Claudio Marucchi - Daimon

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Talismani 2


Claudio Marucchi Daimon. Il sentiero del Sé al di là del bene e del male editing: Elisa Picozza © 2018 Claudio Marucchi © 2018 Spazio Interiore Edizioni Spazio Interiore Via Gabrino Fondulo 59 • 00176 Roma www.spaziointeriore.com redazione@spaziointeriore.com illustrazioni Ferruccio Nobile progetto grafico Francesco Pandolfi I edizione: gennaio 2018 ISBN 978-88-94906-09-7 Tutti i diritti sono riservati


Claudio Marucchi

Daimon Il sentiero del Sé al di là del bene e del male

SPAZIO INTERIORE



Indice

Introduzione . . . . . . 7 Primo passo . . . . . . 11 Latte macchiato Gesù ama il Diavolo Dall’Abisso con Amore Uno sguardo psicanalitico

Secondo passo . . . . . . 25 Confini sfumati Mitologia interiore: due mondi sovrapposti Si vis pacem, para bellum La nobiltà dell’odio I volti del nemico: una rapida messa a fuoco

Terzo passo . . . . . . 59 Due strani tipi sul ramo di un albero Liberi... di legarsi! Il sorgere di un nuovo giorno


Quarto passo . . . . . . 77 Il gesto e lo scudo La notte è un altro giorno Nel labirinto di specchi deformanti

Quinto passo . . . . . . 95 La croce nel cerchio Prove tecniche di trasmissione L’irrimediabile incongruenza della volontà magica

Sesto passo . . . . . . 115 Take away e vuoto a perdere (L)iquidi (S)i (D)iventa

Settimo passo . . . . . . 135 Eros cavalca Thanatos Divieto di sosta e rimozione forzata Colpo di grazia da distanza ravvicinata Amore è Libertà

Un passo indietro . . . . . . 151 Il passo successivo . . . . . . 155


Introduzione

Nascere Ariete ma con due ascendenti è possibile, se la testa è fuori mentre il corpo è ancora dentro quello di tua madre e non vuol saperne di uscire. Passano diversi minuti, il volto diventa cianotico, ti salvano per un pelo, ma il fatto bizzarro è che hai la testa in Scorpione e il resto del corpo in Sagittario. Si tratterà dunque di frecce avvelenate e di tuffi nel pozzo, di continui testacoda. Una vita che va dove guardano i miei occhi, dallo slancio all’inabissamento, votata al superamento dei limiti e possibilmente a una serie di pungenti provocazioni. Immancabili le contraddizioni. Sopravvivere alla nascita è stato il mio primo atto di trasgressione. Quando ti chiedono di scrivere un libro che parta da esperienze di vita per aprirsi a riflessioni di vario ordine, si sente puzza di autobiografia. Avendo appena quarant’anni, devi preoccuparti seriamente. Si vede che ne hai per poco, oppure sembri drammaticamente più vecchio di quel che sei. Le due alternative non si escludo7


no a vicenda. Preferisco illudermi di essere stato, fino ad ora, un semplice svergognato, uno sfacciato che non ha temuto di raccontare le sue mille storiacce, perché la vita è innanzitutto una narrazione della vita stessa, e ciascuno è l’insieme dei propri racconti. Le esperienze si vivono in prima persona, i racconti e le narrazioni sono l’unica cosa che gli altri possono sapere di te, quando non erano con te a viverli. A cosa serve raccontarsi? A illudersi di essere unici. A cosa serve illudersi di essere unici? A fingere di dimenticare che non si è quasi nulla. Quel “quasi” è l’àncora di salvezza a cui si è aggrappata l’intera storia dell’uomo, che non a caso continuiamo a nominare al singolare – come un individuo – pur riferendoci all’intera umanità, perché le vicende di tutti sono come quelle di ciascuno, dal punto di vista del valore – vicino allo zero – che hanno nella storia del cosmo. “Quasi” è lo sporgersi dell’io sul nulla, la cifra della nostra presunta evoluzione. L’imperfezione è la costante. Il paradosso è un limite utile come forma di sicurezza, al contempo dannoso come forma di prigionia. L’impressione che una mattonella sia l’intero pavimento è dovuta alla graduale identificazione del soggetto in limiti sempre più ampi: un corpo, un nome, una nazione, un tempo, un’intera specie. Come cerchi concentrici, in successivi isolamenti. Cosmo, galassia, sistema solare, pianeta Terra, continente, nazione, regione, città, quartiere, casa. Al centro: l’io. Nel centro del centro: il nulla. Nulla è ciò che sappiamo dell’infinito dentro come dell’infinito fuo8


