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mensile - anno 3 numero 9 - settembre 2009

Attraverso il fantasma del Muro

Memorie, ricordi e attualità di un’Europa divisa in un viaggio di oltre cinquemila chilometri


Cronologia della Cortina

1945

1955

4-11 febbraio Conferenza di Yalta e 17 luglio Conferenza di Potsdam: l'Europa viene ridisegnata e il futuro della Germania si divide in due. L'Urss stabilisce la sua influenza sui Paesi dell'Europa Orientale.

Maggio, la Repubblica Federale Tedesca entra a far parte della Nato. La Ddr aderisce al Patto di Varsavia.

1946 5 marzo, al Westminster College di Fulton, nel Missouri, Winston Churchill pronuncia lo storico discorso antisovietico anticipando, a grandi linee, quella che sarà la Cortina di Ferro: “From Stettin in the Baltic to Trieste in the Adriatic an iron curtain has descended across the Continent. Behind that line lie all the capitals of the ancient states of Central and Eastern Europe. Warsaw, Berlin, Prague, Wien, Budapest, Belgrade, Bucharest and Sofia; all these famous cities and the populations around them lie in what I must call the Soviet sphere, and all are subject, in one form or another, not only to Soviet influence but to a very high and in some cases increasing measure of control from Moscow”.

1948 20 giugno Berlino Ovest rimane isolata per quasi undici mesi, fino al 12 maggio del 1949. L'Unione Sovietica blocca l'accesso agli Alleati che danno inizio al 'Ponte Aereo' per rifornire gli abitanti della città.

1949 I protettorati francese, britannico e statunitense vengono uniti: nasce la Repubblica Federale Tedesca (Brd) con capitale a Bonn. Dalla zona sovietica nasce la Repubblica Democratica Tedesca (Ddr). La capitale è Berlino Est.

1950 Sulle rive del fiume Oder, al confine con la Polonia, viene fondata la prima città di stampo sovietico in territorio tedesco. Si chiamerà Stalinstadt, città dell'acciaio. Dal 13 novembre del 1961 il nome viene cambiato in Eisenhuttenstadt.

1953 16-17 giugno. Lo sciopero degli operai edili a Berlino Est si trasforma velocemente in manifestazione di protesta contro il regime stalinista instaurato nella Ddr. La rivolta viene violentemente repressa dai carrarmati sovietici e dalla polizia tedesca che apre il fuoco sui manifestanti che sfilavano sulla Unter den Linden. 2

1956 28 giugno, i lavoratori di Poznam in Polonia scendono in strada per chiedere libertà e riforme. Attaccano gli uffici della polizia segreta, linciano i funzionari di partito e della polizia. La reazione comporta la morte di almeno sessanta lavoratori e il ferimento di altri duecento. 23 ottobre – 13 novembre, Budapest insorge e l'Unione Sovietica bombarda con l’artiglieria la città. Più di mille tank invadono le strade della capitale ungherese. Sono oltre tremila le persone che perdono la vita combattendo nelle strade.

1958 Novembre, si apre una profonda crisi tra Mosca e l'Occidente. Nikita Khrushchev pretende la smilitarizzazione di Berlino Ovest e lo status di 'città libera'.

1961 Nonostante le dichiarazioni di Ulbricht del giugno 1961 - “Nessuno ha intenzione di innalzare un muro” - il 13 agosto viene dato il via allo sbarramento delle frontiere di settore con Berlino Ovest e il 15 dello stesso mese vengono innalzate le prime sezioni del Muro. 24 agosto, un ventiquattrenne viene ucciso dalle guardie di frontiera. È la prima vittima del Muro. 27 ottobre, i tank sovietici e quelli statunitensi si fronteggiano su FriederichStrasse. Un muro viene innalzato anche nel centro di Modlareuth, un piccolo villaggio tra Turingia e Baviera. Diversamente da Berlino, a Modlareuth non viene istallato alcun check point. La popolazione è completamente separata.

1962 17 agosto Peter Fechter viene ferito durante un tentativo di fuga. Muore dissanguato nella 'Striscia della MortÈ sotto gli occhi dei Vopos che non gli prestano soccorso.

1968 Gennaio – agosto, in risposta ai propositi riformatori di Dubcek che diedero inizio alla cosiddetta Primavera di Praga, il 20 agosto le forze


del Patto di Varsavia, esclusa la Romania, invadono la Cecoslovacchia con 200 mila uomini e duemila tank. Il 21 agosto Praga torna sotto il controllo sovietico. Dubcek viene destituito e al suo posto viene messo Husak che avvia il processo di “normalizzazione”, il ritorno al socialismo puro.

1972 22 maggio, il presidente Usa Nixon in visita a Mosca sigla un accordo sul congelamento degli 'arsenali strategici' (Salt I)

1974 Ai mondiali di calcio le due Germanie sono nello stesso girone di qualificazione. In una partita memorabile, la Ddr batte la Germania dell'Ovest 1-0. Il goal della vittoria viene segnato da Sparwasser, giocatore del Magdeburgo e ottico alla Carl Zeiss di Jena.

1980 14 agosto sciopero nei cantieri di Danzica in Polonia. Solidarnosc guadagna ampi spazi tra i lavoratori.

1981 18 ottobre, il generale Jaruzelski, segretario del partito comunista polacco proclama lo stato d'assedio. Il 13 dicembre Solidarnosc viene dichiarata illegale da Jaruzelski. I leader del movimento sindacale, tra cui Lech Walesa, vengono imprigionati.

1982 14 novembre, Walesa viene liberato, la legge marziale revocata e il sindacato torna a fare attività politica.

1985 12 marzo, Gorbachev viene nominato segretario del Pcus

1986 Gorbachev lancia la Perestrojka e la Glasnost

1987 8 dicembre, Reagan e Gorbachev si incontrano a Washington per firma-

re il trattato per la riduzione degli armamenti nucleari. È la fine della 'guerra fredda'.

1989 19 gennaio, Erich Honecker dichiara che il Muro “rimarrà ancora per cinquanta o cento anni”, se non cambieranno le condizioni che lo hanno reso necessario. 5 febbraio, Chris Gueffroy, di vent'anni, viene ucciso mentre tenta di scappare a Berlino Ovest. È l'ultima vittima del Muro. 4 giugno, Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, vince le prime elezioni libere in Polonia dal dopoguerra, innescando la protesta contro i regimi comunisti in gran parte dell'Europa orientale. 19 agosto, a Sopron, Ungheria, viene organizzato un pic nic sul confine austriaco. Quasi 800 tedeschi dell'est passano dall'altro lato. È il più grande esodo di cittadini della Ddr dalla costruzione del Muro. 4 settembre, a Lipsia cominciano le Montagsdemonstrationen, le proteste del lunedì contro il Sed, il Partito Socialista Unitario. 11 settembre, la frontiera tra Ungheria e Austria viene definitivamente aperta. 30 settembre, il ministro degli Esteri della Repubblica Federale Tedesca parla ai 4500 cittadini rifugiatisi nell'ambasciata di Praga. Un treno li porterà in Germania dell'Ovest. 4 novembre, grande manifestazione a Berlino Est contro il governo di Honecker. 9 novembre, il Muro di Berlino passa alla storia. 16 novembre, a Bratislava ha inizio la “Rivoluzione di Velluto”, la rivoluzione pacifica che mette fine al regime comunista 16 dicembre, a Timisoara, in Romania, in migliaia si radunano intorno alla casa di Tokes per proteggerlo dai provvedimenti della Securitate. La rivolta scoppia nelle strade. In pochi giorni, la rivoluzione arriva fino a Bucarest. Il 25 dicembre, Ceaucescu viene giustiziato dopo un processo lampo.

1990 17 giugno, nove mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, anche quello di Modlareuth, conosciuta anche come la “Piccola Berlino”, viene tirato giù. 3 ottobre, viene ufficializzata la fine della Ddr e la Riunificazione tedesca.

1991 Dicembre, l'Unione Sovietica si dissolve. Al suo posto nasce la Cis, la Comunità di Stati Indipendenti. 3


Swinemunde Polonia

Una Cortina tutta Verde Di Luca Galassi Per venticinque anni non ha mai posseduto un'automobile. Un fatto insolito, per un docente di Politiche urbane e dei trasporti alla Libera università di Berlino. Un fatto meno sorprendente, se la persona in questione è Michael Cramer, deputato del parlamento a Berlino dal 1989 al 2004, parlamentare europeo dei Verdi, visionario. l suo sogno è diventato realtà vent'anni dopo la caduta del Muro, quando quel confine, lungo 6.800 chilometri, si è trasformato in una opportunità di condivisione, anzichè di divisione. Nel 2001 Cramer, euro-entusiasta, ottimista di natura e sportivo anche per formazione (ha insegnato educazione fisica nella sua città d'origine, Neukoelln), ha pubblicato il libro "The Berlin Wall Trail", guida ciclistica che si snoda per centosessanta chilometri lungo il quale sorgeva il muro di Berlino. Il volume è una raccolta della sua esperienza di ciclista nella capitale tedesca. Trent'anni senz'auto, girando in bicicletta, con autobus, tram, eventualmente taxi. Trent'anni durante i quali il Verde Cramer ha non solo documentato le condizioni dei ciclisti a Berlino, ma illustrato, attraverso tappe lungo la linea della Cortina, l'esatto tracciato del Muro, spesso cancellato, distrutto, scomparso tra le macerie, nascosto da capannoni industriali o sepolto dalla vegetazione. È anche grazie a lui se oggi i berlinesi possono fruire di una tra le più estese e sicure piste ciclabili urbane del mondo.

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ganizzazione ambientalista 'Croce Verde Internazionale’, ha offerto il suo volto e il suo impegno per patrocinare l'iniziativa. Incontriamo Cramer a Swinoujscie, Swinemunde in tedesco. Oggi cittadina polacca situata al confine con la Germania, Swinemunde sorge su un istmo di dune incontaminate che affaccia sul Baltico. Sulla spiaggia, lunga quaranta chilometri, sono ancora visibili i resti delle palizzate della rete che segnava la Cortina. Due chilometri fuori dal centro, il memoriale di guerra di Golm. I ciclisti sono arrivati qui dopo essere partiti all'alba in treno da Berlino. Alcune decine di chilometri nella natura intatta delle pianure irrigue della Pomerania Orientale prima di approdare alla quiete della collina di Golm. Un bosco di faggi e querce ombreggia le croci di legno che ricordano il tragico evento del dodici marzo '45, quando un treno stracolmo di feriti che attendevano di venire trasportati all'ospedale militare fu colpito dall'aviazione alleata. A mezzogiorno, oltre seicento caccia dell'Us Air Force ridussero la cittadina a un inferno. I morti furono quasi ventimila.

Il Berlin Wall Trail è così diventato un modo per fare esperienza della storia, della cultura, della politica di una città un tempo divisa. Il progetto si è esteso a livello nazionale qualche anno dopo, con la pubblicazione del 'German-German Trail', lungo il confine che divideva la Repubblica Federale da quella Democratica. Infine, vista la bontà dell'idea e i consensi acquisiti a livello istituzionale, il progetto è stato inserito nel rapporto Ue sulle "nuove prospettive e nuove sfide per un turismo europeo sostenibile" e adottato da venti Paesi, quattordici dei quali membri dell'Unione Europea. Gli sforzi di Cramer sono stati ricompensati con uno stanziamento di 300 mila euro da parte del Parlamento europeo, che finanziano un itinerario di tredici percorsi dedicati, dal Mar di Barents al Mar Nero. L'Iron Curtain Trail è diventato così parte di una nuova memoria collettiva europea, sensibile alla storia e alla natura, strumento utile a costruire e promuovere la tanto decantata identità del Vecchio Continente. Paradossalmente, a causa del loro 'isolamento', molti tratti di quella terra di nessuno che correva lungo la Cortina sono diventati in modo spontaneo una cintura verde naturalistica di rilievo, habitat unico per piante e animali. Dal 2002, anche Michail Gorbaciov, ex presidente dell'Unione Sovietica e fondatore dell'or-

el cuore del bosco di Golm, è installato un catino di cemento circolare, all'interno del quale alcune lettere di ferro compongono la frase "Dass nie eine Mutter mehr Ihren Sohn beweint" (che nessuna madre pianga mai più il proprio figlio). È una strofa dell'inno della Repubblica Democratica Tedesca, scritto da Johannes Becher, pacifista convinto, esule a Mosca durante gli anni del nazismo. L'inno fa riferimento all'unità tedesca, ma dopo l'erezione del Muro le autorità della Germania orientale, con il passaggio del potere a Erich Honecker (negli anni Settanta), si limitarono ad eseguirne la musica, omettendo le parole cariche di fiducia di Becher. "Che nessuna madre pianga mai più il proprio figlio": una frase che esprimeva le ingenue speranze dell'autore quando, al ritorno dalla Russia, egli si augurava una Germania nuovamente unita e un lungo dopoguerra di pace. Non fu così. Durante la Guerra Fredda, le persone uccise nel tentativo di attraversare il confine da Est a Ovest furono duecentotrenta lungo il muro di Berlino, seicentocinquanta lungo il confine tra le due Germanie. Ventisette i militari

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Michael Cramer. Swinemunde, Polonia 2009. Foto di Samuele Pellecchia / Prospekt


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L’Europa in bicicletta

Il percorso dell'itinerario ciclistico sulla rotta della Cortina di Ferro pubblicato nel libro 'The Iron Curtain Trail' e scaricabile da internet sul sito http://www.ironcurtaintrail.eu/en/, è attualmente un 'work in progress'. Molte tappe sono state già sperimentate e percorse da Cramer e 'colleghi', ma la maggior parte dell'itinerario è una proposta della migliore strada possibile tra quelle non ancora rese interamente ciclabili. L'itinerario comincia dalle sponde del Mar di Barents, nella città norvegese di Kirkenes, al confine con la regione russa di Murmansk. Scende nell'entroterra lungo il confine russo-finlandese, attraversa la penisola di Kola prima di riaffacciarsi sul mare, questa volta il Baltico. I Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania)

vengono tratteggiati sulla linea costiera, così come la Polonia e l'enclave russa di Kaliningrad. Dal porto di Lubecca, ex Germania Est, il ciclista percorre tutta la vecchia frontiera tedesca tra Repubblica Federale e Repubblica Democratica, fino al punto dove Sassonia, Baviera e Repubblica Ceca si incontrano. Da qui penetra nelle foreste boeme, oltre Moravia e Bratislava, attraversando il Danubio a Vienna. Prosegue per l'Ungheria meridionale lungo il confine con i Paesi della exYugoslavia (Slovenia, Croazia e Serbia). Infine, si salda al corso del Danubio tra Romania e Serbia, per distaccarsene all'ingresso in Bulgaria e Macedonia. Gli ultimi due Stati che tocca sono Grecia e Turchia, mentre la destinazione finale è la città di Tsarevo, sulle coste del Mar Nero. L'itinerario, lungo quasi settemila chilometri, si addentra in numerosi parchi nazionali e combina un'ampia serie di paesaggi unici, in larga misura

dell'Est uccisi in scontri a fuoco con persone in fuga, soldati americani o polizia dell'Ovest. I feriti quasi un migliaio. "A dire il vero, quando il Muro è caduto io stavo lavorando", racconta Cramer. "Il nove novembre del 1989 ero nella Camera dei deputati di Berlino, dove sono stato fino alle dieci di sera. Non avevo modo di sentire la radio, e la notizia l'ho appresa solo quando sono arrivato a casa. 'Sai che stanno aprendo i cancelli e migliaia di persone dalla 'zona' (Berlino Est, ndr) stanno entrando nella parte occidentale della città?', mi hanno detto. Non ci credevo, come nessuno ci credeva. Dopo, tutto è stato meraviglioso. Il dieci novembre è stata indetta una riunione straordinaria del Parlamento cittadino. Willy Brandt (Cancelliere della Rft e Premio Nobel per la pace nel 1971 per la politica della distensione, ndr) ha fatto un discorso entusiasmante. Ha detto: dobbiamo preservare alcune parti di questo mostro così come abbiamo preservato alcune parti del nostro passato più buio, affinchè non si ripetano". Cramer, in qualità di responsabile della mobilità e dei trasporti, si trovò da subito coinvolto in una sfida piena di incognite, ma avvincente: collegare le due parti di Berlino, da anni divise. Escogitare connessioni tra la rete tranviaria di Berlino Est e quella metropolitana di Berlino Ovest. "Essere coinvolto in un fenomeno storico di quel tipo è stata un'esperienza meravigliosa, specie se si è di Berlino, specie se si ha lavorato a lungo nel suo tessuto urbano, come io ho fatto per quindici anni". insegnamento del muro è stato esemplare: se il popolo è abbastanza coraggioso da combattere contro un governo ostile, allora le cose possono cambiare. Questo abbiamo imparato. La caduta del muro di Berlino ha fissato l'esempio per le generazioni future. Oggi sappiamo che ci sono incontri, dialoghi, confronti in corso per abbattere anche il muro che divide Cipro in due. E magari presto accadrà la stessa cosa anche per altri muri, nel mondo. La memoria di Berlino ci ha insegnato questo. Non è una mia massima, lo so, ma vado ripetendolo da sempre: solo le persone che conoscono il passato possono controllare il futuro".

“L’

L'iniziativa proposta da Cramer fa tornare alla mente una parola (e una filosofia) molto in voga negli anni '90, l''eco-turismo'. Abbiamo chiesto al parlamentare europeo dei Verdi, membro della Commissione Trasporti e Turismo, se in un'Europa altamente interconnessa, e sempre più inquinata, il turista indipendente può ancora permettersi di trovare località dove praticare un turismo realmente ecologico e sostenibile. “Il turismo è un tema orizzontale – spiega Cramer – che coinvolge diversi settori, e riveste enorme rilevanza economica. Parlare di turismo è parlare di trasporti, eredità culturali, tutela della natura, gestione dell'acqua e dei rifiuti, energia e condizioni sociali. L'eco-turismo dovrebbe includere un approccio sostenibile e bilanciato a tutti questi temi. Il potenziale è enorme, ma in Paesi come Italia e Grecia, per citare due esempi in cui si è ancora molto indietro in materia di sostenibilità, si fatica a rendersene 6

ancora incontaminati proprio a causa della loro vicinanza alla confine e alle relative zone-cuscinetto. L'Iron Curtain Trail incontra sul suo percorso un gran numero di memoriali sia della Prima che della Seconda Guerra mondiale, musei, strutture all'aria aperta che commemorano più di sessant'anni di divisioni del Vecchio Continente e il modo in cui queste divisioni sono state superate, spesso con rivoluzioni pacifiche, in special modo nell'Europa Centrale e Orientale. Il percorso si snoda su tracciati viari già esistenti, strade asfaltate, sentieri, e in molti tratti è indicato con pali e cartelli. Anche se le alternative rispetto al tracciato sono numerose, sia nel suo lato occidentale che in quello orientale, sia in prossimità del confine tra due Stati che lontano da esso, il cammino suggerito è quello il più aderente possibile alla linea originaria della Cortina di Ferro, su strade poco trafficate e percorribili agevolmente in bicicletta.

conto. I mezzi di trasporto, prima di tutto, dovrebbero diventare sostenibili. Questo non porterebbe solo benefici economici ed ecologici per gli utenti, ma soprattutto per le popolazioni locali. Specialmente in Paesi ricchi di patrimonio culturale, di località storico-archeologiche, di monumenti come, appunto, Grecia e Italia. Sono, queste, aree che vanno protette, anche da turisti irresponsabili. I turisti andrebbero guidati, orientati all'interno dei percorsi, per evitare che vi arrechino danni irreparabili. Poi c'è la questione delle energie rinnovabili. Anche qui il potenziale è enorme, ma le scelte non sembrano essere lungimiranti. Studi scientifici hanno dimostrato che il 60 percento del consumo totale di energia (escludendo i mezzi di trasporto) potrebbe essere coperto dalle energie rinnovabili: quella eolica, geotermica e solare. A mio parere, in Europa ogni destinazione potrebbe essere una eco-destinazione, se si rispettano i criteri di sostenibilità che ho menzionato. Guardiamo, ad esempio, la Cortina. Il fatto che l'area contingua alla barriera di separazione non sia stata attraversata o frequentata per anni ha giovato, in termini naturalistici, alla preservazione di un habitat. In alcuni casi lo ha completamente ricreato”. ggi, non rimane quasi niente lungo quella che era stata definita la 'striscia della morte’: reticolati, torrette, cancelli, filo spinato rimangono solo in brevissimi tratti, per il piacere del turista. Ciò che il Patto di Varsavia aveva glorificato come una barriera di protezione anti-fascista era visto in Occidente come un simbolo della mancanza di libertà dei regimi socialisti. “Ciascuno aveva un proprio modo di vedere le cose – continua Cramer -. Noi abbiamo trovato un modo per far tornare alla vita un passato che rischia di essere dimenticato, occupando quei luoghi e proponendoli sotto una veste completamente nuova: la Cortina di Ferro come pista ciclabile in mezzo al verde. Nelle sue prime fasi di progettazione l'iniziativa era vista con un po' di sospetto. Ma per convincere parlamentari e cittadini europei è bastato proporre il modello, sperimentato con successo, del turismo ciclabile applicato a una città come Berlino. Quando i turisti arrivano nella capitale tedesca si chiedono: dov'è il Muro? Poiché gran parte della città è cambiata così rapidamente negli ultimi vent'anni, è diventato difficile trovare traccia delle sue vestigia storiche. Oggi i turisti possono percorrere in bicicletta centosessanta chilometri a Berlino Ovest, osservare i cambiamenti urbanistici, apprezzare i monumenti, o ciò che ne rimane, lungo la linea della Cortina. Ebbene, passare dal Berlin Trail ai quattromila chilometri del German-German Trail fino ai 6.800 chilometri dell'European Trail è stato – come dire – una volata vincente. Contrariamente però ai due precedenti, per ovvi motivi non ho potuto percorrere da solo l'itinerario europeo. Il mio ringraziamento va quindi agli amici e ai collaboratori che l'hanno fatto per me, in tutta Europa”.

