, anzi andò a Tunisi per procurare un visto per sé. Il diniego dell’ambasciata olandese arrivò come uno schiaffo a risvegliarlo in modo brusco dal mondo dei sogni. Si era forse dimenticato dei suoi dieci anni in Europa, delle impronte digitali, del primo sbarco in Sicilia, del razzismo? Fu lei a tirarlo su di morale. Un avvocato avrebbe sistemato tutto, non doveva disperarsi. Era sposato con una cittadina europea e aspettava un bambino che avrebbe

Dentro i Cie Fino a un anno e mezzo dietro le sbarre per un permesso di soggiorno scaduto o per un viaggio senza passaporto. Dallo scorso 2 agosto il limite massimo della detenzione dei migranti irregolari nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) è stato innalzato da sei a diciotto mesi. Un ulteriore giro di vite da parte di governo e parlamento che ha esasperato le condizioni già insopportabili in cui versano i reclusi. Da via Corelli a Milano a Modena, da Roma a Trapani, con cadenza settimanale, se non quotidiana, nei Cie di tutta Italia si sono ripetuti tentativi di fuga ed evasioni riuscite, rivolte, roghi, scioperi della fame e perquisizioni o pestaggi da parte delle forze di polizia. Decine gli episodi di autolesionismo (con lamette, pezzi di vetro o di ferro ingoiati) o tentativi di suicidio solo negli ultimi mesi. Per approfondimenti: http:// fortresseurope.blogspot.com.


avuto la cittadinanza olandese. Per una volta la legge era dalla loro parte. E invece fu proprio l’avvocato a dargli il secondo schiaffo. Per il ricorso ci sarebbero voluti cinque mesi. Winny, che intanto era partita, entrava nel quarto mese di gravidanza. Così rischiava di partorire da sola, prima che arrivasse una risposta dal giudice. Nizar non poteva accettarlo. Aveva rischiato una volta, era pronto a farlo di nuovo. Bruciare la frontiera non era mai stato così facile. Trovò i contatti per imbarcarsi e a metà aprile partì per Lampedusa. Sembrava fatta. Lo rimpatriarono pochi giorni dopo, ma testardo com’è, tornò ancora a Zarzis e tentò per la seconda volta di raggiungere Winny. Quella volta però lei non l’ha lasciato fare da solo. E appena ha saputo della sua partenza è salita sul primo aereo per l’Italia. I due ragazzi hanno anche presentato un ricorso contro l’espulsione, forti del fatto che nel

frattempo l’Olanda aveva emesso per Nizar un visto Schengen per motivi familiari. Ma il tempo passava, giorno dopo giorno, e la risposta del giudice tardava ad arrivare. Mentre la data del parto si avvicinava, noncurante della lentezza cronica della giustizia italiana. Il resto è accaduto proprio durante una delle quotidiane visite di Winny a Nizar.

In fuga verso l’Olanda

Il colloquio è finito, lei sta uscendo dal campo, quando improvvisamente è colta da un malore accompagnato da contrazioni, che fanno pensare a un imminente parto prematuro. Cerca con lo sguardo il marito, ma l’hanno già riportato in gabbia. L’ambulanza arriva poco dopo, diretta all’ospedale di Trapani. Nizar dietro le sbarre continua a gridare che lo lascino andare. Ma la polizia non ne vuole sapere, il rischio di fuga è troppo


elevato. Nizar è accecato di rabbia e ferito. E se gli agenti non riescono a mettersi nei suoi panni, riescono invece a farlo benissimo gli altri ottantatré tunisini reclusi nel centro. La sua collera diventa la collera di tutti. È arrivato il tempo della rivolta. I reclusi iniziano a smontare le strutture portanti delle tende dove sono alloggiati, per armarsi di ferri e bastoni. E quando, verso le nove di sera, gli agenti aprono il cancello per far entrare un nuovo trattenuto, è già troppo tardi. I reclusi si lanciano contro il cancello e spingono fino a forzarne l’apertura. Nel corpo a corpo con gli agenti di guardia, i tunisini riescono ad avere la meglio per poi disperdersi in ogni direzione tra i vigneti e gli oliveti circostanti, coperti dal calar della notte. Nizar è con loro. Nonostante le manganellate sul ginocchio, continua a correre trascinandosi dietro la gamba ferita. Nascosto dagli alberi, segue a distanza

la luce dei fari della polizia sulla statale per Trapani. Winny è ancora in ospedale, ma sta meglio, era un falso allarme, niente doglie. Il giorno dopo viene dimessa e lo può finalmente incontrare. Ma non c’è tempo per gli abbracci. La polizia è sulle loro tracce. Devono lasciare l’Italia. Winny prende un volo, Nizar viaggia via terra, senza documenti. Prima un autobus, poi un treno, una nave e un altro treno ancora. Tre giorni di viaggio. Si ritrovano alla stazione di Eindhoven, in Olanda. In tempo per imbiancare la cameretta del bambino, tra un’intervista e l’altra alla tv olandese, che di questa storia ha fatto un caso nazionale. Rafael è nato all’alba del 15 agosto.

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Cessate il fuoco a cura di

Antonio Marafioti foto Peter Martell [afp/getty images]

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Cessate il fuoco è l’osservatorio mensile delle vittime dei conflitti nel mondo. I dati, che si riferiscono al periodo dall’11 agosto al 10 settembre, vengono raccolti da organizzazioni umanitarie o da fonti giornalistiche e quindi non potranno essere esaustivi. Le notizie sui conflitti in tempo reale su: www.peacereporter.net

Iraq Israele Palestina Nord Caucaso Turchia Siria

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Messico Colombia

Messico

Le hanno brutalmente uccise nella notte del 31 agosto. Si tratta delle giornaliste Marcela Yarce e Rocio Gonzalez Trapaga. Le due donne, amiche da diversi anni, si erano viste per un caffè il pomeriggio del giorno del delitto. Yarce è la fondatrice del settimanale d’inchiesta Contralinea, Trapaga era freelance dopo aver lavorato per anni come reporter dell’emittente Televisa, la più importante del Paese. Le loro tracce erano state perse la sera dell’omicidio. La mattina del 1 settembre, dopo la denuncia di due persone che facevano jogging nel parco di Iztapalapa, quartiere di Città del Messico a pochi chilometri dal centro, la polizia ha ritrovato i cadaveri delle due donne. “I corpi – ha scritto Contralinea – erano completamente nudi, con le mani e i piedi legati, ed erano nascosti sotto un foglio di plastica”. Il referto del coroner è di morte per strangolamento. Gli inquirenti stanno seguendo diverse piste e non escludono che possa essersi trattato di un omicidio legato al lavoro delle due donne.

Turchia

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Sono almeno cento i guerriglieri del Pkk uccisi durante un’offensiva dell’esercito turco lungo il confine con il nord dell’Iraq. A rivelarlo sono stati gli stessi portavoce militari di Ankara i quali hanno specificato che tra il 19 e il 20 agosto i combattenti del Partito dei lavoratori curdi sono stati colpiti con oltre 130 raid aerei e quasi 350 colpi di artiglieria pesante. Nel conflitto che dal 1984 contrappone il Pkk allo Stato turco sono morte oltre trentamila persone, la maggior parte delle quali di etnia curda.

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Cecenia

Il 30 agosto un attentato compiuto a Grozny ha provocato la morte di sette persone: cinque agenti di polizia, un dipendente ministeriale e un civile. La prima esplosione è avvenuta nel quartiere di Leninskij dopo che una pattuglia aveva fermato un sospetto per controllare i documenti. In quel momento l’uomo avrebbe fatto detonare l’ordigno che ha ucciso due agenti. Dopo l’arrivo dei soccorsi, e della folla di curiosi, un altro attentatore suicida si è fatto esplodere nello stesso luogo.

Nigeria

È di 18 vittime il bilancio dell’attentato del 26 agosto contro la sede Onu di Abuja. Intorno alle 11 ora locale un camion bomba si è schiantato a tutta velocità contro l’ingresso principale dell’edificio che ospita gli uffici dell’Unicef e in cui lavorano quattrocento persone. L’attacco è stato rivendicato, con una telefonata alla Bbc, da un portavoce del gruppo fondamentalista islamico Boko Haram. L’organizzazione terroristica, nota come “i talebani nigeriani” e attiva nel Nordest del Paese, si batte da quasi dieci anni per rovesciare l’attuale governo e dare vita a uno Stato islamico. «Questo è un attacco contro chi ha dedicato la vita ad aiutare gli altri», ha dichiarato da New York il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon.

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Il 18 agosto violenti scontri tribali hanno infiammato la contea di Uror, nello Stato di Jonglei. Il risultato delle devastazioni è di 640 persone uccise e 861 ferite, 258 bambini rapiti, 38mila capi di bestiame rubati e 8.924 case bruciate. La maggior parte delle vittime sono bambini secondo quanto rivelato da un team di funzionari statali di Jonglei. Il motivo dello scontro sarebbe una ritorsione per un precedente attacco lanciato a giugno dalla comunità di Lou Nuer, nella contea di Uror, nei confronti della comunità Murle, nella contea di Pibor, che aveva causato più di quattricento morti. Tut Puok Nyang, questore della contea di Uror, ha riferito che gli aggressori, tutti giovani, erano tra i duemila e i 2.500 ed erano armati con AK-47, razzi antiaerei e granate. In entrambi i casi, né le forze di polizia statale, né la missione Onu in Sudan, che ha il compito di proteggere i civili e l’esercito nazionale di liberazione del popolo sudanese, sono intervenute per mancanza di forze. Il Sudan del Sud sostiene che il governo di Khartum continui a rifornire di armi i gruppi miliziani per destabilizzare il nuovo Stato.


polis di

Enrico Bertolino

Pieter Brueghel III, The Collector of Tithes, olio su tela, XVII secolo

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comic tax

Questa volta la crisi c’è e se ce ne siamo accorti anche noi in Italia vuol dire che c’è davvero, e anche pesante. Fino a qualche mese fa sembravamo immuni. La Grecia quasi svendeva le sue isole e pure il Partenone e da noi si rideva commentando: «A che punto sono arrivati, poveretti». Poi il Portogallo, che per secoli ha fondato colonie ovunque, dominando con le sue navi da un oceano all’altro. Con il debito pubblico alle stelle e i buoni del tesoro in mano ai cinesi è arrivata la legge del contrappasso: da colonialisti a colonia della Cina, chissà quante risate a Macao. Poi è stata la volta dell’Irlanda, chi l’avrebbe mai detto. Un Paese così piccolo e tranquillo devastato dalla crisi e quasi ridotto dalle banche al fallimento. Che non a caso si chiama bancarotta. Poi la Spagna, dove Zapatero si accorge che non ce la fa più e, cercando di dare il buon esempio, annuncia che non si ricandiderà e che a novembre ci saranno nuove elezioni. E noi? Nessun riscontro. La cosa non ci riguarda. E poi saranno anche fatti loro. Noi non siamo messi male. Anzi. Le nostre banche sono solide. Il Paese sta uscendo dal tunnel. Peccato che fuori dal tunnel ci fosse il baratro e nessuno ce l’abbia detto. Forse avremmo dovuto capirlo da soli. Fatto sta che la crisi è arrivata anche da noi e come per le perturbazioni, alla faccia di annunci e previsioni, nessuno ha preso l’ombrello. Oppure sì, c’è chi l’ha preso, ma dalla parte del manico. La nostra classe politica ha mostrato parecchio fastidio perché la crisi è arrivata ad agosto, rovinando le ferie. Poi ha cercato di porvi rimedio nel solito modo: la manovra. Parola che sa tanto di esercitazione militare. Le manovre di solito sono simulazioni, poi purtroppo si sa che le battaglie e le guerre sono un’altra cosa. Per arginare le ondate nere ecco saltar fuori provvedimenti impopolari, annunciati con somma enfasi e poi lentamente smembrati da Camera e Senato, fino a perdere d’intensità come le tempeste tropicali e ridursi ad acquazzoni di fine estate. Tra i vari provvedimenti spunta sempre quello che sembra il più semplice ed è invece il più pericoloso. Una tassa, un balzello, una gabella. Il Contributo di Solidarietà. Ogni volta che si tenta un battesimo, a questi livelli, non si sa dove andare a sbattere: Una tantum, Patrimoniale, Supertassa, tutte parole che mettono un po’ di paura, specie l’ultima. Supertassa dà l’idea di una botta dalla quale solo un Supercontribuente si potrà riprendere. Bisogna ammettere che stavolta si sono superati. Per attutire le reazioni negative e fare leva sull’italica sensibilità, converrete che Contributo di Solidarietà non è niente male. È proprio una grande definizione: una tassa si trasforma in nobile gesto, un prelievo forzoso diventa una donazione spontanea. Se solo avessero chiesto un contributo di solidarietà (senza maiuscole) penso sarebbero rimasti stupiti dalla generosità degli italiani. Invece non si sono fidati e per l’ennesima volta hanno usato la parola solidarietà per mascherare l’egoismo di chi, quando le cose vanno bene, si sente italiano e quando c’è da dare una mano diventa padano o membro di altre entità mitologiche. Il tutto risulta abbastanza tragico e, come nel teatro greco, la tragedia diventa commedia quando un ministro (quello della Semplificazione) sostiene la necessità di tassare reversibilità, accompagnamenti, assistenza sociale. In poche parole, da una parte si chiede il contributo di solidarietà e dall’altra si taglia la solidarietà stessa. Poco male, tramontato il contributo, ecco l’ultima o penultima trovata: tassa sull’evasione. E che ci vuole? Basta che i grandi evasori, quelli che non hanno mai pagato, rispondano in massa e poi corrano a farsi identificare. E che ci vuole? Più semplice di così non si può.