ri. Strappa un sorriso pensare che in millenni abbiamo affinato ogni forma di conoscenza e tecnica senza riuscire minimamente a scalfire il compatto muro di ignoto che suscita le stesse centrali domande, da sempre, sui misteriosi perché della vita e della morte. Ecco che l’infinito è il primo dei problemi, essendo l’altra faccia del nulla, perché non concepisce i limiti, come noi non ne sopportiamo l’assenza, pur lamentandoci della loro presenza. Come nel caso della storiografia, una narrazione esiste solo in funzione della sua interpretazione. Siamo sicuri che ciò che uno dice venga recepito da un altro con perfetta corrispondenza tra le due immagini interiori? No, siamo sicuri del contrario. Scrivere di sé implica quindi prestarsi ai fraintendimenti. C’è un modo per evitare di essere fraintesi: essere ambigui. È il minimo che io possa fare per essere chiaro.

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Primo passo

Latte macchiato All’inizio mi sono preso troppo sul serio: ho infatti un problema con l’infinito e uno con la luna. Non so perché tra le prime parole che pronuncio – mi è stato riferito – è uscita l’espressione «Stronza luna»; forse il mio Daimon mi mette in guardia fin da subito su alcuni noti pericoli. L’infinito invece è una di quelle seduzioni infantili che non trovano posto nel formarsi delle prime costruzioni della conoscenza, e nemmeno nelle successive. È incomprensibile, inimmaginabile, inconcepibile. Quindi diventa la sola cosa a destare il mio interesse. La faccia concreta dell’infinito, che per un bambino non può essere un concetto filosofico, è l’incontro con due scenari: il cielo stellato e il mare. La contemplazione infantile non è esente da rischi di identificazione, di sconfinamento tra osservatore e osservato. Se lo sguardo sosta a lungo sulla vastità liquida e ondeggiante del mare o nella nera profondità della notte puntellata di luce, l’incanto che 11


ne deriva è una vertigine che sfuma e polverizza i flebili confini di un “io” ancora in formazione. Si chiama estasi, e impasta la meraviglia con la paura. È la prima droga sperimentabile. L’assenza di limiti o confini diventa la prima di tutte le dipendenze. La sua incomprensibilità la rende ingombrante, urticante, scomoda, e si traduce in un’emozione che si stabilizza, si cronicizza, diventa lo sfondo del mio animo: l’inquietudine. Una forma in incubazione del disagio esistenziale. C’è una fitta parentela tra estasi, meraviglia, terrore, irrequietezza, mal di vivere. Non potendomi rappresentare mentalmente l’infinito, partorisco quindi un nome per l’emozione che suscita. Non conoscendo la parola inquietudine, né malinconia, né tanto meno l’espressione “disagio esistenziale”, ed essendo lontano dall’imbattermi nella nozione poetica di mal de vivre, non posso che usare un’immagine semplice. Tutte avrebbero potuto rappresentare più o meno degnamente quell’ineliminabile incrostazione del profondo, ma quando hai meno di sei o sette anni hai poche opzioni tra cui scegliere, e tutte ingenue o idiote, a seconda dei punti di vista. In fondo un bimbo è culturalmente ignorante, per questo è ancora un bimbo, e per questo ha un altro genere di sapienza. Che l’ignoranza regni sovrana tra i grandi non significa che essi siano rimasti bambini, purtroppo. Fatto sta che quell’emozione, che oggi direi essere il coagularsi dell’irrisolvibile problema dell’infinito nella mia coscienza, la chiamo “macchiolina”. Perché la sento, forse la vedo così. Più che un nome scelto con fatica, è una spontanea constatazione, immediata e lam12