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In alto e in basso: Il memoriale di Golm. Swinemunde, Polonia 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter


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I cinque sensi Illustrazioni di Davide Toffolo

Udito Il silenzio dei boschi di querce tra Germania e Polonia, interrotto solo dal filtrare del vento tra le fronde. Lo sferragliare delle gru nei cantieri navali di Danzica, un tempo i più grandi d'Europa. Nelle vivaci città del Baltico, Riga e Tallin, l'allegro vociare degli avventori dei pub, cordiali con i visitatori e gli stranieri. L'orecchio, in questi Paesi, è sopraffatto da una lingua incomprensibile. Gli idiomi di Lettonia e Lituania, pur essendo di origine indo-europea, preservano infatti numerose caratteristiche arcaiche. L'estone è l'unica lingua baltica che non deriva dal ceppo indoeuropeo, ma da quello ugro-finnico. Per questo è possibile ravvisarvi qualche parentela con il finlandese. Ma chi volesse accingersi a una conversazione, anche elementare, con un estone, dovrebbe imparare ex-novo vocaboli sconosciuti: andare, per esempio, si dice 'minna', pesce è 'kala', occhio 'silm'. Anche per i numeri, le difficoltà non sono poche: uks (uno), kaks (due), kolm (tre). Le campane delle chiese ortodosse, e soprattutto i canti della liturgia della piccola comunità di Mustvee, sul lago estone di Peipus. Qui le parole e la melodia sono legate una con l'altra. Qui i padri della Chiesa insegnavano: "Che la tua voce canti, e che la tua mente diligentemente rifletta sul canto". Il contenuto dei canti della Chiesa ortodossa corrisponde strettamente alla dogmatica, ai fondamenti della fede. Per questo i canti giocano lo stesso ruolo che la pittura o le icone nel tempio: spiegano, insegnano le verità dell'Ortodossia. Come nei Paesi Baltici, a Murmansk, sopra il Circolo 8

Polare artico, l'udito è parimenti colpito da un'idioma poco familiare a un locutore di lingua romanza. Ma ciò che calamita maggiormente l'attenzione sono la musica delle parate e i canti patriottici. Improntata a una forte tradizione militarista, la città si trasforma durante la Festa della Vittoria, celebrazione, quest'ultima, della vittoria contro il nazifascismo: marce e marcette abbondano per giorni, intonate sia dalle bande militari ufficiali che da gruppi amatoriali con fisarmoniche, chitarre, tamburi. Inoltre, nella zona del porto commerciale di Murmansk, formazioni improvvisate intonano melodie canore tradizionali, canti popolari a sola voce che fanno da contraltare al passaggio metallico di vagoni carichi di carbone o al cigolio sinistro delle enormi gru che sovrastano i cargo mercantili su cui vengono caricati migliaia di container.

Vista L'istmo sabbioso che cinge la laguna di Curonia tra Kaliningrad e la Lituania, abbagliante di riflessi marini e sferzato dal vento è una delle zone costiere più suggestive del Baltico. Patrimonio mondiale dell'umanità, il Parco nazionale ospita una grande varietà di flora e fauna (tra cui 55 specie di farfalle e una foresta di pini che si estende per oltre 50 chilometri). Le sterminate pianure baltiche che si estendono dalla Pomerania all'Estonia, ricoperte da un fittissimo manto di betulle e querce. I boschi della Polonia orientale offrono la caratteristica di foresta primordiale. Il livello inferiore della vegetazione è formato da

boschi di abeti bianchi e di faggi, di abeti rossi e di aceri, mentre nella parte superiore domina l'abete rosso con il corbo selvatico ed ancora piú su il pino nano. Nei boschi polacchi non è raro avvistare cervi, lupi, linci; fra gli uccelli, il gallo cedrone è uno degli animali più rari in territorio polacco. Man mano che ci si addentra nelle regioni più orientali, cominciano a spuntare le prime avvisaglie dell'architettura del socialismo reale. Prima isolati, disseminati quasi per caso nelle periferie cittadine delle città baltiche, passato il confine tra Estonia e Russia a Narva-Ivangorod, cominciano lunghe serie di palazzoni e giganteschi monumenti in puro stile sovietico che hanno resistito al tempo. Statue dei padri della rivoluzione, di poeti, di ingegneri, di astronauti sono collocati al centro di piazze contornate da una corona di blocchi di cemento armato. Sugli edifici governativi, i parlamenti locali, le stazioni di polizia, gli uffici dell'amministrazione pubblica svettano stelle rosse ed effigi con falce e martello. La periferia di San Pietroburgo è un'orizzonte di condomini che emergono a distanza quasi a formare muri grigi, massicci e compatti, un vero e proprio orizzonte di cemento che per il tempo e l'incuria sta iniziando a sgretolarsi. A San Pietroburgo, l'orizzonte è invece popolato di visioni, che prendono corpo nei lunghi viali chiamati prospekt, prospettiva. Architetti italiani concepirono l'urbanistica della città con sfarzose dimore e lunghissimi e spaziosi corsi rettilinei che l'attraversano, rendendola topograficamente unica rispetto a tutte le altre città dell'Est Europa. Secondo lo zar Pietro il Grande, che fondò San Pietroburgo - 'città astratta e premeditata' come la definì


Dostoevskij - rettilineo era infatti sinonimo di razionale. Dalle prospettive lo sguardo si perde, per terminare nelle magnificenze dei palazzi imperiali: Ermitage, Palazzo d'Inverno, Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo.

Gusto Zuppe, selvaggina, pesce, sono le specialità di Paesi Baltici e Russia. In quest'ultimo Paese le varietà abbondano, ma tra le più saporite spiccano la solyianka, o la borsch, la prima con manzo a pezzetti, olive nere, alloro e verdure varie, la seconda solo con rape, cipolle, aglio e aceto di vino. La cucina di Estonia, Lettonia e Lituania è invece mezza russa e mezza germanica, molto saporita e appositamente elaborata per combattere il rigido clima invernale. È tuttavia comune trovare piatti ad alto contenuto calorico anche nella stagione estiva. Lo stinco di porco arrosto abbonda su ogni tavola dell'entroterra, mentre nella zona costiera il salmone e le aringhe sono le specie ittiche più cucinate. Generalmente cucinati in modo semplice e poco speziato, per i palati più esigenti esistono anche piatti che abbinano – come si suol dire – mare e monti: l'anguilla marinata con fois gras, l'halibut con crema di asparagi e il confit di maialino con salsa al miele e vino. In Estonia, a causa del tradizionale legame con la Finlandia, sono frequenti 'prestiti' scandinavi: le verdure, bollite o disposte in insalata e condite con varie salse. Tali pasti vengono solitamente accompagnati da pane secco e sottile, e da birra. In Polonia il piatto nazionale è la barszcz, zuppa di barbabietole e ravioli con farcitura di funghi o di carne. Altre

varietà di minestre sono la zurek, a base di farina di segale acida, accompagnata da uovo sodo e salume a pezzetti, sulla falsariga della solyianka russa, e la chlodnik, minestra fredda di latte cagliato con foglie di barbabietola, erba cipollina ed altre verdure fresche, come cetrioli eravanelli. Ma le portate più comuni a tutte queste regioni sono lo stufato di carne, cavoli e crauti, che in alcune varianti, come quella lituana, è arricchito con prugne secche ed altre spezie, e i piatti di selvaggina: arrosto di lepre, capriolo, cinghiale e uccelli selvatici.

Olfatto Gli aromi tipici dell'Europa nord-orientale sono quelli del sottobosco, essendo gran parte della regione ricoperta da foreste. Muschio, funghi, frutti di bosco, erbe aromatiche crescono quasi ovunque. Nei piccoli paesini di provincia, l'odore stantio delle vecchie botteghe dove è ammassato ogni genere di mercanzia. L'aria salmastra del Mar Baltico, mista al gasolio e ai rottami ferrosi nei cantieri di Danzica e addolcita dalla resina dei pini nella laguna di Curonia. Ovunque, ai lati delle strade che tagliano le foreste, gli effluvi irresistibili della carne cotta alla griglia nelle stazioni di sosta. Oltrepassato il confine dell'Unione Europea, in ogni locale, che sia ufficio pubblico, centro commerciale o bar, predomina quello del fumo di sigaretta, essendo ancora consentito fumare. A Murmansk, il porto, con le esalazioni di nafta delle navi commerciali, l'odore antico del carbone, del legno, quello ferrigno dei vagoni e dei binari della stazione, vecchia di quasi cent'anni.

Tatto Toccare i reperti bellici della Seconda Guerra mondiale, di cui l'Europa dell'Est e la Russia sono costellate, è un'operazione a metà tra l'accarezzare un reperto archeologico e sfiorare un oggetto che spesso è stato l'ultimo imbracciato, o indossato, dalla persona deceduta nel conflitto. Nel forte prussiano numero uno, alle porte di Kaliningrad, è possibile imbattersi in fucili, pistole, elmetti, mitragliatrici. Si tratta di un museo, dove i reperti continuano a venire alla luce perchè per anni il forte è rimasto in uno stato di abbandono. Toccare ciascuno di questi oggetti provoca sensazioni particolari. Qui sono stati ritrovati modelli che sembrano ancora nuovi. La mano corre in particolare sul corpo di un fucile sovietico Mosin Nagant, perfettamente conservato. Un'arma quasi interamente costruita in legno massello, completamente levigato, oppure si appoggia sull'elmetto arrugginito di un soldato tedesco, indugiando sull'imbottitura interna e sui fori di un proiettile che probabilmente è stato fatale per chi lo indossava. Un'uniforme dell'Armata Rossa del '45 è un indumento sia scomodo che pesante. Molto caldo, ma prodotto con una lana grezza irritante al tatto. Sempre in questa regione, anche altri oggetti legano al passato la loro 'fortuna'. A un passato particolarmente remoto, specie se parliamo d'ambra. Le miniere del Mar Baltico sono le più grandi del mondo. La resina liscia e diafana, che tra le mani esercita il peso di una leggera pietra, ha 40 milioni di anni. Al suo interno, non è infrequente scorgere insetti, fermi al Giurassico, come vetrificati. 9


Kaliningrad Russia

Koenigsberg perdonami Di Luca Galassi Si racconta che i cittadini di Koenigsberg fossero soliti regolare gli orologi alla vista del filosofo Immanuel Kant, uomo talmente metodico da non sbagliare mai l'orario delle sue passeggiate lungo le strade della città. La Koenigsberg nella quale Kant nacque, visse e morì, oggi non esiste più. ra una tra le più fiorenti e meravigliose città dell'impero prussiano, del quale divenne capitale. Fondata nel 1254 dai Cavalieri teutonici, nel Medioevo e nel Rinascimento fu centro di intensi commerci con Londra e Novgorod, allora seconda città dell'impero russo. Fiorì e si sviluppò, Koenigsberg, fino a diventare la perla architettonica della Prussia Orientale, porto sul Baltico circondato da una natura intatta e coronato dalle splendide dune di Kurshskaya Kosa, oggi patrimonio mondiale dell'Unesco.

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Koenigsberg perse per sempre la sua storia, la sua dignità e il suo nome dopo 500 tonnellate di bombe britanniche piovute da un cielo in tempesta nell'estate del '44 e tre giorni di assedio sovietico nell'aprile del '45 (morirono 46 mila soldati tedeschi e 60 mila sovietici). Delle mura fortificate, del castello, della cattedrale, dell'università Albertina, dei quartieri di Altstadt, Löbenicht, Kneiphof non rimane memoria. Un destino inflitto a Koenigsberg prima da Londra, per vendetta contro il bombardamento tedesco di Coventry, poi perchè gli Alleati sapevano, dopo Yalta, che la città sarebbe diventata di Stalin. Non volevano lasciargli un simile gioiello. La condanna a morte di Kaliningrad fu completata dai sovietici, attraverso una delle più feroci pulizie etniche della Seconda Guerra mondiale e la completa russificazione della regione. L'85 percento della città fu distrutta e 200 mila cittadini (dei 316 mila che la abitavano prima della guerra) furono cacciati in Germania o deportati in Siberia. Molti altri morirono nei bombardamenti o nell'assedio. Dopo essere stata ribattezzata Kaliningrad nel 1946, in onore dell'amico di Lenin Michail Kalinin, un membro del Politburo che mai visitò questi luoghi, la sua urbanistica seguì il triste destino di molte città sovietiche. Ci pensarono gli architetti del realismo socialista a violentare ciò che rimaneva della città illustre, quasi in segno di spregio verso i vinti. Atlantide sprofondata nell'Europa centrale senza lasciar traccia, Koenisgberg cessò definitivamente di esistere dopo la Seconda Guerra mondiale. Durante gli anni della Guerra Fredda, molte aree di Kaliningrad sono rimaste zone militari chiuse, baluardi difensivi, cannoni puntati contro l'Occidente. Anche se dopo la caduta del comunismo decine di migliaia di militari sono stati trasferiti, la città, e in special modo il suo porto, è ancora pesantemente militarizzata. Lo scalo di Baltiysk, 30 chilometri a ovest della città, è la sede della Flotta del Mar Baltico. Insieme al porto commerciale di Kaliningrad, è l'unico scalo russo sul Baltico navigabile tutto l'anno. Kaliningrad, exclave russa precipitata in Europa nel 1946, ha oggi un pro10

blema di identità: disseppellire il suo passato germanico, continuare a gloriarsi della sua manifesta russicità o plasmare con coraggio un futuro nuovo ed europeista? Sfrontatamente, la città sta facendo tutte e tre le cose, con un risultato imprevedibile. La sensazione, attraversando Leninsky Prospekt, la principale arteria che conduce dritto dritto all'imponente hotel Kaliningrad, è di sentirsi a tutti gli effetti in una città russa. Ma ad ogni angolo, seminascoste, emergono le contraddizioni tra ciò che rimane di Koenigsberg (due o tre porte medioevali, la cattedrale ricostruita, qualche forte prussiano in periferia) e la realtà di un'exclave dove anche Putin veniva spesso in vacanza (essendone la moglie Ludmila originaria): una città aperta, liberale, orientata a Occidente più di quanto qualsiasi altra città della grande Madre Russia ambirebbe a essere. I russi vengono qui in villeggiatura, nei resort in riva al Baltico a gustare sgombri affumicati, a visitare le dune sabbiose più alte d'Europa o ad acquistare l'ambra proveniente dalle miniere più estese del mondo. Con la preziosa resina del Giurassico fu costruita la celebre Camera d'ambra del Palazzo d'Estate di San Pietroburgo, sontuoso regalo dei prussiani allo zar Pietro il Grande che la Wehrmacht trafugò alle porte della città assediata nel 1941. Come Koenigsberg, quel tesoro scomparve senza lasciare traccia. nessun occidentale era consentito l'ingresso a Kaliningrad durante il regime sovietico. Dopo il collasso dell'impero, Mosca ha escogitato una serie di piani di 'restyling' per lo storico avamposto militare. Yeltsin vedeva Kaliningrad come la Hong Kong russa, una zona di libero scambio per attirare gli investitori stranieri. Putin voleva avvicinarla alla Russia, costruirvi un impianto nucleare che esportasse energia in Europa. Tra le idee più bizzarre anche quella di trasformarla in un tempio del gioco stile Las-Vegas, con una costellazione di resort di lusso. In risposta allo scudo missilistico statunitense in Repubblica Ceca e Polonia, Medvedev ha infine dichiarato che vi avrebbe installato i missili a corto raggio Iskander. Semplice retorica, forse. Una carta da giocare nelle trattative con Obama, a monito del fatto che i rapporti Russia e Nato non sono per nulla in acque placide, specie dopo il conflitto in Ossezia. Cosa rappresenta Kaliningrad per Mosca? È una finestra aperta sull’Europa o l'ultimo avamposto per difendere l'onore della Grande Madre Russia? Qui numerosi cittadini dichiarano di sentirsi più vicini a Berlino che a Mosca. I legami con l’Europa

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Monumento alla maternità. Kaliningrad, Russia 2009. Foto di Samuele Pellecchia / Prospekt


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– con il suo fascino culturale e la sua centralità economica – hanno fatto sì che le reazioni all’annuncio di Medvedev sul dispiegamento dei missili fossero variegate. Ma un sondaggio della 'Public Opinion' di Mosca conforta la tesi di chi considera Kaliningrad ancora fieramente russa: oltre il 60 percento non obietta allo schieramento degli Iskander. Dalla caduta del Muro di Berlino, a Kaliningrad è infuriato il dibattito sulla toponomastica. Lasciare il nome attuale, chiamarla nuovamente Koenigsberg o trovarle un nuovo nome? Alcuni cittadini vorrebbero alleviare il peso storico e morale che la città è costretta a scontare con un simile nome, epitome di infamia, tradimento e vergogna. Michail Kalinin, fedelissimo di Stalin, firmò centinaia di condanne a morte di persone innocenti. Insieme agli altri membri del Politburo, affisse il suo sigillo all'omicidio della foresta di Katyn, dove furono trucidati a sangue freddo 20 mila polacchi nell'invasione sovietica del 1940. Quando la moglie fu rinchiusa per anni in un gulag, egli non fece nulla per salvarla. Tornare al nome prussiano potrebbe portare con sé paure – mai sopite nell'animo dei russi – di una possibile ri-germanizzazione e di un virtuale separatismo da Mosca. Ma legami sociali e culturali con la Russia sono solidi, e gli interessi economici la tengono indissolubilmente legata a Mosca. Oggi, solo il dieci per cento dei suoi abitanti vorrebbe entrare nell'Unione Europea. ho chiamato 'Koenigsberg perdonami', il mio libro di fotografie, anche se il nome più appropriato avrebbe dovuto essere 'Koenigsberg addio'. Perchè ciò che di poco rimaneva, in termini storici e culturali, della città prima della guerra, è sempre stato terreno di battaglia di politici, amministratori e storici, che mai hanno trovato un accordo su come interpretare il prima, inquadrandolo in una prospettiva presente e futura. In questo senso, il passato di Kaliningrad è stato una vittima designata”. Dmitriy Bishenevskiy, fotografo, uno dei 'custodi non riconosciuti' della memoria dell'exclave, sembra quasi stupito che qualcuno si interessi ai problemi dell'identità del luogo dove è nato. Ha iniziato la sua carriera artistica scrivendo poesie. Poi – confessa – l'impulso creativo si inaridiva man mano che la città si occidentalizzava. “Tramite le foto, ho cercato di fare un sintesi del difficile processo di rielaborazione storica del passato di questo luogo, al termine del quale ho ricevuto conferma che la cultura precedente non ci sarà più, né che sarà più possibile ricostruirla. Ma dalla regione doveva comunque emergere qualcosa di positivo. Solo quando nella mia mente sono nate le parole 'Koenigsberg perdonami', anzichè 'Koenigsberg addio', ho realizzato che questo era un mezzo per poter uscire da una crisi culturale e di recuperare tale cultura”. Dov'era quando è caduto il muro di Berlino? “Ero a Kaliningrad. In quel tempo ho fatto di tutto per demolire il muro a distanza. Credo di aver fatto parte di un collettivo di giovani sovietici che non volevano vivere secondo i modelli arcaici, ma che tuttavia non sapevano neppure come vivere in modo nuovo”. Come è stata avvertita la caduta del muro a Kaliningrad? “È sempre stata una città più libera nelle relazioni internazionali, con maggiore possibilità di comunicazione con altri paesi. Città di marinai. Chi tornava a casa dopo i lunghi viaggi intorno al mondo portava merci, prodotti, informazioni sul resto del mondo. Così gli abitanti di Kaliningrad avevano più contatti con l'esterno rispetto agli altri russi. Tanto per dire, in epoca sovietica c'erano più jeans a Kaliningrad che altrove. Intendo 'jeans' come modo di vivere”. Si sente europeo, Dmitry? “Vivo in uno stato di confine, vorrei essere più europeo di quanto non mi senta. Dall'altra parte mi dispiace di essere così lontano rispetto alla cultura russa”. Ha sempre voluto fare il fotografo? “No, da bambino volevo essere un viaggiatore”. È curioso il fatto che sognava di viaggiare e oggi si trova su un'isola. “Il paradosso è che amo viaggiare nella regione di Kaliningrad. È un posto fantastico, per un fotografo. La regione offre moltissimi temi. Con una sola foto, qui si può raccontare una storia intera, anzichè narrare attraverso più immagini. I miei soggetti preferiti sono i paesaggi urbani, brani di territorio che hanno una forte carica storica, culturale e sociale”. Sente un dovere morale il fatto di rimanere qui? “Uno scrittore famoso scriveva: siamo responsabili di quelli o di quello che abbiamo adottato. Io mi sento responsabile di questa terra. So benissimo che molte persone non accettano le conclusioni a cui arriva il mio lavoro fotografico. Ma lo faccio consapevolmente, in armonia con me stesso.

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Da un lato sono parte integrante di questa storia, dall'altro mi sento come un chirurgo che opera un intervento molto complicato di 'trasferimento dell'anima'. La città dopo la guerra era un corpo senza vita, un cadavere. Per farlo vivere bisognava soffiargli dentro un'anima. Se parliamo del periodo sovietico, questo non esiste più. La responsabilità del mio mestiere risiede nell'intervenire su questo cadavere per dargli un cuore. I fotografi possono essere responsabili più dei chirurghi, nell'impiantare un cuore”. Com'era fare il fotografo in epoca sovietica? “Quando ho smesso di scrivere poesie mi sono accorto che il massimo della libertà sarebbe stato diventare fotografo. Ma molto presto ho capito che lavorare per il giornalismo era lavorare per il giornalismo comunista. Non c'era altro giornalismo. Era molto difficile non diventare uno strumento nelle mani di qualcuno. Io e altri colleghi abbiamo cercato di trovare una via alternativa. E forse l'abbiamo trovata”. Fuori dal centro, un forte prussiano ha resistito alla devastazione della guerra. È il forte numero uno, teatro di sanguinosi scontri tra la Wehrmacht e l'Armata Rossa. Un clandestino lituano, con il tacito consenso delle autorità, lo ha eletto a suo 'rifugio'. Ci abita con moglie e figlio, recluso volontario e asceta al contempo, inesorabile nella sua missione: preservare il passato germanico di Kaliningrad. Questo improvvisato custode della Storia a sera trova riposo tra i cimeli di guerra (elmetti, granate, mitragliatrici, bombe inesplose) dopo che anche l'ultima scolaresca ha terminato la visita al forte-museo. Sullo sfondo di un'enorme tenda da campo, Stanislav Larushionis il dissidente, il reietto, ha trovato qui il suo posto nella vita. ire che sono venuto qui per conservare le tracce della storia sarebbe riduttivo. Il fattore nostalgico ha comunque la sua importanza. Il percorso è stato molto lungo, è passsato attraverso la mia storia personale. Avevo nostalgia di qualcosa che è stato sepolto. Il periodo dei due blocchi mi ha visto attraversare molte esperienze. Poi, nell'88-89 abbiamo fondato una cooperativa, volevamo tirar su quattrini esclusivamente per recuperare Koenigsberg. Ma chi voleva avviare una simile attività in quegli anni era soggetto ad un dedalo inestricabile di vincoli burocratici. Inoltre, non si potevano aprire cooperative nel settore delle pulizie, delle riparazioni meccaniche o del commercio. Ogni volta che qualcuno voleva aprire qualcosa c'era una riunione delle autorità cittadine, che stabilivano cosa fosse utile o conveniente per la città. Io ero un dissidente, ero contro il sistema, partecipavo a proteste, a dimostrazioni contro il totalitarismo. Mi sono reso conto che le persone del dopo '89 erano le stesse del prima. Stesse persone, stesso modo di governare. Io sono sempre stato un individuo alla costante ricerca della libertà. Ogni sistema che mi impedisce di esercitare la mia libertà, l'ho sempre osteggiato”. Qual'è il futuro di Kaliningrad? “Mi scuso per la volgarità, ma nella cerchia dei miei amici c'è un gioco di parole molto calzante riguardo a ciò che pensiamo di Kaliningrad. La chiamiamo Ka-ka, che è il raddoppiamento della sillaba iniziale, ma che in russo significa 'cacca'. Io vorrei che Kaliningrad non esistesse. Vorrei che Koenigsberg tornasse in vita, che risorgesse dalle macerie. Col tempo ho scoperto che è una lotta contro i mulini a vento. Ci deve essere anche il futuro, ma così come lo vogliono i cittadini di questo posto. Personalmente mi sento cittadino di Koenigsberg, e ritengo che anche Koeingsberg dovrebbe avere un futuro. Quale sia, però, io non so dirlo. Da una parte voglio essere indipendente e libero, dall'altra ho uno scopo nella vita che è quello di dissotterrare il passato. E per farlo sono costretto a vivere qui, nel forte numero uno, in un luogo dove, apparentemente, la mia libertà è limitata”. “Oggi le autorità sono molto più tolleranti rispetto al mio lavoro, e il livello di inimicizia è molto diminuito. Tutto il materiale che ho raccolto in questi anni è in esposizione permanente. È un museo che le scuole visitano, perchè la storia di Koenigsberg non sia dimenticata. Sono pochissimi i posti dove le persone possono toccare con mano la Storia. La fortezza è uno di questi. Anche se sono clandestino, in questa terra mi sento un uomo libero. È per godere della mia libertà che ho scelto consapevolmente di vivere su un'isola”.