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il capitale di

Niccolò Mancini

il gioco sporco «Scommettiamo che facciamo saltare l’euro?». Questo è quanto devono essersi detti i responsabili della banca d’affari Usa Goldman Sachs in una delle cosiddette “cene di Manhattan” dove, tra i responsabili dei più importanti hedge funds e banche americane, vengono stabilite le strategie che consentiranno di massimizzare i profitti, in barba alle più elementari regole etiche e finanziarie. In quale altro modo potremmo definire il comportamento delle banche d’affari? Da un lato si offrono, dietro il pagamento di laute commissioni, come consulenti dei principali Stati in difficoltà per aiutarli nella gestione dei conti; dall’altro invitano i propri clienti a scommettere contro gli stessi Stati in questione fornendogli tutti gli strumenti (credit default swap, derivati, strutturati…) perché le loro operazioni speculative abbiano successo. Grecia prima e Spagna poi sono state le ultime vittime del “sistema Goldman”. Nel caso dello Stato ellenico poi, si può ipotizzare che alla base dei trucchetti contabili che hanno consentito di mascherare i conti reali ci siano proprio alcune “intuizioni” dei bankers di Goldman Sachs, che hanno quindi potuto “suggerire” ai propri clienti operazioni dall’esito scontato. Fosse la prima volta sarebbe grave ma scusabile, secondo il motto “pecunia non olet”. Ma quanto sta avvenendo in questi mesi non è altro che una riproposizione, con vittime diverse, di quanto successe nel 2008 con la crisi dei subprime e il conseguente fallimento, o il rischio del medesimo, di molte banche. Tutto ciò fa pensare che la lobby Goldman goda a livello mondiale di appoggi molto potenti. Sono proprio questi appoggi trasversali, sia a livello politico che statale, che stanno impedendo l’introduzione di regole contro l’impatto devastante dei derivati sui mercati. Le crisi di questi anni sono per quattro quinti di carattere finanziario, con pesanti ripercussioni sui conti e sull’economia degli Stati. La finanza prospera sulla debolezza della leadership politica a livello mondiale, un vuoto che viene riempito dall’azione di entità come Goldman Sachs e simili che, pur di trarre profitto, non esitano a mettere in ginocchio società, Stati e continenti interi. Come testimonia l’attacco all’euro a cui stiamo assistendo in questo travagliato 2011.

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un fisico bestiale di

Bruno Giorgini

foto Simona [contrasto]

Ghizzoni

le agorà di Marsiglia La città è percorsa da mille vibrazioni, le più diverse e molteplici. Si può anche dire: da una fitta rete di microfaglie in movimento, uno sciame di microscosse che può, o non può, preludere al terremoto, la grande scossa, quella catastrofica. Marsiglia, abitata da trenta etnie, mosaico del Mediterraneo e del mondo, è traversata da una macrofrattura fisica, geografica e sociale, evidente: quella tra i quartieri nord poveri e degradati, con gli immigrati di prima, seconda, terza, quarta generazione, con carta d’identità francese o no, giovani, vecchi, uomini, donne, che oggi respirano il vento di libertà e rivoluzione proveniente dall’al di là del mare; e i quartieri sud, della borghesia più o meno agiata, più o meno bianca, più o meno conservatrice quando non di destra fasciorazzista, più o meno spaventata. In questa frattura agisce la crisi, accentuando le asperità, le durezze del vivere, i conflitti. Marsiglia, al centro dell’attenzione dei politici come dei poliziotti, degli intellettuali come degli operatori sociali, scrutata, indagata, temuta anche in previsione del 2013, quando sarà capitale europea della cultura. A Marsiglia, ospiti dell’ IMéRA, Istituto mediterraneo di ricerche avanzate, Mariateresa Sartori, artista, e io, fisico, siamo impegnati in un programma di ricerca comune che tenta di ricostruire la complessità estrema di questa città, vero e proprio ponte tra le sponde del Mediterraneo, partendo dalla individuazione delle agorà. I luoghi, per dirla in breve, dove le popolazioni si incontrano, si mescolano, dialogano, praticano la polemica e la critica, ovvero producono cittadinanza. L’idea è vecchia, ed è di Aristotele: la città è una rete di demos (popoli) che si incontrano nell’agorà, a quei tempi la piazza per eccellenza, luogo deputato alla democrazia. Se l’agorà si annichilisce, la democrazia decade e con lei la convivenza civile. Oggi nella moderna Marsiglia, agorà può essere la spiaggia del Prado (quartieri sud) o quella di Corbières (quartieri nord) e lo slancio dal mare e verso il mare. Per questo, racconta Michel Crespin, artista di strada amatissimo, i quartieri nord non sono esplosi come le banlieue parigine: essi s’arrampicano sulla montagna, dalle case e strade di lassù si vede la linea blu del Mediterraneo, l’orizzonte dei Paesi d’origine, la speranza. Per ora.

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e l’Europa sta a guardare .eu di

Stefano Squarcina

foto Giulio Di Sturco [vii mentor program]

È letteralmente un crimine contro l’umanità quello che si sta consumando in Somalia, tra l’indifferenza colpevole della comunità internazionale e dell’Unione europea. Quattro milioni di persone nel Corno d’Africa hanno bisogno urgente di cibo e aiuto umanitario, mentre 800mila tra uomini, donne e soprattutto bambini sono già esposti allo sterminio immediato per fame. Molte decine di migliaia di esseri umani sono già morte per stenti e, stando alle agenzie delle Nazioni unite, la vergogna della fame, che pesa su tutti noi, società opulente del Nord del mondo, si sta allargando alle regioni somale del Gedo, Hiraan, Shabelle, via via fino a contaminare nelle prossime settimane intere aree dell’Etiopia, dell’Eritrea e del Sudan. Fino a nove mesi fa l’Onu parlava di due milioni e mezzo di persone in pericolo di vita, oggi sono già quattro. Non è ammesso dire «non lo sapevamo»: tutte le agenzie umanitarie avevano previsto la drammatica siccità che sta facendo strage di innocenti. Anche la speculazione gioca il suo ruolo: i prezzi del mais in quell’area sono aumentati del 240 per cento in diciotto mesi, quelli del riso del 300 per cento. Per non parlare della cronica situazione d’instabilità politica e guerra creata da regimi indicibili nel Corno d’Africa, seduti sui teschi di milioni di vittime nel silenzio generale. L’aiuto umanitario annunciato recentemente dall’Unione europea – 158 milioni di euro – è solo una scabrosa foglia di fico politica per coprire la nostra indifferenza sostanziale, così come la recente missione della Commissaria europea agli aiuti umanitari, Kristalina Georgieva, nel Sud della Somalia. Il Corno d’Africa ha disperatamente bisogno di una politica coerente (anche) dell’Unione europea, che potrebbe attivarsi subito per coordinare o pretendere il coordinamento immediato delle politiche d’intervento delle agenzie Onu e dei governi presenti nell’area. E se è vero che anche i simboli hanno la loro forza, allora l’Unione europea e i suoi Stati membri dovrebbero attivarsi nel Consiglio di sicurezza dell’Onu per dichiarare la povertà e la fame “illegali” sul piano del diritto internazionale, per costringere tutti gli attori della comunità mondiale a mettere “fuorilegge” lo sterminio per fame e ottenere comportamenti politici, economici e commerciali coerenti con una strategia “fame zero” sul piano internazionale. Com’è possibile accettare che si possa ancora morire per fame nel XXI secolo?

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SIERRA LEONE / Centro chirurgico e pediatrico di Goderich

CURIAMO PERSONE Negli ospedali di EMERGENCY ogni uomo, donna o bambino può ricevere assistenza medico-chirurgica gratuita e di elevata qualità. In 17 anni abbiamo curato oltre 4 milioni e mezzo di persone, in Paesi devastati dalla guerra e dalla povertà. Puoi sostenere EMERGENCY con una donazione regolare: garantirai cure a chi ne ha bisogno e autonomia al lavoro dei nostri medici e infermieri. EMERGENCY è una associazione indipendente. Se esistiamo dipende anche da te.

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La legge di Quirra di

Nicola Sessa

foto

Francesco Nonnoi

È impegnato in un’inchiesta scomoda e difficile che sta per essere chiusa: dimostrare che il poligono militare ha avvelenato uno degli angoli più belli della Sardegna. Ritratto del procuratore Domenico Fiordalisi, il magistrato che, nonostante i tanti condizionamenti, non ha girato la testa dall’altra parte

Ogni mattina alle sette in punto il sovrintendente di polizia Marras passa a prendere il procuratore capo Domenico Fiordalisi al suo alloggio in commissariato. La Hyundai bianca percorre una breve serie di tornanti prima di arrivare al Tribunale di Lanusei, capoluogo della provincia di Ogliastra. Marras, capelli brizzolati, fisico sottile e agile, non perde mai d’occhio il procuratore. Il suo sguardo attento monitora tutto ciò che accade nelle vicinanze. Fiordalisi

ha bisogno della scorta. È uno di quei magistrati che indossa la toga come un abito talare; il senso dello Stato è il suo unico credo. Per questo fa paura ai criminali. Per la stessa ragione questi lo minacciano tentando, invano, di intimorirlo. Calabrese di nascita, dopo le esperienze nelle trincee anti ’ndrangheta, il procuratore chiede il trasferimento a Lanusei. Dal suo ufficio al secondo piano del Tribunale si ha una vista spettacolare. Gli occhi seguono il declivio

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della montagna che, prima in maniera brusca, poi dolce, muore sul tratto di costa che va da Bari Sardo ad Arbatax. Tutto è in perfetto ordine: i faldoni dei procedimenti sono allineati, appoggiati gli uni agli altri lungo il pavimento; sul divano, diverse pile di registri e libri. Appesi sulla parete verde pastello, alcune delle onorificenze ottenute in carriera, gagliardetti e calendari delle forze dell’ordine. Della vita privata del procuratore non c’è nulla, non una sola fotografia.

Unica eccezione un coniglietto bianco che abbraccia la lampada sul tavolino di fianco al computer. Dall’agosto del 2008, Fiordalisi ha rivoltato e riorganizzato la procura: «Quando sono arrivato ho trovato cinquemila fascicoli ancora aperti, ai quali in tre anni se ne sono aggiunti altri undicimila. Oggi, sono poco più di mille». Tutto l’arretrato è sparito. Molti procedimenti che erano sul punto di cadere in prescrizione hanno ripreso vita. «È importante che anche la giustizia

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Nicola Sessa ▲ Domenico

Fiordalisi, procuratore della repubblica di Lanusei ▶ Il paese e la spiaggia sequestrata

“minuta” faccia il suo corso, perché così i cittadini percepiscono che lo Stato si occupa anche delle loro piccole questioni». Fiordalisi, però, non si è fermato qui. Grazie al suo intuito, ha dato una svolta decisiva a un’inchiesta che languiva da dieci anni, quella sull’omicidio dell’imprenditrice Rosanna Fiori, nipote di Francesco Cossiga e titolare della Barbagia Flores, la seconda serra più grande d’Europa, con un fatturato che negli anni Novanta si aggirava sui cinque miliardi di lire annui. Nel primo anno di servizio alla procura di Lanusei, ha portato a termine un’operazione spettacolare a Ilbono, facendo circondare il paese e procedendo a un maxi arresto di ventuno criminali. E poi, lotta allo sfruttamento della prostituzione, operazioni antidroga, sequestri di oltre cento villette abusive. Troppo rumore per una zona come quella della bassa Barbagia. Le scritte di minaccia sui muri contro il procuratore e la sua famiglia, gli squarci nelle ruote della macchina della moglie lo hanno costretto ad accettare la scorta e, con dolore, ad allontanare la famiglia dalla Sardegna. «È stato necessario: mia moglie e i miei figli non sono costretti a vivere in un carcere e io mi sento più libero di svolgere il mio lavoro», dice Fiordalisi mentre con un dito cerca di cancellare una macchia che non c’è dalla sua scrivania. Non importa. Chi come questo magistrato – e sono sempre meno – cerca di compiere il proprio dovere fino in fondo, sa a cosa va incontro e sa anche che il più delle volte si è soli contro molti. Stava quasi per rilassarsi, il procuratore: aveva fatto un ottimo lavoro con l’arretrato e non gli rimaneva che gestire l’ordinario. Nel gennaio di quest’anno, però, i quotidiani Nuova Sardegna e Unione Sarda ritirano fuori la storia della “Sindrome di Quirra”: tumori sopra la media, morti premature, agnelli nati con gravi malfor-

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mazioni. Tutto documentato, stavolta, in una relazione medica firmata dai veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari, Giorgio Mellis e Sandro Lorrai. I giornali scrivono che il responsabile di tutti questi casi è il poligono interforze del Salto di Quirra (Pisq), dodicimila ettari a disposizione di forze armate italiane e straniere, ma anche di ditte private costruttrici di armi e di materiali altamente tecnologici. Fiordalisi ne aveva sentito parlare in passato, certo. Ma non in termini tanto preoccupanti; non aveva mai immaginato che il quadro fosse così critico. Una settimana dopo, l’assessore alla Sanità sarda, Antonello Liori, chiede un incontro con il ministro della Difesa per avere chiarimenti sul Pisq. La relazione porta alla luce dati sconcertanti: da esami comparativi compiuti tra i pascoli a ridosso del Pisq e altri situati sulle montagne del Gennargentu, risulta che il 65 per cento dei pastori – dieci su diciotto – che lavorano nel raggio di 2,7 chilometri dal poligono si sono ammalati di tumore. Inoltre sono stati registrati casi di animali nati con gravi malformazioni, ipofertilità elevata, malformazioni minori in misura del 5-7 per cento.

Si apre il fascicolo

«A quel punto cosa avrei dovuto fare? Tapparmi le orecchie, chiudere gli occhi e fare finta di niente?», sbotta il procuratore portandosi le mani sugli occhi. Chi lo conosce, sa che il passo indietro non è nella sua natura. Non c’è tempo da perdere: Fiordalisi non apre il fascicolo in base a una denuncia formale (che forse mai sarebbe arrivata), ma avvia il procedimento d’ufficio (327/2011), di sua iniziativa. Cominciano i primi sopralluoghi, la nomina di consulenti, l’audizione delle persone informate sui fatti, i sequestri probatori e preventivi, l’acquisizione di atti, documenti in possesso della Difesa: «Sempre molto gentili e disponibili, ma bisogna sapere bene cosa cercare perché i generali non ti consegnano niente di più di quello


Il poligono ll Poligono interforze Salto di Quirra (Pisq) è operativo dal primo luglio 1956. Si estende su un’area complessiva di 12.700 ettari e si trova nei territori dell’Ogliastra e del Sarrabus. I poligoni sono situati presso il paese di Perdasdefogu. Lungo la costa si giunge a Capo San Lorenzo. Qui vi si addestrano unità della Nato e della Sesta flotta con attività nelle varie combinazioni terra-aria-mare. Il poligono è stato messo a disposizione anche di aziende private per i test di armi e materiale altamente tecnologico. Il costo di una singola sessione si aggira intorno ai 50mila euro per ora. Inquietante la casistica: negli anni Ottanta, a Escalaplano (2.500 abitanti) nove bambini sono nati con gravi malformazioni; a Quirra si sono registrati 30 casi di tumore su 150 abitanti; a Tintinau, tre fratelli, pastori, si sono ammalati di cancro. Circa 35mila ettari del territorio sardo sono sottoposti a servitù militare.

