dossier conferenza

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Che cos'è l'associazione culturale LUISS Sostenibile?

Se non ora, quando? Se non io, chi? Abbiamo scelto di agire. Abbiamo scelto di vivere la speranza di un mondo migliore e di non abbandonarla all’attesa di un fiabesco intervento di eroi a lungo invocati. Abbiamo scelto di agire. Ed è agendo che rifiutiamo ogni manichea visione della vita che divida l’umanità tra furbi e vinti, perché non accettiamo di vivere in un mondo in cui il la battaglia per il bene comune sia “già persa”. Scegliamo dunque di non prestare ascolto ai moderni profeti che celebrano l’egoismo tra i frantumi di un pianeta da spartirsi avidamente. Lottiamo però anche con l’ignavia della brava gente, di chi paga le tasse e non parcheggia in doppia fila e crede di poter avere così la coscienza a posto. Non possiamo accettare che la cittadinanza, l’appartenenza ad una comunità di uomini possa realizzarsi solo nel passivo rispetto delle regole di civile convivenza. Noi crediamo nella responsabilità quale necessario complemento della libertà di cui godiamo, perché l’alternativa a ciò prende altrimenti il nome di arbitrio e di ingiustizia. Abbiamo scelto di agire perché siamo stanchi di questa indifferenza contrabbandata per impotenza di quanti credono che la cura del mondo appartiene sempre e solo agli altri. Noi crediamo che la rassegnazione, l’ indifferenza e il menefreghismo siano mali reali e concreti che fanno scivolare la nostra terra verso una inaccettabile desacralizzazione. Crediamo infatti che la terra sia sacra, come laicamente è sacro e inviolabile ogni bene consegnato nelle mani di una donna e di un uomo affinché essi ne conservino integrità e utilità per coloro che verranno. Essere sostenibili vuol dire dunque guardare al futuro, al nostro futuro ma anche a quello delle generazioni successive, le quali si attendono da noi un senso di responsabilità superiore di quello dimostrato da chi ci ha preceduto. Siamo consapevoli di dover agire, per porre la nostra azione al servizio di chi è intorno a noi, degli altri studenti e della comunità in cui viviamo e studiamo. Ma crediamo anche di poter agire, convinti di essere in grado di incidere con le nostre azioni quotidiane su comportamenti e stili di vita che hanno ormai spezzato l’equilibrio con l’ambiente naturale in cui viviamo. Abbiamo fiducia nelle nostre forze, crediamo nella possibilità di cambiare radicalmente la nostra università, e con essa la nostra società. Siamo ambiziosi – certo – ma non siamo ingenui. Riconosciamo l’ostacolo dell’inerzia di stili di vita ormai consolidati e siamo consapevoli che, al primo passo compiuto oggi, seguirà una lunga marcia prima di arrivare al traguardo. Siamo consapevoli di ciò ma siamo fiduciosi. Perché crediamo che “la bellezza salverà il mondo”.

Chi siamo LUISS Sostenibile nasce dall’iniziativa di un gruppo di studenti con l’intenzione di introdurre un cambiamento nelle attività quotidiane che regolano la vita del nostro campus. Il nostro obiettivo è ridurre l’impatto ambientale della nostra università e realizzare un più razionale e sobrio consumo delle risorse utilizzate, consapevoli del difficile equilibrio ambientale che il nostro pianeta ha la necessità di ritrovare. Tutto parte dalla consapevolezza di non essere in pochi a sentire l’esigenza di differenziare i rifiuti, di ridurre lo spreco di carta, acqua e energia, e dunque dalla volontà di organizzarci per presentare una proposta seria e strutturata per il cambiamento del campus. Luiss Sostenibile si propone difatti di raggiungere l’obiettivo di una università sostenibile in termini economici, sociali e ambientali, e

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di sensibilizzare studenti, docenti e management verso stili di vita compatibili con l’equilibrio ambientale. Dopo una serie di incontri in Palazzina, abbiamo presentato e consegnato un Dossier che indica quali sono le nostre finalità generali, il contesto in cui ci troviamo ad agire ed infine le iniziative concrete che chiediamo vengano intraprese. L’azione del gruppo è motivata dalla coscienza che – per affrontare seriamente la questione ambientale – bisogna partire da un cambiamento dei comportamenti individuali. Il limite naturale posto allo sfruttamento delle risorse richiede difatti un impegno concreto nella direzione di consumi della nostra università che siano più razionali ed efficienti. Nei fatti – oltre a contribuire alla lotta al surriscaldamento globale e a rendere più vivibile il campus universitario – i punti del programma mirano a realizzare un significativo risparmio economico grazie agli interventi di efficienza dei consumi energetici (acqua, elettricità, riscaldamento), della mobilità e degli stili di vita universitari. Il primo passo di questo lungo cammino partirà necessariamente dalla raccolta differenziata e da alcuni piccoli accorgimenti di più immediata attuazione ma di grande impatto.

