NoEgo-1 - Spiritualità critica

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SPIRITUALITÀ

CRITICA TUTTO È NULLA Paradossi e contraddizioni del ricercatore olistico





S P I R I T UA L I T À CRITICA tutto è nulla Paradossi e contraddizioni del ricercatore olistico

SPAZIO INTERIORE


NOEGO 1 Spiritualità critica Tutto è Nulla. Paradossi e contraddizioni del ricercatore olistico © 2021 Spazio Interiore Edizioni Spazio Interiore Via Vincenzo Coronelli 46 • 00176 Roma www.spaziointeriore.com redazione@spaziointeriore.com copertina e progetto grafico Francesco Pandolfi I edizione: ottobre 2021 ISBN 979-12-80002-35-8 Tutti i diritti sono riservati.

Finito di stampare nel settembre 2021 presso Lineagrafica srl, Città di Castello (pg)


Indice TRAMA E LOCANDINA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 ARTI PERFORMATIVE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 Chi è l’operatore olistico? Di cosa si occupa? E come lo fa? Arti performative Theta Healing Viaggio sciamanico Reiki Registri Akashici Dialogo con i maestri invisibili Varie ed eventuali

PER DIVENTARE ATTORI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37 Un corso tipo. Diario di bordo di un critico che fa di tutta l’erba un fascio Tutto è Uno Creatori della Nostra Realtà La Legge dello specchio La giusta distanza


Primo Intermezzo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

79

DIETRO LE QUINTE. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 Amore incondizionato Vite passate Contraddizioni e aggiustamento dei costumi Credere o sapere?

Secondo Intermezzo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

123

REGISTA E CANOVACCIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 Strutturazione della trama (o della propria coscienza) Paura della libertà Canovaccio e tempismo divino I limiti del copione

Terzo Intermezzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 ATTORI, PUBBLICO E QUARTA PARETE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165 Continuità e soglie non viste Il pubblico è pronto? Interazione tra pubblico, palco e attori Impersonare il Salvatore

Quarto Intermezzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205


BIGLIETTO D’INGRESSO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 207 Il denaro come demone, la gratuità del dono Riconoscere il proprio valore, la necessità di uno scambio Prestazioni mediche e percorso di studio Il valore di una pièce

Quinto Intermezzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245 IL MIO SPETTACOLO AUTENTICO (PER ORA)

. . . . . . . . . .

247

L’interpretazione Il linguaggio Codificatori di frequenze vibratorie A-mors, assenza di morte Silenzio e Nulla

Termini di repertorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 311 Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 323



Ai miei genitori e al relatore della mia tesi, i quali, consapevolmente o meno, sono stati per me come bussole nel mare



Trama e locandina Questo libro nasce da un’angoscia, dall’angoscia del fatidico «Hai trovato lavoro?», una di quelle domande che spesso vorremmo evitare. Nasce da un’angoscia tipica dei nostri tempi: ciò che siamo sembra dipendere da ciò che facciamo, dal ruolo che interpretiamo. Paradossale, dal momento che molti spiritualisti non fanno altro che ripeterci che siamo di più, molto di più, magari persino Tutto. Questo libro nasce dalla mia angoscia di non essere abbastanza per nessun mondo: non abbastanza colta per il mondo accademico; non abbastanza credente per il mondo spirituale; non abbastanza conformata per il mondo quotidiano. Questo libro nasce dalle troppe spinte e dai troppi strattoni contrastanti da parte di tutti coloro che cercano di integrarti e incasellarti nel loro mondo. Ma ci sono troppi mondi e capita di avere la sensazione di non saperne abitare nessuno. Ci sono troppi volti, troppe regole, troppi ruoli, e tutti mi stanno stretti. Mi sembra di non essere abbastanza veloce a cambiarmi d’abito tra una scena e l’altra e perciò, a un certo punto, il teatro stesso mi metterà alla porta. Per questo me ne sto qui, senza un mondo da abitare, senza un costume da indossare, persa in moltitudini di Noi che mi affascinano e che mi terrorizzano. Forse è questo il regno dello scrittore, la terra di nessuno, la terra degli outsider, di coloro che non indos11