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Nicola Sessa

Gli ultimi mesi A gennaio due quotidiani sardi pubblicano la relazione medica Lorrai-Mellis che attesta i danni prodotti su persone e animali dalla “Sindrome di Quirra”. La procura della Repubblica di Lanusei apre un’inchiesta. Due mesi più tardi, vengono acquisiti oltre duemila filmati dalla videoteca del Poligono di Perdasdefogu. La Commissione parlamentare d’inchiesta dà il via libera alla ricerca epidemiologica. A maggio, su richiesta del procuratore, il Gip ordina il sequestro preventivo del poligono: 120 chilometri quadrati, il più grande sequestro d’Europa. Il comandante della base, nominato custode giudiziario, firma l’ordinanza di sgombero. I pastori ottengono una proroga fino al 20 luglio. A giugno scatta il sequestro probatorio per 180 giorni di 12 radar fissi e uno mobile. Cominciano le proteste dei pastori. A luglio viene sequestrato un missile Milan ed eseguito in via definitiva lo sgombero del Poligono. Un mese dopo, una soldatessa di Oristano, caporal maggiore in servizio da due anni e mezzo al Pisq, dichiara di essere ammalata di cancro. È solo l’ultima vittima di una lunga lista.


che chiedi», spiega il magistrato. Una parte importante della scrivania al secondo piano del Tribunale di Lanusei è occupata da libri e studi, anche internazionali, sull’uranio impoverito, su altri elementi chimici e sugli effetti dannosi per l’uomo. Con grande pignoleria, Fiordalisi vuole essere in grado di capire bene in prima persona, anche senza il prezioso aiuto dei consulenti, la composizione degli armamenti usati, il modo in cui l’uranio o il torio “bombardano” le eliche del Dna. Per oltre cinquant’anni, nel poligono sono state provate “armi nuove”, mentre quelle a scadenza ravvicinata sono state fatte brillare, disperdendo nell’aria elementi tossici e nanoparticelle poi assorbite dai terreni di pascolo. Quella sul poligono di Quirra è un’indagine delicata, difficile e forse anche scomoda. Troppi interessi girano intorno all’area, primo fra tutti quelli dei costruttori d’armi. Il procuratore sapeva benissimo che si sarebbe scontrato con il segreto militare e con i brevetti industriali, ma non poteva immaginare che il muro più alto da scavalcare sarebbe stato quello eretto dagli abitanti dell’Ogliastra e del Sarrabus che proprio la procura vorrebbe tutelare. «È difficile rompere il muro del silenzio dei sardi, quell’omertà che è radicata nella popolazione locale», dice scuotendo la testa il procuratore. Al momento, il suo appello lanciato in un’intervista al Tg3, «Chi sa, parli», non ha sortito gli effetti sperati. La sorte della popolazione è legata a doppio filo a quella del poligono e dell’indotto generato: un centinaio di buste paga in tutto. Poi ci sono gli operatori turistici, i produttori agricoli, i pastori e le pecore. Tutti contro Fiordalisi, che può contare sulla solidarietà di poche associazioni (Gettiamo le Basi, Gruppo d’intervento giuridico onlus), sui 3.600 sostenitori di un gruppo Facebook a lui dedicato e su qualche sparuto ammiratore che lo ha definito «più sardo di un sardo, perché ci sta difendendo».

Dall’uranio al torio

I consulenti sono al lavoro per dimostrare che al poligono sono state utilizzate munizioni all’uranio impoverito. Il ministero della Difesa continua a negare l’impiego di tali armamenti. Il 2 agosto il ministro Ignazio La Russa scriveva nella sua risposta all’interrogazione parlamentare presentata dai deputati radicali: «L’Italia non ha mai impiegato armamenti all’uranio depleto», premurandosi però di specificare che comunque «la ricerca scientifica non ha dimostrato che esiste un nesso di causalità tra le patologie contratte dai militari e l’esposizione all’uranio impoverito». Forse l’Italia non ha mai usato armi all’uranio impoverito, ma c’è la testimonianza del capitano Giancarlo Carrusci, responsabile dell’attività operativa nel poligono dal 1977 al 1992, che conferma il lancio di un missile Kormoran Due con testata all’uranio impoverito nel 1989. Il missile fu lanciato da un aereo della Germania Federale per conto della Mbb contro un rimorchiatore affittato dalla Marina. Il missile non esplose, ma s’incastrò nel rimorchiatore che è rimasto ormeggiato nel porto di Cagliari per diversi anni. L’uranio, comunque, non è il solo indiziato della serie di morti premature e di tumori che hanno colpito pastori e operatori del poligono. L’ultimo caso, in ordine di tem▶▲ Un

allevatore di Perdasdefogu del corpo forestale nella discarica del poligono ▶ ▼Analisi delle onde elettromagnetiche sulle arnie ▶ Agenti


po, è quello di un caporal maggiore donna di ventotto anni che, ammalatosi di cancro, ha scritto una lettera aperta per chiedere la verità. Vuole sapere se la malattia dipende dal suo ruolo di missilista. A luglio, il procuratore Fiordalisi ha ordinato il sequestro del missile spalleggiabile di fabbricazione francese Milan. Al momento del lancio l’arma rilascia una carica di torio nebulizzato che, se inalato, è sei volte più pericoloso dell’uranio. Si è calcolato che nel poligono sono stati lanciati, fino al 2004, almeno 1.200 missili di questo tipo. Tracce di torio sono state ritrovate anche nel miele, nel formaggio e tanto, troppo tungsteno, estremamente cancerogeno, nei polmoni, reni e fegato di alcuni animali. Uno studio dell’Università di Siena del 2004, commissionato dalla Difesa, concludeva che nel terreno su cui insiste il poligono non era stata trovata nessuna traccia significativa di uranio. Stranamente, in una tabella allegata è riscontrabile una forte presenza di torio, in diversi punti del poligono. Ma gli esperti dell’Università di Siena non fanno alcuna menzione dell’elemento e delle possibili conseguenze sull’uomo. Verrebbe da chiedersi se i generali della Difesa abbiano mai contestato questa omissione che anche agli occhi di un profano risulterebbe quanto meno anomala. D’altro canto è difficile fare affidamento su una relazione quando il controllato sceglie il proprio controllore. Non è un caso che la procura di Lanusei stia indagando per falso ideologico due chimici della Sgs per una relazione che Fiordalisi, ascoltati i suoi consulenti, ha ritenuto non attendibile a causa delle molte omissioni. Secondo il procuratore, ci sarebbero «sospetti evidenti di collusione» per via di complicatissimi interessi societari. Questa la ricostruzione: la Difesa commissiona uno studio alla Namsa – agenzia della Nato – la quale affida una parte dell’indagine ai chimici della Sgs che fa parte del gruppo Fiat ed è presieduta dall’ad Sergio Marchionne; la Oto Melara – controllata del gruppo Finmeccanica, consorziata di Iveco-Fiat-Oto Melara – sperimenta da anni nel poligono sardo le armi prodotte nei propri stabilimenti.

Il paese ostile

Il quadro probatorio diventa sempre più sostanzioso. Al fascicolo aperto per omicidio plurimo con dolo eventuale e disastro ambientale nei confronti di ignoti, si aggiunge quello aperto nei confronti del generale Fabio Molteni, indagato, in concorso con gli altri comandanti della base tra il 1984 e il 2004, per omissione di atti d’ufficio e disastro ambientale colposo. Il procuratore Fiordalisi chiede al Gip di Lanusei di eseguire il sequestro preventivo dell’intera area del poligono: centoventi chilometri quadrati sigillati, il più grande sequestro in Europa. Si apre una grave spaccatura nel tessuto sociale: i pastori scendono in strada per protestare contro il provvedimento. Coldiretti, sindacati, commercianti, operatori turistici sono tutti dalla loro parte. Persino il vescovo di Lanusei, Antioco Piseddu, si pronuncia sulla questione portando la solidarietà della diocesi ai circa trecento pastori che si sono

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raccolti sotto il tribunale “invitando” il procuratore ad affacciarsi dalla finestra. Il punto è sempre quello: il danno economico che le indagini del magistrato starebbero arrecando a tutta la zona. Si piange per i morti, si prega per gli ammalati, ma poi non si può fermare il flusso di denaro. Alcuni cittadini che hanno provato a parlare, a denunciare, sono finiti sotto processo o addirittura presi per pazzi. L’ex sindaco di Villaputzu e dottore pneumologo Antonio Pili, che aveva provato a fare domande scomode perché teneva più alla salute dei suoi concittadini che non ai soldi, è stato condannato a otto mesi di carcere per aver ignorato una lettera dell’Asl sulla presenza di arsenico nella zona di Baccu Locci. «Una lettera che non ho mai visto», affermava Pili in un’intervista all’Unione Sarda del 7 dicembre 2008. Ma la cosa più strana è che a portarlo davanti ai giudici era stata la procura militare. Pili non si è mai spiegato cosa c’entrasse la procura militare con un certificato dell’Asl. In un incubo simile è precipitato un pastore di Villaputzu che dopo aver parlato con un giornalista di Report, secondo il suo racconto, sarebbe stato trascinato in macchina da due sconosciuti e minacciato di morte. La procura di Cagliari, territorialmente competente, non gli ha creduto e anzi ha aperto a suo carico un procedimento per procurato allarme. Fiordalisi, nonostante le pressioni, va avanti per la sua strada ed è pronto a presentare una prima tranche di richieste al giudice. Spera che tutti capiranno che sta agendo per proteggere quella che sente essere quasi la sua gente. E il sequestro dei pascoli potrebbe svolgere un ruolo rilevante in questo senso: le pecore sono molto importanti per la popolazione locale e la relazione dei capi di bestiame con il terreno ancora di più. Adesso forse capiranno che non è la giustizia ad averli privati della terra. I pascoli li hanno persi cinquant’anni fa quando non si ribellarono alla militarizzazione del territorio, come avrebbero fatto tredici anni più tardi, nel 1969, gli abitanti di Orgosolo sui pascoli di Pratobello.

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Nella mia te di Massimo Carlotto Michele Ledda Andrea Melis illustrazioni

Antonello Silverini

Massimo Carlotto Padovano, classe ‘56, inizia la sua carriera letteraria nel 1995, anno in cui pubblica Il fuggiasco, ma soprattutto La verità dell’Alligatore, primo di una fortunata serie di gialli che avranno come protagonista l’investigatore privato Marco Buratti, detto l’Alligatore, e che faranno di Carlotto uno dei nomi di punta del noir italiano, tra i più letti e tradotti. Autore poliedrico, ha scritto per il teatro, la radio e la televisione e pubblicato racconti e romanzi, alcuni dei quali, come Arrivederci amore ciao (2001), hanno ricevuto una trasposizione cinematografica.

Sabot È un collettivo di nove scrittori italiani del quale, oltre a Massimo Carlotto, fanno parte anche Michele Ledda, Andrea Melis, Francesco Abate e altre giovani promesse della narrativa. Il tema delle attività inquinanti di un centro militare era stato già affrontato nel romanzo d’esordio, Perdas de Fogu (Pietre di fuoco), nome con il quale viene indicato il Poligono sperimentale di addestramento interforze di Salto di Quirra, in un libroinchiesta che racconta delle morti per tumori e leucemie provocate dalle polveri radioattive che hanno contaminato flora, fauna e popolazione locale.

Mio nonno sparava per mangiare. Mio padre sparava per non deludere mio nonno. Io li ho sempre seguiti a distanza limitandomi a raccogliere le cartucce. Rosse, blu e gialle. Ne riempivo buste intere che conservavo in legnaia senza sapere che farne. Avevo i pantaloncini corti, non temevo i rovi e lo sparo che lacerava il silenzio della campagna lo ricordo come un tuono amico. Gli alberi attutivano. I ruscelli portavano via. Le montagne proteggevano. I passi degli uomini cancellavano. Gli adulti legavano le prede sul cofano e della caccia non restava che il latrato dei cani eccitati e poi tornava il silenzio. A casa la sapiente pazienza delle donne scuoiava, affettava, insaporiva e trasformava il sangue in sugo, le prede in festa, gli spari in risate lorde di vino e grasso. Quando mio nonno morì lasciò in eredità un buon ricordo e un po’ di terra. Mio padre ne vendette la metà e comprò pecore e maiali che ci misero poco a incrociarsi con i cinghiali. Tenne la metà dove stavano i vecchi ulivi. Le pecore, nelle ore più calde, occupavano l’ombra addossate in cerchio. Vicino a casa, oltre il fosso, c’era la porcilaia e lo capivi dagli alberi. Gli ulivi avevano la corteccia consumata alla base. I mezzi cinghiali si tuffavano nelle pozze di fango e poi si strusciavano per ore sul tronco sino a levigarlo. Il legno era lucido come la grande trave di ginepro sul camino. È lì che mio padre appese la doppietta di mio nonno. La sua invece continuò a portarla a tracolla. Ogni domenica dedicava il pomeriggio a pulirla con cura, ma nessuno lo vide più mirare a nulla. Al di là degli ulivi gli spari continuavano sempre più forti. Ma non erano più i cacciatori a tirare il grilletto. Oltre il fiume, che era stato di mio nonno, i militari avevano occupato le terre che mio padre e molta altra gente avevano venduto. E anche quelle di coloro che non avevano voluto e alla fine si videro portare via tutto per due lire. Nessuno pensò di arrampicarsi sugli alberi per cacciare via i soldati. Tutti insieme: uomini, donne e bambini. Qualche anno più tardi lo avrebbero fatto a Pratobello vincendo una battaglia che sembrava persa in partenza. Da noi i soldati, invece, furono i benvenuti.