pante. Una parola stupida per un argomento enorme, quasi un insulto alla profondità della questione. Quella macchia scura – unico neo in una psiche candida come il latte – è il carburante del mio successivo incedere. Tutto è stato compiuto per metterla a fuoco, avvicinarla, e non per evitarla o rimuoverla, anche quando ho creduto di doverlo e poterlo fare. Esigo meraviglia e paura ancora oggi, perché ci sono droghe che non si devono mai abbandonare. Gesù ama il Diavolo Daimon è un termine simbolicamente adatto a rappresentare il sentiero che ho percorso fino ad ora, e probabilmente quello che mi resta da percorrere. In Grecia, luogo in cui si sono eretti i bastioni del nostro inconscio “locale”, veniva spesso associato a un essere intermedio tra il nostro piano di esistenza e un piano che le coscienze di allora identificavano in quello divino, il sovrasensibile. Responsabile di fenomeni simili all’ispirazione, ma con i tratti di una possessione, il Daimon è orientamento, guida e riferimento di uno stato di coscienza più vero e leale, e perciò disorientante e perturbante. Come voce ispiratrice o come intuizione prerazionale, il Daimon prende in custodia il soggetto e lo conduce, rivelandosi infine come avente a che fare con la sua vera e profonda natura originaria. Credo che il Daimon simbolicamente includa la più perfetta sintesi di ciò che la storia dell’alchimia e dell’iniziazione chiama “grande Opera”: la coincidenza 13


tra la propria volontà e il proprio destino. In ciò consiste la massima libertà possibile. Non è curioso che la parte più intima e rappresentativa di un soggetto sia accessibile al di fuori del soggetto stesso? Sia cioè mediata da un ente esterno? Il centro sarebbe quindi là fuori, in una sorta di rivelazione della natura transpersonale della nostra parte più personale. La saggezza antica non fa l’errore di concepire la psiche umana come un circuito chiuso, una scatola che tutto contiene, come oggi vorrebbe far passare una certa linea di pensiero new age sostenendo che: «È tutto dentro di te»; tutto tranne te stesso, verrebbe da pensare. Siamo veramente noi stessi quando siamo dislocati rispetto a quell’attenzione che ci vuole “presenti”. Paradossale e sconcertante, scoprire che il nostro “qui e ora” è l’elevazione a potenza di un’illusione, e che il più gustoso e reale esser “presenti a se stessi” si riveli nel fare spazio a qualcos’altro, nell’annullare la differenza tra interiorità ed esteriorità, tra sé e mondo, insomma nel rendersi parzialmente assenti. È la prova che la spiritualità contemporanea non ha capito niente e vive di depistaggi e consolazioni, rafforzando lo stato di coscienza di veglia conscia, che in realtà è l’ostacolo da superare. Il vero Sé non abita in noi. Ci attraversa, può rapirci di tanto in tanto, ma non ci appartiene come qualcosa di interno, proprio, centrale. Se così fosse, dovremmo rappresentarlo come un varco per qualcos’altro, un centro cavo, perché tutto ciò che sentiamo rappresentarci veramente ci riconduce sempre a qualcosa di esterno, distante, e soprattutto non controllabile. 14