Contatti Se volete essere aggiornati sulle attività del gruppo, sugli incontri e sugli appuntamenti, iscrivetevi alla Newsletter di Luiss Sostenibile! Se siete interessati a partecipare e a contribuire a questo progetto (o anche solo a saperne di più), potete contattarci tramite email, sulle pagine del nostro sito (dove potete trovare tematiche e approfondimenti) così come nello spazio su Facebook. Contiamo di sentirci (!) .

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Email: luiss.sostenibile@gmail.com Blog: www.luissostenibile.it Gruppo Facebook : http://www.facebook.com/group.php?gid=19024911082


Fonti rinnovabili

Una necessità , una sfida ed un’opportunità La “green economy” conviene. Se fino agli anni più recenti le fonti di produzione rinnovabili erano relegate a periodici ecologisti un po’ naive e ritenute ancora immature per il mercato, oggi finalmente si scoprono le grandi opportunità di un sistema energetico alimentato da fonti “pulite”. Una conferma arriva dai livello di investimenti nel settore che, nel 2007, ha raggiunto il picco storico di 148 miliardi di dollari (ben il 60% in più rispetto al 2006 e circa 5 volte rispetto ai numeri del 2004). L’energia verde fa dunque bene all’economia e si candida, tra l’altro, a sostenere la ripresa del mercato del lavoro. Evidentemente la finalità primaria cui le FER (Fonti di Energia Rinnovabile) assolvono resta la soluzione della questione dei cambiamenti climatici. Le rinnovabili sono difatti la risposta principale – e forse la più efficace nel lungo periodo – ai fini della costruzione di un modello di sviluppo più compatibile con gli equilibri ambientali globali. A conferma di ciò, le FER sono state recentemente riconosciute a livello europeo come uno dei driver fondamentali per il raggiungimento dell’obiettivo di una transizione verso una low carbon economy , con una riduzione al 2020 del 20% delle emissioni di gas serra rispetto ai valori del 1990. Questa breve analisi vuole tuttavia porre in rilievo i grandi vantaggi di ordine economico ed energetico che hanno reso le FER di interesse per un’audience sempre più estesa, che include oggi diversi stakeholders del settore privato e della pubblica amministrazione. In effetti, la generazione elettrica da fonte pulita è da inserirsi in un quadro ben più ampio della cornice ecologica nella quale la si è confinata finora. Le fonti rinnovabili possono difatti svolgere un ruolo significativo al servizio del paese – e per estensione dell’UE – per tre motivazioni di natura economica, energetica ed infine di sicurezza.

Tre (ulteriori) buoni motivi In primo luogo, le fonti rinnovabili sono una grande opportunità industriale e rappresentano un “fronte” di investimento di particolare interesse, rispetto al quale l’Europa ha già oggi il merito di giocare in posizione di leadership sui mercati mondiali. Al di là degli appelli ad un “green new deal”, i pacchetti di stimolo antirecessivi di diversi governi nazionali hanno già raccolto – anche se parzialmente – la sfida “verde”, con l’obiettivo di realizzare per il 2009 e il 2010 un nuovo ciclo innovativo. Esemplare è il caso della Cina che – con motivazioni strettamente economiche e difficilmente condizionate da environmental concerns – ha deciso di dedicare una significativa quota del proprio stimulus package allo sviluppo di generazione rinnovabile. Secondo, è evidente che il ricorso alle fonti rinnovabili per la generazione elettrica vuol dire attingere ad un portafoglio di tecnologie in alcuni casi già mature e dunque competitive nei confronti delle fonti convenzionali. Il progresso scientifico e le economie di scala hanno difatti fornito alcune fonti pulite (es. l’eolico) di sufficienti livelli di affidabilità ed efficienza, permettendo così di eliminare (o dirottare altrove) i finanziamenti pubblici di supporto. Si delineano così grandi potenzialità per la produzione rinnovabile che – una volta risolte anche le difficoltà legate al bilanciamento del sistema – può arrivare a comporre un’importante fetta del mix energetico

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Terzo ed ultimo punto di interesse, le fonti rinnovabili hanno la possibilità di offrire un contributo di valore ai fini di una maggiore sicurezza degli approvvigionamenti energetici, in particolare nel vecchio continente. Le recenti crisi del gas legate ai flussi che attraversano l’Ucraina hanno messo nuovamente in evidenza la fragilità di un sistema di approvvigionamento europeo soggetto alla fornitura da pochi e cruciali paesi vicini. Per di più, la crescita della domanda interna accompagnata dal rapido esaurirsi delle riserve europee di combustibili fossili è destinata ad acuire nei prossimi anni il trend di dipendenza energetica dall’estero, ad oggi già oltre il 53%.