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Le uniformi erano promesse di pane per la gente, i bei ragazzi in divisa a passeggio riempivano i sogni d’amore delle nostre figlie. Il filo spinato non avrebbe impedito di portare le greggi al pascolo. I politici promisero vantaggi e ricchezza. Quando le esplosioni scuotevano l’aria, le greggi ammutolivano. Gli uccelli si levavano in volo. La gente girava la testa. Il vento a volte portava lontano, altre volte amplificava ogni rumore. In certi casi persino le scuole restavano chiuse. Le camionette arrivavano all’alba in paese, caricavano donne e bambini per portarli a distanza di sicurezza. A fine giornata li riportavano a casa. Come negli sfollamenti durante la guerra. Ricordi che i più anziani brontolavano la sera, seduti nei loggiati, cercando di recuperare le forze per il giorno seguente. E al rientro i bambini erano felici di aver saltato la scuola. Alle donne toccava rilavare i panni, spazzare gli usci, pulire davanzali e finestre da una polvere nera e sottile. Dal poligono si alzavano nubi impalpabili che il vento posava su ogni cosa. Anche sul silenzio della campagna. Dove per fortuna gli alberi proteggono. I ruscelli portano via. Le montagne riparano. E i passi degli uomini cancellano. Dopo un po’ la polvere spariva tra l’erba. E l’erba spariva in pancia alle pecore. Io accompagnavo ogni mattina mio padre a curare ulivi, preparare olio, formaggio, vendere lana. L’unico posto dove non potevo seguirlo era al bar dove faceva a pugni coi compari che avevano venduto tutto per soldi facili. Soprattutto quando l’acquavite infiammava vecchi rancori. “Le mie bestie mangiano erba e non proiettili”, ripeteva beffardo a chi si era spogliato di tutto, girava su auto di lusso ma sorvegliava greggi accucciate all’ombra di carri armati sforacchiati. Quando papà morì vennero anche loro al funerale. Gli amici del bar. Mi baciarono sulle guance e abbracciarono mia madre. Babbo aveva sessantaquattro anni e non aveva mai fumato una sigaretta. Era dimagrito e si era spento nel giro di pochi mesi. Nel nostro dolore si specchiò silenziosa la paura di molti. Attesi che il tempo rendesse il lutto meno aspro e mi sposai con la figlia di un vicino. Ci conoscevamo da bambini. Vendetti le bestie e le ultime terre di famiglia e ci trasferimmo in città con mia madre. Era un tentativo per sfuggire ai fantasmi che avvelenavano le nostre paure e, sempre più spesso, saltavano fuori dalle ombre dei vecchi ulivi. «Di poligono ci si ammala», cominciarono a sussurrare in paese. Ma pensai che non fosse più affar mio. Gli spari erano sempre più lontani. In pochi anni vennero al mondo tre figli. Una femmina nacque malforme e morì in ospedale. Gli altri due si salvarono. Un maschio e una femmina. La vita però si andava indurendo come l’udito dei vecchi per un pastore che era diventato muratore. Il pane costava sempre più caro. La benzina. La luce. Il televisore. Il telefono. I vestiti. I pannolini. L’automobile. La malattia di mamma. Anche lei tumore, lo stesso di papà. Con la differenza che la medicina ora aveva dato un nome alle cose e c’erano cure che costavano caro. I viaggi a Roma. Le terapie. Fino a quando ci dissero che non c’era nulla da fare. Decisi di non arrendermi ma sperare costava un sacco di soldi e dovetti ritirare dalla banca quelli che avevo messo via per il futuro dei figli, per gli studi. L’università, magari. «Il poligono fa nascere feti deformi», si osava vociferare in paese. Parlavano di pecore, ma ogni volta io sentivo come il peso di una pietra infuocata sul petto. Un sabato mattina d’estate il funzionario di banca, che mi seguiva da anni, bussò alla porta di casa. Si sedette, si asciugò la fronte con un fazzoletto fresco di bucato, aprì una cartella e mi spiegò che i soldi erano finiti e ora c’erano solo debiti da saldare in fretta. Guardai la carabina di nonno appesa sul mio camino. Poco sotto c’era quella di babbo.

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Per qualche anno la vita riprese a scorrere come un fiume tranquillo, dove il ripetersi sempre uguale delle giornate mi dava l’illusione di essere al sicuro. Nessuna novità, niente brutte notizie. Un giorno i colleghi mi attesero ai cancelli della base per obbligarmi a prendere in mano un volantino e una bandiera al posto della ramazza. Mi spiegarono che rischiavamo il posto e che non ci avrebbero potuto pagare gli stipendi dei prossimi mesi. «Più forti delle bombe!», incitava un tipo tarchiato schiacciando il megafono sulla bocca rabbiosa. Guadagnammo un trafiletto sul giornale e ridussero a sette i licenziamenti. La base nel frattempo continuava con le esercitazioni, e qualcuno in paese cominciò a bisbigliare che era una vergogna che i fabbricanti d’armi spendessero miliardi per buttare a mare bombe mentre la povera gente restava senza stipendio. Io non ero tra quei sette. E il rumore delle esplosioni quasi non le sentivo più. Ci si abitua a tutto. Quasi a tutto. Era una domenica pomeriggio quando bussarono alla nostra porta. Io imprecai di rabbia. Per una volta che potevo riposare in un letto fresco col ventilatore sul comò, lontano dalla carcassa rovente e dalle pulci di Aceto, qualcuno disturbava. Decisi di non alzarmi. Mi rigirai dall’altra parte con un grugnito e alla porta andò mia moglie. La sentii gridare di dolore e volai giù dalle scale in mutande. Quando mi trovai davanti due uomini in alta uniforme mi sentii ancora più nudo e indifeso. Gli uomini se ne andarono in silenzio. Lasciarono un foglio dove c’era scritto che non avremo più rivisto vivo nostro figlio. Poche righe di circostanza e molti

Nella mia terra

Gli chiesi di andarsene. Mi sedetti, scolai una bottiglia di acquavite e piansi. Avevo trentasei anni. Dovetti vendere la casa in città, dove la vita era troppo cara, e tornare in paese. Il funzionario di banca mi fece un ultimo favore: trovò un lavoro al poligono. Mi fecero indossare una divisa grigia e mi diedero una ramazza e un secchio anziché il fucile, e ringraziai di non dover sparare per mangiare, come già aveva fatto mio nonno e come un giorno sarebbe toccato a mio figlio. Lo stipendio arrivava regolare ogni fine mese. Non era più la vita di città, ma era vita. Mia moglie imparò a riciclare gli avanzi del pranzo. Si era messa in testa che la figlia avrebbe continuato a studiare, non riusciva a sopportare l’idea del figlio in divisa. La sua era verde. Si addestrò al poligono e dopo pochi mesi partì in missione fuori dall’isola. Ero felice che andasse lontano. Io ero tornato a piegare la schiena sull’erba ma adesso indossavo guanti di lattice e infilzavo cartacce con un punteruolo. Mi limitavo a ripulire i cortili intorno alla caserma. Non andavo mai più lontano. «Tanto non c’è altro che tu possa pulire», mi diceva il capo. Intorno continuavano le esplosioni. E imparai a distinguere le bombe dai missili e a riconoscere i fumi dei reattori spaziali dai lampi gelidi di armi sconosciute, che venivano fatte detonare dentro fosse profonde. Un giorno trovai un cane dentro la base. Lo chiamai Aceto perché era nero e pidocchioso come vino dimenticato. Lo curai. Lo cibai. E lui in cambio mi restituì il gusto delle passeggiate. Aceto non portava collare, né guinzaglio ma mi aveva scelto come padrone. Non c’era verso di mandarlo via. E se aveva voglia di passeggiare abbaiava fino a quando non mi decidevo a seguirlo. Aceto rincorreva conigli, lepri e l’istinto lo portava a fiutare famelico agnelli e capretti. Sbavava e saltava in avanti di corsa. Poi si fermava ad abbaiare. Io lo seguivo. Talvolta, sotto la carcassa di un camion trivellato di fori piccoli e grandi, riposavamo nel pomeriggio. Io sbocconcellavo prosciutto e formaggio e ad Aceto allungavo pane vecchio bagnato nel latte. Poi schiacciavo un pisolino mentre lui si mordicchiava le pulci. Riprendevo il lavoro alle tre. Alle sette ero a casa. La nostra bambina in città aveva dato l’ultimo esame e trovato un bravo ragazzo. Forse non era nemmeno più una bambina. Nostro figlio mandava cartoline da terre che ogni giorno aprivano i titoli dei telegiornali. Mia moglie mi attendeva davanti alla cena con lo stesso sorriso di sempre e un filo bianco in più tra i capelli.


Nella mia terra

Antonello Silverini È nato, vive e lavora a Roma. Si diploma in illustrazione presso l’Istituto europeo di design e inizia la carriera collaborando con numerose agenzie (Saatchi & Saatchi, Publicis, etc.). Ha pubblicato, tra gli altri, con Repubblica, Il Sole 24 Ore, il manifesto, Geo. È l’autore delle copertine della casa editrice Fanucci dal 2007. Nel 2005 vince il primo premio al Concorso internazionale di illustrazione di Torino. Nel 2006 si aggiudica il Premio Zavrel e nel 2007 viene inserito nel Lürzer’s Archive Special 200 Best Illustrators Worldwide. Le sue opere su tela sono esposte presso la Venice Design Art Gallery di Venezia.

timbri a garantire che non si trattava di un incubo dovuto alla scorpacciata di fave mangiate a pranzo. Un brutto sogno da cui mi sarei presto svegliato con la voglia di una lunga sorsata d’acqua. Claudio tornò pochi giorni dopo in una bara avvolta dal tricolore e lo seppellimmo accanto a mio padre e a mio nonno. Io non versai una lacrima. Sostenni mia moglie. Riabbracciai mia figlia venuta dalla città. Conobbi il suo giovane fidanzato con cui scambiai appena qualche parola. Dopo due giorni dovetti tornare alla base. Ma ora che non mi pagavano più lo stipendio regolare avevo perso interesse a fare bene le pulizie. Mi limitavo allo stretto indispensabile e poi camminavo per ore. Macinavo chilometri finché le gambe non mi diventavano dure come il cuore. Continuavo fino a quando il cuore non tornava molle come le gambe, e infine entrambi mi lasciavano finalmente libero di crollare sfinito sul letto senza nemmeno sfiorare la cena. Aceto mi seguiva silenzioso qualche passo indietro, come se portasse rispetto per il mio dolore e prese l’abitudine di aspettarmi fuori dall’uscio di casa. Una mattina credendo di farmi cosa gradita Aceto sbucò da un cespuglio e mi venne incontro zampettando con in bocca il feto di un agnello deforme. Me lo depose ai piedi. L’animale aveva gli occhi sul cranio, le gambe corte e le orecchie sembravano avere le dita come le mani di un neonato. Doveva essere stato nascosto da qualche pastore per paura, o ripudiato dalla madre per istinto. Aceto si accovacciò e mi guardò piangere disperatamente come non ero riuscito a fare anni prima in ospedale davanti alla bimba deforme che, per fortuna, era nata morta. Nel piccolo paese dove i fidanzamenti e le liti per i confini, i furtarelli e le risse da bar occupavano per giorni le chiacchiere della piazza, nessuno osava parlare dei morti. L’unico era il prete che celebrava i funerali. E le campane a morto iniziarono a farsi sentire più spesso. Prima qualche vecchio amico di mio padre, poi toccò a Giulio che aveva solo trent’anni e aveva lavorato a lungo nella base, e a Marco che faceva il pastore da poco, a Stefano operaio di pulizie come me nel poligono, che si era detto fortunato di aver scampato il licenziamento. Non c’era bisogno di essere dottori per capire che qualcosa non andava. La leucemia divenne un’ombra tra le case del paese. Il dolore venne sigillato dietro gli usci chiusi perché, a volte, una disgrazia in famiglia bastava e avanzava. I vivi seppellivano i morti e allo stipendio sicuro del fratello, del padre o dello zio i vivi non potevano rinunciare. Anche quando i soldi continuavano a non arrivare. Si viveva comunque, aggrappandosi a dignità e speranza. Dopo qualche anticipo e numerose assemblee il capo fu costretto a metterci in mobilità, che vuol dire starsene a casa immobili ad aspettare il giorno in cui andare a fare la fila per una elemosina di Stato. Quelle poche lire mi bruciavano in tasca. Io nella vita mi ero sempre sudato tutto. Ma stavolta anche una sola figlia da mantenere stava diventando un lusso. La famiglia del fidanzato dava una mano in città, mi raccontava al telefono. Se la cavavano. O almeno così ci faceva credere. Le bollette si accumulavano e pagarle era già una fortuna. Così quando arrivò il misero risarcimento, che lo Stato riconobbe per la morte di mio figlio, decisi di ricomprare un piccolo gregge e nella giostra della vita mi ritrovai di nuovo pastore. Ricominciarono le levatacce per andare in campagna quando il cielo era ancora di velluto scuro e a malapena si distinguevano i contorni delle montagne. Aceto mi seguiva e a modo suo imparò a dare una mano governando il tragitto delle greggi. La base, con le sue terre che parevano senza confine, ci accolse. Ogni pastore aveva la sua fetta di terra dove pascolare e la mia era semplice da trovare. Sempre dritto per il sentiero fino alla carcassa di un elicottero avvolto in una nuvola d’erba. Nei giorni delle esercitazioni non potevamo portare le pecore al poligono. Allora uscivo ancora prima al mattino e sotto le stelle mi arrampicavo su per i monti dove il rumore delle esplosioni arrivava come un’eco lontana e le bestie brucavano senza innervosirsi troppo.