sano più maschere ottocentesche e parrucche di plastica mentre si trascinano stancamente avvolti dai propri stracci. Stracci, avanzi presi un po’ qua e un po’ là. Stracci, pezzetti di tanti Noi dai quali dopo un po’, per un motivo o per l’altro, ci si è voluti allontanare. Stracci e tanta solitudine, perché nemmeno tra gli outsider c’è accoglienza, sei “out” e basta. Fuori. I barboni non fanno comunella, ognuno ha il suo giaciglio in un diverso angolo di strada. Soli, emarginati dagli emarginati. Questo libro nasce da una profonda sensazione di solitudine, ora vissuta come diabolica, ora percepita come unica autentica amica. Il desiderio che vi soggiace è quello di poter gettare a terra ogni maschera, ogni straccio o costume e di poter camminare nuda in un mondo nuovo, che mi appartenga, che mi senta degna e fiera di abitare. Quello che cerco è una casa, una casa che non ho trovato in nessun Noi, una casa che probabilmente dovrò edificare da sola, sulla cima di una qualche montagna, anch’essa isolata, lontana dalla terra ma non abbastanza vicina al cielo. Noi scrittori regniamo in questa terra di nessuno, nella quale sogniamo di poter creare una nuova dimora. Non si scrive per un pubblico, non si scrive per trovare degli inquilini che si accampino nel nostro soggiorno. Io scrivo perché mi sento un’outsider e, in fin dei conti, desidero rimanere tale: per me ogni Noi non sarebbe altro che una prigione. Desidero essere regina solamente del mio regno interiore. Non desidero visibilità dal momento che ho sempre cercato di restare nell’ombra, ma da qui, da dietro gli spalti, mi piacerebbe lanciare qualche sassolino qua e là per disturbare, sperando che entri nelle altrui scarpe generando disagio. Per me il disagio è una modalità d’essere, una scoperta continua di ciò che l’agio può essere, sebbene serva un po’ di cor-aggio: agio del cuore. E per scoprire cosa significhi davvero accoccolarsi nel proprio cuore è necessario camminare a lungo con i propri disagi. 12


Questo libro, quindi, nasce dall’angoscia di non avere un Noi a cui aggrapparsi, e di questo, che un tempo ha generato in me tanta sofferenza, ora sono grata. Certo, sia chiaro che amo le contraddizioni perché se dai Noi cerco di uscire – o ne vengo buttata fuori a calci – poco fa ho parlato di Noi scrittori: in me convivono il desiderio di libertà e il bisogno di approvazione. Un Noi di cui fare parte l’ho voluto a lungo, lasciarsi avvolgere dall’energia di un gruppo, sentirsi parte di qualcosa... Talvolta questo bisogno emerge ancora con prepotenza, come poco fa, quando ho parlato di Noi scrittori. Io non mi considero una scrittrice, al momento sono solo una donna che sta scrivendo qualche riga. Anche firmando un contratto con una qualche casa editrice, in fondo rimarrei una ragazza che a volte scrive un libro. Però cullarsi nella certezza di incarnare il proprio ruolo dicendo ad esempio «Sono un insegnante» o «Sono un fabbro», identificarsi con la propria professione è sicuramente confortante e, soprattutto, esime dalla ricerca di se stessi. Riporto ora un frammento che scrissi forse un anno fa, uno stralcio strappato all’incessante corrente dei miei pensieri, perché qui potrebbe chiarificare qualcosa che con troppa seriosità sto tentando di esprimere. «Oggi sfoglio il giornalino della parrocchia del paese di mio padre. Osservo le foto, i volti, si respira aria di montagna e soprattutto di comunità. È vero che l’apparenza può ingannare: chissà se quelle persone, in posa e sorridenti, ci saranno davvero le une per le altre nei momenti del bisogno. Eppure, eccomi con un nodo in gola e quella che potrei percepire come invidia. Mi trovo a desiderare quella vita, quegli scorci verdi in una vallata talvolta ostile, quei piumini colorati, i guanti, i cappelli, ma soprattutto vorrei essere in una di quelle foto, circondata da una ventina o più 13


di persone sorridenti intente a festeggiare. Magari domani, quando si incroceranno nel paese, si saluteranno svogliatamente e poi ognuno per la sua strada. Sono molto dure le persone da queste parti: manifestano la stessa chiusura che i massicci montani esercitano verso il mondo esterno, protezione ma distanza, confini invisibili, invalicabili. Silenzio. Eppure, c’è un calore che viene fuori da quelle immagini, dalle pagine che sfoglio con fatica. C’è un’idea che fuoriesce dalle righe, l’idea di comunità, di relazioni, di una cerchia sociale che si estende oltre la propria famiglia e un paio di amici. C’è l’idea di condivisione, di reciprocità, di fiducia, di riconoscimento, di rispetto. So che la carta patinata ha il suo peso, che le idee sono spesso rovinate dalla loro materializzazione deviata, eppure vorrei sentirmi parte di qualcosa: parte di un paese; parte di una cultura; parte di una tradizione. Invece assomiglio di più al vento, senza radici, che osserva e accarezza ogni luogo, ogni popolo, ma non si ferma mai. Non è parte di nulla, è libero di rimbalzare di qua e di là, ma è solo, senza meta. A volte vorrei essere più semplice, scegliermi una religione e farne parte, scegliermi un partito e farne parte, scegliermi una moda e farne parte. Vorrei identificarmi con qualche modello, con qualche tradizione, con qualche retaggio. Invece volo, seppure i miei spostamenti fisici siano in realtà esigui, ma comunque mi sento sempre senza radici. Metto via il bollettino parrocchiale perché non ha senso raccontarsela, non faccio parte di alcuna parrocchia, di alcun paese, di alcuna religione, di alcun partito o associazione. Sarebbe stato più facile soffocare la propria natura per integrarsi in un qualche contesto? Sì... Probabilmente sì, ma evidentemente non è questa la mia strada». 14