Oggi, domani, dopodomani Considerate nel loro complesso, le fonti energetiche rinnovabili rappresentano ad oggi una porzione considerevole del fabbisogno energetico mondiale (12,7%), una quota inferiore al peso delle fonti fossili ma superiore al contributo della generazione nucleare. È opportuno precisare che biomasse e rifiuti – impiegati per larga parte nelle zone più povere del pianeta – costituiscono quasi la totalità del computo, mentre le restanti voci, idroelettrico escluso, contano appena per lo 0,6%. Da ciò deriva la necessità di definire la categoria delle c.d. “nuove rinnovabili”(NFER), cui comunemente si fa riferimento nel contesto di una incentivazione all’incremento della produzione pulita.

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L’Europa detiene oggi una chiara leadership nel settore delle fonti rinnovabili (nuove e tradizionali). Il vecchio continente ospita circa un terzo del totale della capacità installata mondiale (circa 200GW), con il contributo tedesco che, da solo, supera quello statunitense (figura in basso) e con la produzione spagnola in rapida espansione . Evidentemente, a questa situazione corrisponde un ruolo di guida dell’Europa nei segmenti di mercato delle relative tecnologie per effetto di una decisa azione di promozione dei governi nazionali e dell’UE, nonché di una stringente necessità di diversificare il mix produttivo interno per ragioni ambientali e di sicurezza degli approvvigionamenti. Ciò spiega perché sia stata l’Unione Europea ad aver introdotto innovative politiche di incentivazione – fondate principalmente su meccanismi di mercato – come ad esempio tariffe incentivanti, sistemi di scambio dei certificati. Tale insieme di meccanismi ha trovato un contesto legislativo favorevole nel c.d. Climate and Energy Package, approvato di recente per completare il processo avviato dai due


Considerato tale contesto, l’Italia si trova invece in una condizione piuttosto critica dal punto di vista energetico. Ciò dunque comporta ricadute negative per le utenze domestiche e per le imprese nonché persistenti passività nell’interscambio dei prodotti energetici. Allo stesso tempo non si può ignorare che il nostro paese vanta un alto sfruttamento delle FER per la produzione elettrica – forse a compensazione della scarsità di risorse combustibili fossili – con un ampio ricorso all’idroelettrico che pone l’Italia quarta nella classifica europea di produzione rinnovabile. Tuttavia, le virtù italiane sono oscurate se si prendono in considerazione i consumi lordi di energia, i quali risultano piuttosto lontani dai target fissati in sede comunitaria. In aggiunta, il nostro paese presenta un relativo minore grado di sviluppo delle NFER rispetto ad altre realtà (Germania, Danimarca, Spagna) che si stanno affermando rapidamente alla guida del mercato delle rinnovabili in Europa. Esemplare è invece il modello tedesco, che presenta la maggiore capacità installata di NFER al mondo, la più grande produzione mondiale di biodiesel, e vanta circa 230.000 di posti di lavoro creati nel settore delle rinnovabili Fonte UNEP, ed una posizione di forza nell’UE, in qualità di probabile unico paese a centrare gli obiettivi indicativo della Direttiva 2001/77/CE. Un confronto qualitativo dei dati italiani rispetto al benchmark dei paesi europei virtuosi permette di definire le principali ragioni di ostacolo al pieno sfruttamento delle potenzialità del nostro paese. Queste possono essere riassunte in ordine di importanza come segue: • difficoltà nell’ottenere autorizzazioni dagli enti locali per la realizzazione degli impianti, con tempi decisamente più lunghi rispetto ad altri paesi europei con procedure più efficienti; oooooooooooooooo • problemi tecnici di connessione alle reti elettriche; • assenza di un quadro legislativo e regolatorio di settore stabile e certo nel lungo termine. Nel corso degli ultimi anni il contesto normativo è stato difatti modificato ripetutamente con ricadute sulla certezza dei ritorni degli investimenti; • assenza di un’industria nazionale di settore capace di sostenere – sul lato dell’offerta – l’espansione della domanda. In breve, il supporto politico ed economico alle FER in Italia non è mancato, come dimostrato ad esempio da un sistema di incentivazione piuttosto generoso ed efficace. Tuttavia, rispetto ad altri paesi che hanno intrapreso un percorso simile, si riscontra nel nostro paese una serie di barriere non economiche che ostacolano e ritardano l’evoluzione e lo sviluppo delle energie pulite.