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Una mattina mi svegliai che perdevo sangue dal naso. Non ci feci caso e andai a portare il gregge al pascolo anche se mi sentivo stanco. Poi arrivò la febbre. Era



estate e quella maledetta debolezza non mi abbandonava mai. Andai dal medico in paese. Mi disse che forse si trattava di affaticamento da stress. La morte di mio figlio, i problemi sul lavoro. Per sicurezza mi diede l’indirizzo di un laboratorio in città dove andare a fare analisi più approfondite. Così mi disse: per sicurezza. Con mia moglie partimmo di martedì e restammo tre giorni a casa di mia figlia e del mio futuro genero. Con l’occasione potei tranquillizzarmi sul fatto che si fossero sistemati davvero. Una piccola ma accogliente casetta in affitto. Lui aveva trovato lavoro presso lo studio di un avvocato, la nostra Margherita si arrangiava tra contratti a termine e tirocini all’università. Erano felici e ci annunciarono il loro matrimonio. Il terzo giorno ritirai tutti i referti. E tornai a casa con la leucemia. Ma non ero tipo da lasciarsi seppellire prima del tempo. Affidai le bestie a un servo pastore in cambio di latte, carne e formaggio e mi tenni solo Aceto che, oltre alle pulci, aveva ormai gli occhi velati dalle cataratte e i primi tremori alle gambe. Mia moglie aveva smesso di tingersi da tempo, e il suo sorriso era ormai più grigio dei capelli. Il tempo insomma passava per tutti. Ma nessuno sapeva dirmi quanto me ne restasse. Cominciai a curarmi. Chemioterapia. Perdetti tutti i capelli, dimagrii dieci chili e non c’era modo di abituarsi alle nausee fortissime che mi piegavano le gambe. Il viso dello specialista che mi seguiva era scuro quando mi disse che, nonostante le cure, la malattia non era in remissione. Una parola che non avevo mai sentito. Mi spiegò. La malattia non tornava indietro e nemmeno si fermava. E ai sussurri intrappolati nelle case del paese si aggiunsero i miei conati di vomito che cercavo di soffocare chiuso in bagno per non terrorizzare mia moglie. Aceto non si mosse più dal giardino e nelle giornate di sole facevamo ancora qualche breve passeggiata. Un giorno durante una di queste mi avvicinò un anziano giornalista. Sapeva molte cose sugli esperimenti e conosceva i nomi dei morti e di tanti militari che al fronte soffrivano le stesse malattie dei pastori che vivevano intorno alla base. Lui parlò molto, io ascoltai in silenzio. Mi chiese se c’era un modo di entrare a dare un’occhiata senza essere visti. «Che bisogno ha di entrare li dentro?» domandai rabbioso. «Ma mi ha visto bene?» Mi tolsi il cappello, mostrai le macchie scure sul cranio rasato, alzai la maglietta perché mi potesse contare le costole e lo pregai di non disturbare i morti. Perché questo ero. Che andasse a chiedere ai vivi. Se ne andò senza chiedermi altro. Pochi giorni dopo, mentre andavo a visita dal medico, mi accorsi che in paese serpeggiavano voci preoccupate. L’articolo era uscito. Il giornalista aveva sollevato pesanti sospetti e il quotidiano aveva dedicato un’intera pagina con, al centro, la fotografia sgranata di pecore che brucavano pacifiche ai piedi di uno dei tanti bersagli arrugginiti e sforacchiati dai proiettili. L’indomani accompagnai mia moglie alla messa di anniversario per la morte di nostro figlio. Era il settimo. Le dissi che sarei rimasto fuori con Aceto. Sentivo che tanto con mio figlio ci saremo rivisti presto. Claudio non si sarebbe offeso. Davanti a me si fermò un’auto e scesero due tizi che mi mostrarono un tesserino dell’aeronautica militare. Che era falso lo scoprii dopo. Mi chiamarono per nome, e mi dissero che il mio servo pastore aveva infranto alcune regole del pascolo e bisognava che andassi con loro per rimediare ed evitare di perdere la concessione. Quando dissi che non potevo lasciare mia moglie sola in chiesa cominciai a capire che non erano venuti per quello. I tizi si innervosirono e, con la stessa difficoltà con cui avrebbero trascinato un bambino, mi obbligarono a salire in macchina. Pesavo meno di cinquanta chili ormai. L’unico che provò a fare resistenza fu Aceto, che venne messo a tacere a calci in bocca. Per sempre. Cominciammo a fare un lento giro per il paese. Il tizio accanto a me aveva l’alito di menta mista a odore di sigaretta e sussurrava minacce. L’auto imboccò un sentiero di campagna. Mi fecero scendere e mi picchiarono con rabbia. «Questo perché ti metti a parlare con le persone sbagliate. Questo perché devi imparare a farti i cazzi tuoi». Bastarono pochi calci e pugni per ridurmi così male che il mio sangue marcio


*** La luce sopra il tavolo della sala è fredda e accecante. Attorno a me due uomini in camice incidono, divaricano, estraggono e analizzano. Ma la mia carne non sente nulla. Solo il peso dei ricordi che scorrono uno attaccato all’altro. Gli uomini parlano fitto con voce calma. Parlano di un magistrato che indaga. E bisbigliano non per usarmi cortesia ma perché quel che dicono fa paura. Pare che il giudice debba far dormire la famiglia ogni giorno in una stanza diversa per evitare che qualcuno spari fucilate sulle finestre. Sono arrivate chiare minacce. Parlano di auto in fiamme e di altri poveracci pestati a sangue per aver parlato con i giornalisti. Dicono che ora il poligono è sotto sequestro. Non credo alle mie orecchie. Tutta l’area, dicono, sia a terra che a mare. Non possono sparare adesso. Ma qualcuno continua a sentire esplosioni, mentre i pastori stanno protestando perché non possono più far pascolare le greggi dentro la base. Da una parte li comprende, dice, ma se poi producono latte e formaggio nocivi per la salute, è meglio che vadano da un’altra parte. L’altro concorda. Aggiunge con un pizzico di amarezza che almeno riceveranno gli indennizzi dalla Regione. «Alla fine paghiamo sempre noi». Poi inizia a tirare la carne col filo di sutura e rivolto al collega annuncia: «Anche con questo abbiamo finito». Il collega allora si toglie il camice, si risciacqua con cura in un piccolo lavabo e poi esce dalla sala. L’altro continua a cucire. Il medico attraversa un lungo corridoio mentre tira fuori dal pacchetto una sigaretta stropicciata e la infila in bocca. Appena fuori, la luce del giorno gli strappa un sorriso stanco.

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cominciò a uscirmi da bocca, naso e orecchie. Mi misero un cappio al collo e lo passarono per un ramo d’ulivo. Uno di loro tirava forte la fune che sembrava mi dovesse segare il collo in due. Sentii mancare la terra sotto i piedi un paio di volte e alla fine svenni dopo l’ultimo avvertimento. «Parla ancora una volta con i giornalisti e la prossima volta ti troveranno a dondolare su questo albero, o chissà, magari tua moglie…». Quando ripresi coscienza, riuscii ad aprire a fatica solo un occhio. Tornai a casa in un paio d’ore dopo aver vomitato l’anima lungo tutto il cammino. In paese si sussurrava che il poligono faceva paura. Ogni giorno di più. Al rientro a casa guardai i capelli ormai bianchi di mia moglie e vidi che era sparito il suo sorriso. Poi mi guardai allo specchio e vidi uno scheletro tutto incerottato. Di quello che eravamo non c’era quasi più nulla. L’ultima cosa che potevano portarci via era la nostra dignità. Ma morire come una bestia, dopo aver lottato tutta la vita per vivere da uomo, mi avrebbe fatto pesare per sempre la terra sulla bara. Così invitai il giornalista a casa. Venne armato di registratore. Gli raccontai della mia vita da pastore, di nostra figlia nata malforme, della vita come operaio alla base, delle esplosioni, dei morti, delle malattie. Mi chiese di accompagnarlo alla base. Accettai sapendo che l’avrei vista per l’ultima volta. Guidò lui e fu molto gentile. Mi sostenne per un braccio durante tutto il cammino. Attraversammo una recinzione e gli feci vedere le carcasse dei cingolati, i bossoli tra i cespugli, le enormi buche bruciacchiate in cui facevano brillare gli ordigni. Lo portai a una fonte da cui mio nonno raccoglieva acqua cristallina, e dove adesso sgorgava un liquido tra il giallo e il verde. Due giorni dopo uscì l’articolo sul giornale con la storia del mio pestaggio. Mia moglie e io tornammo in città. Lei si trasferì per sicurezza a vivere da mia figlia, io venni ricoverato in ospedale.


buen vivir di

Alfredo Somoza

foto

Arkady Gibov

pop America Nella città di Olinda, Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, nel Nordest del Brasile, si tiene alla fine di questo mese l’evento Turismo da Gente. Una manifestazione di tre giorni durante la quale non si parlerà delle magnifiche costruzioni barocche della città-gioiello, ma della locale danza afro-americana del coco, della tradizione orale che tramanda le storie della schiavitù, delle mille ricette nate dall’incontro tra America, Europa e Africa. Più a sud, a Montevideo e a Buenos Aires, sono state appena inaugurate due reti di turismo comunitario nei quartieri più marginali delle città rioplatensi che valorizzano la radice afro della cultura uruguayana e la storia dell’emigrazione popolare e italiana che costruì la capitale argentina. Nella Repubblica Dominicana, i contadini della comunità rurale di Loma Atravesada gestiscono la Ruta del Jenjibre che si sviluppa attorno alla coltivazione dello zenzero, la radice energetica introdotta dagli schiavi africani che ha influenzato anche la musica e la religione dei Caraibi. In Bolivia, il governo di Evo Morales ha riconosciuto la pratica medica millenaria degli ch’amakani come ufficiale, vista la “sua validità scientifica su base erboristica”. In Ecuador infine, le comunità degli indiani Otavalos sono riuscite a ottenere il titolo di “patrimonio culturale del Paese” per la piazza nella quale da millenni tengono i loro mercati. Non sono “casi” o coincidenze; è che l’America Latina, dopo secoli, comincia a scrollarsi di dosso una delle più insidiose eredità del colonialismo: il senso di inferiorità culturale. Fino a pochi anni fa, i “patrimoni” del continente erano grandi resti del passato precolombiano, come le piramidi maya e Machu Picchu, oppure l’eredità architettonica coloniale, soprattutto le chiese e i palazzi del potere. La cultura popolare non era mai stata considerata, appunto, “cultura” a pieno titolo e quanto di immateriale era stato prodotto, come musica, letteratura, poesia, cucina, conoscenza, storia, è stato sempre ignorato o ritenuto di tono minore. Il processo che in molti Paesi ha portato alla valorizzazione dei legami comunitari, alla maggiore tutela dei diritti delle donne, degli indigeni, dei bambini, ha anche portato alla rivalutazione del “patrimonio immateriale” di origine popolare. Afroamericani, indigeni, minoranze religiose o etniche, preservano, tramandano, raccontano tradizioni e lotte per condividerle con un pubblico sempre più vasto. In passato era stata la cultura “ufficiale” ad appropriarsi di alcune tradizioni popolari per farle entrare nei “salotti bene”, come è successo per il tango, ora sono gli Stati e i cittadini che guardano senza complessi, e con rinnovato interesse, la propria storia culturale meticcia e mulatta. Se nel confuso scacchiere internazionale l’America Latina sta diventando un blocco economico e geopolitico di rispetto, la costruzione di una sua identità condivisa è in forte ritardo. Un ritardo che comincia però a ridursi.

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parola mia di

Patrizia Valduga

illustrazione

Elfo

diffuse enormità “Forzare il senso delle parole: cosa che non si deve mai fare, nemmeno con chi ne ignora il valore, per semplice rispetto di se stessi” (Proust). Ecco alcune parole che il conformismo usa e diffonde forzandone il senso. “Complicità” vuole dire partecipare a un’azione criminosa: si è “complici” di un delitto e di tutti i reati che possiamo immaginare. Ma adesso la si usa in un senso buono e quasi ammiccante: c’è complicità fra marito e moglie, tra fidanzati, fra genitori e figli, come se fosse il sale (o il pepe) di un rapporto. Ipotizzo che stia per grande confidenza, piccoli segreti, mutuo soccorso. Secondo me, questo nuovo significato è il riflesso dei tempi: oggi come non mai si tende a “legalizzare” l’illegalità, a non vergognarsi di commettere reati (i famosi che truffano il fisco, che fanno falsi in bilancio e non perdono neanche un grammo del loro prestigio). “Enorme” si riferisce alla dimensione di cose materiali o all’aspetto fisico di una persona (di corporatura esageratamente grande), o alla quantità (smisurato, esorbitante) o a concetti astratti come importanza, efficacia, sentimento, vizio ecc. Ma adesso si sente e si legge che uno scrittore, un poeta sono “enormi”. Forse un libro può essere enorme (di dimensioni) e anche chi lo scrive può essere enorme (di dimensioni). Certo è che chi dà dell’enorme a uno scrittore o a un poeta come giudizio di valore, non ha quasi mai la capacità di giudizio per poter distinguere non solo i grandi dai medi, ma neanche i grandissimi dalle nullità. Enorme in questo senso non dà senso, fa senso. “Situazione” prima voleva dire “posizione”, “ubicazione” (che nell’italiano di oggi si dice “location”), poi l’insieme di aspetti ed elementi che configurano un fatto; adesso vuole dire quello che non si sa dire con la parola giusta. Ho sentito un personaggio del mondo sportivo commentare una partita dicendo: «Sono successe delle situazioni».

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Morbide atmosfere di

Carlo Boccadoro

Per festeggiare il 40esimo anniversario dell’etichetta Cti, fondata e diretta dal produttore Creed Taylor (già in attività alla Verve e artefice della Impulse), riappaiono ora nei negozi una serie di titoli leggendari, originariamente apparsi negli anni Settanta, che vedono protagonisti grandissimi del jazz come Freddie Hubbard, George Benson, Milt Jackson, Jim Hall, Paul Desmond, Stanley Turrentine. Queste incisioni sono state rimasterizzate dalla Sony in maniera eccellente; il che permette di gustare la bellezza dei suoni che Taylor e il tecnico Rudy Van Gelder riuscivano ad allestire per questi dischi, per la maggior parte orientati verso un jazz dalle atmosfere morbide, spesso incorniciate da eleganti arrangiamenti orchestrali. Uno dei dischi più belli prodotti dalla Cti è senz’altro Stone Flower, realizzato nel giugno 1970 dal grandissimo Antônio Carlos Jobim, senza alcun dubbio il maggior compositore brasiliano del XX secolo (assieme a Heitor Villa-Lobos). Coadiuvato dagli splendidi arrangiamenti di Eumir Deodato, Jobim ci regala una perla strumentale dietro l’altra e canzoni stupende come Tereza my love, Choro, Amparo e Stone flower che risplendono ancor oggi intatte nella loro bellezza e nell’assoluto relax che da queste registrazioni traspare. Il pianoforte di Jobim è come sempre un modello di discrezione ed eleganza e il contributo di musicisti di qualità maiuscola come Ron Carter, Airto, João Palma, Hubert Laws e Urbie Green viene messo ancor più in evidenza da questa nuova rimasterizzazione. Non manca una deliziosa cover del classico di Ary Barroso Brazil, che riesce a evitare stereotipi da cartolina grazie a un arrangiamento molto sofisticato armonicamente e dall’eleganza felina su cui si inserisce (caso unico nell’album) la voce indolente e sorniona dello stesso Jobim. Un autentico gioiello. Antônio Carlos Jobim: Stone Flower (Cd Cti/Sony 8869768-2), euro 10,90

Francesco Hayez (Venezia 1791-Milano 1882), Fiori, 1834, Olio su tela

Arte

Musica

Domani

Natura viva di Vito

Calabretta

Quando la curatrice Giovanna Ginex ha presentato il progetto al quale sta lavorando, a un certo punto ha chiesto scusa perché «si tratta di una mostra di ricerca». In questo si è sbagliata: in un periodo in cui le mostre sono sempre più spesso pacchetti commerciali confezionati al risparmio (tanto poi dicono che è il pubblico a non capire) una mostra che invece è frutto di una ricerca merita sicuramente il viaggio. È questo dunque il primo motivo di interesse per un’operazione che riunisce le forze della Fondazione cassa di risparmio di Tortona e della Galleria d’arte moderna di Milano. Andando dunque a Tortona, nella pinacoteca della Fondazione, si ha l’occasione di capire qualcosa in più su come il genere della natura morta sia stato affrontato nella produzione artistica dell’Italia settentrionale, in un lungo periodo tra Ottocento e inizi Novecento, e su come fossero articolati i rapporti tra le accademie di belle arti, i luoghi cioè che influenzavano i gusti culturali e la committenza borghese. Si entra quindi in un territorio artistico e in un’esperienza storica vivi. Il secondo motivo di interesse riguarda il nostro benessere personale: tuffarci in una raccolta di decine di quadri che trattano il genere della natura morta ci offre un florilegio di modalità espressive e di scelte differenti. Basta pensare ai Fiori di Francesco Hayez del 1834 e ai Pesci di Giovanni Segantini del 1886. Possiamo anche citare, affacciandoci ormai al Novecento, L’appeso di Giuseppe Pellizza da Volpedo del 1893 ed evocare il modo in cui riesce a lavorare sui bianchi del piumaggio. O la capacità di Gaetano Previati, nel 1913, di trattare i viola dei suoi Ireos, che noi in genere chiamiamo iris. Da una visita così si ritorna a casa più vivi.