Il Daimon è zingaresco e vagabondo, vive di incursioni e rapimenti. In stagioni diverse è stato equiparato al genio, che è spesso il genius loci o genio tutelare legato a certi luoghi e zone di potere, oppure all’angelo custode. Il termine daimon ha sopportato le variazioni che la coscienza storica impone a ogni parola intensamente rappresentativa, fino a intrecciarla a una serie di significati simbolici poi recuperati dalla moderna psicanalisi. Ma non prima di aver subìto la sorte di una graduale caduta, quando il cristianesimo iniziò ad associare il “demone” al maligno e al diabolico. Demonizzare il Daimon parrebbe un mero esercizio tautologico, ma se ancora oggi i più raffinati devono distinguere l’uso di “demoniaco” da quello di “daimonico” (parola tra l’altro inesistente nella nostra lingua) è proprio per l’emarginazione peggiorante toccatagli in sorte. Pensando all’etimologia, daimon è termine connesso al verbo greco δαίωμαι (“daiomai”), che significa “dividere, separare”, dalla radice proto-indoeuropea δα (“da”). Il significato che assume per traslato è “dispensare”, “diffondere”, “propagare”. Qui emerge più chiaramente la natura di Eros come Daimon supremo. Questo termine ha una storia complessa, da una prima accezione fortemente positiva a una decisamente negativa, fino a un suo recupero non ancora ultimato. Rivedo la strada che percorro, da quando ho memoria, nelle vicende alterne di questa parola. Ecco il motivo principale per cui questo libro porta come titolo Daimon, essendo simile al sentiero che ho calcato. 15


In una foto scattata verso la fine del mio terzo anno di vita appaio adagiato in una cesta, con una corona dorata sul caschetto biondo. Si tratta della recita di fine 1980 all’asilo. Il mio ruolo? Gesù bambino. Le suore hanno notoriamente un’inconscia inclinazione per la perversione. All’epoca, infatti, ho in testa solo mostri e in mano solo dinosauri di rara bruttezza. E come può un palestinese di duemila anni fa essere impersonato da un biondino con i capelli lisci? L’immaginario religioso non può che essere decisamente antistorico. A undici anni, infatti, quel che resta di quel Gesù bambino ritaglia da giornali, riviste o fumetti, ogni immagine del demonio, riponendole diligentemente in un cassetto. Quando mia madre le trova, viene dritta da me. «E queste cosa sono?» «Mamma, mi piace il Diavolo». L’innocente soltanto può dire la verità e scagliare così la prima pietra, che è sempre l’unica pietra. Non ci sono altre pietre da scagliare, perché questa ammissione fa uscire definitivamente dallo stato di innocenza, quindi anche dalla verità. Δια-βάλλειν (“dia-ballein”), “gettare divisione”, “separare”; il Diavolo è l’oppositore. Il quadro generale è chiaro: da una crisi in embrione (la macchia) a un’inconscia volontà di opposizione. Non è raro che il proprio Daimon si manifesti già nella prima infanzia, quando si è meno condizionati e più aperti alle possessioni. Opporsi è un modo di affermarsi. Ma ci si afferma essendo radicali. Tutti vogliono, pretendono e si convincono di essere “diversi”. Distinguersi dagli altri è un compito sociale, 16


è già incluso e previsto dal sistema. E pur nella presunzione di diversità messa in scena da chiunque, lo stagno paludoso dell’uguaglianza e della conformità continua ad appiattire e inglobare le differenze. Essere soli, ecco il modo di affermarsi. Integralismo dell’essere minoranza assoluta, opposizione a ogni costo, totale e sistematica. Andare radicalmente contro. Così si inizia l’emancipazione e la costruzione di sé. Affermarsi negandosi, rifiutando fermamente ogni proposta, ancora un paradosso, ancora una contraddizione. Dall’Abisso con Amore Ricordo distintamente che da piccolo, prima di addormentarmi, mi capitava spesso di pensare all’abisso, ai fondali marini più profondi e scuri, immaginando di essere in una capsula – il letto, che era un materasso per terra, allora come ora – vagante in perlustrazione di quei fondali. L’abisso è un archetipo che declina nella profondità la stessa potenza dell’infinito e della notte. In quell’abisso trovo un accompagnamento al sonno e al sogno. Non si dice forse sprofondare o cadere nel sonno? Lo stare presso l’estremità in basso mi offre un rapporto più sicuro con la vastità, pur consegnandomi a paure più concrete: il buio e il suo popolo. Ricordo ancora quanto mi piaccia provare un brivido di paura. Serve integrarla per poter dormire. Scopro quindi che aver paura prima di dormire è un ottimo metodo per far pace con ciò che spaventa, e 17



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