Lungimiranza e buonsenso Il settore privato e la società civile sembrano aver finalmente colto il valore industriale ed ambientale delle FER. Ad oggi, lo sviluppo delle fonti rinnovabili non può più essere classificato come un’ambizione di nicchia della cultura ecologista. Le FER sono riconosciute come una grande occasione politica ma anche – e forse soprattutto – energetica ed economica. L’urgenza di rispondere al fenomeno dei cambiamenti climatici non fa altro che accelerare un processo di switching verso le fonti verdi che già era partito in maniera graduale ed incrementale e che oggi è necessario. oooooooooooooo Ora si attende la condivisione di una piena consapevolezza della necessità di “rivoluzionare” il modo di produrre l’energia che sostiene il nostro sistema produttivo. L’obiettivo è aprire così la strada al pieno sviluppo delle fonti rinnovabili e al raggiungimento di un modello di sviluppo più rispettoso delle esigenze ambientali.

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L'eredità del nucleare: la questione irrisolta delle scorie

La questione irrisolta delle scorie

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Con il referendum abrogativo del 1987 è stato "di fatto" sancito l'abbandono, da parte dell'Italia, del ricorso al nucleare come forma di approvvigionamento energetico In attuazione di detto referendum, nel 1988, il Governo italiano, in sede di approvazione del nuovo «Piano energetico nazionale», ha deliberato la moratoria nell'utilizzo del nucleare da fissione quale fonte energetica, lanciando nel contempo un programma per l'arresto, a breve, dell'assemblaggio di combustibile nucleare. Con detta procedura, si è pertanto posto il problema dello smantellamento delle centrali nucleari esistenti e della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi derivanti dal funzionamento delle stesse. A questo problema hanno dato concretamente seguito, tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, varie delibere del CIPE, che hanno disposto la chiusura definitiva degli impianti interessati. Tra dette delibere, è importante ricordare la delibera del CIPE «Chiusura delle centrali elettronucleari di Caorso e Trino Vercellese» del 26 luglio del 1990, presa dal sesto Governo Andreotti, con Adolfo Battaglia Ministro dell’Industria e Guido Carli Ministro del Tesoro. Quest’ultima può essere considerata come l’atto di decisione formale che ha comportato l’uscita del nostro paese dal nucleare. Negli anni successivi ci si è poi preoccupati di procedere alla definitiva ed effettiva chiusura degli impianti in esercizio. Oggi si discute con toni accesi del ”ritorno“ alla tecnologia nucleare, considerata fondamentale per rispondere alle esigenze di sicurezza energetica e di raggiungimento degli obiettivi europei di riduzione delle emissioni di CO2, ma troppo spesso si dimentica il peso dell’eredità “scottante” ed “avvelenata” del nostro passato nucleare. Le difficoltà poste dall’individuazione di un “sito unico nazionale” e gli alti oneri di gestione dell’eredità nucleare, sopportati dai consumatori, vengono spesso dimenticati quando si parla di nuova stagione nucleare.

Le dimensioni dell’eredità Nel nostro paese non esistono centrali nucleari in funzione, dunque la produzione di rifiuti è molto ridotta ed imputabile alle attività di smantellamento delle installazioni chiuse o in via di chiusura. Tuttavia rimane costante la produzione di rifiuti radioattivi delle attività sanitarie. Secondo le più recenti stime dell’inventario Apat (dicembre 2006), il totale ammonta a circa 26.800 m3, di cui circa 7.500 m3 (28,0 %) di origine elettrica, circa 13.050 m3 (48.7 %) dalla ricerca in campo energetico e circa 6.240 m3 (23,3%) di origine medica e industriale. A tali rifiuti presenti oggi in Italia, si aggiungeranno nel prossimo futuro quelli provenienti dallo smantellamento delle installazioni nucleari, stimabili in circa 50.000 m3, prevalentemente di II Categoria. In più occorre considerare i rifiuti condizionati che rientreranno in Italia dall’Inghilterra, derivanti dalle operazioni di riprocessamento del combustibile Enel, nonché i rifiuti condizionati dal riprocessamento del combustibile che sarà inviato in Francia ed il naturale proseguimento della produzione di rifiuti di origine non energetica, stimabile in un migliaio di metri cubi all’anno.

L’ubicazione Da un punto di vista strettamente geografico, è nella Regione Lazio, che da sola ospita il 28% del totale, che si riscontra la maggiore quantità di rifiuti radioattivi stoccati (7.454 m3). In particolare è nel deposito della Casaccia, costruito alla fine degli anni ’50, che vengono conservati questi rifiuti, accantonati dentro dei capannoni, posti nell’immediata vicinanza dei centri abitati di Osteria Nuova, Cesano ed Anguillara.. In questa “particolare” classifica seguono poi l’Emilia Romagna (4.326m3), il Piemonte (4.207) che


detiene il 15,5% e la Basilicata (e 3646m3) con il 12% I dati sull’inventario regionale sono fornita dall’APAT. Nella figura in basso sono raffigurati tutti i depositi temporanei di materiale radioattivo presenti sul territorio nazionale, le centrali, i reattori ed i centri di ricerca esistenti che producono o hanno prodotto rifiuti radioattivi.