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La meraviglia della natura morta, 1830-1910. Dall’Accademia ai maestri del Divisionismo. Spazi espositivi della Fondazione cassa di risparmio di Tortona, Corso Leoniero 6, Tortona Fino al 19 febbraio 2012


di Simona

Spaventa

Quello di Lev Dodin è un teatro vivo ed emozionante, passionale e sanguigno come la sua Madre Russia. Per questo ogni volta che il regista siberiano, fondatore del Maly Teatr di San Pietroburgo e di una meravigliosa compagnia di giovani attori, arriva in Italia è un avvenimento. Una gioia che quest’anno si moltiplica, perché Dodin torna nella sua casa d’adozione da noi, il Piccolo Teatro di Milano, con tre spettacoli. L’occasione è di quelle ufficiali, l’anno della cultura e della lingua russa in Italia, celebrato in questo mese al Piccolo (ma non solo: da non perdere, sempre a Milano, al teatro Franco Parenti, dal 21 al 23, Idiotas del regista lituano Eimuntas Nekrošius, straordinaria rilettura del romanzo di Dostoevskij). In cartellone, oltre a una trilogia del maestro, anche una finestra sulla generazione più giovane dei registi di San Pietroburgo che si snoda in cinque prime nazionali di altrettanti nomi celebri in patria, mai visti finora in Italia. E se la Pro Turandot ambientata sotto Stalin di Andrej Mogucij (al Teatro Studio, il 10 e 11 ottobre) e l’altra favola di Gozzi, L’amore delle tre melarance, con le storiche marionette del Teatro Demmeni (al Teatro Grassi, il 15 e 16), promettono belle sorprese, l’attesa, com’è ovvio, è tutta per Dodin e per la nuova regia che ci regala quest’anno. Perché torna ancora una volta a Cechov, il classico del cuore, con Tre sorelle, in prima nazionale al Teatro Studio dal 20 ottobre. Uno spettacolo di cui la critica russa ha sottolineato l’umanità, che nel teatro di Dodin nasce dalla fisicità e dalla spontaneità degli attori. E se la miniretrospettiva si chiude dal 28 al 30 con un altro Cechov, lo Zio Vanja già al Piccolo nel 2003, da qualche critico considerato un lavoro minore perché più vicino a una lettura tradizionale, l’attenzione alla storia contemporanea torna nel bellissimo Vita e destino, il 24 e 25 ottobre, già visto qualche stagione fa: dal romanzo fiume di Vasilij Grossman a lungo al bando in Unione Sovietica, la parabola di una famiglia ebrea russa perseguitata dai nazisti e da Stalin si incarna nella naturalezza dei giovani interpreti, in un affresco corale di struggente vitalità.

Libri

Teatro

Ottobre russo

Dalla parte degli antieroi di

Alessandra Bonetti

Se vent’anni fa fosse esistito Twitter e Saul Bellow, invece che apprezzarlo in privato, avesse “cinguettato”, Tony & Susan sarebbe diventato un best seller. Invece nel 1993, quando uscì, passò inosservato e il suo autore, Austin Wright, è morto in solitudine. Scherzi del destino come quello che dà il via alla storia che inizia con una lettera che Susan riceve dopo tanti anni dal suo primo marito: lui, che aveva sempre avuto velleità letterarie, era riuscito finalmente a scrivere “qualcosa di bello”. Le andava di leggerlo? Un po’ titubante, lei che a 49 anni ha perso sogni e guadagnato peso, inforca gli occhiali e si accomoda sulla poltrona. A questo punto il libro diventa un romanzo in un romanzo: chi è Tony, il protagonista del manoscritto cui vengono rapite moglie e figlia durante un banale viaggio in autostrada? E che relazione ha con Susan che mentre avanza nella lettura rilegge la propria vita? Niente sangue e vendetta, ma dolore, confusione e passi incerti, per un thriller psicologico che è una riflessione sulla memoria e sull’atto della lettura. Ma un antieroe è anche il bello e dannato McCash nato dalla penna di un astro nascente del noir francese, Caryl Férey, di cui esce La gamba sinistra di Joe Strummer. Ex combattente dell’Ira, ex poliziotto, «a cinquantun anni non aveva più nome proprio e Joe Strummer era appena morto lasciandolo orfano di un’epoca che non faceva altro che tagliare la corda». Sulla colonna sonora dei Clash, sfilano ammazzamenti, traffico di bambini, femme fatale, innocenti e colpevoli in un classico polar – il genere che mescola poliziesco e noir – che non lascia spazio a edulcoramenti. E che dire del ritorno di Nicholson Baker, l’acclamato autore di Vox (una lunga, ininterrotta telefonata erotica, che Monica Lewinsky regalò a Bill Clinton)? In epoca di scandali sessuali, avverte il lettore sin dal sottotitolo: La casa dei buchi. Un libro di scopate. Sketch da un carnale paese dei balocchi. Uomini che diventano donne, donne che si accoppiano con uomini senza testa, una gara di bizzarre sconcezze a volte divertenti, a volte irritanti, sempre esplicite, che di questi tempi sembra una favola per antieroi vogliosi e consenzienti. Austin Wright, Tony & Susan, Adelphi, 20 euro, 432 pp. Caryl Férey, La gamba sinistra di Joe Strummer, edizioni e/o, 17 euro, 192 pp. Nicholson Baker, La casa dei buchi. Un libro di scopate, Bompiani, 18,90 euro, 350 pp.


Documentario Architettura

Silenzio e memoria di Raul

Pantaleo

Il suo nome non è annoverato tra i maestri dell’architettura italiana, eppure Romano Boico ha realizzato una delle opere più belle e poetiche del dopoguerra: l’intervento sulla Risiera di San Sabba a Trieste, l’unico lager nazista situato in territorio italiano ad avere avuto un forno crematorio. In parte molto diverso dal lager e dall’opificio originario, questo monumento, inaugurato nel 1975, è la sintesi perfetta tra modernità e memoria, tra architettura e senso, una sorta di luogo parlante in un assordante silenzio. Si entra al museo attraverso un corridoio possente, realizzato tra altissime e opprimenti pareti in cemento armato che si dilatano in un grande cortile; spazio forzatamente perfetto rispetto agli edifici fatiscenti intorno che ospitano parte dei resti delle celle di detenzione. È un microcosmo separato dal mondo in cui tutto è stilizzato, scheletrico, perché l’enormità di quanto è accaduto non si può spiegare senza che generi angoscia e inquietudine. Spazio surreale che lo stesso Boico così racconta: «Se è vero che ognuno di noi preferirebbe essere un morto della Risiera, anziché un nazista sopravvissuto, è chiaro che non possa sussistere oggi altro sentimento che la pietà per tutti: morti, vivi, e per gli stessi nazisti, vittime e insieme macchine terrificanti del vorticoso impazzimento hitleriano». Ciò che impressiona di questo luogo è il silenzio, la durezza delle pareti e del pavimento in cemento rendono qualunque suono un intruso. Entrando nel cortile viene naturale abbassare la voce e, poco dopo, smettere del tutto di parlare lasciando spazio soltanto al nulla, come un grido strozzato in gola. È architettura civile che evoca e rappresenta in modo inequivocabile l’enormità della violenza. In anni recenti ci sono state opere importanti dedicate allo sterminio, una per tutte l’Holocaust-Mahnmal a Berlino costituito da oltre 2.700 stele di cemento grigio, monumento in memoria degli ebrei europei uccisi dal nazismo e universalmente riconosciuto come un capolavoro dell’architettura contemporanea. Ciononostante non riesce ad avere la forza evocativa dell’opera di Boico che, oltre a una condanna inappellabile, esprime un messaggio di speranza attraverso segni che soltanto in quel nulla si possono cogliere, come la cima dell’albero che spunta dai muraglioni. Da questa visita si esce quasi con un senso di sollievo eppure carichi di quell’energia vitale che solo le grandi opere di architettura sanno evocare. Civico Museo della Risiera di San Sabba, via Giovanni Palatucci 5, Trieste

Vive la France di

Matteo Scanni

Per il terzo anno consecutivo un lavoro francese vince il premio Rfi/France24 al concorso internazionale Visa pour l’image. La zone di Guillaume Herbaut e Bruno Masi ha convinto “all’unanimità” la giuria del festival di Perpignan, così come era accaduto nelle edizioni precedenti con Le corps incarcéré (Le Monde) e Prison Valley (Aupian/Arté). Gli autori raccontano il lento ritorno alla vita dei territori contaminati dall’esplosione del reattore numero 4 di Chernobyl. La “zona”, appunto. Il reportage, affiancato dal blog Retour à Tchernobyl, da un libro fotografico e da un’installazione, è composto da otto capitoli, nella modalità classica che predilige la navigazione ipertestuale per topic all’approccio drammaturgico chiuso, con inizio, sviluppo e fine ben definiti. Nessuna grande novità da questo punto di vista: l’utente è libero di bighellonare tra decine di clip e costruirsi un proprio percorso di navigazione e, quindi, di comprensione. Video, foto e audio mostrano quello che rimane di Pripiat, la città fantasma evacuata subito dopo l’incidente nucleare e divenuta il simbolo della tragedia, ma anche la vita quotidiana dei giovani benestanti di Ivankov in gita nella regione dei laghi, il traffico di metalli a Chernobyl e la misera esistenza della vecchia Palieska, rimasta contaminata dopo l’esplosione. D’attualità, ben fotografato e, a tratti, girato con autentica mano d’autore, La zone è sicuramente uno dei web doc dell’anno, ma rimane un documento più interessante che bello. La sensazione di vago smarrimento che si fa largo di fronte alla ricchezza dei materiali consultabili spinge a chiedersi quale sia la vera anima di questo lavoro e perché la stragrande maggioranza dei progetti crossmediali in circolazione snobbino le regole base del documentario (e del fotogiornalismo): rigore formale, sforzo documentativo, un punto di vista, una linea narrativa chiara ma in divenire. Piccola nota a margine: sette degli otto finalisti a Visa pour l’image erano francesi. Cosa significa? Forse che il comitato di selezione, in un impeto protezionistico, ha scelto di valorizzare i progetti made in France; oppure che va riconosciuto un premio alla continuità dell’impegno produttivo dei media francesi. Probabilmente sono vere entrambe le cose. E anche se Perpignan resta un concorso sfacciatamente di parte, non possiamo nasconderci che sempre più spesso le narrazioni crossmediali parlino francese e che i produttori più prolifici siano France5 e Arté.


di Massimo

Rebotti

In una classe del liceo Mercalli di Napoli, durante l’edizione dell’anno scorso, hanno mangiato per una settimana solo cibi cucinati a casa. Risultato: nessun involucro di merendine utilizzato, rifiuti prodotti dalla prima B, zero. L’esempio fa quasi tenerezza visto cosa succede a Napoli da anni a proposito di immondizia, come testimonia il nostro portfolio con le foto di Luciano Ferrara. Eppure la frontiera più avanzata, nella battaglia contro la catasta di rifiuti che produciamo ogni giorno, sta proprio qui, nella riduzione. L’Unione europea dedica al tema una settimana di mobilitazione, a novembre ci sarà la terza edizione. Nel 1995 in media un cittadino europeo, da solo, produceva 468 chili di rifiuti solidi all’anno, aumentati a 524 nel 2008, con il rischio di diventare 558 nel 2020 se non si fa qualcosa. La campagna si rivolge ai singoli, per quel che possono, ma soprattutto alle amministrazioni pubbliche, alle aziende, alla grande distribuzione. In Italia l’organo ufficiale della Settimana europea di riduzione dei rifiuti è il sito di informazione ambientale Eco dalle città: «Fermo restando il valore della raccolta differenziata», dice il direttore Paolo Hutter, «il miglior rifiuto è quello che non viene prodotto». Qualche caso positivo c’è, a cominciare dai sacchetti di plastica, ormai al bando, o dagli imballaggi, in leggera riduzione. Ci sono poi i rifiuti che si possono riciclare bene, ma che è infinitamente meglio non produrre nemmeno, tipo le bottigliette d’acqua «e fortunatamente ora nei convegni comincia a essere un po’ più chic mettere sul tavolo una brocca». Insomma è un intero modello di pensiero che deve evolvere, dal riciclo, che va sempre bene, alla riduzione, l’unica strada che possa salvarci dallo strangolamento da immondizia: «Fino a qualche anno fa il rifiuto era considerato una risorsa, ora è un problema». E il problema dei problemi, nelle società ricche, adesso si chiama “spreco di cibo”: «Un campo sterminato – conclude Hutter – con responsabilità da parte di tutti, dai produttori ai consumatori». Anche qui c’è chi si dà da fare per ridurre i danni, come la rete dei Last minute market che si occupa di limitare almeno un po’ l’enorme quantità di alimenti che ogni giorno viene buttata o, banalmente, dimenticata a marcire. www.menorifiuti.org www.ecodallecitta.it www.lastminutemarket.it