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In alto: Dmitriy Bishenevskiy. In basso: Il Forte numero 1. Kaliningrad, Russia 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter


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Tuffatori. Kaliningrad, Russia 2009. Foto di Luca Galassi ŠPeaceReporter.

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Danzica Polonia

Cantieri di democrazia Di Luca Galassi La stella polare che dal centro città orienta il visitatore verso uno dei luoghi simbolo della storia del '900 è un monumento di tre croci d'acciaio alte quaranta metri. Fanno da contraltare alle guglie gotiche della cattedrale, distrutta e ricostruita dopo al Seconda Guerra mondiale, e vegliano sugli eventi di un Paese in fase accelerata di transizione.

a città è Danzica, gli operai cui il monumento è dedicato erano i portuali di Solidarnosc. Il periodo gli anni '80. L'epoca in cui dall'enorme complesso dei cantieri navali 'Lenin' germinò e fiorì il movimento sindacale della 'solidarietà' è considerata il 'big-bang' della caduta del comunismo. Il monumento fu eretto in ricordo degli operai uccisi dalla polizia perchè chiedevano migliori condizioni di vita e di salario. Alla base delle croci, il monito del poeta Premio Nobel Czeslaw Milosz: “Potete ucciderne uno, ma un altro nascerà”. La struttura che, slanciata, sovrasta anche la più alta delle abitazioni vicine, sorge a pochi metri dal cancello dei cantieri 'Stocznia Gdanska' (non più cantieri 'Lenin' dalla fine degli anni '80). Sulle sbarre del cancello vennero appesi nel 1980 i famosi '21 Postulati', durante le due memorabili settimane cominciate il 16 agosto, quando gli operai, asserragliati all' interno dei cantieri, elessero per acclamazione a capo del Comitato di sciopero un elettricista noto alla polizia segreta per la sua attività clandestina: Lech Walesa. Il 31 agosto 1980 il vicepremier Mieczyslaw Jagielski accettava i 21 Postulati, firmando gli Accordi di Danzica con i quali, per la prima volta in un Paese del Blocco sovietico, venivano riconosciuti il pluralismo sindacale e alcune libertà fondamentali. Quando però, nel dicembre del 1981, il generale Wojciech Jaruzelski divenne leader del Partito comunista, venne introdotta la legge marziale, i 21 Postulati furono sospesi, Solidarnosc dichiarata illegale e Walesa chiuso in cella. Ma ormai la metà della popolazione polacca era iscritta o simpatizzava per Solidarnosc, e il regime fu costretto a rilasciare Walesa, che riprese a lavorare nei cantieri e ad alimentare la lotta per la libertà. I 21 Postulati furono ripristinati, in forma estesa. Prevedevano la possibilità di creare libere associazioni e sindacati di lavoratori, mettendo in discussione i fondamenti stessi del partito comunista, che si considerava esclusivo depositario delle esigenze del proletariato. In secondo luogo, chiedevano riforme volte a migliorare le condizioni di lavoro e sanitarie, ma sopratutto libertà di parola e di stampa. Solidarnosc acquisì forza e credito non solo dal sostegno di due influenti uomini di Chiesa, il cardinale Popieluszko (che sacrificò la sua vita per la causa) e il futuro Papa Karol Wojjtyla, ma soprattutto dalla svolta riformista di Gorbaciov, che già dai primi anni '80 aveva cominciato a imprimere la svolta della perestroika nel suo Paese. Mosca, diceva Gorbaciov, non avrebbe più interferito nella politica interna dei Paesi satellite. Jaruzelski fu costretto al negoziato con Solidarnosc. Le prime libere elezioni, tenutesi il 4 giugno 1989, consacrarono Walesa alla carica di presidente. La rivoluzione democratica, iniziata in Polonia, da quel giorno si sarebbe estesa a tutta l'Europa.

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mento sociale”, era divenuta per forza di cose un gigantesco partito antiregime in cui erano confluiti gli orientamenti più disparati. Con l'ingresso nelle strutture del potere, il movimento perse la sua spinta riformista, e molti degli ex membri di Solidarnosc accusano tutt'oggi quella classe politica di avere svenduto non solo i cantieri, ma le ambizioni e le aspirazioni del movimento tutto. Sulle sbarre del cancello degli 'Stocznia Gdanska' uno sparuto gruppetto di ex operai in visita ritrova quasi intatto ciò che aveva lasciato: i fiori, i gagliardetti, i nastrini con i colori della bandiera polacca, la foto di Papa Wojtyla e quella di una Madonna. Erich Zelenski ha 71 anni. Mostra il tesserino del sindacato e grida la sua rabbia, non solo contro il ridimensionamento dei cantieri voluto dalla Ue. L’ennesimo. “Quello che non sono riusciti a fare i comunisti, adesso lo sta facendo Tusk”. Donald Tusk è il primo ministro che viene da Danzica, come altri politici che hanno segnato la Polonia dopo il comunismo, come Lech Walesa, il presidente Lech Kaczynski e l’ex premier suo gemello Jaroslaw. Tutti figli della città anseatica e in qualche modo anche di Solidarnosc. Ma oggi i cantieri rischiano di chiudere. Bruxelles ha chiesto ristrutturare l’intero compartimento della navalmeccanica pesante e restituire gli aiuti statali ricevuti negli anni passati, in quanto violavano le regole della competizione economica. In ballo non sono solo gli stabilimenti di Danzica, ma anche quelli di Gdynia e Stettino. Per gli ultimi due la soluzione è stata trovata: vendita all’asta, come voleva Bruxelles. Il nuovo proprietario è la Union International Trust. Danzica è invece in mano agli ucraini della Donbas che, secondo l’Ue, non sono riusciti a rendere competitivi i cantieri. “Solidarnosc – dice Zelenski – nacque come un movimento di mobilitazione di massa, ma nel tempo è stato manipolato. I leader hanno tradito gli ideali originari e il Paese è adesso allo sbando”. Un suo collega, in posa davanti al cancello, aggiunge: "Vent'anni fa ero euforico riguardo alle prospettive di cambiamento, specialmente dopo tutto quello che abbiamo fatto. Ma la Polonia che ne è uscita è qualcosa di troppo diverso da quella che sognavamo. Perciò, non ho nessuna voglia di festeggiare quell'anniversario”. Se governo e Ue non troveranno una via d'uscita, il cancello che Walesa scalava durante i giorni dello sciopero, sfidando le autorità e incitando la folla al cambiamento, non si aprirà più. E i cantieri, primo focolaio di una rivolta pacifica che avrebbe avuto nell'Europa comunista un effetto domino devastante, diverranno luogo di pellegrinaggio per nostalgici. I capannoni in disuso ospiteranno bar, atelier o discoteche. Le mastodontiche gru verranno fatte a pezzi. O diverranno reperti di archeologia industriale. Enormi mostri inermi, dinosauri tristi per la gioia delle scolaresche in gita.

Nel 1980 Solidarnosc contava dieci milioni di membri. Oggi sono poco meno di un milione. Nata come sindacato e autodefinitasi in seguito “movi-

In alto e in basso: I cantieri di Solidarnosc. Danzica, Polonia 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter

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Siauliai Lituania

L’ostinata ricerca della libertà Di Luca Galassi A Kryzi Kalnas pulsa il cuore della Lituania. Una visione che toglie il respiro: centinaia di migliaia di croci ricoprono un fazzoletto di terra di pochi acri, ritagliato in una radura verdeggiante. lla collina delle croci ('kryzi kalnas' significa questo) si arriva deviando dalla strada che da Siauliai porta a Riga. Scarna l'indicazione per raggiungerla. È una freccia in legno a indicare ciò che non è solo il simbolo della devozione religiosa di un Paese martire per secoli. Nel più espressivo – e amato – monumento lituano è racchiusa infatti la storia della perenne lotta per la libertà contro l'invasore e la tirannia. Il più piccolo dei Paesi baltici era un tempo uno dei più vasti imperi d'Europa. Confederata con la Polonia, la Lituania si estendeva da Mosca al Mar Nero, nel dominio dell'Europa Orientale. Nel 1659, le due Corone si unirono. Duecento anni dopo, la Polonia fu smembrata, e la Lituania passò sotto la dominazione russa. Nonostante San Pietroburgo tentasse di imporre al Paese la propria lingua e la propria cultura, un forte sentimento anti-russo continuò a covare sotto la brace fino al 1918, anno dell'indipendenza.

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La leggenda di Kryzi Kalnas narra di un padre che, disperato per la malattia incurabile del figlio, ricevette in sogno la visita di una donna dagli abiti lucenti, la quale lo esortò a costruire una croce e a trasportarla nei pressi della collinetta. La Lituania, l'ultimo Paese europeo a convertirsi al Cristianesimo (nel 1389), aveva una lunga tradizione di sculture lignee, che dal medioevo si specializzò nella realizzazione di croci. Il padre scolpì un crocifisso enorme, dove il Cristo aveva le sembianze del figlio sofferente. La caricò sulle spalle e, dopo un giorno di cammino, la piantò a Kryzi Kalnas. Quando rincasò trovò il figlio guarito. La versione più plausibile circa la reale origine del sito affonda invece le proprie radici nella metà dell'Ottocento, durante le due grandi rivolte anti-russe. Nel 1831, novemila 'insorti' vennero deportati in Siberia. Nel 1864 i deportati furono diecimila. In loro onore, e per commemorare quelli uccisi, i fedeli piantavano croci. I pellegrinaggi alla collina, per depositare croci, rosari, crocifissi, si susseguivano notte dopo notte. Allo zelo devozionale si saldò il patriottismo, e Kryzi Kalnas divenne non solo “il cuore della Lituania aperto all'Altissimo” (secondo le parole del cardinale Vincentas Sladkevicius), ma il fulcro del sentimento nazionalista. Anti-sovietico dopo l'annessione di Mosca nel 1940. Anti-nazista dal giugno 1941 all'agosto 1944. Nuovamente anti-sovietico dal 1944 al '91. Negli anni '50, i lituani scampati ai gulag siberiani venivano qui per collocarvi croci in memoria dei compatrioti morti in cattività. Questo suscitò la riprovazione delle autorità sovietiche, che reagirono con veemenza. Nel 1961 i bulldozer abbatterono le croci, e durante il giorno l'area venne piantonata da soldati. Ma lo spirito indomito dei lituani li portò a sfidare il nemico di notte. Per tre volte le croci vennero rimosse dalla collina, seppellite o bruciate, e per tre volte 'risorsero'. Caparbiamente, i litua18

ni riuscirono a riportare alla luce parte delle croci in ferro sotterrate, e il culto continuò fino alla fine dell'occupazione sovietica. Nel 1990, Vyatautas Landsbergis, leader del più grande movimento popolare lituano, fu eletto presidente. Nel 1991 il Paese riguadagnò l'indipendenza. La collina aveva allora circa cinquantamila croci. enuto meno il legame con il patriottismo, il pellegrinaggio a Kryzi Kalnas si svuotò del significato di opposizione all'occupante comunista. Ma rimase l'anima spirituale di un Paese che non ha mai abbandonato le sue radici cattoliche, e le croci ricominciarono a crescere. Il sette settembre 1993, Giovanni Paolo II compì una visita alla collina e vi depositò la sua croce. Il gesto del Papa che aveva contribuito a sconfiggere il comunismo rappresentò il sigillo definitivo a un'epoca che si chiudeva, spalancando le porte a una nuova Europa. Nel 2002 venne approvata l'adesione della Lituania all'Unione Europea e alla Nato. Nel 2004 il Paese entrò nell'Unione e divenne membro dell'Alleanza Atlantica. Oggi, Kryzi Kalnas, situata lungo l'asse viario che dall'exclave russa di Kaliningrad porta a Riga, da qui a Tallin e poi nuovamente in Russia, non basta più a contenere le croci che debordano lungo il perimetro della collinetta e il piazzale d'ingresso, raggiungendo le sponde erbose dei canali limitrofi. Cadute le frontiere, il sito è diventato meta obbligata per visitatori e fedeli da tutto il mondo. Molte sono autentici capolavori di arte popolare, come le statue lignee del Cristo Addolorato, alte fino a tre metri. Alcune sono elaborate, cesellate, incise. Altre povere, stinte, plastificate. Vi sono quelle 'istituzionali', lasciate dai capi di Stato e di governo di numerosi Paesi d'Europa. Quelle di amministrazioni cittadine e regionali, organizzazioni e sindacati, tra cui i marinai di Stettino, la polizia di Stato tedesca, i camperisti di Verona o gli operai di Solidarnosc. Ma c'è anche una croce ortodossa, composta da targhe di automobile. L'hanno costruita dei turisti russi, a testimonianza forse di un anelito alla convivenza pacifica tra le genti di due regioni d'Europa che per centinaia d'anni si sono odiate. Ma che oggi dovranno fare, loro malgrado, i conti con una terra naturalmente e geograficamente predisposta all'apertura e all'integrazione, alle relazioni, ai commerci, ai trasporti. Poiché i Paesi dell'Hansa baltica sono, e saranno sempre di più, il ponte naturale tra Occidente e Oriente, la regione dove l'Unione Europea, dalla caduta del Muro di Berlino, sperimenta un cruciale allargamento verso l'unico impero europeo sopravvisssuto, almeno in parte, alla caduta degli imperi.

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La collina delle croci. Siauliai, Lituania 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter


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Mustvee Estonia

Dove il tempo si è fermato Di Luca Galassi Sulle sponde estoni del lago Peipus vive una comunità religiosa russa di qualche migliaio di persone che ha resistito per quattrocento anni preservando intatte le proprie tradizioni, il proprio stile di vita, la propria liturgia. ono i Vecchi Credenti, fedeli ortodossi che si opposero alle riforme del culto introdotte dal patriarca Nikon del 1653, e che da allora rimasero fedeli a una interpretazione del credo che rigettava le revisioni dei testi sacri e le modifiche liturgiche (tra cui il battesimo, la genuflessione, il cambiamento dei paramenti durante la messa, la croce fatta con tre dita invece di due). Da allora, i Vecchi Credenti furono vittima di persecuzioni plurime: da parte della Chiesa, delle autorità politiche, degli zar, degli occupanti nazisti, dei sovietici. I luoghi di culto furono bruciati, ogni attività religiosa proibita. Le feste furono bandite, i battesimi, i sacerdoti e i capi della comunità furono deportati. Ma i Vecchi Credenti continuarono a professare la loro fede in clandestinità, e resistettero indomiti – e indenni – al passaggio della Storia sulle sponde del lago. Sono circa duemila, etnicamente russi, molti con cittadinanza estone e poca (o nessuna) preoccupazione per ciò che accade intorno a loro. Anche qui, come in numerose località dell'Unione Europea a 27 Stati, il tempo si è fermato, e l'integrazione è rimasta un miraggio i cui contorni si offuscano man mano che ci si allontana dal cuore amministrativo e decisionale dell'Europa. Questo è particolarmente vero nei Paesi Baltici. Qui la comunità russa (i Paesi baltici fecero parte dell'impero russo fino al 1917 e godettero di un breve periodo d'indipendenza tra le due Guerre) assomma in alcuni casi al 40 percento della popolazione.

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I 'Vecchi Credenti' rappresentano il simbolo della contraddizione baltica, dove un latente desiderio di rivalsa contro lo storico occupante ha portato nel tempo a discriminazioni etniche o - più spesso - a un totale disinteresse delle condizioni di vita delle minoranze russofone. E se i Vecchi Credenti sembrano non curarsene, paghi del loro isolamento sulle sponde di un lago che all'orizzonte rivela, tra la foschia, la costa dell'amata madrepatria russa, nel paesino di Mustvee, 'capoluogo' della comunità, non è infrequente ascoltare la retorica del "si stava meglio durante il regime sovietico". È padre Pavel a condurre il visitatore all'interno dei preziosi luoghi di culto, chiesette a colori vivaci, dagli interni luminosi, con torrette e cupole d'oro che risplendono nel sole meridiano. Conservano simulacri, reliquie, icone sacre: sono il tesoro e l'identità dei Vecchi Credenti. Tiene a spiegare, il pope, che con un tintinnante mazzo di chiavi dalle fogge più curiose ci conduce negli ambienti profuma-

Una convivenza difficile

In Estonia, i due terzi degli abitanti sono russi, in Lettonia un terzo, in Lituania il 20 percento. Mentre durante il regime sovietico vi era l'obbligo di dichiarare l'appartenenza al proprio gruppo etnico nei documenti d'identità, oggi tale pratica è stata abolita in Lituania ed Estonia, mentre tutt'ora vige in Lettonia. In epoca sovietica era presente un sostanziale bilinguismo. Dopo la caduta del Muro di Berlino le sole lingue ufficiali furono il lituano, il let20

ti d'incenso di una chiesetta a pochi metri dalla riva, come le icone lì conservate rappresentino un patrimonio inestimabile per la comunità locale. Molte andarono distrutte nell'epoca delle persecuzioni, molte di nuove ne furono acquistate, e sono oggi il vanto della piccola comunità. "Questa è un'icona del '700, rappresenta il Giudizio universale – spiega padre Pavel –. Ne esistono solo due copie. L'altra si trova a Novgorod. Da tutto il mondo ortodosso sono venuti numerosi vescovi a contemplarla. Sapete che qui, durante le celebrazioni, usiamo solo cera pura? Niente paraffina. Sessanta candele di cera pura. Abbiamo anche sei cantanti donne, la più giovane ha 70 anni, la più anziana 84. Ci sono undici chiese di vecchio rito in tutta l'Estonia. In epoca sovietica le chiese erano piene, oggi ci sono meno persone perchè la mancanza di lavoro ha costretto molti a emigrare. Purtroppo, durante il comunismo, per punire la nostra devozione le autorità ci avevano negato l'accesso all'istruzione. Ma non mi lamento. Sa perchè? Io ero comunista, ero membro del Komsomol, ho fatto il militare. Tutta la nostra famiglia continuava ad andare in chiesa anche in quegli anni. Non mi lamento perchè gli anni del regime sovietico sono stati i migliori”. Siete cittadini estoni? “No, siamo russi”. Ma nel passaporto cosa c'è scritto? “Il passaporto è estone, ma io sono russo. Siamo nati qui, noi, le nostre famiglie, i nostri avi, siamo tutti russi”. Che differenza c'è tra la vita ai tempi dell'Unione Sovietica e la vita nell'Unione Europea? “È una bella domanda. Per i giovani è dura. Perchè non c'è lavoro. Noi anziani coltiviamo l'orto, abbiamo legna per l'inverno, e riusciamo a risparmiare un po'. Anzi, riusciamo anche ad aiutare i figli, con i prodotti della terra. Un tempo andavamo a vendere anche a Leningrado. Tre volte a settimana, vendevamo cipolle e carote. Adesso, adesso provate voi a vendere”. Stavate meglio allora? “Sì, decisamente. Non c'erano frontiere, in quattro o cinque ore eravamo a Leningrado e la sera eravamo già a casa. Noi stiamo bene, magari avremmo bisogno di soldi per le nostre chiese. Anzi, se trovate degli sponsor per il cortile nuovo... Sappiamo che da voi milionari ce ne sono, no?”. In alto: Il custode della chiesa di Mustvee. Mustvee, Estonia 2009. Foto di Samuele Pellecchia / Prospekt. In basso: Chiesa ortodossa sul lago Peipus. Mustvee, Estonia 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceRepoter.

tone e l'estone. Il Consiglio d'Europa, per facilitare la naturalizzazione dei non autoctoni, impose di fissare quote annuali, che furono però sempre considerate vaghe e suscettibili di attuazioni arbitrarie. Per ottenere la cittadinanza estone è stata resa obbligatoria le conoscenza della lingua e della storia estoni. La difficoltà degli esami linguistici all'inizio era tale da provocare le proteste della Russia, dell'Unione Europea e di varie organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Sono state allora introdotte delle modifiche, e il numero degli apolidi è diminuito. In Estonia, nell'aprile del 2007, l'8 percento degli abitanti risultava privo di cittadinanza, mentre l'8,4

percento era costituito da cittadini stranieri. Nel 2006 gli abitanti di etnia russia costituivano il 25,7 percento della popolazione. Di quel 25,7 percento, circa il 27 percento aveva la cittadinanza russa, il 35 percento quella estone, mentre un altro 35 percento continuava a non avere cittadinanza. Gli abitanti privi di cittadinanza non possono votare alle elezioni politiche né a quelle europee, ma hanno diritto di voto alle amministrative. I requisiti linguistici e il problema della cittadinanza hanno creato pesanti problemi alle comunità russofone, limitandone l'accesso al mondo del lavoro e minando, spesso irreversibilmente l'integrazione sociale.