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La gestione e gli “oneri” economici Dal 1989 in poi i cittadini italiani hanno iniziato a pagare, attraverso un’addizionale sulle bollette che è attualmente rappresentata dalla voce tariffaria A2, i cosiddetti “oneri nucleari”, destinati in un primo tempo a compensare l’Enel e le altre società collegate per le perdite conseguenti alla dismissione delle centrali. Tra il 1990 ed il 1994 il CIP e Il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, riconobbero complessivamente oneri per un ammontare pari a 10.738 miliardi di lire, di cui 8.881 da rimborsare all’Enel e 1.857 miliardi di lire alle imprese appaltatrici. Nel 1999, nell’ambito della riforma del sistema elettrico nazionale e per rispondere all'esigenza di mantenere in sicurezza i siti nucleari, curarne lo smantellamento (decommissioning) nella maniera più adeguata e gestire i rifiuti radioattivi venne poi costituita la SOGIN (Società Gestione Impianti Elettronucleari). Alla SOGIN venne affidata questa difficile la missione e le furono conferite le quattro centrali nucleari italiane di Trino, Caorso, Latina e Garigliano di Sessa Aurunca. In seguito, nel 2003, le furono affidati in gestione gli impianti di ricerca sul ciclo del combustibile di Enea (l'impianto EUREX di Saluggia, gli impianti OPEC e IPU della Casaccia - Roma, l’impianto ITREC di Rotondella) e nel 2005 venne acquisito l'impianto di fabbricazione del combustibile di Bosco Marengo. Attualmente la SOGIN svolge ancora questa missione ed opera secondo gli indirizzi strategici formulati dal Ministero dello Sviluppo Economico. Quanto costa agli italiani la missione SOGIN ogni anno è lo stesso Ministro Scajola a dichiararlo ai microfoni di Report: “la Sogin si è presa una missione 20 anni fa, questa missione la pagano i cittadini sulla bolletta ed ha anche un costo significativo perché sono 550-600 milioni all’anno[…].

L’annosa questione del sito nazionale

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Punto di partenza fondamentale per la questione del deposito nazionale è il decreto legge n.314 del 14 novembre 2003 (decreto "Scanzano"), dove si stabilisce che tutti i rifiuti e i materiali nucleari esistenti in Italia vengano sistemati in un deposito nazionale da realizzare nel comune di Scanzano Jonico, sotto l’egida dell’allora Commissario della Sogin (generale Carlo Jean) al fine di realizzare un deposito nazionale entro il 31 dicembre 2008. La conseguenza di questa decisione è lo scatenarsi di una vera e propria rivolta da parte degli abitanti e delle autorità di Scanzano e dell’intera Basilicata. Proteste, cortei e blocchi stradali si susseguono praticamente senza soluzione di continuità e il governo si vede costretto a modificare il decreto, togliendo il nome di Scanzano nel momento della sua conversione in legge (L. n.368 del 24 dicembre 2003) e a rimandare l’individuazione del sito. La questione rimane aperta ed è ritornata di forte interesse in questi mesi che seguono le dichiarazioni del Governo di intraprendere una nuova stagione nucleare in Italia, trovando spazio nel c.d. “DDL sviluppo”. Il comma 1 dell'articolo 14 del testo già licenziato dalla Camera dei deputati, “delega il Governo ad adottare entro il 30 giugno 2009, uno o più decreti legislativi di riassetto normativo recanti i criteri per i sistemi di stoccaggio dei rifiuti radioattivi e del materiale nucleare”. Il Ministero dello sviluppo economico “ha provveduto alla costituzione di un gruppo di lavoro per l'individuazione della tipologia, delle procedure e della metodologia di selezione dirette alla realizzazione, su un sito del territorio nazionale, di un centro di servizi tecnologici e di ricerca ad alto livello nel settore dei rifiuti radioattivi, comprendente un deposito nazionale centralizzato per l'allocazione definitiva dei rifiuti radioattivi di seconda categoria, e per l'immagazzinamento temporaneo di medio termine dei rifiuti radioattivi di terza categoria[….]. I tempi sembrano dunque essere maturi, ma occorrerà attendere il verdetto del Senato nei prossimi mesi, ma nel frattempo vi sono una serie di principi e criteri direttivi (comma 2 dell’art.14) cui dovrà conformarsi la delega, che meritano una particolare attenzione: (a) previsione della possibilità di dichiarare i siti aree di interesse strategico nazionale, soggette a speciali forme di vigilanza e di protezione; (f) determinazione delle modalità di esercizio del potere sostitutivo del Governo in caso di mancato raggiungimento delle necessarie intese con i diversi enti locali coinvolti, secondo quanto previsto dall’articolo 120 della Costituzione;


Questi due principi inseriti nella delega meritano la dovuta attenzione poiché, potenzialmente, lasciano aperto il campo ad un intervento “di forza” del Governo per la risoluzione di un problema piuttosto complesso e che più di altri necessita del consenso dell’opinione pubblica e degli enti locali coinvolti.