Cinema

La giusta causa

Svuotare i cassonetti

La chiesa nuda di Barbara

Sorrentini

«Un giorno anche tu dovrai rendere conto della tua stupidità a Dio e agli uomini», dice il prete al poliziotto. Ma dal tono sembra rivolgersi a una moltitudine. In questa scena de Il villaggio di cartone, l’ultimo film di Ermanno Olmi, il parroco di una piccola chiesa in un luogo imprecisato dell’Italia sta rispondendo al capo di una pattuglia di polizia in procinto di far sgomberare un gruppo di clandestini nascosti nella parrocchia. Qualche giorno prima la chiesa è stata dismessa e svuotata da ogni orpello. Via l’altare, il crocifisso, i tendaggi, l’organo, le pale, i candelabri, gli oggetti sacri. I sacerdoti licenziati. Ma il parroco, al servizio dei fedeli da più di trent’anni, non ha altro luogo in cui andare per finire i suoi giorni. “Di fronte allo scempio della sua chiesa – scrive Ermanno Olmi nei suoi appunti di regia – il vecchio prete avverte l’insorgere di una percezione nuova che lo sostiene. Gli pare che solo ora quei muri messi a nudo rivelino una sacralità che prima non appariva”. Una notte il prete viene svegliato di soprassalto dall’arrivo di un gruppo di clandestini africani, sbarcati lì vicino e accompagnati da un loro connazionale, un ingegnere con un italiano perfetto, che li affida all’ex parroco. Il vuoto del tempio religioso si riempie di famiglie e sulle panche di legno fanno da tettoia i cartoni, che una volta segnalavano gli appuntamenti con le liturgie. “Non più il luogo delle cerimonie e degli altari dorati – continua Olmi – bensì la casa di Dio dove trovano rifugio e conforto i miseri e i derelitti. Saranno costoro i veri ornamenti del tempio”. Concentrato sulle immagini, che in qualche scena riproducono sacre rappresentazioni abitate da protagonisti vivi e di colore, Ermanno Olmi offre una riflessione seria, con i pensieri profondi e di rottura dell’anziano prete, evidentemente molto vicini a quelli maturati dal regista. La missione di quest’uomo che ha rinunciato all’amore della sua vita, della quale ha soltanto incrociato gli occhi una sola volta, per non scordarsela più, è sempre guidata dal bene, prima che dalla fede. «Perché Dio ha messo questo fuoco dentro di noi per poi minacciarci con il castigo?», si chiede il prete tra le lacrime. Il villaggio di cartone è una riflessione sul silenzio di Cristo e su un senso religioso troppo staccato dalla realtà. Il villaggio di cartone, dal 7 ottobre


la posta del cuore di

Claudio Bisio cuore@e-ilmensile.it

illustrazione

Chiara Noseda

Caro Claudio, qualche giorno fa ho avuto una “discussione” con un mio amico: era triste e arrabbiato perché quella sera eravamo andati in un semplice pub a bere, avevamo fatto la solita cosa, incontrato le solite persone e intavolato i soliti discorsi. Il mio amico è stanco che tutto rimanga così, vorrebbe fare cose diverse, vedere gente nuova, avere cose da raccontare e tutto questo solo la sera. «Noi siamo dei vecchi di 80 anni che non sanno godersi la vita», così ha detto. E allora mi sono chiesta: che cosa vuol dire godersi la vita? Vuol dire solo uscire tutte le sere, andare a ballare, conoscere tutti i locali di Milano, fare tardi, sballarsi sempre, ecc...? Perché se è così mi dico che in realtà non me la sto godendo! Ma poi ripenso al mio lavoro: sono un’educatrice, lavoro in una comunità per donne con i loro bambini o sole, ripenso alla fatica di stare con loro, di comprenderle, di aiutarle, ripenso a tutti i piatti etnici che le donne che ho conosciuto mi hanno preparato in questi anni, ripenso ai bambini a cui mi sono affezionata, ripenso alle tremende storie di violenza e dolore di cui queste donne e questi bambini sono portatori, ripenso ai cazziatoni, ripenso ai sorrisi che mi offrono, alle risate fatte insieme anche se rare e tutto questo mi fa dire che la vita me la godo, che la vivo, che mi emoziono che sento, provo, amo, desidero, posso essere libera, non devo subire. Ma poi la sera non si esce sempre, poi non si hanno tanti contatti su Facebook! E allora mi chiedo: ma cosa vuol dire godersi la vita? Qualcuno me lo spieghi, qualcuno lo spieghi a noi giovani perché non è così scontato. Sabry

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Cara Sabry, non è affatto facile spiegare cosa significhi “godersi la vita”. Non è facile spiegarlo perché non è facile

saperlo. Più che goderla, forse, varrebbe la pena di viverla, momento per momento, pienamente. Come mi sembra tu stia già facendo. Hai usato verbi quali “sento, amo, provo, desidero”. Beh, se sono sentimenti autentici (e non ho motivo di pensare il contrario), te la stai stragodendo, la tua vita. Con buona pace del tuo amico che si sente un ottantenne. Caro Claudio, sono rimasta veramente affascinata da questa rivista. Racconta parte di quella vita che, nella società di adesso, “immersa” nel raccontare il gossip, lascia da parte la realtà. Se mi permetti, vorrei approfittare della tua rubrica per mandare uno speciale ringraziamento verso coloro che in pochi ricordano... Mi riferisco a tutti quei medici, infermieri e volontari che spesso si allontanano dalle loro famiglie, dai loro affetti per offrire il loro cuore, il loro amore e le loro cure a coloro che soffrono. Per me loro sono i veri eroi e, anche se so che la più grande gratificazione la ricevono dagli occhi di quella gente, mi piacerebbe che più spesso si parlasse di loro! Non sono molto brava a scrivere, ma spero di essere riuscita a esprimere la mia gratitudine e ammirazione nei loro confronti. Con affetto, Tamara R. Ecco un’altra lettera di una persona che mi sembra abbia ben chiaro chi vive bene, chi è il “vero eroe” e chi no. E sempre a proposito di “godersi la vita” o meno, quando parlando di medici e infermieri, che volontariamente aiutano quelli che soffrono scrive “la più grande gratificazione la ricevono dagli occhi di quella gente” mi sembra abbia ben chiaro cosa significhi. A volte, come in questo caso, mi spiace che non scriviate la vostra età. Mi piace pensare, per esempio, che questa ragazza sia molto giovane... ma magari è un’ottantenne! E per finire una definizione (quasi poetica) di cuore (cominciano ad arrivarne parecchie, converrebbe iniziare a raccoglierle). Il cuore è un museo che conserva emozioni. Noi siamo gli archeologi. Ogni giorno andiamo alla ricerca di nuove emozioni per poi conservarle nelle tante bacheche presenti nel nostro cuore. Possiamo conservare la gioia nel vedere un fiore colorato che danza in un manto verde. Possiamo conservare la tristezza nel vedere centrali nucleari che devastano l’ambiente. Possiamo conservare la soddisfazione nell’aiutare i più deboli. Possiamo incorniciare sorrisi di bambini che non hanno nulla. Possiamo conservare il dolore nel vedere sfruttamenti minorili. Bisogna innamorarsi per far sì che “IL MUSEO DELLE EMOZIONI” diventi “IL MUSEO DELLA FELICITÀ”. Massi


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Dieci anni di guerra di

Cecilia Strada

Dov’eravate il 7 ottobre? E come vi siete sentiti quel giorno? A questa domanda, molte persone – anche sensibili, anche informate, anche attente a quel che succede al di là dei nostri confini – hanno bisogno di qualche momento per pensare. Che cos’è successo il 7 ottobre? Dove, a chi? Se dico 11 settembre, non ho bisogno di aggiungere l’anno. Sappiamo tutti di cosa sto parlando: ci ricordiamo benissimo l’orrore che abbiamo provato guardando scomparire migliaia di persone tra le macerie dei grattacieli. La stessa sera, il comandante in capo delle forze armate statunitensi ha annunciato che l’America avrebbe reagito: contro i mandanti di quella strage, contro il Paese che li ospitava. Meno di un mese dopo, i cacciabombardieri americani hanno iniziato, in nome della guerra al terrorismo, a seminare terrore sul suolo dell’Afghanistan. Era il 7 ottobre. Adesso vi ricordate? Dov’eravate, e come vi siete sentiti? Il 7 ottobre le donne e gli uomini di Emergency erano in giro per il mondo a fare quello che facevano dal 1994: curare persone, vittime di guerra, delle mine antiuomo, della povertà. Erano in Cambogia, in Sierra Leone, in Iraq. Erano in Afghanistan, come ogni giorno dal 1999, ad assistere le vittime, tutte le vittime, di un conflitto che sembrava non finire mai. E ci siamo sentiti, il 7 ottobre, pieni di angoscia e di dolore. Esattamente come ci siamo sentiti nei dieci anni successivi, mentre guardavamo scomparire decine di migliaia di persone tra le macerie delle case di paglia e fango. Dieci anni di guerra in Afghanistan, una guerra cui l’Italia partecipa con tanti uomini e tanti, tantissimi soldi, ma di cui non

si parla quasi mai. E quale risultato hanno ottenuto, questi dieci anni di guerra? Secondo le Nazioni unite, ogni anno ci sono più vittime civili dell’anno precedente. Il narcotraffico fiorisce. Le donne vestono sempre il burqa. I combattimenti sono sempre più diffusi, anche nella capitale Kabul. I bombardamenti della Nato ormai non si contano più, come non si contano i morti. A finire negli ospedali di Emergency sono sempre i soliti: quasi tutti civili, molte donne, troppi bambini. Lo scorso agosto è stato il mese nel quale abbiamo assistito il più alto numero di feriti per cause di guerra di sempre in Afghanistan: 527, che si vanno ad aggiungere agli oltre cinquantamila feriti di guerra trattati dal 2001. Se l’obiettivo di questi dieci anni di guerra era quello di sconfiggere il terrorismo, portare la pace e aiutare la popolazione civile, beh, possiamo tranquillamente ammettere che non ha funzionato. Nel 2011 l’Italia, per tenere i propri soldati in guerra in Afghanistan, ha speso 265 milioni di euro dei contribuenti italiani. Facciamo due conti? Emergency, in un anno, ha speso 4.786.429 euro (e 66 centesimi, per essere precisi) per curare cittadini afgani nei nostri tre centri chirurgici, nel centro di maternità, nei trenta posti di primo soccorso e centri sanitari, nelle carceri del Paese. Con quello che l’Italia spende in 60 ore di guerra, noi abbiamo curato 341.082 persone, in un anno, dando anche a lavoro a 925 afgani, tra cui molte donne e molti disabili. Se l’obiettivo era quello di aiutare la popolazione afgana, beh, forse il nostro metodo è più economico, più efficace, più umano. E funziona.

C


Afghanistan in cifre di

Paolo Busoni

James Robinson Taylor

Mattia Velati

La guerra in Afghanistan è in assoluto la guerra più lunga dell’Italia, intesa come Stato unitario. Il costo previsto per il 2011 è di 675 milioni di euro. Anche se l’iter della legge sul rifinanziamento delle missioni all’estero (le missioni si pagano a parte, non ricadono completamente sul bilancio della Difesa) ha avuto qualche rallentamento – per questioni tutte interne alla maggioranza – per quest’anno l’Italia continuerà a mantenere la presenza di 3.950 soldati sul teatro di guerra. Sono ancora lì sul terreno gli ultimi 700, inviati d’urgenza l’anno scorso come contributo alla surge voluta da Obama, cioè quell’aumento di forze che avrebbe dovuto, anche secondo il generale David Petraeus, dare una svolta alla guerra ormai impantanata. Alla missione in Afghanistan, la più complicata, anche sul piano logistico e della rotazione dei reparti, partecipano tutte le forze armate, compresi i carabinieri e qualche elemento della polizia di Stato e della guardia di finanza impiegati nelle attività di cooperazione con le autorità locali. Nel costo non sono conteggiati alcuni aspetti “esterni” che fanno di quella in Afghanistan anche la più costosa operazione militare all’estero: si tratta dell’anzianità accelerata per i militari (è un teatro di guerra quindi si maturano le indennità di servizio più velocemente), del costo per l’usura dei mezzi (se un elicottero ha una vita stabilita per un certo numero di ore di volo/anno, di sicuro in guerra non si risparmia) e infine di tutti quei costi sostenuti per la promozione e l’arruolamento (a distanza di anni non è più così alettante “farsi una missione”, anche se la paga è più che buona). Dal 2001 i morti tra le truppe italiane sono stati 40, nei primi otto mesi di quest’anno sono già cinque. In totale le truppe Isaf (cioè la coalizione a guida Nato) ed Enduring Freedom (quando gli Usa fanno per conto loro) sono adesso 140mila; secondo gli accordi di transizione, tra due anni e mezzo Isaf si ritirerà avendo passato il controllo in mano alle autorità afgane. Tuttavia si parla di una presenza sia degli Usa che di altri “volenterosi” per almeno altri dieci anni. Secondo i dati ufficiali della missione Onu, nel Paese 1.462 civili (cioè riconosciuti come assolutamente non assimilabili ai combattenti) sono morti nei primi sei mesi 2011. Con 368 vittime, il maggio di quest’anno è stato il peggiore dal 2007 (anno nel quale l’Onu ha iniziato a tenere questi conti), ma è un numero tutt’altro che affidabile, macroscopicamente inferiore alla realtà. E poi, sinceramente, non si può iniziare a contare dal 2007, la guerra è iniziata nel 2001, dieci anni fa.

Una vela per Emergency

Tiziano Rossetti partecipa alla Charente-Maritime/Bahia Transat 6,50, la traversata atlantica in solitaria su barca a vela da 6,5 metri. La diciottesima edizione ha preso il via domenica 25 settembre dalla costa francese. Destinazione: Salvador de Bahia, in Brasile, dopo più di un mese di navigazione. Tra i 72 partecipanti, skipper amatoriali e semiprofessionisti, di una decina di nazionalità diverse, uomini e donne, giovani e meno giovani. Buon vento a Tiziano e alla sua barca Una vela per Emergency.