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San Pietroburgo Russia

La mia San Pietroburgo Di Luca Galassi Cyril Alexeiev, 45 anni, è un professore universitario di Studi Orientali, specializzato in cultura mongola e tibetana. Appartiene a due epoche: quella precedente e quella successiva alla caduta del Muro. Nel suo racconto, un piccolo affresco del microcosmo cultural-musicale della sue 'due' città: Leningrado fino al 1991, San Pietroburgo poi.. ispetto ai bambini di oggi, ho poche immagini della mia infanzia. Non disponevamo di strumenti tecnologici per rappresentare la nostra vita. Ciò che mancava era l'informazione. Tuttavia, ero più fortunato rispetto ad altri perchè mio padre, ingegnere, dal 1967 cominciò a viaggiare: Canada, Cuba, Asia. Ad ogni viaggio portava centinaia di canzoni di gruppi occidentali. Per questo la mia infanzia è stata diversa rispetto a quella dei miei coetanei. Negli anni '70 e '80 avevo più cassette di band inglesi e americane di molti miei amici. Nel 1983 mi sono diplomato, e non conoscevo affatto il Paese in cui vivevo. Solo quando ho iniziato l'università ho cominciato a realizzare di vivere in un regime. Il Komsomol (la gioventù del partito) faceva domande a tutti coloro che si iscrivevano all'università. Ma il 'sistema' era quasi impalpabile, a meno che non si fosse coinvolti in un'organizzazione politica, o si scrivesse di argomenti controversi. Il sistema non faceva molta attenzione a chi si disinteressava di politica. Avevamo perciò uno stile di vita molto simile a quello occidentale: andavamo nei (pochi) locali, stavamo fuori la sera, suonavamo musica underground. In università le materie erano direttamente collegate alla propaganda comunista e alla filosofia marxista. Ciononostante, se si volevano approfondire altri argomenti, lo si poteva tranquillamente fare.

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I parchi, e le cucine delle case erano i luoghi dove ci sentiva veramente liberi. Ricordo un bar, il Saigon sulla Nevskiy Prospekt. Lì non c'era ideologia. Solo buon caffè, e la gente vestita in modo alternativo. Il Saigon era il principale luogo di ritrovo di una certa cultura bohemienne, il 'covo' della contro-cultura e dell'alternativa al sistema. San Pietroburgo, alla fine, era probabilmente l'unica città dell'Unione Sovietica dove si poteva ascoltare liberamente musica rock: Bob Dylan, David Bowie e via dicendo. Era aria fresca, nella stantìa atmosfera del regime. Molti ritengono che il rock and roll contribuì a far sollevare le masse contro il regime. Io non la penso esattamente così. Quando facevamo musica e andavamo ai concerti l'ideologia era qualcosa di relativo. A noi interessava la musica. Molti luoghi, come lo stesso Saigon, cominciavano a circondarsi di un'aura mitologica. Ma più diventavano trendy, meno erano interessanti per me. La musica, il rock, i concerti erano più eventi culturali che politici. Ci piacevano le band 'hard rock', Deep Purple, Led Zeppelin, Pink Floyd. Una volta, ero con alcuni amici al parco, ascoltavamo musica inglese e bevevamo vino. Era una giornata bellissima. Attorno al perimetro del parco comparvero improvvisamente dei cadetti militari con le maschere antigas. Per me, questa è una delle immagini più significative di quel periodo. Noi eravamo liberi, o ci ritenevamo liberi, all'interno di quel perimetro. Ma 22

fuori, c'era un gruppo militare che si stava esercitando, in piena estate, con le maschere antigas addosso. La scena era comica e grottesca, ma dava esattamente l'idea di che atmosfera si respirasse in quei tempi. In quegli anni, Pietroburgo era così: vi convivevano due anime. Breznev morì nel 1983, l'anno in cui sono stato arrestato. Chiunque si trovasse al di fuori del luogo di lavoro quando invece avrebbe dovuto esserci - e noi eravamo davanti alla cattedrale di Kazan a suonare - veniva portato in prigione dagli agenti del Kgb. Avevo 19 anni. All'epoca c'era poca informazione, proprio quando tutti ne erano affamati. Trovare un disco o un bootleg di un concerto dei Rolling Stones, per esempio, era un evento eccezionale, che mi riempiva di gioia. Adesso c'è tutta l'informazione del mondo, siamo oberati di informazione. Quando ho iniziato a frequentare la 'rock scenÈ, a organizzare band, suonare in un club era complicato, ci volevano una serie di autorizzazioni, i testi delle canzoni dovevano venire visionati dalle autorità, che decidevano se potevi rappresentarli o meno. Facevamo concerti nelle case degli amici. E i gruppi musicali non erano 'fissi', ma chiunque poteva partecipare, portando i propri strumenti. Era illegale, ma all'epoca le autorità non se ne curavano molto. Potevi essere controllato solo se raggiungevi un livello pubblico superiore. miei desideri e le mie aspirazioni negli anni '80? C'era la speranza di poter viaggiare. Tutti idealizzavamo l'Occidente. Per un po' ci siamo illusi che le informazioni che filtravano potessero contribuire a cambiare lo stile di vita del nostro Paese. Non capivamo che la democrazia non può essere esportata o trasferita così, semplicemente. Ma deve essere il risultato di un processo storico. E che la gente deve combattere per ottenerla.

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Poi vennero gli anni '90. La gente non pensava più alla politica. La vita era terribile, un capitalismo sfrenato dilagava per il Paese, e potere e denaro erano conquistati nei modi più brutali. C'erano banditi e gruppi criminali che si erano formati dal giorno alla notte. Io cominciai a insegnare all'università. Questo mi dette l'opportunità di espatriare. Da ragazzino, quando l'Unione Sovietica era un impero sterminato, si faceva l'autostop in lungo e in largo. Ho vivissimi ricordi delle regioni caucasiche, per esempio. Oggi, i miei studenti hanno già viaggiato in Europa più di quanto non abbia fatto io nel corso della mia vita. Il paradosso è che, purtroppo, i giovani russi non conoscono affatto il loro Paese. In alto: San Pietroburgo. Russia 2009. In basso: Cyril Alexeiev. San Pietroburgo, Russia 2009. Foto di Samuele Pellecchia / Prospekt.


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Murmansk Russia

Uno splendido isolamento

Di Luca Galassi Negli anni Sessanta sarebbe stato perfettamente plausibile da parte della Marina russa - e di quella statunitense nascondere l'episodio. Ma l'evento che il 12 agosto 2000 scosse come un terremoto la città di Murmansk, rivelò al mondo intero che il comunismo non era caduto, che la Guerra Fredda non era ancora finita e che generali e governo nascosero, in perfetto stile sovietico, la verità. ggi, in quelle regioni artiche dove la notte è una luce opaca e lattiginosa, il mare è ghiacciato per dieci mesi l'anno e la neve ricopre la tundra fino a giugno, la vita sembra proseguire come se nulla fosse successo. Ma la memoria della tragedia del Kursk, il sottomarino russo inabissatosi nel Mar di Barents con i suoi 120 uomini di equipaggio, non si è ancora spenta. L'affondamento del Kursk rappresentò, quarant'anni dopo la caduta del Muro, la storia perfetta per i teorici dell'intrigo internazionale. Perchè le acque intorno a Murmansk, la più grande città artica del mondo, sede della flotta navale più potente della Russia, hanno fornito lo scenario ideale per una tragedia degna della Guerra Fredda. Se quelle acque non si surriscaldarono, e la guerra rimase fortunatamente 'fredda', fu grazie a una precisa scelta politica, un negoziato mercanteggiato nelle segrete stanze del potere, il cui prezzo furono le vite di 120 uomini. Gli ingredienti della tragedia: un'esercitazione militare nella quale avrebbero

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dovuto essere presenti, ufficialmente, solo mezzi della Marina e dell'Aviazione russa, ma in realtà vi erano anche osservatori cinesi, indiani (potenziali acquirenti di un siluro di ultima generazione in dotazione al Kursk), unità norvegesi e due sommergibili statunitensi; l'occultamento della verità per diversi giorni da parte degli ufficiali della Marina russa; il rifiuto di ogni aiuto occidentale nelle prime operazioni di recupero dei marinai, già tutti morti nonostante gli ufficiali continuassero ad alimentare le speranze dei parenti. Infine, l'accordo segreto tra Putin, eletto presidente cinque mesi prima, e il suo omologo statunitense Bill Clinton: entrambi convennero che lasciare la verità in fondo al Mare di Barents avrebbe eviIn questa pagina: Ragazzi di Murmansk. Illustrazione di Davide Toffolo per PeaceReporter. Nella pagina a fianco: La strada verso il porto. Murmansk, Russia 2009. Foto di Samuele Pellecchia / Prospekt.


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tato conseguenze devastanti per le relazioni tra i due Paesi e per il mondo intero. Conseguenze che avrebbero potuto portare addirittura a un conflitto nucleare. La versione ufficiale fu che il Kursk affondò per un incendio prodotto dal perossido di azoto, il propellente dei siluri, che innescò le esplosioni di tutte le testate a bordo del sommergibile. Quella non ufficiale è che il sommergibile fu speronato o colpito con un missile dal Toledo, sottomarino statunitense che lo stava 'spiando' dappresso, e che si allontanò poi dall'area per riparare nel porto norvegese di Haakonsvern. L'episodio del Kursk fu un atto di guerra in tempo di pace o un tragico errore che avrebbe potuto portare sull'orlo di una catastrofe? L'incidente fu 'risolto' dopo faticose – e segrete – trattative diplomatiche tra Stati Uniti e Federazione Russa. I primi, responsabili dell'incidente, avrebbero indennizzato il Cremlino cancellando il debito estero della Russia: Una somma decorosa, per un Paese che si era appena rialzato a fatica dal collasso economico: con l'affare, Putin intascò dieci miliardi di dollari. n questa regione la Russia confina con Finlandia e Norvegia. Murmansk rivestiva un'importanza strategica fondamentale durante la Seconda Guerra mondiale, e tutt'oggi si trova al centro di uno snodo nevralgico dove, nell'arco di 50 chilometri, si intersecano tre frontiere e tre fusi orari. Dalla Finlandia Hitler sferrò nel 1941 l'attacco all'unico porto artico che non gelava, e per questo consentiva agli Alleati di rifornire Stalin di aiuti militari e la popolazione stremata di generi alimentari. La città soffrì una pesante devastazione, ma resistette, evitando che la vitale linea ferroviaria della Karelia, che arrivava fino a Mosca passando per San Pietroburgo, venisse distrutta. Da qui partì, nel 1956, la 'Lenin', la prima rompighiaccio nucleare del mondo. Oggi ancorata nel porto commerciale, è meta dei visitatori e delle coppiette fresche di nozze, che ritualmente rompono una bottiglia di champagne sulla chiglia per celebrare la loro unione. Dal 1974, il soldato sovietico Alyosha, colossale statua di cemento armato di 40 metri, vigila sulla città dalla collina che dà sul fiordo d'ingresso al porto. Nel 1985 Murmansk fu nominata 'città eroica' per meriti di guerra.

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Nella Duma regionale (parlamento, ndr) di Murmansk, un ex ufficiale di Marina sta dedicando gran parte della sua attività alla ricerca della verità sull'affondamento del Kursk. L'ufficio dove ci riceve conserva un modellino del sommergibile della stessa classe del Kursk, oltre alla foto della fregata di cui era comandante e numerosi ritagli di giornale risalenti all'epoca dell'incidente. Non crede alla versione ufficiale del governo. E sta percorrendo tutte le strade possibili per capire cosa è successo. Anche quelle più originali, per non dire stravaganti. “Non è ancora una notizia ufficiale, ma stiamo contattando persone con poteri paranormali, dei sensitivi, per stabilire qualche 'contatto'. Più di questo non posso dire, perchè, come potete capire, sono metodi che non da tutti vengono considerati attendibili da un punto di vista scientifico. Si tratta di mostrare loro fotografie e oggetti personali dei marinai. Lo facciamo per i familiari”. A quale versione crede il signor Vitaliy Poborchy? “Non a quella del governo. Credo che sia stato un siluro statunitense a colpire il Kursk”. Quali certezze ha riguardo a ciò? “Io sono un militare con ampia esperienza riguardo ai siluri. Ero uno specialista di torpedo, durante la mia carriera. Sono convinto che si sia trattato di un errore. Nessuno può essere stato così stupido da voler colpire il Kursk deliberatamente. Si è trattato di un colossale errore”. Come viene conservata la memoria delle vittime? Non è spiacevole che la torretta del Kursk, il simbolo del sottomarino, sia stato abbandonato per così tanti anni e ritrovato in seguito a un'inchiesta giornalistica in un deposito di ferrivecchi? “La memoria rimane, nei cuori delle persone, anche se si è verificata qualche negligenza. Quando è stata scoperta la torretta noi abbiamo subito collaborato. Io sono profondamente convinto che Murmansk abbia bisogno di un monumento. Il sacrificio dei marinai va onorato con un memoriale degno della loro . Per questo la torretta sarà collocata in un parco, di fronte alla chiesa del 'Cristo salvatore delle acque’, nei pressi del porto”. Vladimir Anatol'evich ha servito nella Marina russa per 30 anni. Faceva il sommergibilista. È un bar dimesso, quello in cui lo incontriamo. Le pareti hanno colori cupi. Su uno schermo televisivo ragazzine sensuali cinguetta26

no a ripetizione banali melodie dai ritmi martellanti. La padrona del locale abbassa il volume, e l'uomo comincia a parlare. “Presiedo il fondo per i familiari delle del Kursk. Lo abbiamo fondato dopo la tragedia. All'inizio non era chiaro cosa fosse successo. Anche nell'ambiente militare le informazioni sono arrivate in modo confuso e frammentario. Ciò che abbiamo saputo proveniva in gran parte dai telegiornali. Il 12 è accaduto l'incidente, il 14 lo abbiamo saputo dalla Tv, il 16 abbiamo avuto i primi contatti con gli ufficiali della Flotta del Nord”. Le risposte sono brevi, secche. È stato fatto tutto il possibile per salvare i marinai? “Da ex sommergibilista credo di sì, che abbiano fatto tutto ciò che potevano fare”. Le autorità hanno raccontato la verità? “Sin dall'inizio hanno raccontato bugie. Dicevano che il sottomarino era adagiato sul fondo. Ma io ho lavorato su un sottomarino, e so che il Kursk non può andare a fondo così”. Cosa vuol dire fare il sommergibilista? “Vuol dire fare il militare, assolvere a un dovere, difendere la propria patria. Vuol dire abituarsi a tutto. Anche a morire”. Cosa ha provocato l'affondamento del Kursk? “È stato un siluro americano. Ma è solo la mia opinione. Putin e Clinton si sono messi d'accordo per occultare la verità”. Cosa pensa della politica? “Niente. La politica segue i suoi percorsi, e la verità non è emersa detta per motivi politici. Ma questo, per le famiglie e per il loro dolore, non cambia niente. Ciò che ho visto quando hanno tirato fuori i corpi dal Kursk non lo auguro nemmeno ai miei peggiori nemici”. Come si chiamava suo figlio? “Alexander. Aveva ventitrè anni”. Perchè è morto? “Per un incidente”. uella che era la Cortina di Ferro, coi suoi reticolati, le sue torrette, il suo filo spinato, a Murmansk non si è mai vista. Lontana era la frontiera, lontani – fino all'affondamento del Kursk – erano i pericoli di un confronto armato tra i due blocchi. Ma in una città con tre basi militari, paesi di confine come Nikel (principale centro estrattivo mondiale del minerale) blindati da anni a turisti e curiosi, la frontiera con Finlandia e Norvegia dalla quale i giornalisti possono uscire ma non rientrare, neppure se dotati di visto multiplo, è più che palpabile l'atmosfera di un'epoca sovietica per molti aspetti ancora intatta. La città è stata costruita nel 1916, ultima 'creazione’ dei Romanov prima della Rivoluzione d'Ottobre. La penisola di Kola ha nel sottosuolo ogni sorta di materia prima, al punto che il governatore dell'Oblast (la regione amministrativa) l'ha definita una 'tavola di Mendeleieff' per l'abbondanza di elementi chimici. È inoltre ricca di pesce, con montagne e foreste incontaminate e fonti di acqua pura. Ma soprattutto è una zona strategicamente importante, e la missione dei suoi abitanti, in gran parte militari è, nelle parole del governatore, quella di 'difendere le frontiere, non solo della regione, ma di tutta la Russia'. In effetti, la flotta aerea e quella navale (che dispone dei due terzi dell'arsenale nucleare navale russo) sono tra le più potenti – e segrete – del mondo. Nonostante questo, e la crisi che ha portato la città a un drastico calo demografico durante la crisi dei primi anni '90, Murmansk sperimenta oggi un'ondata di ottimismo e benessere, dovuto soprattutto alla nuova centralità acquisita con i progetti di costruzione di un impianto nucleare, una nuova rompighiaccio, la proiezione del porto verso i giacimenti di gas sotto la calotta artica che saranno – e già sono – al centro della Guerra Fredda economica del futuro, ovvero il gas sotto la calotta artica, e un ambizioso piano di social welfare realizzato dal governatorato a favore delle famiglie in difficoltà e nel settore edilizio e sanitario. Risultato: le famiglie sono aumentate sensibilmente, e i pre-adolescenti pullulano ovunque.

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I ragazzi, a Murmansk, nutrono una curiosità vivace e incalzante su tutto ciò è occidentale. Nonostante la superiorità della Russia rispetto al resto del mondo sia l'assioma indiscutibile sui cui si regge la loro formazione scolastica e sociale (parate militari, indottrinamento politico, nazionalismo sono il pane quotidiano con cui vengono nutriti gli adolescenti di queste parti), tutti chiedono com'è l'Europa, come vivono, si vestono, cosa pensano, che musica ascoltano i loro coetanei. Katja e Vitaliy studiano In alto: L’hotel Arktica. In basso: Il porto. Murmansk, Russia 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter.


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giornalismo. Hanno 23 anni e, armati di macchina fotografica, seguono con occhio attento la roboante parata militare organizzata, come a Murmansk, in ogni città della Russia per celebrare la Festa della Vittoria dell'Armata Rossa contro il nazifascismo nel 1945. I giorni successivi alla grande sfilata di uomini e mezzi, che in marziale geometria sono fluiti a ritmo di banda per le strade cittadine, sono una messe di eventi con la finalità esclusiva di cementare lo spirito nazionale attorno a valori patriottici: dibattiti, concerti, manifestazioni, discorsi ufficiali, con la televisione che trasmette per ore vecchi film sulla guerra, interviste, documentari. Impossibile restarne fuori, o far finta di niente. L'alternativa è trascorrere un pomeriggio con Katja e Vitaliy, e cercare di capire i loro interessi, le loro speranze, le forme e le modalità del loro divertimento. Seguendoli, si viene introdotti in ciò che loro ritengono 'turistico', o perlomeno interessante da mostrare agli stranieri, ma che spesso si discosta parecchio dalla cultura tradizionale russa: negozi e centri commerciali che abbondano di merci occidentali, ristoranti che offrono ogni tipo di cucina (messicana e giapponese sono le più apprezzate), pub e discoteche frequentati da una generazione di adolescenti che hanno assorbito – nel bene e nel male – gli impulsi, le mode, le musiche e l'abbigliamento provenienti dall'Occidente. Tutti sembrano dire: anche noi ci siamo globalizzati, finalmente. Se negli anni '80 la musica punk o quella industriale non avevano ancora raggiunto le acque gelate del Mare di Barents, oggi sono numerosi i gruppi che offrono una variegata, se non esotica, proposta musicale. Tra questi, i Jahngle, i cui ritmi nulla hanno a che vedere col genere musicale 'jungle’ vero e proprio, ma offrono riproposizioni di melodie caraibiche: reggae, ska, dub, funk. Uno stile inusuale per la cultura 'rock-depressive’ dei russi, ma ispirata – paradossalmente, per un luogo dalle temperature polari – a sole, sesso, vibrazioni positive. Come il loro leader, Maxim, ama definirla, la loro filosofia di vita è “vacanziera, carnevalesca, tropicale in perfetto stile rastafarian”. Maxim, Katja e Vitaliy si ritrovano nei garage, diffusi a centinaia nei quartieri dove tutt'attorno torreggiano i condomini del socialismo reale. I garage rappresentano probabilmente il più rilevante fenomeno di sub-cultura a Murmansk, epitome di uno stile di 28

vita condiviso da almeno tre generazioni. Per alcuni, i più indigenti, i garage costituiscono una vera e propria casa. Per i Jahngle, è il rifugio ideale per provare in tranquillità, usando l'antico espediente di insonorizzare le pareti con i cartoni delle uova, come tutt'oggi si fa anche nelle cantine e nei garage nostrani. tradizione che siano gli uomini a costruire, dotandoli di tutti i comfort nonostante l'aspetto 'artigianale’, i garage. Molti sono illegali, nonostante le autorità chiudano spesso un occhio: anni fa – raccontano Katja e Vitaliy – un condono generale ha evitato numerose demolizioni. Gli abitanti li chiamano 'conchiglie’, e non a torto, considerato che rappresentano veri e propri gusci, rifugi da paguro per sfuggire al gelo o – secondo i più maligni – alle mogli, magari dopo una litigata. “Ci si può fermare anche giorni, in segno di protesta o insofferenza per il tetto coniugale”, sorride maliziosa Katja. Durante l'inverno, parte degli ampi vani è occupata dalle auto. In una città di marinai, i garage sono la garanzia che nei lunghi mesi di assenza l'auto rimanga sempre al riparo da clima e furti. Il garage diventa officina meccanica dove incontrare gli amici e chiacchierare di politica. È tradizione celebrare la definitiva rimessa a nuovo dell'auto, con ingredienti tipici dell'alimentazione russa: vodka, aringhe, salumi, formaggi e gli immancabili cetriolini sott'aceto. Di questi alimenti gli scaffali dei garage sono stracolmi, con scorte che vanno ben oltre l'inverno. Sorprendentemente, alcuni di loro sono dotati di saune, per completare il comfort. In garage si asseconda l'ozio: si guarda la tv, si gioca ai videogames, si disegna, si fa musica, appunto. Dietro tutte queste porte metalliche si apre un mondo, un po' carbonaro è un po' monacale. Ma così vario e variopinto da far quasi dimenticare il gelo e l'opalescenza delle notti artiche, condanna a un dormiveglia perpetuo per una città che da sessant'anni gode del suo 'splendido isolamento' boreale.

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In questa pagina: La cabina del Kursk. Nella pagina a fianco: Celebrazioni nel giorno della Vittoria. Murmansk, Russia 2009. Foto di Luca Galassi ©PeaceReporter.


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Panorama sulla tundra artica. Penisola di Kola, Russia 2009. Foto di Samuele Pellecchia / Prospekt.