Non ci sarà un pacifico futuro nucleare senza una corretta gestione della scottante eredità del passato Il ritorno al nucleare non è di per sé una scelta sbagliata, risponde ad esigenze di tipo diverso, economico, energetico e anche se può sembrar strano ambientali. Ricuce uno strappo verificatosi sul finire degli anni ottanta, che ha illuso il nostro paese di esser fuori dall’approvvigionamento nucleare, quando attualmente la maggior parte dell’energia elettrica consumata in Italia proviene da Francia e Svizzera, due paesi che ne fanno ampio uso di questa tecnologia .nnnnnnnn Permetterà di aumentare la diversificazione del mix energetico, di attrarre investimenti, di rimettere in moto centri di ricerca e le università ad essi collegate. Tuttavia questa serie di effetti positivi saranno senza dubbio ridimensionati e costretti, nel caso in cui non si procedesse ad una corretta gestione della nostra eredità radioattiva, che costa molto e tanto spaventa l’opinione pubblica. Non vi sarà un pacifico futuro per questa tecnologia se non si troverà un altrettanto pacifico accordo sulla gestione dei rifiuti che da essa sono stati prodotti e si continuerà a produrre. La scelta di una tecnologia per la produzione dell’energia è qualcosa che coinvolge direttamente, ma non nell’immediato, sia le generazioni presenti che quelle future. Il principio dell’equità intergenerazionale, cardine del concetto di sviluppo sostenibile, deve servire da monito per far sì che le responsabilità siano condivise e non addossate esclusivamente sulle spalle delle generazioni future. L’uso del nucleare è già di per sé un peso scottante; per questa ragione, più di altre, una corretta e meticolosa gestione dei rifiuti nucleari è il passo fondamentale di un pacifico sfruttamento futuro dell’energia atomica.

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La partita dei tubi: Russia, Stati Uniti e Unione europea

La sicurezza degli approvvigionamenti energetici appare essere una delle più importanti sfide che la nostra società si trova ad affrontare. Un problema che ciclicamente occupa le prime pagine delle principali testate nazionali ed internazionali. Le crisi energetiche dell’Ucraina, prima nel 2006 poi nel 2009, e quella georgiana dell’agosto scorso evidenziano la complessità della situazione e la portata degli interessi in gioco. Una partita che vede coinvolti tre attori principali: la Russia, gli Stati Uniti e l’Europa. Dopo i fatti georgiani dell’agosto scorso si è parlato di un risorgere della Guerra Fredda, ma la definizione non sembra descrivere la realtà che ci si trova ad affrontare. L’epoca della divisione in blocchi, infatti, era caratterizzata da una sfida ideologica, da un confronto tra due modelli sociali contrapposti. La Russia di oggi appare un’entità diversa rispetto all’URSS. L’agire politico è guidato da una logica di potenza, tipica del XIX secolo; le elite russe vorrebbero recuperare l’importanza geopolitica dell’Impero zarista, prima, e di quello sovietico, poi. Questo tentativo sembra accumunare la presidenza di Putin e quella di Medvedev. Entrambi hanno portato avanti un rafforzamento della Federazione che, nei primi anni Novanta, appariva un cadavere della storia. Putin, come ha dimostrato nella sua tesi di dottorato, aveva ben chiaro che il moltiplicatore di potenza della Russia sarebbe stato fornito dalle materie prime e attorno a questo assunto è stata costruita la politica estera della Russia post-comunista. La lotta agli oligarchi, la statalizzazione di Gazprom, che rappresenta un fondamentale leva diplomatica, come il controllo dell’Estero Vicino sono elementi di questa strategia. Il fattore energetico, dunque, è la chiave di volta della Russia, lo strumento che le permette di influenzare le decisioni occidentali e in primo luogo europee.