Lettera a Teresa di

Fiorella Mannoia

Sono passati due anni, Teresa. Avremmo voluto tanto salire su questo palco stasera (questa lettera è stata letta durante l’incontro di Firenze, ndr ) con delle notizie migliori di quelle degli anni passati, ma qua non è cambiato niente, anzi, stiamo sprofondando in un baratro di idiozia, di follia, di inettitudine, di ignoranza. Francesco è stato preso, stiamo tutti in ansia e speriamo che lo rilascino presto. È morto un ragazzo, si chiamava Vittorio Arrigoni. Faceva del bene laggiù in Palestina. Lo hanno ammazzato. Ogni giorno qua c’è il toto-manovra, mi chiederai che cos’è, è difficile da spiegare (...). Lasciamo perdere Teresa, tanto a pagare sono sempre gli stessi. Nel Corno d’Africa muoiono come mosche, ma ai governi non interessa. Ah... dimenticavo, siamo andati a bombardare pure la Libia, sì Gheddafi, proprio lui, quello del baciamano, l’amico del cuore di... sì lui. Insomma adesso hanno deciso che è diventato nemico e lo stanno a bombardà. Teré è come per le altre guerre, je vojono fregà il petrolio, è inutile che te lo spiego. (...) Ma sapessi Teresa che sconforto. E quanta fatica cercare dentro di noi l’ottimismo necessario per credere di potercela fare. Resistere, resistere resistere ci diciamo, ma lo spettacolo desolante di questo governo e di questa opposizione ci mette a dura prova. Se sentissi il tuo amico padre Zanotelli come si arrabbia per queste spese militari (...). Dice che quello che più lascia esterrefatti e senza parole è il totale silenzio di destra e sinistra, dei media e dei vescovi italiani sul nostro bilancio della Difesa. È mai possibile che in questo Paese nel 2010 abbiamo speso per la Difesa ben 27 miliardi di euro cioè 76 milioni al giorno? Sono dati ufficiali, resi noti lo scorso maggio dall’autorevole Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma. (...) Ma non è finita Teresa, ai 27 miliardi del bilancio della Difesa 2010, dobbiamo aggiungere la decisione del governo, approvata dal parlamento, di spendere nei prossimi anni, altri 17 miliardi di euro per acquistare 131 cacciabombardieri F 35. (...) E siccome abbiamo un premier generoso, lo sai che quando hanno votato in parlamento sul rifinanziamento delle missioni di pace ci hanno messo dentro zitti zitti pure sei navi da guerra come regalo a Panama? (...) Se sommiamo questi soldi, vediamo che corrispondono alla manovra del 2012 e 2013. Potremmo recuperare buona parte dei soldi per la manovra, semplicemente tagliando le spese militari, cacchio. Ma il buon senso, Teresa cara, non è contemplato nella finanziaria. (...) Padre Zanotelli ci ricorda che Paolo VI amava dire che le folli somme spese in armi sono pane tolto ai poveri. E da cristiani come possiamo accettare che il governo italiano spenda 27 miliardi di euro in armi, mentre taglia 8 miliardi alla scuola e ai servizi sociali e alla cultura? (...) La guerra in Libia ci è costata già 700 milioni di euro! Come cittadini vogliamo sapere: che tipo di pressione fanno le industrie militari sul parlamento per ottenere commesse di armi? Quanto lucrano aziende come la Finmeccanica, l’IvecoFiat, la Oto-Melara, l’Alenia Aeronautica e le banche su tutto questo? Quanto va in tangenti ai partiti, al governo sulla vendita di armi all’estero? Perché altrimenti non si spiega il perché stanno tutti zitti! Non dimentichiamo che nel 2009 abbiamo esportato armi per un valore di quasi 5 miliardi di euro. (...) A queste cifre si aggiungono delle altre cifre ben più gravi, che sono quelle delle perdite di vite umane (...): i circa seimila soldati americani e i 1.200 delle truppe alleate tra i quali i 79 dei nostri militari, più quelli iracheni, quelli afghani quelli libici e cosí via. (...) Ma ben più impressionante è il numero di civili uccisi, e queste cifre tu le conosci bene Teresa (...): centoventicinquemila civili assassinati in Iraq, quattordicimila in Aghanistan, trentacinquemila in Pakistan, in sintesi la guerra globale al terrorismo scatenata dall’amministrazione degli Stati Uniti ha stroncato fino a oggi duecentoventicinquemila vite umane, e sono stime sicuramente in difetto, un numero imprecisato di feriti, e più di sette milioni di rifugiati. Ci sarebbe da discutere sui motivi reali di queste guerre, ma questa Teresa, lo sai, è un’altra storia. Nel frattempo Emergency è come l’hai lasciata, ora alle prese con il rilascio di Francesco, sempre sul campo, sempre con le mani nel sangue, sempre a riparare ciò che l’idiozia umana distrugge. Ciao Teresa.

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Voci da Firenze di

Alessandro Grandi

Raccontano della voglia di dire “basta” le voci degli esperti che si sono alzate a Firenze durante i dibattiti organizzati da E all’interno dell’incontro nazionale di Emergency che si è svolto dal 6 all’11 settembre. Basta con le guerre e con i conflitti che colpiscono troppo spesso la popolazione civile. Basta con l’abuso della violenza, che mai è risolutrice di diatribe e con il marketing della paura. Basta con le spese militari, inutili finanziamenti per strumenti di morte. E basta anche con l’informazione bugiarda, troppo spesso priva di fonti, che rappresenta la guerra quasi sempre in modo superficiale. Nei dibattiti organizzati dal nostro mensile si è parlato di tutto questo. Come ha ricordato l’inviato di Repubblica Giampaolo Cadalanu. «L’informazione falsa serve a galvanizzare, ma se le dichiarazioni senza fonte sono usate anche dai governi occidentali che hanno interessi in ballo, allora c’è da preoccuparsi. Il nostro lavoro è complicato e difficile, bisogna confrontare più fonti possibili». Come difficile e complicato è capire che cos’è un nemico e se questo esista davvero. Ma anche come si può usare lo strumento della paura per manipolare l’opinione pubblica. L’argomento è stato sottolineato da Mark Lacy, sociologo e professore dell’Università di Lancaster (Gran Bretagna) e che a Firenze ha messo l’accento sui diversi modi di usare la paura, sottolineando come spesso il potere «per fare in modo che le persone facciano propri certi valori, ne indirizza le opinioni, indicando come dobbiamo modificare il nostro modo di lavorare e via dicendo. A quel punto, i valori e il sistema li facciamo nostri». Lo strumento della paura inoltre – paura dell’altro, sia un immigrato o un rom – è diventato nel corso degli ultimi anni anche un’arma politica (è il caso di dirlo), per affrontare le campagne elettorali. Giuliano Pisapia, neoeletto sindaco di Milano e Matteo Renzi, sindaco di Firenze, presenti entrambi alla serata dal tema incandescente “Come ti invento un nemico”, ne sanno qualcosa. «Quel periodo è finito – dice il primo cittadino di Firenze – la vittoria di Pisapia e la sua campagna lo dimostrano». Pisapia, invece allarga l’orizzonte. «Abbiamo risposto ai manifesti di Zingaropoli con le poesie. E abbiamo vinto. Però, oggi, vivo nella paura che un fatto di cronaca possa turbare la si-

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tuazione, possa portare la tensione a un livello strumentale per qualcuno. A sinistra abbiamo sbagliato, rincorrendo la destra e ignorando la paura delle persone». Le voci provenienti da Firenze hanno anche approfondito altri argomenti. A tenere sveglia l’attenzione di una platea gremita di volontari provenienti da tutta Italia, ci ha pensato anche Paolo Busoni, storico militare che si è cimentato con un argomento provocatorio e per nulla banale: le spese militari. Comprare un F-35 (i famigerati velivoli caccia da guerra) oppure investire quei cento milioni di euro circa del suo costo per la costruzione di un asilo nido? «Con il risparmio delle spese militari si potrebbero fare tante cose. Ma la cosa fondamentale è iniziare a pensare a questi tagli. Non è mai stato fatto prima. E tutta la spesa militare è sempre stata considerata come ineluttabile. Possiamo per esempio iniziare a pensare che si possono cominciare a chiudere tutti gli enti militari inutili. Sarebbe un buon primo passo per la riduzione della spesa militare», ha spiegato Busoni. Lo stesso discorso affrontato da Leopoldo Nascia della rete Sbilanciamoci. «Se risparmiassimo denaro pubblico sulla spesa militare potremmo fare molte cose, come ripianare il debito sociale. Oppure occuparsi a fondo del welfare. Non è impossibile iniziare a ragionare sui tagli alla spesa militare e il loro eventuale riutilizzo. Sono cose fattibili sul breve periodo. Sarebbe corretto avvicinarsi quanto più possibile ai Paesi come Germania, Gran Bretagna e Francia che hanno ridotto le spese militari rispettivamente di 4,3, 5,3 e 5 miliardi di euro. I dati relativi ai tagli italiani invece sono contenuti».


Ian Gavan

Riccardo Scamarcio, Valeria Golino e Cecilia Strada

Reverso for Emergency

Sebastiano Pessina

Compie ottant’anni e si regala un bel gesto. Jaeger-LeCoultre, famosa marca di orologi di lusso, ha deciso di festeggiare il compleanno del Reverso, modello disegnato nel 1931, con un’edizione speciale dell’orologio che presenta sul retro del quadrante un grande cuore rosso con il logo di Emergency. È il simbolo del Salam Centre, il centro cardiologico all’avanguardia aperto dall’Ong a Khartum, in Sudan, che offre cure specialistiche e gratuite. Dieci interventi saranno finanziati dalla maison. L’iniziativa Reverso for Emergency, Jaeger-LeCoultre helps the Salam Centre è stata presentata nel corso dell’ultima Mostra del cinema di Venezia, da attori che hanno sfilato con una mano sul cuore e un Reverso al polso. Come dire: è l’ora di fare qualcosa.

Cristiana Capotondi ▲ ▼ Mariagrazia Cucinotta

Elena Sofia Ricci ▲ ▼ Silvio Orlando

Diego Abatantuono ▲ ▼ Valentina Lodovini


obiezione a lorsignori per inciso di

Gino Strada

foto Dino [buenavista]

Fracchia

È il 7 ottobre, serata fredda. In Panshir il cielo è trasparente anche dopo il tramonto, c’è ancora luce intorno alla valle a disegnare i contorni delle alte montagne dell’Hindukush già piene di neve. Arriva il buio, non c’è elettricità nel villaggio di Anabah. Siamo seduti su un tappeto intorno alla stufa, un piccolo generatore alimenta il nostro vecchio televisore e ci lascia inseguire le news: non ci succede quasi mai, ma questi sono giorni speciali, carichi di attesa. Un rumore cupo, un sordo borbottare fa da sottofondo allo scoppiettio del generatore. Non può essere un lontano temporale, ci guardiamo perplessi, adesso il nuovo rumore è più forte. Andiamo fuori nel giardino, e guardiamo in su. Nulla, a parte le stelle. Ma il suono adesso è intenso, continuo: aeroplani. «Bi penjà u du», esclama Jalil, sono B52. Bombardieri d’alta quota, sono circa le nove. Un quarto d’ora e i primi buuum, buuum e bagliori lontani. Le prime bombe della democrazia cadono intorno a Kabul. Era il 2001, dieci anni fa. L’inizio dell’aggressione militare all’Afghanistan, un nuovo crimine di guerra deciso dagli Stati Uniti d’America. Oggi, dieci anni dopo, quella guerra continua, anche con la partecipazione dell’Italia, voluta dai delinquenti politici (e dai “politici delinquenti”) di “sinistra” e di “destra”. Da dieci anni continuano quella guerra. ’Fanculo la Costituzione italiana e lo Statuto dell’Onu. E ’fanculo anche la volontà dei cittadini: mica bisognerà sentire il loro parere su questioni minori come portare il Paese in guerra, no? Lo decidono loro, la casta – o la banda – vergognosa degli “onorevoli”, quelli che dovrebbero dimettersi e tornare a casa propria (se avessero un minimo di etica e di dignità) oppure essere sbattuti in galera, se ci fosse ancora una possibilità di giustizia in Italia. Ignoranti (quanti di loro saprebbero parlare dell’Afghanistan per più di due minuti?), corrotti e servili, si sono buttati in quella guerra solo per compiacere gli Usa, per essere di serie A, tra quelli che sparano: padron comanda e asino trotta. In dieci anni i nostri “onorevoli” hanno speso per combattere in Afghanistan più di tre miliardi di euro. Prelevati dalle tasche dei cittadini italiani, che per molti sono sempre più vuote. «C’è la crisi», ci dicono. Bisogna «risanare l’economia», e lo si fa iniziando a tagliare i fondi per la scuola, per la sanità e per la ricerca. Ci descrivono la crisi come un flagello ricorrente, come la peste di molti secoli fa, anziché come l’inevitabile conseguenza delle loro azioni. Che possiamo fare noi cittadini per interrompere la deriva di inciviltà? Non darò mai più il mio voto a nessun partito che abbia sostenuto la guerra, ho deciso molti anni fa, e continuo a comportarmi così. Ma non mi basta più: mi fa schifo contribuire (essendo tra i contribuenti), dare soldi, anche solo un euro delle mie tasse, alla guerra. Tremonti e gli altri geni dell’economia potrebbero facilmente calcolare per me la percentuale delle tasse da non pagare per aver scelto “l’obiezione fiscale alle spese militari”. E se qualcuno proponesse una legge che regolamenti l’obiezione, che cosa succederebbe? Cercherebbero, destra e sinistra, di farla sparire tra calendarizzazioni e lavori in commissione, per non arrivare nemmeno alla discussione e risparmiarsi l’ennesima figura di merda. Perché i soldi spesi per la guerra sono un crimine contro la nostra Costituzione, e non è certo legittimo un governo che vuole obbligare i cittadini a violare la Costituzione. Lorsignori bruciano ogni anno 27 miliardi di euro delle nostre tasse in spese militari. E se provassimo a toglierglieli? Sono mediamente 620 euro all’anno per contribuente. Provate a immaginare se milioni di italiani compilassero così la propria dichiarazione dei redditi: praticando l’obiezione fiscale alle spese militari e specificando bene la causale del non-versamento. Che succederebbe?

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