Sarebbe quindi inutile dire che scrivo questo libro con chissà quale intento, per chissà quale ragione o con chissà quale obiettivo. Scrivo perché mi va di farlo, ora, in questo momento, perché ho sempre avuto una grande spinta verso la scrittura. Questo libro parla di fregature, detta in soldoni. Per un po’ ho fatto parte del Noi degli operatori olistici o di quella categoria che, in mancanza di altri termini, si definisce tale. Ho persino creduto che fosse la mia missione divina, lo scopo della mia vita, di questa incarnazione almeno. Come vedremo, il fatto che ogni anima, al singolare, abbia una sua missione, è un’idea alquanto diffusa nei corsi e nei percorsi di crescita spirituale e soggiace come premessa implicita a molte tecniche di guarigione energetica. Io per un po’ ho scelto, più o meno consapevolmente, di conformarmi, di entrare in questo Noi, di abitarlo. Per farlo è stato necessario molto impegno, non tanto per apprendere le teorie o gli aspetti più pratici, ma perché mi è spesso stato chiesto, esplicitamente o implicitamente, di mettere a tacere il mio spirito critico. Si potrebbe parlare di sospensione del dubbio o sospensione dell’incredulità, ma non certo di quella sospensione del giudizio di cui parlava Husserl: l’epochè fenomenologica. Con quest’ultima espressione si intende «la messa tra parentesi di ogni conoscenza, anche quella scientifica. Tale sospensione della conoscenza ci permette di raggiungere i fenomeni così come ci appaiono senza che noi li organizziamo in categorie o che costruiamo dei pregiudizi».1 Ma questo tipo di epochè non era certo richiesta e nemmeno sarebbe stata gradita in alcuni dei corsi che ho frequentato perché, a ben guardare, avrebbe favorito lo spirito critico, portandomi a mettere in discussione tutto quanto mi sarebbe stato insegnato. Invece ve1. G. Spera, Cappelli o serpenti, mulini a vento e brecce, in Comunicare interagendo (a cura di Salvatore la Mendola), utet 2011, p. 105. 15


niva richiesta un’altra epochè, quella cui fa riferimento Schütz, ossia «la sospensione del dubbio che la realtà possa essere diversa da come la percepiamo».2 Quella stessa sospensione dell’incredulità che viene richiesta allo spettatore o al lettore perché possa godere di un’opera di fantasia. Veniva, in sostanza, richiesto di credere. E su tale termine ritorneremo approfonditamente. Posso parlare di questi argomenti non perché io sia un’esperta o perché abbia affrontato chissà quali studi, ma perché, ad esempio, sul mio biglietto da visita svettava imponente la frase: credere per vedere. Un ribaltamento del consueto Vedere per credere di natura scettica e dal carattere vagamente scientifico, che incarna il bisogno di prove e dimostrazioni. Ebbene, io mi arrogo il diritto di trattare di “spiritualità critica” perché sono caduta in tutte le cosiddette trappole spirituali, a cominciare dal fatto di aver sospeso il mio spirito critico, il mio giudizio. A nulla mi è servito aver letto precedentemente della loro esistenza, delle molte insidie nelle quali può imbattersi un cercatore spirituale, perché ho comunque centrato tutti i tombini sulla carreggiata, tanto che a un certo punto i miei ammortizzatori hanno dichiarato la resa e mi sono trovata a dover riparare una marea di danni. Non potevo certo accusare i tombini di questi danni, sono io che guidando li ho beccati tutti, uno a uno. Perciò sarà principalmente di questo che tratterà quest’opera: parlerà di personaggi ambigui, di manipolazione, di scelte sbagliate; e solleverà molte domande alle quali ho trovato molteplici risposte possibili o non ne ho trovata nessuna. Perciò, come dicevo, questo libro nasce dall’angoscia, dalla paura di non far parte di alcun Noi e dalla contemporanea paura di farne parte, visti i sacrifici che questo può richiedere al singolo Io. 2. Ivi, p. 99. 16


«A nient’altro assisterete qui se non alla creazione della mia opera teatrale. Potrà piacervi o disgustarvi, annoiarvi o farvi ridere, in ogni caso non è richiesta alcuna sospensione del dubbio o del giudizio. Non è chiesto di credere, ma solo di ascoltare, e più criticamente parteciperete alla rappresentazione, più utile ed edificante potrà essere per voi, sia pure per demolirla dall’inizio alla fine».



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