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Un disegno al quale Washington ha cercato di opporsi. All’indomani della liquidazione del comunismo sovietico il tentativo americano di inglobare la sfera di influenza sovietica nel campo occidentale è stato perseguito con notevole determinazione. Anche l’area caucasica non poteva sfuggire a questa logica, infatti, una simile operazione permetterebbe di limitare l’influenza del Cremlino sull’Europa. Il controllo delle risorse caspiche, infatti, permetterebbe una serie di approvvigionamenti dai Paesi dell’area con la Turchia, membro della NATO, collettore di questi flussi energetici, una logica che ha trovato seguito nella costruzione dell’oleodotto Baku-Tblisi-Cheyan. Il tentativo d’erosione dell’Estero Vicino e la volontà dell’ultima amministrazione USA di far entrare Ucraina e Georgia nella NATO ha portato le relazioni con la Russia ai minimi livelli. La proposta americana, presentata durante il meeting NATO di Bucarest nell’aprile 2008, ha trovato la ferma opposizione di Francia e Germania. Essa è completamente naufragata a seguito del conflitto in Ossezia del Sud e del cambio della guardia alla Casa Bianca. Al momento non sembra vi siano margini di manovra per un allargamento della NATO a Ucraina e Georgia; Obama sembra decisamente più interessato a ottenere l’aiuto russo in Afghanistan, vista l’instabilità del corridoio pakistano per l’accesso al Paese, e nella lotta alla non proliferazione nucleare. Un ulteriore elemento di scetticismo riguarda l’instabilità politica dei due Stati e la scarsa popolarità delle rispettive leadership che appaiono isolate e incapaci di gestire la situazione. Le speranze suscitate dall’insorgere delle “rivoluzioni colorate” appaiono oggi solo buone intenzioni a cui non è stata data realizzazione pratica. Il terzo attore menzionato è l’Unione Europea che nella Russia vede un importante partner commerciale. Più volte è stata descritta come debole e incapace di attuare una politica estera nei confronti della Russia, ingabbiata nella strategia del divide et impera usata da Putin. Mosca, infatti, non dialoga tanto con Bruxelles quanto con i singoli Paesi membri e con i rispettivi operatori energetici. Il gasdotto NordStream nel Baltico; i progetti Blue Stream e SouthStream rappresentano importanti iniziative e sono in linea con una politica in cui si incontrano gli interessi nazionali russi ed europei, in primo luogo tedeschi e italiani.


La partita dei tubi, che ha profonde ricadute su tutto il sistema internazionale, non è finita; al contrario, suscita le fantasie degli analisti politici che già parlano di EuRussia contro ChinUsa. Al di là di queste ipotesi, un dato appare inequivocabile: gli idrocarburi resteranno un’importante determinante delle relazioni internazionali e influenzeranno le relazioni tra russi ed europei, tuttavia non ci troviamo a costanti immodificabili. La dipendenza energetica europea nel medio-lungo periodo potrebbe essere allentata da una politica comune dei Paesi membri che punti a investire nella diversificazione degli approvvigionamenti; una strada complessa e non rettilinea, ma che dovrà necessariamente essere percorsa nell’immediato futuro. Inoltre la Russia è un monolite instabile: non è una potenza globale, nonostante la retorica del Cremlino, e ha grossi problemi interni, fra tutti quello demografico. Infine, l’incapacità russa di una diversificazione economica la rende vulnerabile, come è accaduto nei mesi scorsi, alle fluttuazioni dei prezzi dell’energia che hanno pesanti ricadute sul Pil della Federazione.llllllllllllllllllllllllll

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La politica energetica iraniana tra limiti ed espansione