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Oradea Romania

Tokes, “Io contro Ceaucescu” Di Nicola Sessa Se Nicolae Ceaucescu non si fosse accanito con tanta ostinazione contro Laszlo Tokes, avrebbe avuto qualche chance in più di morire di morte naturale e non davanti a un plotone di esecuzione, con sua moglie Elena, in diretta tv il giorno di Natale del 1989. Con molte probabilità la tirannia si sarebbe prolungata ancora per mesi o, chi può dirlo, anche anni. okes, è un pastore calvinista di famiglia ungherese: nella Romania di Ceaucescu questo voleva dire essere due volte minoranza. Una posizione non molto comoda. Nel 1989 prestava i suoi uffici a Timisoara e insieme alla sua comunità ha resistito ai continui tentativi di ‘epurazione’ comandati da Bucarest. Anche i vertici della sua chiesa, che avevano accolto la richiesta di espulsione di Tokes da Timisoara, gli erano contro. “Avevo avvertito la necessità di ribellarmi, anche se non mi sono mai sentito un rivoluzionario”. Stringeva tra le sue grandi mani una copia della Bibbia, si ripeteva che se non avesse parlato, presto lo avrebbero fatto le pietre e le armi. Proprio come predicava Gesù contro le ingiustizie, così cominciò a fare anche lui. Aveva bisogno di preparare i suoi fedeli alla resistenza; di infondere a sé stesso il coraggio necessario per scagliare parole di fuoco contro il regime di Ceaucescu e il nazionalismo romeno che aveva stritolato i diritti della minoranza ungherese e religiosa nella morsa della repressione culturale. “Parlavo alla gente semplice, l’unica di cui potevo fidarmi. Le élite del paese, quella politica, religiosa e intellettuale erano tutte compromesse, conniventi con il regime comunista”. Cominciò a contrabbandare lettere all’estero per raccontare gli orrori del regime e la condizione impossibile in cui viveva non solo la sua comunità, ma anche il popolo romeno. Ceaucescu ordinò la cacciata di Tokes, colpevole di ‘fomentare l’odio razziale’. “Il 15 dicembre del 1989 la polizia bussò alla mia porta per intimarmi di lasciare la città. Fin dalle prime ore del mattino un piccolo gruppo di fedeli si era raccolto intorno alla chiesa in Plata Santa Maria. Poco dopo, agli ungheresi si unirono molti romeni e poi gli studenti. Al pomeriggio migliaia di persone avevano invaso anche la strada che oggi si chiama Bulevard 16 dicembre 1989”. Il senso della protesta mutò in un più generico, ma profondo sentimento anticomunista. Il sindaco di Timisoara, sperando di riportare l’ordine in città, promise di revocare l’ordine di espulsione di Tokes. Ma quando alle sue parole non seguirono i fatti, la rabbia della gente fu incontrollabile e Tokes diventò il simbolo, la prima pietra scagliata contro il mastodontico Palatul Parlamentului di Bucarest. Per Ceaucescu, che stava sottovalutando le manifestazioni di Timisoara, era cominciato il conto alla rovescia. La gente corse sotto la sede del Partito Comunista tentando di appiccare il fuoco: partono le prime scariche di mitra, cadono i primi martiri. “Camminavo nervosamente su e giù nel mio studio cercando conforto in quel Dio che mi aveva dato il coraggio di iniziare tutto ciò. Sentivo gli spari di armi da fuoco e mi interrogavo: era giusto quel che stava accadendo? Dovevo arrendermi e consegnarmi agli uomini della Securitate?” Ma no, non si poteva più tornare indietro. La

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rivoluzione, intanto, si diffondeva in Transilvania e avanzava inesorabile verso Bucarest. La televisione di Stato non dava nessuna notizia dei fatti di Timisoara. Nella capitale, le voci arrivavano attraverso le onde di Voice of America e Radio Free Europe. Il 20 dicembre il dittatore romeno rientrò a Bucarest dopo due giorni di visita in Iran. L’indomani, il Genio dei Carpazi – così come si autodefiniva – tenne il suo ultimo discorso convinto di poter riprendere le fila del comando. Dopo pochi minuti dall’inizio arrivarono le contestazioni che non si sarebbe mai aspettato. Le telecamere, che come al solito trasmettevano in diretta le parole di Ceaucescu, staccarono sul cielo sopra la piazza per non mandare in onda l’imbarazzo del leader che farfugliando proseguì, tra interruzioni e silenzi, la litania sul socialismo romeno. I suoi occhi erano puntati sulla parte destra della piazza, da dove i manifestanti facevano sentire il loro dissenso. Elena lo raggiunse sul balcone, guardando con sprezzo a quella marea che osava ribellarsi al loro padre. Da lì a qualche minuto la coppia di tiranni venne trasferita, al sicuro, in elicottero e Palatul Parlamentului invaso dalla gente. La pièce rivoluzionaria era quasi completa: il popolo aveva avuto il suo eroe in Tokes, i suoi martiri nei settantadue morti di Timisoara e il trionfo sul tiranno. Mancava solo una cosa ancora: l’uscita di scena, definitiva, del Genio e di sua moglie. Il finale, raggiunto di corsa, vide un processo sommario e un’esecuzione altrettanto rapida. Dopo soli quattro giorni, da quel 21 dicembre, veniva trasmessa in diretta tv prima la sentenza e poi la condanna. Tokes, l’uomo che sceglieva con attenzione la parole della Bibbia per mobilizzare la gente, non avrebbe mai immaginato di diventare un eroe. George H. Bush, Jimmy Carter e Giovanni Paolo II hanno voluto incontrarlo per dargli merito, ringraziarlo per la sua lotta contro il comunismo e il regime totalitario di Nicolae Ceaucescu. “Anche Ion Iliescu, il primo presidente della Romania libera, si congratulò con me e mi conferì il titolo di Eroe nazionale. Non ho mai aderito alla sua politica e mi sono allontanato. Ho speso tutto il mio passato per rompere il muro del silenzio e per l’affermazione della verità. Non avrei mai potuto scendere a patti con la corruzione di quell’eredità comunista che si era solo cambiata d’abito”. Oggi Laszlo Tokes continua a far tuonare la sua voce nella chiesa riformata di Oradea e nel Parlamento Europeo a Bruxelles. La lotta per affermare i diritti della minoranza ungherese in Romania non si è mai arrestata. Laszlo Tokes. Oradea, Romania 2009. Foto di Massimo Sciacca / Prospekt


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Budapest Ungheria

Il colore dell’erba Di Nicola Sessa Lo scrittore Gyorgy Dragoman racconta la sua infanzia e adolescenza di ungherese cresciuto in Romania, nel mezzo del regime Ceaucescu. Nato nel 1973 a Tirgu Mures, Marosvásárhely per gli ungheresi, lascia la sua città nel 1988 per emigrare in Ungheria. ”Il re bianco”, il suo ultimo romanzo tradotto in dieci lingue, ha ricevuto il premio Sandor Marai. l primo giorno che andai all'asilo mio padre mi disse: “Gyorgy, ci sono poche regole da imparare: primo, non dire mai agli altri bambini o all'insegnante le cose che ci diciamo a casa; secondo, anche se qualche volta sarai arrabbiato fingi che tutto va bene e che anche i tuoi genitori sono felici. Terzo non lasciare mai nulla di tuo a scuola prima di tornare a casa. Se non segui queste piccole regole, tutta la famiglia potrebbe andare in carcere”. Mi insegnò a essere 'riservatissimo' con la stessa naturalezza con cui mi insegnò a lavarmi i denti o ad andare in bicicletta.

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E io mi convinsi che tutto andava bene. Le cose sono cambiate quando i miei genitori mi hanno iscritto alle scuole elementari. Era il 1980 e i diritti della minoranza ungherese furono ridotti ai minimi termini. Prima di allora, le scuole erano miste, nel senso che all’interno dello stesso istituto si organizzavano classi per bambini ungheresi e altre per quelli romeni. Da quell'anno, le classi ungheresi diminuirono drasticamente e io non ebbi altra scelta se non quella di frequentarne una romena. Dovetti imparare in modo perfetto la lingua di Eminescu e Petrescu, la storia riscritta dai nazionalisti romeni - per cui non si doveva sapere che la Transilvania, dove noi vivevamo, fosse appartenuta per lungo tempo al Regno di Ungheria - e poi gli inni: ogni mattina dovevamo cantare “Lunga vita a Ceaucescu e alla Romania”. Nella Scuola numero 14 vivevamo in una sorta di segregazione non ufficiale. C'erano due ingressi, nessuno ci aveva mai detto di farlo ma giorno dopo giorno, naturalmente, noi bambini ungheresi imparammo che la nostra entrata era quella sul retro, mentre dall’ingresso principale entravano i romeni. Dovevi stare attento a quale lingua usavi e a quello che dicevi. Se in classe, distrattamente ti usciva una parola d'ungherese, erano guai. Quando scendevi in cortile a giocare, anche se non c'era una linea rossa disegnata sul terreno, sapevamo che noi magiari dovevamo stare alla destra della grande croce di legno piantata nel mezzo del cortile. Non appena uscivamo da scuola, dimenticavamo tutte queste regole non scritte. Nel palazzo dove abitavo, si giocava e non aveva importanza in quale lingua ci si insultasse. Ma poi, l'indomani ritornavi scuola e, nessuno sa il perché, ci ignoravamo. Molte delle informazioni sulla vita nel mondo occidentale le recepivo attraverso il cinema: c'era un fiorente contrabbando di film. E proprio perché mi appariva attraverso lo schermo della televisione ero convinto che l’Occidente non fosse reale. Quando nei film vedevo i negozi o i supermercati pieni di ogni tipo di prodotti pensavo che fosse tutto finto, tutto creato ad arte per quella finzione. Anni dopo, per la prima volta andai in Austria. 28

Fu più forte di me, la prima cosa che feci fu entrare in un supermercato e aprire le scatole per vedere se ci fosse realmente qualcosa dentro o fossero vuote, piazzate lì sugli scaffali per dare un po' di colore. Perché questo accadeva in Romania: i magazzini erano sempre vuoti, ma quando c'era la visita ufficiale degli alti ranghi del partito li riempivano con scatole che non contenevano assolutamente nulla. In quegli anni, tra il 1985 e il 1986, la situazione per la mia famiglia peggiorò. Gli uomini della Securitate venivano in continuazione a prelevare mio padre per interrogarlo, lo ritenevano politicamente sospetto. Per questo motivo, decise che avremmo dovuto lasciare il paese: era sicuro che se fosse rimasto, sarebbe finito in prigione. Facemmo la richiesta per i passaporti e il nullaosta per l'emigrazione in Ungheria. L'ufficiale addetto ci disse che per il rilascio dei passaporti potevano passare tre settimane, come anche tre anni. Per due anni, ogni giorno controllavamo nella buca delle lettere. Abitavamo al terzo piano. Tutte le volte che scendevo per le scale mi dicevo: “Adesso vedrai che troverò i passaporti, adesso vedrai che troverò i passaporti”. Fu mio padre a trovarli, finalmente, a settembre del 1988. Ci eravamo preparati per due anni a lasciare la Romania e il 17 settembre del 1988 la mia vita cambiò. Valigie e scatoloni erano pronti. Sapevamo che non appena avremmo ricevuto i passaporti saremmo dovuti partire in fretta. ra notte quando lasciammo la città. Per due anni ogni giorno, che poteva essere l'ultimo, cercai di fotografare nella mia mente ogni angolo della strada, ogni dettaglio, le facce delle persone. Ma alla fine quando partimmo, se pure fossi felice di andare in Ungheria, mi dispiacque non riuscire a dare un ultimo sguardo a Marosvásárhely. Avevo molto sonno e il movimento ritmico del treno rendeva le palpebre pesantissime. Ma dovevo rimanere sveglio a tutti i costi: sapevo che il confine era molto vicino e io volevo essere sveglio quando ci saremmo arrivati. Mi incuriosiva, il confine. Aspettavo quel momento da anni e volevo vedere dove finiva l'erba romena e dove cominciava quella ungherese. Nella mia immaginazione credevo che l’erba fosse diversa, che ci fosse una linea, un qualcosa. Rimasi incollato al finestrino, mentre la grande pianura mi scorreva davanti agli occhi che facevano sempre più fatica a tenersi aperti. Il vento che mi arrivava fresco sulla faccia non fu molto utile. Mi dissi: “Va bene, chiudo gli occhi solo per un momento”. Mi risvegliai quando il sole era già alto e con mio padre che diceva, sospirando: “Oh Budapest, Budapest”…

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Il colore dell’erba. Foto di Nicola Sessa ©PeaceReporter


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due ali per agevolare il passaggio del fiume in piena. Applausi, lacrime e abbracci. Il sindaco di Sankta Maragarethen, Waha, che aveva deciso di venire incontro alla delegazione davanti al cancello, si rende conto che qualcosa nel programma è cambiato. Torna subito in città, il più velocemente possibile e chiama tutti gli albergatori, i ristoratori e chiunque fosse capace di ospitare e fornire cibo alla piena che stava arrivando. I conti verranno pagati dal comune, anche le telefonate che i tedeschi dovranno essere di liberi di fare a chiunque desiderino. Nel frattempo lui chiama l'ambasciata della Repubblica Federale Tedesca a Vienna per organizzare il trasferimento e lo smistamento dei transfughi. I Degler non sono in questa ondata. Come tanti altri tedeschi sono seminascosti in un campo di grano, non lontano dal cancello. Ludwig ha già comunicato la sua decisione a Ernst e Friederich, rimarranno ancora un po' a guardare cosa succede e poi si rimetteranno in viaggio per tornare a Berlino, da Ester. Ernst, il più grande dei due, ha diciassette anni. È rapito da quell'esodo, da quelle persone che si lasciano alle spalle il passato. Tira un lungo respiro e preso tutto il coraggio di cui disponeva, fino in fondo allo stomaco, sussurra: “Papà, vado anch'io. Vado nel futuro che la mamma vuole per me”. Ludwig non fa in tempo a riprendersi che Friederich, tredici anni, esclama: “Papà, vado con Ernst”. Era quello che Ester desiderava, ma avrebbe voluto anche che Ludwig andasse con loro per prendersene cura nel nuovo mondo. Un abbraccio, lunghissimo, mille raccomandazioni e i due fratelli vengono inghiottiti dalla folla. A Ludwig non rimane che tornare a Berlino e per il bene di tutti, denunciare il fatto alla Stasi. “Mi sono svegliato al mattino e la tenda era vuota, quei due bastardi non c'erano più!”, dirà poi negli uffici sulla Normannstrasse, con il cuore stretto dalla vergogna per come aveva appellato i suoi figli. l giovane Laszlo Nagy, a capo della delegazione ungherese insieme con i giornalisti, arriva quando tutto stava già succedendo. Rimane di pietra davanti a quello spettacolo e voltandosi verso Konrad, un altro degli organizzatori, chiede: “Finiremo in prigione, vero? O peggio ancora, sarà come il 1956?”. Konrad, un ragazzo di spirito capace di infondere coraggio anche nelle situazioni peggiori, gli dà una pacca sulla spalla: “Caro amico, credo che stavolta qualcosa realmente cambierà. Ma la certezza te la saprò dare solo fra dieci anni, quando staremo marcendo in carcere o seduti in parlamento”. E scoppia in una gran risata. Laszlo la ricorda ancora dopo venti anni quella risata, mentre è seduto in una poltrona di pelle gialla nella hall dell'hotel Sopron. E adesso se la ride anche lui, mordicchiando la croce d'oro di Cavaliere della Repubblica consegnatagli dal presidente in persona: “Siamo il primo gruppo di persone ad aver ricevuto la più alta onorificenza per ‘traffico di tedeschi dell’est… Anzi, siamo gli unici”. Quell'onorificenza gli è stata attribuita per aver organizzato, insieme a una decina di altri pazzi che ci hanno creduto, il Picnic Paneuropeo, l'evento che verrà ricordato per il più grande esodo di tedeschi dell'est dalla costruzione del Muro fino a quel giorno. Il numero di ricevute presentate ad Andreas Waha dai ristoratori e albergatori di Sankta Maragarethen consentirono un calcolo approssimativo che si aggirava intorno ai 780 tedeschi passati dall'altro lato. L’idea di organizzare un pic-nic dove austriaci e ungheresi si sarebbero incontrati per eliminare il filo spinato che li divideva, era nata a Debrecen - quattrocento chilometri a est di Sopron - partorita dalla mente di quattro amici seduti al tavolo di un ristorante. Facevano parte del Magyar Demokrata Fórum, il primo partito costituito quando in Ungheria si decise di abbandonare il sistema del partito unico. Il progetto trovò subito sponda nell’interesse di Otto von Habsburg, discendente della casa reale, ma soprattutto di Imre Pozsgay - il primo ministro riformatore che chiuse l’era Kadar – senza il quale non sarebbe stato possibile mettere in atto l’ambizioso disegno. Fu Pozsgay a intervenire con il comando della Guardia di Frontiera per concedere l'apertura del cancello. I tempi per l'abbattimento della cortina erano maturi: Laszlo e compagni sentivano che il momento era giunto, allora o mai più. Il due maggio di quell'anno il sistema di allarme “Sz-100”, che correva lungo i 246 chilometri del confine ungherese, era stato spento. L'Unione Sovietica aveva interrotto la produzione di quel tipo di acciaio per cui si

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verificava il paradosso che per provvedere alla manutenzione della Cortina bisognava fare ricorso a importazioni dall'Occidente: Francia, Repubblica Federale Tedesca e Italia in testa. I costi erano diventati insostenibili; ma non fu invero solo una questione economica. Alla fine dell'anno precedente, nell'ottobre del 1998, il Ministro di Stato Imre Pozsgay affermò pubblicamente: “Il sistema di allarme elettronico è superato sul piano morale, tecnologico e anche politico”. Ma prima che quel pezzo di storia potesse dirsi concluso a buon fine, bisogna ricordare che nei giorni seguenti le autorità si irrigidirono e per dieci giorni nessun altro tedesco riuscì a passare il confine. Scese in gioco anche la Guardia Proletaria, una sorta di milizia armata del Partito, che fece ricorso anche alle armi per fermare l'ondata di tedeschi. Kurtz Werner Schulz, un cittadino della Ddr che inseguiva il sogno della libertà, perse la vita negli scontri che si verificarono il 23 agosto a Sopronpustza. Fu ancora Pozsgay a intervenire: mandò una troupe televisiva a registrare i blocchi effettuati dalle milizie proletarie. Dopo pochi giorni, gli uomini della Guardia furono richiamati dalle strade. Il 10 settembre fu emesso l'ordine che dalla mezzanotte le frontiere sarebbero state aperte. Mentre la Romania cominciava a innalzare una propria cortina sul confine con l'Ungheria e la Ddr si apprestava a festeggiare il quarantesimo compleanno con lo slogan “Vierzig Jahre Erfolg” - Quarant'anni di Successi -, sessantamila tedeschi dell'est entravano in Austria attraverso la porta aperta a Sopron. Decine di Trabant furono abbandonate lungo la strada che dalla città portava alla piana. importanza degli eventi di Sopron è scolpita nelle parole dell'ultimo primo ministro della Ddr, Lothar de Mazhier che nel 1990 dichiarava: “La caduta del Muro di Berlino è cominciata a Sopron”. Proprio da quella città, avamposto e testa d’ariete del blocco sovietico incuneata nel fianco dell’Austria, quel 19 agosto fu sferrato il primo colpo alla Cortina di Ferro e al Patto di Varsavia, innescando l’effetto domino, il corto circuito che si sarebbe propagato in tutta Europa: solo poche settimane dopo, i tedeschi ballavano trionfanti sul Muro davanti alla Porta di Brandeburgo, la Rivoluzione di Velluto andava in scena a Praga e l'ultimo vampiro di Romania, Ceaucescu, veniva giustiziato in diretta tv.

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Vent'anni dopo La famiglia Degler si riunì nel dicembre dello stesso anno. Ernst e Friederich fecero una sorpresa alla madre piombando alle sue spalle nei giorni precedenti al Natale. Ester prima di abbracciarli e scoppiare in lacrime, diede loro un ceffone a testa. Ogni anno, il 19 agosto, vanno a Sopron dove da venti anni si rinnova la cerimonia del pic-nic. Laszlo Nagy, non andò mai in prigione, ma neanche in parlamento: “La rivoluzione ha sempre mangiato i suoi figli. Ho preferito tenermi la mia vita”. Adesso è un agente musicale ed è manager di importanti cantanti d'opera. Arpad Bella, nel 1999 ha ricevuto anche lui l'onorificenza di Cavaliere della Repubblica. “E' passato un po' di tempo prima di capire che quel giorno avevo fatto la scelta giusta”. Adesso è in congedo e cura la sua vigna nella campagna di Sopron. Il cancello della Cortina è custodito nel garage dell'hotel Pannonia di Sopron. Chiuso in una teca di legno divide la sua gloria con le Mercedes e Bmw dei clienti austriaci che vengono al Pannonia per sottoporsi a interventi di chirurgia estetica fast and chip. Una delle decine di Trabant abbandonate dai tedeschi dell'est è davanti all'ingresso dell'hotel Sopron, assurta a reliquia di quel 19 agosto 1989. In alto: Il cancello della Cortina, garage Hotel Pannonia. Sopron, Ungheria 2009. In basso: Deposito Trabant. Ungheria, 2009. Foto di Nicola Sessa ©PeaceReporter


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Sopron Ungheria

1989, il corto circuito Di Nicola Sessa Le valigie erano pronte già da qualche settimana. Per evitare che qualche vicino ficcanaso facesse troppe domande, Ester Degler le aveva nascoste sotto il letto: non voleva soprattutto che quell’antipatica della signora Marie, che quasi ogni giorno trovava una scusa per intrufolarsi in casa, le vedesse. utto era pronto. L’indomani, all’alba, il marito e i due figli adolescenti o poco più, avrebbero lasciato Berlino Est a bordo della Trabant verde in direzione dell’Ungheria. ‘Amici di amici’ avevano fatto sapere a Ludwig di trovarsi a Sopron in agosto. In quella città, a soli otto chilometri dal confine austriaco, sarebbe successo qualcosa che avrebbe potuto cambiare la loro vita. Correva voce, sempre con parole pronunciate a mezza bocca, che alcuni giovani del Magyar Demokrata Fórum, il Forum Democratico Ungherese, stessero organizzando una specie di pic-nic vicino alla Cortina di Ferro, sul lago Fertorakos a cui avrebbero preso parte ungheresi ed austriaci. Entrati nelle grazie del Ministro di Stato Imre Pozsgay, che con le sue posizioni riformatrici aveva posto fine all'era Kadàr, i giovani erano riusciti a ottenere che le guardie frontaliere ungheresi, d'accordo con quelle austriache, avrebbero aperto temporaneamente un varco nel pomeriggio del 19 agosto per consentire agli austriaci di raggiungere il luogo della scampagnata. Quella sarebbe stata un'occasione buona per passare dall'altra parte, per fare il salto. Ester e Ludwig avevano discusso a lungo: l'amore di una madre che voleva per i suoi figli un futuro libero, diverso da quello che Berlino e la Ddr potessero offrirgli, imponeva al marito una partenza senza di lei. Ester era convinta, e forse non aveva tutti i torti, che sarebbe stato più facile per loro tre ricevere i permessi di viaggio per l'Ungheria se fosse rimasta lei 'a garanzia', lì a Berlino. Chiedeva a Ludwig di fare questo sacrificio, Ernst e Friederich erano più importanti di tutto e il dovere genitoriale doveva superare quello coniugale. La mattina del 10 agosto dopo l'ultimo abbraccio e la promessa che avrebbe portato i ragazzi nel mondo libero, Ludwig si mette in macchina. Dallo specchietto retrovisore guarda Ester che si allontana e diventa sempre più piccola. Ma in cuor suo aveva già deciso, qualsiasi cosa sarebbe successa a Sopron, lui avrebbe fatto ritorno a Berlino dalla sua Ester. Avrebbe raccontato una bugia, che non era stato possibile superare il confine, che le guardie avevano minacciato di fare fuoco... A Sopron, deliziosa città della Pannonia che ha dato i natali a Listz e Bartòk, tutto è pronto. Alle 14, nel corso di una conferenza stampa all'hotel Lovér, gli organizzatori del “Pic-nic Paneuropeo” spiegano ai giornalisti come si svolgerà l'evento: dalle 15 alle 18 le guardie di frontiera terranno aperto il confine, quello che si trova sulla vecchia strada romana, rimasto chiuso dal 1948. Una delegazione del comitato organizzatore raggiungerà la piazza principale di Sankt Margarethen, cittadina austriaca a pochi chilometri dopo il confine, dove il sindaco Andreas Waha li accoglierà con le note degli inni ungherese e

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austriaco. Dopo la cerimonia, la delegazione tornerà a Sopronpuszta, la piana di Sopron, dove è stato organizzato tutto per il pic-nic. Nello stesso momento, il tenente colonnello Arpad Bella, comandante delle guardie alla frontiera, è impegnato in un briefing: mancano pochi minuti all'apertura. Sull'altro lato sono già arrivate diverse centinaia di austriaci. Da un momento all'altro sarebbe arrivata la delegazione ungherese con Laszlo Nagy in testa. La strada in terra battuta che porta al cancello è lievemente scoscesa, alternandosi con un morbido movimento ondulare. Giusto a poche centinaia di metri dal posto di guardia ungherese, la stradina forma una gobba dalla quale all'improvviso spuntano dieci, venti, cento persone. Arpad Bella è preso di sorpresa: quel gruppo di persone che avanza a passo deciso non sembra essere la delegazione che stavano aspettando: sono tedeschi dell'est, riconoscibili dal loro particolare modo di vestire che scimmiotta le maniera occidentale. Quando sono ormai a soli cinquanta metri, Arpad ha ben chiara in mente quale sia la loro intenzione: andare dall'altro lato. I pensieri scorrono veloci nella mente del tenente colonnello Bella. “Questa non ci voleva, proprio”, avrà pensato. Anche perché l'ultima comunicazione ricevuta dai servizi d'informazione scongiurava proprio quello che poteva essere l'unico grande problema. Non c'è molto tempo per decidere. Ordina alle guardie, visibilmente nervose, di tenere giù le armi che hanno già il colpo in canna. Nessun colpo deve essere sparato né per aria, né altrove. Arpad sa benissimo che la situazione in cui si trova può degenerare da un momento all'altro. Se quella gente, nei cui occhi si può leggere la determinazione e la fermezza nel realizzare il proprio disegno, trovasse un ostacolo, la tensione emotiva può mutare in violenza. E dall'altro lato ci sono centinaia di austriaci e molti giornalisti... il mondo stava guardando quel lembo di terra rimasto chiuso per quarantuno anni. Rapidamente la sua mente corre agli insegnamenti ricevuti alla scuola di polizia: in momenti come questi la linea della comprensione e del buonsenso deve prevalere su qualsiasi altra soluzione. Raggruppa gli uomini e ordina loro di fare quello per cui erano stati chiamati, cioè controllare e timbrare i passaporti degli austriaci dando le spalle alla massa che premeva per l'apertura del cancello: un soldato è responsabile solo per quello che vede. Passano due minuti, forse tre e i primi tedeschi passano attraverso lo stretto varco aperto dalle guardie. Gli austriaci formano Altana sul confine austriaco. Sopron, Ungheria 2009. Foto di Massimo Sciacca / Prospekt


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L’ultimo tratto di Cortina. Cizov, Repubblica Ceca 2009. Foto di Nicola Sessa ©PeaceReporter

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Modlareuth Germania

La Piccola Berlino Di Nicola Sessa Modlareuth era un villaggio troppo piccolo per essere notato e i suoi sessanta abitanti troppo pochi per farsi sentire. Eppure questo minuscolo agglomerato di case, a cavallo tra Turingia e Baviera, ha avuto una storia dolorosa almeno quanto quella della capitale tedesca, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Kleine Berlin, la piccola Berlino. l nastro d’asfalto che da Topen porta a Modlareuth, corre in mezzo a campi di crauti e pendii da pascolo. Alti mulini eolici scortano la strada che subito dopo l’ultima collina piega a sinistra aprendo lo scenario su un pugno di case sparpagliate nel mezzo di una vallata. Una striscia tanto bianca da abbagliare, vale più di mille indicazioni stradali. È il muro di cemento che per ventisei anni ha tenuto separati gli abitanti di Modlareuth est - a nord del ruscello Tannbach - da quelli dell’ovest, a sud dell’esiguo corso d’acqua. Il Tannbach era diventato, suo malgrado, linea di confine tra Turingia e Baviera già nel 1810. Un confine pressoché inesistente dal momento che gli abitanti di Modlareuth conducevano vita comune e persone dello stesso nucleo famigliare vivevano indifferentemente dall’uno o dall’altro lato. Quando però nel 1952 fu disegnata la cartina che doveva marcare in maniera indissolubile il confine tra “i due mondi”, non si tenne conto della realtà, che Modlareuth fosse de facto un villaggio unico, ma ci si rifece a carteggi di napoleonica memoria. Kurt e Max Goller erano due fratelli, il primo viveva nella parte nord sotto il controllo della Repubblica Democratica Tedesca, il secondo nella parte sud, agganciata alla Baviera e quindi alla Repubblica Federale. Abitavano a meno di duecento metri di distanza, pochi minuti a piedi. Dal 1952 farsi visita diventò una vera e propria epopea. Prima una barricata di legno, poi il filo spinato e infine, nel 1966, l’alzata di un muro di cemento separò di cento chilometri e sei ore i due fratelli. A differenza di come era stata organizzata Berlino, a Modlareuth non esisteva un check point, né un varco pedonale. Accadeva così che Kurt dovesse chiedere un passierschein, un permesso che veniva rilasciato dalla polizia di frontiera, andare in macchina fino a Plauen, da dove avrebbe preso il treno per Hof, in Baviera. Lì ad attenderlo ci sarebbe stato Max che in macchina lo avrebbe portato a Modlareuth ovest, a duecento metri di distanza da dove molte ore prima Kurt era partito. Modlareuth ha un record notevole: il cento percento delle fughe ha avuto esito positivo. A dire il vero ci ha provato una sola persona, un tal Muner che, essendo autista di una compagnia di taxi locale, aveva tutti i permessi per avvicinarsi alla linea di confine e al muro. Nel 1973 una mattina di

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novembre, le guardie di frontiera trovarono un furgoncino targato NK 3259 parcheggiato lungo il muro, lo sportello aperto e una scaletta appoggiata sul tettuccio della vettura. Muner era passato dall’altra parte del muro e agli uomini della Grenzepolizei, non rimase che incassare lo smacco e documentare la fuga con una fotografia tuttora conservata nel centro di documentazione del museo di Modlareuth. Nessuno poi ha più tentato la fuga. Gli abitanti del villaggio hanno atteso pazientemente la fine di un’epoca: il 17 giugno del 1990, sette mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, i sessanta di Modlareuth hanno preteso l’apertura di un varco pedonale e l’intervento dei bulldozer. I fratelli Kurt e Max sono diventati il simbolo di questo villaggio e una foto li immortala seduti sulle macerie del muro uno a fianco dell’altro. Sono stati fortunati: pur essendo nati agli inizi del Novecento hanno vissuto abbastanza per vedere la caduta del piccolo muro e per frequentarsi liberamente altri dieci anni ancora. ncora oggi le due parti del paesino conservano un diverso prefisso telefonico, codice postale e targa automobilistica; dipendono da due amministrazioni diverse: la parte nord dalla città di Gefell, la parte sud da Topen. Ma da qualche anno è stata ripresa la consuetudine di piantare il maibaum,l’albero della cuccagna che ha un valore fortemente simbolico all’interno delle comunità ‘celtiche’. Il villaggio è diventato un museo a cielo aperto. Torrette di guardia, fari notturni, cavalli di Frisia e reticolati d’acciaio fanno parte di un affascinante cammino nel passato di Modlareuth. I settecento metri di cemento che sono ancora in piedi, sottoposti a regolari interventi di manutenzione, sono lì a ricordare la barbarie di quegli uomini che seduti intorno a un tavolo hanno tirato una riga con la matita, tradottasi in una fredda e crudele separazione iniziata nel 1952 e terminata nel 1990. I circa quarantamila visitatori che ogni anno passano da Modlareuth apportano un significativo vantaggio economico alla comunità, un giusto risarcimento che la Storia le deve.

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In alto: Il muro di Modlareuth. Germania 2009. Foto di Massimo Sciacca / Prospekt In basso: I fratelli Goller. Gentile concessione Museo Modlareuth


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strade e chilometri di binari che si ricongiungono appena dietro l’Oder-Spree Kanal con la linea ferroviaria. Gli Ossi, i tedeschi dell’est, vivono qui, in città come queste. Eisenhuttenstadt è un monumento della Ddr e non è un caso che il museo più importante dedicato all’ex Repubblica Democratica Tedesca, sia proprio nella città dell’acciaio. Il Dokumentationszentrum Alltagskultur der Ddr, il centro di documentazione della “cultura del quotidiano”, è meta di pellegrinaggio di tutti i nostalgici del Paese che non c’è più, del Paese che per qualcuno è rimasto quello delle Meraviglie. Marghareta, la donna alla biglietteria che dà un caloroso benvenuto agli ospiti stranieri, assicura che negli ultimi anni c’è stata una media di oltre diecimila visitatori. Arrivano da ogni parte della ex Ddr: da Dresda, Halle, Gera, Karl-Marx-Stadt – o meglio da Chemnitzer, il nuovo nome della città, come lei stessa si corregge – e, ovviamente, da Berlino. “Vengono a prendersi una boccata di ricordi”, dice Marghareta. È importante comprendere il loro stato d’animo: entrano presi da fremiti di entusiasmo e vanno via, spesso dopo diverse ore, con un magone disegnato sul volto come fossero stati al cimitero”. Tre generazioni, un nipote, una madre e un nonno, si soffermano su ogni dettaglio: bibite, conserve, riviste, detersivi, giocattoli e fotografie. Su una tv Robotron scorrono immagini d’epoca e attraverso una magnifica radio Stern Camping, un accessorio che non poteva mancare al vero campeggiatore, canzoni e voci allegre si diffondono in una delle stanze tematiche dedicate appunto al campeggio, di cui i tedeschi dell’est ne hanno fatto una vera e propria filosofia. asseggiando tra le due ali di Plattenbauten, non puoi fare a meno di notare gli occhi di uomini e donne che seguono il tuo cammino dai loro balconi o da dietro le finestre. A ogni angolo di strada, al centro dei numerosi parchi e nelle piazze spuntano sculture in acciaio, a volte di dubbio gusto, provenienti direttamente dalle fucine della Eko Sthal. All’incrocio tra Strasse der Republik e Linden Alle, l’hotel Lunik giace abbandonato con l’intonaco bianco accartocciato che da lontano somiglia a tanti piccoli crateri lunari; sul palazzo di fronte a contrastare la decadenza di quell’edificio, uno splendido mosaico steso sull’intera facciata. I colori, ancora brillanti, riempiono le scene delle virtù socialiste: Lavoro, Sport e Sapere. I negozi e le due librerie dalle grandi vetrine che danno sulla strada principale hanno ancora un sapore e atmosfere Ost Zeit, del tempo andato. Anche se i prodotti e le merci esposte sono cambiate, sono occidentali, il vetro e le mura che li contengono conservano una memoria che racconta una storia diversa. L’incontro con Alex in uno dei tre bar della città è stato puramente fortuito. Non appena intuito che degli stranieri si aggiravano nella sua città si è gonfiato di orgoglio ed entusiasmo: “Oggi è proprio una giornata fortunata! Sono felice che qualcuno dall’estero venga a farci visita”. Alex ha venticinque anni, fa il poliziotto e ha la giornata libera. Passa un attimo e si propone come guida. È innamorato di Eisenhuttenstadt, e lo si capisce da come ne parla. Insieme a un paio di amici tiene in piedi un blog dove si parla esclusivamente di Eisenhuttenstadt. Come farebbe un fotografo che cerca la posa giusta per ritrarre al meglio una situazione, così Alex decide che il punto migliore per guardare la città è una collina a sud. E non gli si può dare torto: da lassù si riesce a vedere finanche la Polonia. Il centro città è stato dichiarato fin dal 1984 di interesse storico e culturale, classificazione che ha mantenuto anche dopo la riunificazione, pur avendo perduto quella straordinaria posizione politica e soprattutto simbolica di cui godeva all’interno della ex Repubblica democratica Tedesca. La guidapoliziotto descrive punto per punto ogni zona sottostante fino ad arrivare a Ot Furstenberg, il vecchio agglomerato sull’Oder che è stato inglobato, nel tempo, nella città dell’acciaio. La Strasse der Republik, percorsa tutta, conduce direttamente nella piazza principale di questo piccolo borgo. Il passaggio stilistico delle costruzioni è brusco: si passa dalle costruzioni seriali ‘a lastra’, a edifici sette-ottocenteschi di memoria prussiana. Lì ci abitano per lo più coppie di anziani benestanti che hanno potuto investire nell’acquisto di seconde case. Alex non si lamenta della vita a Eisenhuttenstadt: ha degli amici che, come lui, non hanno abbandonato la propria terra, ama il suo lavoro che gli ha permesso di prendere una casa

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in affitto e di andare a Berlino qualche fine settimana per divertirsi. Anzi si ritiene fortunato di vivere nella città ai confini con la Polonia perché risparmia un bel po’ di soldi: benzina e sigarette si comprano a Slubice, la città polacca che fronteggia Frankfurt Oder sull’altra riva del fiume-confine, una ventina di chilometri a nord di Eisenhuttenstadt. Sono in molti a ricorrere a questo espediente. Su Strasse der Republik, al numero 11, la signora Schone con l’aiuto del museo, tiene in vita un appartamento così come doveva apparire negli anni’60. Ci tiene subito a precisare che gli appartamenti di Eisenhuttenstadt erano i migliori di tutta la Repubblica, con fornitura di acqua calda e riscaldamento centralizzato. Erano necessari, insieme a buoni salari, per attirare lavoratori e nuove famiglie nella giovane città. Parquet e gradevoli parati ricoprono tutto l’appartamento e mobili color nocciola di buona fattura ne compongono l’arredamento. Nel soggiorno, un posto d’onore era riservato alla radio, intorno alla quale le famiglie si riunivano per ascoltare la voce di Berlino, piuttosto che programmi musicali e culturali. La signora Schona, seduta su una poltrona racconta con qualche sospiro nostalgico quella che era Eisenhuttenstadt prima della Wende. Vi si è trasferita nel 1968 e ha imparato subito ad amarla. La città era molto grande, piena di vita. Alla Eko lavoravano dodicimila persone. Anche lei lavorava in acciaieria. Tutti avevano un ruolo e tutti erano fondamentali nella vita della comunità. Tutti i complessi residenziali erano come delle isole indipendenti: i negozi per gli acquisti di beni quotidiani erano all’interno dei blocchi, parchi giochi e spazi verdi erano nelle immediate vicinanze, mentre gli uffici, gli spazi culturali e l’area per lo shopping erano in centro città, sulla Linden Alle. C’erano moltissimi bambini. Le madri che lavoravano in fabbrica non avevano nulla di cui preoccuparsi: gli asili erano eccellenti. “Era una gioia – dice la signora Schona - vedere le ‘babysitter di Stato’ portare in giro, a bordo di enormi passeggini, fino a sei bambini”. La Eko provvedeva anche per il tempo libero dei lavoratori: dallo sport, alla cultura fino ai viaggi organizzati. Venticinque club sportivi, di ogni disciplina, si occupavano di tirar su generazioni sane e forti. Il Friederich Wolf Theater, dove si proiettavano film e si rappresentavano spettacoli teatrali, era gratuito; tutti gli eventi culturali erano sponsorizzati dalla Eko, anche quando c’era da andare a Berlino per qualche grande manifestazione. E poi c’erano molti bar e ristoranti. Adesso i bar sono tre e i ristoranti due. Il tempo libero, oggi, è legato ai soldi: ma con tutti i disoccupati che ci sono a Eisenhuttenstadt è difficile immaginare che siano in molti a divertirsi. a signora Schone non sa dire se preferirebbe un ritorno al passato: “E’ una domanda difficile, a cui una persona normale, come ero io ai tempi della Ddr, non può rispondere. Credo sia importante precisare che chi viveva in città come queste non poteva avvertire le pressioni dell’apparato così come magari poteva accadere se vivevi a Berlino a Dresda o a Lipsia. Che interesse poteva avere, per esempio, la Stasi ad ascoltare le conversazioni noiose in una città al confine con la Polonia? Che cosa abbiamo guadagnato con la Wende? Dicono, la libertà di opinione e la possibilità di viaggiare all’estero: ebbene, se pure sono libera di dire la mia, di certo nessuno mi ascolta. Per viaggiare ci vogliono i soldi e quindi credo che molti, ancora oggi, non siano ugualmente liberi. Ma posso dire quello che non c’è più: sicurezza, moralità, valori umani, un’istruzione eccellente e una prospettiva per il futuro”. Quando arriva il tramonto, è facile fare un censimento della popolazione. Le finestre illuminate si alternano con quelle spente, dove non ci abita nessuno. Stando alle proiezioni demografiche, entro il 2015 altre duemila persone lasceranno i complessi. Almeno altre quattrocento finestre si spegneranno. Non tutte le fornaci hanno smesso di produrre 'il nobile metallo'. Quella di Eisenhuttenstadt è ancora oggi una delle acciaierie con il più elevato livello di produzione in Europa. Nel 1989, però, si è spezzato quel delicato equilibrio tra utopia e realtà su cui si era fondata l’illusione di chi voleva costruire la vita perfetta.

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In alto: La signora Schone. In basso: Plattenbauten disabitati. Eisenhuttenstadt, Germania 2009. Foto di Massimo Sciacca/Prospekt


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Eisenhuttenstadt Germania

La città dell'acciaio Di Nicola Sessa È solo lasciando Berlino, dove il confronto tra Est e Ovest è drogato dalla presenza dei “nuovi cittadini” arrivati da ogni parte della Germania e del mondo, che ci si immerge nella realtà della ex Repubblica Democratica Tedesca, la Ddr. isenhuttenstadt dista dalla capitale federale cento chilometri e venti anni. Arrivando da nord, una stele di metallo lucente e il profilo bruciato delle fornaci della EkoSthal, accolgono gli sporadici visitatori nella ‘città dell’acciaio’, il fiore all’occhiello ed esempio industriale della Ddr. Su modello sovietico, l’agglomerato urbano è stato disegnato a servizio della EisenhuttenKombinat Ost, l’acciaieria che nei tempi d’oro dava lavoro a dodicimila uomini e donne. Nel 1950 il Partito approvò il progetto per la costruzione della Eko e della città, il cui nome ufficiale era genericamente Wohnstadt (Città Residenziale). Contemporaneamente, veniva posata la prima pietra a Nowa Huta, in Polonia, e a Dunajvaros, in Ungheria, le altre due città-acciaieria che avrebbero affrancato il blocco comunista dalle importazioni occidentali. A fondamento della costruzione c’erano i “Sedici principi per la fondazione di una città” che seguivano i criteri urbanistici adottati in Unione Sovietica secondo cui “la città è espressione diretta della vita politica e della consapevolezza nazionale del popolo”. Ed ecco arrivare, nel 1951, novemila operai edili impegnati nella costruzione di insediamenti seriali, “democratici nei contenuti e solidi come la Nazione nella loro forma”. I primi Plattenbauten, le costruzioni a lastra in grado di omogeneizzare i vari strati sociali, sono stati innalzati a Eisenhuttenstadt. Di pari passo, procedeva l’avviamento della fabbrica che doveva apparire come fondatrice e nutrice della città stessa, il centro intorno al quale avrebbero orbitato i suoi figli. Nel 1953, quando il primo dei sette complessi residenziali fu completato, la città venne chiamata Stalinstadt, nome che rimase fino al 1961 quando prese quello definitivo di Eisenhuttenstadt. La popolazione è cresciuta a ritmi vertiginosi fino al 1989 quando in città erano presenti oltre cinquantamila abitanti. Nel 1957, le nascite furono 417, i decessi 66. Nel 1967, Eisenhuttenstadt fu proclamata “Città più giovane della Ddr”, con un’età media di ventisette anni. Da un giorno all’altro il giocattolo più bello, il diamante spuntato all’improvviso nella terra bagnata dal fiume Oder si è rotto. La Wende, “la Svolta”, qui non ha sortito effetti benefici. La popolazione si è dimezzata e la città è diventata un posto per vecchi: i giovani sono scappati verso Berlino o altre grandi città. Osservare Eisenhuttenstadt attraverso i vetri della macchina che scorre lenta tra le sue strade è come assistere a un estenuante ‘piano sequenza’ senza sonoro. I blocchi residenziali si ripetono, tutti uguali nella forma e nei colori grigio e marrone. Giusto qualche ombrellone e le tendaline rosse sui balconi donano un po’ di movimento

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alla monumentale natura morta di Eisenhuttenstadt. Quando ci si allontana dal centro della città, la monotonia viene spezzata da cumuli di macerie o da grandi spianate già ripulite dai bulldozer. A causa del grande esodo, interi palazzi sono stati demoliti. Per l’amministrazione comunale il mantenimento di case vuote era diventato troppo dispendioso: i costi erano molto più alti di quelli richiesti per l’abbattimento. Del complesso “Kiefernweg 11-15” è rimasto in piedi solo il cartello blu con la scritta ingiallita. Spuntano, dalla terra che le pale meccaniche hanno smosso, pezzi di vita andata: lembi di stoffa, carte da parato rosa e azzurro, pezzi di lampadari e cocci di stoviglie. oi capita che mentre giri e rigiri con la macchina per le strade fotocopia di Eisenhuttenstadt ti si presenti la scena surreale di due uomini sbracati su sedie di vimini: con una birra in mano e il torso nudo, prendono il sole a cavallo della riga di mezzeria disegnata sul pavé di porfido. Heinrich e Peter, entrambi ben oltre i trent’anni, passano così le loro giornate che difficilmente subiscono variazioni di tema. Si siedono al bar a chiacchierare e poi si spostano seguendo il sole fino al marciapiede sull’altro lato della strada. Di sicuro non c’è pericolo di essere investiti a Eisenhuttenstadt: le uniche tre macchine passate in mezz’ora di chiacchierata aggirano l’insolito ostacolo attente a non disturbare la siesta dei due. “Non è meravigliosa questa città? Ma che diavolo ci fate qui?”, dice con un filo di ironia Heinrich. La disoccupazione è un dato di fatto che i giovani, i pochi rimasti, hanno accettato senza opposizione. Ma anche le duemila persone che hanno conservato il loro posto di lavoro all’acciaieria, sulle dodicimila impiegate fino al 1990, vivono giorno per giorno, sapendo che da un momento all’altro potrebbero essere liquidati dalla Arcelor Gruppe, la holding che ha rilevato la proprietà della Eko Sthal. Fino a un anno fa, l’acciaieria organizzava dei tour guidati all’interno degli impianti. Da quando alcuni di questi impianti sono stati fermati - a causa della crisi finanziaria che ha fatto calare la domanda dell’acciaio - le visite sono state interrotte. Guardandola dall’alto di una collinetta, il complesso industriale appare esteso almeno quanto lo è la città sorta al suo fianco. La strada che parte dal cancello principale arriva direttamente nel cuore di Eisenhuttenstadt. All’interno delle recinzioni si snodano decine di

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Eisenhuttenstadt, Germania 2009. Foto di Nicola Sessa ©PeaceReporter


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IS: Era questo che intendevo: se le due parti si fossero incontrate a mezza strada, forse stasera qui parleremmo in maniera diversa. Ma, come dicevo prima, ci siamo trovati difronte a una assimilazione. Il grande che ha inglobato il piccolo. AD: So che è brutto dirlo, ma è come se la Ddr fosse stata 'invasa' dalla Repubblica Federale. Invasione o no... Ma non è quello che volevano i tedeschi della Ddr? Entrare nel sistema occidentale? IS: Sì, in quell'Occidente che vedevano in televisione. La verità è che il crollo del sistema socialista ha avuto degli effetti devastanti anche nel cosiddetto mondo libero: dopo il 1990 l'Occidente ha subito un brusco arresto nello sviluppo. In un attimo sono svaniti tutti i risultati guadagnati in duecento anni storia. Le lotte in Inghilterra, a Manchester, i valori che si riconoscevano nell'Illuminismo: tutto al vento. In nome della competitività, le politiche sociali sono state sacrificate sull'altare del Capitale. Per rimanere in gara, i governi non possono che tagliare, tagliare e tagliare ancora. Cos'è la crisi economica di questi anni se non l'espressione più pura di questa competitività folle? I politici ti parlano di libertà e democrazia per nascondere questi che sono i grandi problemi che dobbiamo affrontare. Questa finirà, è vero, passerà. Ma le crisi si susseguono. Appena esci da una, puoi intravvederne subito un'altra all'orizzonte. Sembra che ci si sia dimenticati del fatto che esiste un'alternativa a questo sistema di vita. Perché te la ridi, Andreas? Cos'è che ti diverte tanto? AD: Me la rido perché quando l'anno scorso giungevano voci a mezza bocca su questa terribile crisi (che ne avrebbe scoperchiata un'altra più grande, che a sua volta ne conteneva una ancora peggiore), vedevi le persone precipitarsi in libreria a comprare Das Kapital, Il Capitale di Karl Marx: volevano capire cosa stava succedendo. Personalmente io, ma credo anche Ingo, già venticinque anni fa sapevo come sarebbe andata a finire. A scuola noi studiavamo l'economia marxista, non eravamo così naif come volevano farci apparire. Marx era un genio, è stato abilissimo nello spiegare come funzionasse il sistema capitalista e a individuarne tutte le falle: un'analisi perfetta. Peccato che non si sia cimentato in uno studio altrettanto enciclopedico sul possibile modello di sviluppo dell'economia socialista. Ma ditemi, come immaginate le vostre vite all'interno di una Ddr sopravvissuta alle spallate della società tedesca e alla voglia di libertà? IS: Scusa se rido alla tua domanda, non offenderti. Ma è come se mi avessi chiesto: “Ingo, cosa avresti fatto nella vita se fossi nato sulla Luna?”. Non lo so... probabilmente avrei continuato a lavorare nel teatro, quello che facevo prima: piccole sceneggiature, monologhi. In effetti, io esisto come scrittore proprio dal 1990. Già! E ora The New Yorker ti ha annoverato tra i migliori romanzieri del nostro tempo. E tu Andreas, come sarebbe stata la tua carriera? AD: Avrei fatto comunque il regista. Nel 1990 mi sono diplomato alla Scuola di Cinema di Babelsberg e i miei film sarebbero stati prodotti dalla Defa, la casa di produzione statale. Sì, e immagino quanta libertà di espressione avresti avuto: il partito ti avrebbe precettato per qualche film di propaganda, la censura sarebbe stata il tuo più valido collaboratore e a quest'ora i premi ricevuti ai festival internazionali, Cannes incluso, sarebbero stati giusto un sogno. AD: Questo è un vecchio cliché sulla Ddr e sull'intera produzione artistica e letteraria. Anche tu, vedo, sei vittima di questo stereotipo. Io cominciai la scuola nel 1986, quando alla direzione c'era Lothar Bisky: un personaggio straordinario. Era un uomo di partito, è vero, però era un riformatore. Portò all'interno della scuola i concetti di Glasnost e Perestroika. Ci spingeva a esprimerci liberamente e ha sempre protetto i suoi allievi e i suoi film. Nella scuola c'era un'atmosfera molto libera e rilassata. Attraverso le sue produzioni criticò diversi aspetti dell'appara14

to. Per esempio, nel 1988 realizzò un documentario molto duro sulle forze armate della Ddr che non piacque, ovviamente, ai vertici militari. Nonostante mille opposizioni, riuscì comunque a imporne la pubblicazione. Non contesto che dalla Defa uscissero molti film di propaganda, ma altrettanti erano veri e propri capolavori. Molti registi, di comprovata onestà intellettuale, si sono visti stroncare la loro carriera dopo la caduta del Muro e non hanno più lavorato: all'Ovest, i film del nostro mondo non interessavano. Sono stati discriminati dalle produzioni della Germania riunificata? AD: Ma io non parlerei di discriminazione. Credo che nessuno volesse discriminarli. Si tratta di ignoranza: non conoscendo nulla del cinema della Ddr, i produttori non sono stati in grado di capire chi fosse davvero coinvolto nelle logiche di partito e soprattutto di capire i colori e le sfumature di quel tipo di cinema. I tedeschi della Ddr sono profondamente colti e abituati a leggere tra le righe: mentre nella Repubblica Federale si producevano in serie film sul passato della Germania, sulla guerra e sul regime nazista, prendendo a piene mani dalle produzioni holliwoodiane, nella Ddr, ma anche negli altri paesi dell'est, si faceva un lavoro di introspezione sulla vita quotidiana. Ma posso capire che non a tutti interessava aprire una finestra su quella parte di mondo. A te invece è andata meglio, no? AD: Sì. Devo ammettere di essere stato fortunato. Ho finito gli studi in una grande scuola di cinema e sono entrato nel mondo del lavoro nel 1990. Le produzioni della Germania dell'Ovest cercavano giovani direttori che non avessero avuto il tempo di “compromettersi” con il regime. Ingo, nel tuo romanzo 'Vite Nuove' contestualizzi la storia nel 1990, l'anno del cambiamento. Riesci in una battuta a concretizzare la virata che c'è stata nell'ideologia e nel sistema economico? IS: C'è un esempio che può rendere molto bene l'idea: prima del 1989 potevi liberamente criticare il tuo datore di lavoro, ma non potevi dire assolutamente nulla contro il partito; oggi puoi dire ogni sconcezza rivolta ai membri del governo, ma nulla contro il tuo capoufficio. A meno che non ti sia stancato del tuo lavoro. Cosa non ha funzionato? Qual è la differenza con gli altri Paesi del ex blocco sovietico? Perché voi non avete raggiunto ancora l'obiettivo di essere un 'popolo solo', amalgamato? IS: Semplicemente perché non ci siamo venuti incontro naturalmente: ci vuole tempo per assimilare un nuovo sistema di vita, per di più imposto. E venti anni non sono bastati? AD: No. Sono d'accordo con Ingo. Vuoi sapere qual è la differenza con gli altri Paesi del blocco? Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca hanno potuto organizzarsi da soli e fare progressi giorno per giorno, insieme. Hanno potuto creare il loro 'nuovo sistema' senza ingerenze esterne. Ti faccio un rapido esempio: dall'oggi al domani, il sistema televisivo della Ddr è stato spento e si è passati a quello della Repubblica Federale. E sappiamo benissimo quanto la televisione sia un punto di riferimento importante per la gente. A Praga piuttosto che a Budapest, anche la tv ha subito un lungo e lento processo di maturazione-assimilazione. Quindi la missione 'Germania Riunificata', continua? IS: Sì, continua. Ma c'è da modificare un parametro: fino a dieci anni fa bisognava risolvere solo la questione 'geografica'. Adesso c'è anche un altro muro da tirare giù: quello tra ricchi e poveri. È una sfida molto difficile da vincere perché la distanza rischia di diventare incolmabile. Va bene... Allora finiamo il vino e diamoci appuntamento al 2019, per il trentennale. Vedremo a che punto siete e se avrete vinto la sfida. In alto: Andreas Dresen. Potsdam, Germania 2009. Foto di Massimo Sciacca / Prospekt In basso: Ingo Schulze. Illustrazione di Davide Toffolo per PeaceReporter.


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Berlino Germania

A cena con Ingo e Andreas Di Nicola Sessa Andreas Dresen e Ingo Schulze sono per la loro storia e spirito di osservazione due punti di riferimento nel mondo degli intellettuali della Germania riunificata. Entrambi nati nell'ex Repubblica Democratica Tedesca, sfioravano i trent'anni nel 1989. Tanto Dresen nei suoi film, quanto Schulze nei suoi romanzi, pennellano, senza ricorrere mai a trucchi, la vita dei loro personaggi nella quotidianità che scorre lenta. Ho incontrato il regista e il romanziere in giorni e luoghi diversi: il primo a Potsdam, in SchopenauerStrasse; il secondo a Berlino, al 207 di GreifwalderStrasse negli uffici della casa editrice Berlin Verlag. Ho immaginato una chiacchierata a tre, per conoscere il loro punto di vista sul passato della Ddr e quello sulla nuova Germania, senza i filtri e le sfumature dei loro personaggi. L'appuntamento è a Potsdam alle otto di sera nel magnifico parco ai piedi del Palazzo di Sanssouci, la Versailles di Prussia, voluto da Federico il Grande. È una serata di quelle che solo gli sgoccioli di aprile riescono a regalarti. A queste latitudini, gli ultimi raggi solari irradiano ancora di una luce morbidissima i viali del parco. I lampioni si sono accesi da pochi minuti e le lampade ai vapori di sodio sono ancora gialle e fioche. Il tavolo tondo è stato apparecchiato in cima alle scale nel giardino, davanti al grande salone delle feste. Una bottiglia "Cuvée Jérémy" Florimont del 1997, aspetta di essere bevuta. Andreas e Ingo prendono posto di fronte a me, rispettivamente a ore 10 e ore 2. Partiamo dal nocciolo della questione: dopo vent'anni di vita comune possiamo dire Germania Riunificata, missione compiuta? Andreas Dresen, (AD): Dipende dal punto di osservazione. Fino a dieci, quindici anni fa era ancora molto facile individuare, anche a Berlino, chi avesse avuto un passato nell'ex Repubblica Democratica Tedesca. Bastava scambiare due parole per capirlo. Oggi è impossibile distinguere le due entità. Ma questo discorso vale solo per Berlino e dintorni. Se fai un giro in città come Eisenhuttenstadt, Cottbus o anche Jena lì troverai ancora quelli che erano i tedeschi dell'est. Lo stesso discorso vale per quelli dell'ovest, se piombi in una birreria di qualche cittadina della Baviera. A me non interessa se sei un tedesco dell'ovest o dell'est, piuttosto mi preoccupa di capire che tipo di uomo mi trovo davanti. Ingo Schulze, (IS): E sono in molti, quelli dell'est, a credere che non si possa parlare di Wiedervereinigung, di Riunificazione. Tecnicamente, si è trattato di una Beitritt, dell'adesione della Repubblica Democratica Tedesca a quella Federale. Che cosa vuol dire Riunificazione? Mescolanza, scambio tra le due parti. Non c'è stato nulla di tutto questo, anzi... Le differenze si sono rimarcate. Prima della caduta del Muro, tedeschi eravamo noi e tedeschi erano anche quelli della Germania Federale. Si è cominciata a fare distinzione tra i due popoli, paradossalmente, proprio dopo la Wende quando noi ci siamo accorti di essere diversi e abbiamo iniziato a riferirci a noi stessi come Ossi, “tedeschi dell'est”. AD: Ma d'altra parte, nessuno prima di quel 9 novembre pensava che 12

avrebbe perso una parte della loro biografia, che la loro nazione, la Ddr, sarebbe scomparsa dalle cartine... Ma come? Ricordo benissimo che ballavate davanti alla Porta di Brandeburgo cantando “Noi siamo un solo popolo!”. AD: Questo accadeva solo dopo, però... Durante le “Manifestazioni del lunedì”, le Montagsdemonstrationen che ebbero inizio a Lipsia il 4 settembre per poi diffondersi in tutte le altre città, la gente gridava Wir sind das Volk, “Noi siamo il popolo”. Le persone scesero in strada per chiedere più libertà e l'apertura dei confini, volevano poter acquistare le cose e i prodotti che vedevano nei film occidentali. Sottolineavano che in una democrazia è il popolo che deve avere il potere e non un'oligarchia di idioti chiusi in un palazzo. IS: La scomparsa della Ddr non era nei pensieri di nessuno. Anche perché, preso al netto di quelle persone idiote che avevano isolato il popolo dal mondo occidentale, il sistema socialista aveva molti pregi: il sistema sanitario, l'educazione, i trasporti – che per il settanta percento si sviluppava su rotaia. Il diritto al lavoro era qualcosa di concreto e non un'astrazione come lo è oggi nel sistema occidentale. E che dire, poi, del diritto di famiglia: nella Repubblica Federale il divorzio è stato inquadrato nella legislazione solo nel 1976. I miei genitori si separarono molti anni prima e ancora oggi mia madre mi dice di essere stata fortuna a trovarsi nella Ddr, altrimenti avrebbe dovuto sopportare mio padre per molti anni ancora. D'accordo, ma tutte queste cose bilanciavano la mancanza di libertà? IS: Non fraintendermi. Non sto dicendo che la Ddr fosse il sistema perfetto. Siamo tutti d'accordo nel dire che quel sistema si basava su una dittatura liberticida e nessuno vuole tornare indietro. Mettiamola così: non ritengo una grave perdita lo sgretolamento del blocco orientale, ma è quanto meno criticabile la scelta dell'Occidente di voler cancellare tutto quello che fosse della Ddr, anche le cose buone. Non esiste uguaglianza se non c'è giustizia sociale e non c'è dignità per un uomo che non sia posto nelle condizioni di poter lavorare. Sai a quanto ammonta il sussidio che il governo passa ai disoccupati? Quattro euro e venticinque centesimi al giorno. Ora, se prendi il treno da Berlino centro alla periferia il biglietto ti costa due euro e dieci all'andata e altrettanti al ritorno. Ti rimangono cinque centesimi: ci compri la libertà? Possiamo dire che queste persone sono libere? Direi di no, hai ragione. Bernauerstrasse. Berlino, Germania 2009. Foto di Nicola Sessa ©PeaceReporter


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I cinque sensi Illustrazioni di Davide Toffolo

Udito Le cento lingue parlate nella metropoli tedesca, la musica che arriva dai club. Il rumore, assordante, dei cantieri sparsi in città. Il ronzio del gettacemento usato nella ristrutturazione del Muro nella East Side Gallery. Il sibilo dell'ascensore, velocissimo, che porta in cima alla Tv Tower. Le voci di Willy Brandt ed Erich Honecker diffuse dai pilastrini all'incrocio di Bernauerstrasse. Eisenhuttenstadt - Il gran silenzio della città, il vento che irrompe negli ampi vialoni, il rombo di stormi di motociclette che attraversano la città dell'acciaio da nord a sud. Il cicalio per i non vedenti , fortissimo, ai semafori. Gli zoccoli di un cavallo, che al piccolo trotto, rompono il silenzio della Linden Alle. Il pianto di un bambino che proviene da chissà dove e la voce dolce e consolatrice di una madre. Modlareuth – Il motore acceso dei pullman che aspettano il rientro dei turisti dal tour. Le voci microfonate delle guide inglesi, francesi e tedesche che raccontano gli anni della separazione. Il fischio di un merlo appollaiato sulla staccionata del laghetto. Il gorgoglio del ruscello Tannbach che segna il confine tra la parte ovest e la parte est del villaggio. Sopron – Il rollio degli pneumatici sulla striscia di ghiaia, unico segno di confine rimasto tra Ungheria e Austria. Il campanello dei ciclisti che 10

seguono il percorso della Cortina. La lettura che una signora fa, sottovoce, dei testi esplicativi sul luogo del picnic. L'incomprensibile lingua ungherese con le sue interminabili parole che compongono infinite frasi. Oradea – La litania di una vecchia zingara che chiede l'elemosina ai passanti. La voce possente del rabbino che recita la Torah. La musica italiana che pompa dagli stereo delle macchine. Le scariche elettriche dei tram.

Vista Seguire l'infinita serpentina dove correva il muro e finire sulla grande parete d'acciaio in Bernauer Strasse che chiude l'ultima doppia sezione di muro rimasta in piedi come una grande scatola. Sbirciare tra le fenditure dei blocchi di cemento. La striscia della morte che corre in mezzo alla sabbia levigata, i riflettori notturni e il filo spinato. Salire sulla torre di osservazione dal lato ovest e catturare il colpo d'occhio dall'alto. Sulla sinistra la cappella della Conciliazione rimasta chiusa nella ‘striscia della morte’, inagibile per molti anni. Nel 1985 il governo della Ddr ne ordinò la demolizione. È stata ricostruita e inaugurata il 9 novembre del 2000. La TV Tower in Alexander Platz. Gli infiniti blocchi abitativi di Marzhan. Eisenhuttenstadt – I sei camini bruciati

dell'acciaieria Eko Stahl. Le strade in porfido e il centro città immobile come una natura morta. I plattenbauten, gli edifici di stampo sovietico, con i loro mille grigi e marroni. L'Oder-Spree Kanal che attraversa tutta la città e i parchi ben curati di pertinenza a ogni blocco. I vetri delle finestre spaccati dal vento. Le case vuote. Le case abbattute. La skyline dell'enorme acciaieria che incombe sulla città. La Polonia oltre il fiume Oder. Modlareuth – I campi di crauti in fiore, il bianco abbagliante del muro che divideva la “Piccola Berlino”, le torrette alte e quelle basse, le recinzioni di acciaio, i cavalli di Frisia e i blocchi di cemento conservati all'interno del museo all'aperto di Modlareuth. La manciata di case in legno scuro dall'una e dall'altra parte del muro. Sopron – La piana dove si è tenuto il pic-nic, la grande altana di controllo, tranci di filo spinato, la ghiaia sul confine tra Ungheria e Austria, il portone di bronzo a memoria del BreakTrough, il più grande esodo di tedeschi dell'est dalla costruzione del muro al 1989. I campi di grano ai lati della strada che “porta in Europa”. Il cancello della cortina conservato nel garage dell'hotel Pannonia. Oradea – La Puszta ungherese che invade la Romania fino alle porte della città. Le sinagoghe e le chiese costruite fianco a fianco. La pulita e ordinatissima zona pedonale. La galleria che accoglie i bar più eleganti di Oradea.


Gusto Nella capitale berlinese è possibile mangiare qualsiasi tipo di cibo. La fanno comunque da padrone le cucine turche, libanesi e italiane. Ma c'è sempre spazio per le salsicce con il purea di patate, i crauti e un apfel strudel caldo con gelato alla vaniglia. Eisenhuttenstadt – A fianco della cucina tipica tedesca, fa la comparsa quella polacca. La Polonia è a un tiro di schioppo e la sua influenza, soprattutto nella preparazione delle zuppe si fa sentire. La vicinanza del fiume Oder consente di mangiare del buon pesce, magari grigliato. Modlareuth – Il cibo è tipico bavarese, ma la naturale vocazione turistica della città abbassa notevolmente la qualità e la cura con cui viene preparata anche la più classica salsiccia o schnitzel. Sopr on – E' una vera sorpresa: molta creatività e qualità delle carni eccellenti. Mangiare una zuppa d''aglio in un piatto di pane, un goulasch o un filetto di carne in questa città dai forti caratteri asburgici è un autentico piacere per il palato.

resina nel Tiergarten. I fumi dei barbecue organizzati nei parchi della città per lo più dalla comunità turca. Il profumo del pane fresco. L'odore pungente delle vernici usate dagli artisti impegnati nella ristrutturazione della East Side Gallery. Eisenhuttenstadt – Il vento che trasporta nelle narici i profumi dei fiori piantate nelle aiuole davanti agli edifici. L'invitante aroma di caffè espresso proveniente dal circolo anziani. Modlareuth – L'odore di salsicce arrostite e crauti bolliti indicano l'unico ristorante del villaggio. Sopr on – La libertà, che qui ha assunto un profumo tutto suo, ricostruibile attraverso il racconto di quelli che a Sopron, nel 1989, c'erano: ha il profumo del grano che solleticava il naso di chi vi rimaneva accovacciato, nascosto per non essere visti; ha l'odore della terra che al mattino sprigionava l'umidità accumulata nella notte. La libertà ha l'odore acre del sudore di chi aspettava. Ha l'odore salmastro delle lacrime. Oradea – L'odore della torta di patate viene sopraffatto dal fritto di un McDonald. Lo spirito alcolico della grappa raggiunge diretto il centro dei polmoni.

Olfatto

Tatto

I profumi delle cucine etniche e l'odore di

La polvere di cemento sgretolato nelle

giunture del Muro. Gli strati morbidi delle vernici sovrapposte al Mauer Park. Il ginocchio tondo, di bronzo, del milite ignoto a Treptower Park. La sabbia fine della spiaggia sullo Sprea. Il corrimano in legno del vecchio magazzino sulla Oranienburgstrasse. I mobili resi ondulati e croccanti dal tempo. L'acciaio ruvido e granuloso dell'armatura del cemento. Eisenhuttenstadt – I frammenti delle lastre dei plattenbauten, gli oggetti della quotidianità conservati nel Centro di Documentazione del museo di Eisenhuttenstadt, le tendine bianche ricamate, il cemento levigato dello skate park, l'acciaio caldo delle statue appostate a ogni angolo della strada. La ringhiera arrugginita del ponte sul canale. Modlareuth – I pioli della scala di ferro che si arrampicano sulla torretta di controllo, le 'spine' delle recinzioni, i cingoli del carrarmato russo parcheggiato all'ingresso del villaggio, il maniglione dell'elicottero abbandonato, il rilievo della targa metallica che segnava il confine tra le due Germanie. L'acqua freschissima del ruscello. Sopron – Il lungo respiro della Storia che scorre come un fiume sotto terra. La scossa emotiva che attraversa tutto il corpo quando si appoggiano le mani sul cancello di legno conservato in un hotel del centro. E là che premevano i corpi dei tedeschi dell'est in fuga verso l'Austria. 11


quando il presidente Kennedy giunse a Berlino per condannare, con il celebre discorso, il sistema comunista che avvinghiava nella sua morsa l’Europa centrale e orientale, Ingrid fu scelta per essere sul palco insieme a Jfk e a cena la sera. Dopo qualche anno, il marito di Ingrid morì. Fu da allora che cominciò ad avere una vita sociale molta attiva. Dovunque si inaugurasse qualcosa, la signora venuta dalla Polonia era presente: prime al cinema, all’opera, mostre d’arte e presentazioni di libri, lei c’era. Quando nel 2005 si è ammalata di cancro alla pelle, che come lei stessa diceva la faceva apparire simile a un rospo, chiamò Remo chiedendogli di conservare tutti i suoi libri, i suoi diari e quarant’anni di corrispondenza: presto avrebbe dovuto ricoverarsi in ospedale. Non aveva molti soldi e il padrone di casa si era già rivolto al giudice per chiedere lo sfratto. Dopo un lungo lavoro di archiviazione certosina e con l’aiuto di alcuni amici, l’americano che era diventato un berlinese, si portò a Schonhauser Alle, numero 50, diverse tonnellate di carta delle ventisette conservate a casa di Ingrid. La tenuta dei libri contabili e dei diari indicizzati al minuto era maniacale. La corrispondenza rivelava una fitta rete di conoscenze e la familiarità con i più alti ranghi della massoneria tedesca. Ingrid, oggi, è in un centro di accoglienza per senzatetto. È lì che continua le cure; i medicinali hanno offuscato la brillantezza e messo in ginocchio una vita degna di finire in una sceneggiatura.

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ercare una casa a Berlino Est non fu facile per Remo, anche se non aveva molte pretese: solo il bagno in casa e l’allaccio alla rete telefonica. Non immaginava che stesse chiedendo qualcosa che poteva trovarsi solo nelle case appartenute alla casta dei privilegiati. Normalmente i bagni erano comuni, nelle scale, e il telefono era un miraggio. Dopo una prima esperienza a Friederichshain, si spostò a Prenzlauer Berg. Trovò un palazzo dove c’era quel che cercava: telefono e bagno in casa. Ma scoprì subito il perché: nel condominio ci abitavano tutte persone che avevano avuto un passato nella Stasi, la polizia segreta della Ddr, che eguagliò e forse superò in destrezza i maestri russi del Kgb. I messaggi di odio che la gente lasciava fuori dal portone erano inequivocabili. Gli abitanti dell’edificio si detestavano l’un l’altro e continuavano nelle loro attività di ‘spionaggio’. Come un serpente a cui sia stata mozzata la testa preso dalle convulsioni procede nei suoi movimenti senza controllo, così questi uomini e donne si erano ridotti a controllare le persone che entravano nel condominio e l’esatta collocazione della spazzatura nei diversi bidoni della differenziata, non essendo escluse accurate indagini nei sacchetti dei vicini. È capitato anche a lui. Erano le sette della sera quando un uomo che non aveva mai visto, ma che di certo abitava nello stesso condominio, bussò alla sua porta. Non appena aprì, gli svuotò l’intero contenuto del sacchetto dell’immondizia sul tappetino all'ingresso. “In America non fate la raccolta differenziata?”, esclamò l’uomo ironicamente. Poi all’improvviso l’espressione del suo volto mutò e assunse il tono meccanico di un distributore di sigarette: “La latta, la plastica e l’alluminio vanno nel bidone numero uno, il vetro marrone nel numero due, quello bianco nel tre, l’umido nel quattro, la carta nel cinque, ma se è imbrattata di cibo va nel sei… E si attenga agli orari stabiliti dal regolamento. Dopo le dieci tutto deve essere silenzio”. Dopo un formale, ma cortese saluto l’invito a essere più attento. Sei mesi bastarono a Remo per fuggire da quella gabbia di matti. Fu allora che si spostò su Schonhauser Alle a Prenzlauer Berg, il quartiere prescelto dall’élite culturale della città e non solo. Il suo vicino di casa era Herr Neumann, un attore dal passato glorioso nel cinema e nella tv della Ddr, almeno fino agli anni ’80. Nel 1985 il figlio di Neumann stava tentando di

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scappare dalla Repubblica Democratica Tedesca. Fu arrestato ancora prima di mettere in atto il suo piano: qualcuno che gli era molto vicino lo aveva tradito. Trascorse due anni nelle carceri di Bautzen II, un pezzo d’inferno nella medievale e tranquilla cittadina della Sassonia. Il padre cadde nella disperazione per la sorte del figlio e anche perché la sua carriera era stata stroncata. Come tutti i parenti di chi avesse cercato la fuga all’ovest, era stato iscritto in una ‘lista nera’, una persona di cui il regime non poteva più fidarsi. Il giovane Neumann fu liberato dietro pagamento del governo di Bonn e spedito a Berlino Ovest. Non sarebbe potuto rientrare in Ddr (se mai lo avesse voluto) per i seguenti quindici anni. Pare sia stata una pratica abbastanza frequente, soprattutto negli ultimi anni di vita della Ddr, che a Palast der Republik, sulla Unter den Linden, si chiedesse per la liberazione dei prigionieri un vero e proprio riscatto ai paesi dell’ovest. Ciò consentiva di ossigenare le casse della Repubblica. Più di una volta, Remo ha accompagnato Herr Neumann a visitare a suo figlio. Di lui è rimasto in piedi solo il contenitore fatto di muscoli e ossa: è un uomo completamente svuotato, spezzato dai trattamenti ricevuti alla Gedenkstatte Bautzen II. Come molti altri hanno scelto di fare, anche i Neumann si sono rifiutati di spulciare nelle cartelle della Stasi per vedere chi avesse venduto la vita di un giovane che voleva spiccare il volo. Scoprire che fosse stato un amico, o peggio ancora un membro della famiglia, sarebbe stata una condanna peggiore di quella ricevuta nelle prigioni di Bautzen. Neumann è la sola persona della ex Ddr che con Remo non ha mai speso una sola parola a favore del regime, perché ha pagato un pesante tributo. Nonostante gli oltre venti anni vissuti nei privilegi e nella notorietà. ‘Chi parla bene di quegli anni deve aver dimenticato anche la propria vita’, spiegava Neumann a Remo. Non esiste privilegio o merito alcuno che possa essere messo sul piatto della bilancia, quando sull’altro c’è la libertà. ppure non è raro incontrare dopo vent’anni chi guarda con nostalgia a quel periodo in cui tutti avevano un posto nella società ed erano il Partito e lo Stato a pensare a ogni cosa. Vicino casa di Remo c’è uno dei tanti spazi verdi che esplodono in mezzo alla città, che non si sono arresi al cemento, che non hanno ceduto un solo centimetro. È l’Ernst Thalman Park, dedicato al segretario del Partito Comunista tedesco ucciso nel campo di prigionia a Buchenwald nel 1944. Il parco è uno dei fiori all’occhiello dell’edilizia comunista: venti ettari e solo sei palazzi che danno alloggio a quattromila persone. È un’isola indipendente con scuole, negozi, piscine, palestre e anche un planetario, costruito dalla Carl Zeiss di Jena. Entrare al Thalman Park vuol dire fare un tuffo nel passato: un nonno legge un libro al nipote che concentrato corruga la fronte; un gruppo di mamme controllano da lontano i piccoli che saltano giù dallo scivolo rotolando nella sabbia; le panchine, al sole o in ombra, bastano per tutti. Non è difficile intuire come la pensano gli abitanti di quest’isola, e non si può non dare credito alle parole di Guido, un teutonico sulla cinquantina: le persone anziane che vivono qui, non escono dalla zona residenziale per nessun altro motivo se non per visite mediche o per ritirare la pensione. Questo è il loro paradiso, il loro universo; questa era la loro vita. A due a due, coppie di anziani coniugi che si tengono per mano passeggiano lentamente nei camminamenti sotto i ciliegi e i siliquastri, i cosiddetti alberi di Giuda sui quali i fiori, bellissimi, appaiono ancor prima delle foglie. Il siliquastro è un bugiardo, un traditore proprio come Giuda: dopo pochi giorni i petali color ciclamino scompaiono. Ma l’impressione è che qui le persone abbiano la scorza dura e che abbiano imparato a fiutare da lontano l’odore dell’inganno.

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In questa pagina: L’orso di Berlino. Nella pagina accanto: Ipotesi Ingrid. Illustrazioni di Davide Toffolo per PeaceReporter


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Berlino Germania

Un americano a Berlino Di Nicola Sessa Berlino è struggente. Di giorno, maestosa a ogni angolo di strada, è lì a lavorare per sciogliere il suo passato, per metterlo in un angolo; di notte, l’affanno dell’animale ferito invade le strade della capitale che alla storia dell’ultimo secolo ha pagato un conto salato. Più di ogni altra. opo vent’anni la città ha quasi completamente rimarginato quella ferita lunga oltre cento chilometri, larga diverse decine di metri: oggi è ridotta a una semplice doppia fila di pietre di porfido, a punti di sutura cuciti sull’asfalto. Quella lunga striscia marrone discreta e spesso invisibile che puoi sentire quando ci passi su con la macchina: un semplice break sonoro che segna il passaggio da una parte all’altra della città, come lo scratch di una puntina su un vecchio disco. Ecco. Se non fosse per questo non ti accorgeresti di nulla, perché le due Berlino si sono venute incontro e si sono mischiate assurgendo a vetrina della Wiedervereinigung, della Riunificazione tedesca. Berlino non è facile da disegnare perché Berlino è una prima donna, bellissima. È essa stessa a raccontare la sua storia e a decidere di mostrare le sue viscere, di concedersi in misura sempre diversa, ai suoi abitanti e a quelli che ogni anno raggiungono il suo ipotalamo, il centro delle pulsazioni, alla ricerca di una memoria sensoriale che il più delle volte viene mortificata da patetiche scenette di uomini grotteschi vestiti alla maniera della Grenzepolizei. Questi visitatori che si mettono in fila al check point Charlie in Friederichstrasse per farsi lasciare sui passaporti, veri, i timbri falsi della ex Ddr per pochi euro, sono lontani anni luce da quelli che solo fino a venti anni fa vi si accalcavano per ricevere un permesso di visita. Tränenpalast, il palazzo delle lacrime: così era chiamato l’edificio in cui si trovava la grande sala d’attesa. È Berlino, dunque, che racconta. E lo fa con le voci delle persone, ma soprattutto attraverso gli occhi dei figli della Svolta, i Wendekinder, di coloro che hanno vissuto quegli eventi a cavallo dei vent’anni, quando i sensi sono amplificati e lo sguardo è scevro di pregiudizi e responsabilità. Remo Vincent Lotano è un figlio adottivo di Berlino. Architetto e artista statunitense, è arrivato all’aeroporto di Tegel agli inizi degli anni ‘90. Gli altri suoi amici del college avevano scelto di vivere l’esperienza del Vecchio Continente spostandosi tra Praga e Budapest. Remo scelse Berlino: voleva assistere al processo della riunificazione da vicino, nella città dove gli aliti di Est e Ovest si sarebbero condensati, dove si era appena chiuso il capitolo della storia europea divisa e si stavano scrivendo le prime righe della Neue Europa. Doveva rimanerci per tre, quattro mesi al massimo. Oggi è ancora lì a condividere, con un matematico di Amburgo e un’etologa di Parigi, l’appartamento al numero 50 di Schonhauser Alle, nel cuore di Prenzlauer Berg. Ancora nel 1994 risultava difficile vivere in quella che era la parte est della città, soprattutto per chi come lui, cresciuto nell’opulenta Virginia, era abituato a ogni tipo di comodità. Berlino Est appariva ancora molto grigia, mancavano infrastrutture e servizi. I negozi aperti erano pochissimi e poveri di prodotti. Remo ha sperimentato in prima persona la coesistenza di due sistemi completamente diversi: andava a rifornirsi nella parte ovest della città dove si trovava di tutto e poi rientrava a casa, nell’est, dove conduceva una vita da bohemien. Nonostante tutto, l’atmosfera era elettrizzante. Gli

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occhi piccoli e mobilissimi del giovane americano sbarcato in Europa assetato di storia e di storie, hanno penetrato l’intera città. Adorava frugare negli edifici deserti, negli appartamenti svuotati di quelle persone che anelavano all’idea di libertà venduta sui banchi dell’Occidente. Capitava sovente che entrasse in un “blocco” al mattino e ne uscisse quando non c’era più luce per continuare le sue indagini. Le ore scivolavano leggendo diari abbandonati e guardando album fotografici. Era chiaro che chi aveva lasciato quelle case, aveva voluto seppellire tutto il proprio passato. Anche quelli che non potevano permettersi di lasciare l’appartamento o semplicemente non volevano, cancellavano, a loro modo, la memoria: tutti i mobili e le suppellettili, ogni oggetto che potesse ricordare i giorni vissuti nella Repubblica Democratica Tedesca venivano scaricati agli angoli delle strade. Gli Ossi, i tedeschi dell’est, per molto tempo non hanno avuto la possibilità di acquistare nuovi prodotti e avere in casa degli arredi occidentali, come quelli dei Wessi, i tedeschi dell’ovest. Era un desiderio divenuto incontenibile: gli abitanti di Berlino Est avevano scoperto l’Ikea e il Kaufhaus, “il Grande magazzino dell’Ovest”. Dopo decenni di resistenza, il consumismo si era infilato anche nelle case di queste vittime inconsapevoli. emo non ha comprato un solo mobile del suo arredamento. Letti, divani, librerie, tavolo e sedie vengono tutti dalla strada, tutti hanno avuto una vita precedente sotto la Ddr. Neppure le centinaia di libri, catalogati per argomenti sugli scaffali, sono stati acquistati: la maggior parte dei volumi appartenevano a Ingrid, una vecchia signora di Berlino. L’incontro con Ingrid avvenne all’inaugurazione di una mostra collettiva che ospitava un’installazione dell’artista statunitense. Si piacquero subito: lei era molto colta e il suo passato conquistò la curiosità di Remo. La sua famiglia veniva dalla Polonia; si trasferirono a Berlino nel secondo dopoguerra. Negli anni ’50 lavorava come attrice di teatro e conobbe Bertold Brecht con il quale strinse una forte amicizia. Si sposò con un musicista che con la sua orchestra si esibiva spesso nella base Usa di Berlino. Il 13 agosto del 1961, Ingrid era alla base quando il generale interruppe la performance del gruppo per avvertire tutti: ‘Da oggi, Berlino sarà divisa in due da un muro. Non sarà più possibile passare da una parte all’altra’. Ingrid, che con suo marito viveva nella parte est della città, decise di rimanere a ovest. Non importava quello che era rimasto dall’altra parte. Per molti anni, Ingrid perse ogni contatto con la famiglia. Avrebbe voluto avvertire la madre per farla passare quello stesso 13 agosto sulla riva opposta dello Spree. Ma come ogni estate, la madre andava per qualche settimana in vacanza sul Mare Baltico. Sarebbe stato impossibile per lei raggiungere Berlino nel poco tempo ancora a disposizione per fare una scelta di campo. Doveva cominciare una nuova vita: si iscrisse alla Freie Universitat.

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L’arte di Remo. Illustrazione di Davide Toffolo per PeaceReporter


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Sul Muro, stavolta per gioco. Berlino, Germania 2009. Foto di Massimo Sciacca/Prospekt

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“Il Muro rimarrà in piedi altri cinquanta o cento anni, se le ragioni della sua esistenza non saranno state rimosse” Erich Honecker, Capo di Stato della DDR Berlino, 19 gennaio 1989

settembre 2009 mensile - anno 3, numero 9

Direttore Maso Notarianni

Caporedattore Angelo Miotto

Redattori Christian Elia Luca Galassi Alessandro Grandi Enrico Piovesana Nicola Sessa Stella Spinelli

Traduzioni Anna Agliati Nicola Bortolozzi Tiziana Dandoli Fiach Dunlaing Maria Gabriella Ierardi Giulia Lambertini Marija Malova Laura Passetti Claudia Redigolo Sara Zapponi

Progetto grafico Guido Scarabottolo Oliviero Fiori Segreteria di redazione Silvina Grippaldi

Amministrazione Annalisa Braga

Hanno collaborato per le foto Samuele Pellecchia/Prospekt Massimo Sciacca/Prospekt Illustrazioni Davide Toffolo

Redazione e amministrazione Via Bagutta 12 20121 Milano Tel: (+39) 02 801534 Fax: (+39) 02 80581999 peacereporter@peacereporter.net

Edito da Dieci dicembre soc. coop. a r.l. Via Bagutta 12 - 20121 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07

Stampa Graphicscalve Loc. Ponte Formello - 24020 Vilminore di Scalve (Bg) Finito di stampare 31 marzo 2009

Foto di copertina: Cizov, Repubblica Ceca 2009. Massimo Sciacca/Prospekt

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esta oggi solo una cicatrice. Il 9 novembre 1989 il Muro è scavalcato, gli squilibri stratificati divenuti normalità saranno sradicati in pochi mesi. Nelle menti dei cittadini dell'Est le mappe mute dell'Ovest si riappropriano di strade e colori. La curiosità del bastione capitalista si spinge veloce nelle architetture oltre Cortina. Sembra un paradosso, ma quei reticolati e recinzioni lungo quasi settemila chilometri erano punti di sutura spinati che trattenevano a stento l'impossibilità di scrivere confini innaturali. Restano della Cortina di Ferro solo tracce evanescenti, ruderi divenuti stele di memoria dolorosa o attrazione di un turismo delle icone del Novecento. Questo numero speciale nasce da una cartina appesa a un muro e uno sguardo insistito lungo quella ferita che correva dalle temperature artiche di Murmansk fino al confine con la Tracia. Venti anni fa i bruschi cambiamenti e il crollo del blocco dell'Est avevano un nuovo volto, nobile: quello del passaggio alla Libertà. Venti anni dopo in un contesto economico, politico e sociale stravolto, un gruppo eterogeneo di inviati si è mosso per comprendere e raccontare schegge di quotidianità, di pensiero di quanti abitano quella cicatrice. Andare a toccare il legno dei cancelli proibiti, sentire le voci di chi ha vissuto perpendicolare e parallelo al mondo delle ideologie e di quanti la Cortina non l’hanno mai conosciuta. Abbiamo viaggiato verso Nord e verso Sud, epicentro Berlino, per le firme di Luca Galassi e Nicola Sessa. Il progetto lungo la Cortina di Ferro non sono solo parole e foto di questo numero speciale: sarà presto un prodotto multimediale realizzato con Prospekt photographers, BeccoGiallo, la regia video di On/Off. Quello che resta dello sfregio del secondo dopoguerra, lungo migliaia di chilometri, sta nelle storie cercate o casuali che abbiamo incontrato. La libertà è un pensiero, un bisogno prorompente che divelle qualsiasi gabbia. Non può, per sua natura, finire ostaggio di una sola visione del mondo, una volta scavalcato il Muro. La cicatrice resta ben visibile, ancora oggi.

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Angelo Miotto, ideatore e coordinatore del progetto

Foto di IV copertina: Kaliningrad, Russia 2009. Samuele Pellecchia/Prospekt

Distribuzione in libreria Joo Distribuzione - via F. Argelati 35, 20143 Milano - Tel 028375671

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moziona chi c’era, risentire oggi le parole del presidente della Germania dell’Est che a pochi giorni dalla caduta del Muro profetizzava lunga vita alla Cortina di ferro e al sistema “socialista”. Un nemico che ci era presentato come ferocissimo e assai potente. Nel nome della “lotta per la libertà” sono state commesse in occidente, e dall’occidente, le peggiori atrocità. Colpi di Stato, in Europa, Africa e America Latina, dittature sanguinarie, strategie del terrore, stragi, accordi con mafia, narcotrafficanti, produttori di eroina, e guerre, caldissime e lontane dal fronte principale che correva lungo l’Europa. Il “nemico”, poi, si è rivelato per quel che era: una tigre di carta, e infine si è squagliato come neve al sole. Oggi rimane profonda la diseguaglianza tra l’est e l’ovest dell’Europa. Il muro non c’è più. Rimane – salvo rarissime eccezioni -la differenza: di qui la ricchezza, di là la povertà. Emoziona anche toccarle con mano, queste differenze. Sentirle raccontate dai protagonisti. Senza la memoria non si può costruire il futuro. E nemmeno comprendere un presente fatto di nemici immaginari, nel nome della lotta ai quali l’occidente compie ancora le sue atrocità e muove le sue guerre.

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L’informativa completa è disponibile sul sito di Picomax: www.picomax.it Scritti, disegni e fotografie anche se non pubblicati non verranno resi.

Maso Notarianni 3


poste italiane s.p.a. - spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, dcb milano

mensile - anno 3 numero 9 - settembre 2009

Attraverso il fantasma del Muro Memorie, ricordi e attualità di un’Europa divisa in un viaggio di oltre cinquemila chilometri

3 euro


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