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Nell’attuale contesto internazionale le decisioni che l’Iran prenderà influenzeranno fortemente le relazioni economiche e politiche su scala mondiale. Questo vale in particolar modo per il mercato energetico globale. L’Iran è infatti uno dei paesi dotati di maggiori riserve di fonti fossili. Per quanto riguarda il mercato petrolifero l’Iran gioca un ruolo di primissimo piano, grazie ai 163 miliardi di barili di riserve provate di petrolio che lo rendono il secondo paese al mondo, dietro l’Arabia Saudita. Anche nel mercato del gas naturale occupa la seconda posizione a livello mondiale, dove con i suoi 27,5 migliaia di miliardi di metri cubi di riserve accertate è secondo solo alla Russia. Se a questi due dati si aggiunge il discusso programma nucleare iraniano, si comprende facilmente il ruolo che l’Iran è destinato ad occupare nei prossimi decenni nel mercato energetico globale. Le politiche energetiche iraniane aggiungono ulteriori elementi a questo scenario. E’ infatti tra le intenzioni dell’attuale Presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, aumentare le esportazioni di gas naturale del paese. Un primo progetto che va in questa direzione è il “Peace pipeline”, un gasdotto che dovrebbe essere in grado di fornire il Pakistan, e remotamente l’India, di gas naturale. Tuttavia, l’isolamento politico in cui si trova attualmente l’Iran, insieme a una profonda differenza di vedute sui costi e sui prezzi, rendono questo progetto ancora lontano, lasciando comunque buone possibilità di realizzazione. Altri due elementi che vanno in questa direzione sono stati il raddoppio delle esportazioni iraniane verso la Turchia -conseguente ai tagli dei rifornimenti russi- e l’offerta di 1,7 miliardi di dollari presentata all’Azerbaijan per comprare una partecipazione del 10% nella messa a punto della seconda parte del giacimento Shah Deniz, in modo tale da poter offrire gas naturale all’Europa aggirando la Russia attraverso il progettato gasdotto Nabucco. Sia su sponda europea che iraniana, questo progetto è visto con estremo ottimismo. In particolar modo, per gli stati europei, questo progetto potrebbe rappresentare un primo passo fondamentale per la diversificazione degli approvvigionamenti in cui Teheran, se nel frattempo riuscisse ad uscire dall’isolamento politico ed economico in cui è entrata, potrebbe giocare un ruolo di primissimo piano. I fatti che, lo scorso gennaio, hanno visto come protagonisti la Russia e l’Ucraina e che hanno indirettamente coinvolto gran parte dei paesi europei, hanno aumentato le pressioni europee per la costruzione di infrastrutture in grado di diversificare il più possibile gli approvvigionamenti, allentando in questo modo la dipendenza europea dal gas russo. Il grosso problema è che queste infrastrutture necessitano di grossi finanziamenti, ma soprattutto di tempo. Le stime più attendibili prevedono la realizzazione del gasdotto fra dieci anni, con la speranza che in quella data esso sia politicamente accessibile. Bisogna inoltre considerare che questo gasdotto sarà in diretta concorrenza con altri due progetti entrambi russi: il NordStream -fortemente voluto da Federazione Russa e Germania- e il SudStream -progettato dalla compagnia russa Gazpromche entrerebbe in diretta competizione con il Nabucco nel Mar Caspio. La posta in palio è molta alta, in quanto si tratta dei rifornimenti di gas all’Europa che rappresenta un mercato vastissimo, ma la partita per l’Iran si giocherà soprattutto sul modo e la rapidità con la quale uscirà dall’isolamento internazionale che ne sta caratterizzando le scelte. Tuttavia, non è soltanto il mercato del gas naturale ad interessare le mire economiche dell’establishment di Teheran. Anche l’espansione dell’influenza iraniana nel mercato petrolifero ha visto negli ultimi tempi un nuovo slancio di vitalità e intraprendenza. I piani prevedono un notevole aumento della produzione di petrolio, fino a 4,5 milioni di barili al giorno per il 2010 e 5 milioni entro il 2015. Anche in questo caso vale, però, lo stesso discorso già affrontato per il mercato del gas naturale: per la realizzazione di questi progetti è fondamentale un’uscita da parte del Governo iraniano dall’isolamento in cui si trova attualmente. A riguardo, uno studio dell’ Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) “2008 Medium-Term Oil Market Report” è arrivato alla conclusione che l’Iran, con le attuali sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, non sarebbe in grado di aumentare la propria produzione petrolifera fino al 2013.Queste sanzioni, infatti, oltre a prevedere un divieto per ogni cittadino americano di commerciare direttamente o indirettamente qualsiasi genere di prodotti diretti o provenienti dall’Iran (inclusi i prodotti, i servizi e le tecnologie che potrebbero portare benefici nell’industria petrolifera), prevede anche l’assoluto divieto di partecipare o approvare qualsiasi


contratto che comporti una supervisione, una gestione o un finanziamento dello sviluppo delle risorse petrolifere collocate in Iran. Nonostante ciò, Teheran continua a ricercare accordi internazionali in questo settore. Un esempio è stato l’accordo raggiunto con il Venezuela nel 2007, che prevede un investimento iraniano di 4 miliardi di dollari per lo sviluppo del progetto Ayacucho 7 block. Secondo le stime, infatti, dovrebbe avere una capacità di 30 miliardi di barili di petrolio. La compagnia iraniana Northern Drilling Company (NDC) ha inoltre lavorato con la russa Lukoil per uno sviluppo congiunto nel campo petrolifero nel Mar Caspio. Per quello che riguarda le esportazioni, nel 2007 l’Iran esportava circa 2,4 milioni di barili al giorno, per un’entrata di circa 57 miliardi di dollari, quasi un terzo delle entrate del Governo e l’85% delle entrate totali delle esportazioni del paese. Il paese che importa più petrolio iraniano è il Giappone, con 523.000 barili al giorno seguito da Cina (411.000) e India (374.000), mentre l’Italia è il primo tra i paesi europei (197.000). Il trend che caratterizza il comportamento dell’Iran in entrambi i mercati, quello del gas e quello del petrolio, dimostra una decisa volontà da parte del Governo di Teheran di giocare un ruolo chiave nei prossimi anni. Nonostante gli ultimi sviluppi diplomatici lascino sperare un riavvicinamento tra Iran e Stati Uniti, il percorso che dovrebbe portare l’Iran ad uscire dall’isolamento politico ed economico in cui si trova appare ancora molto lungo e complicato. Sono troppe le questioni in gioco che necessitano di una soluzione: il programma nucleare iraniano, il futuro dell’Afghanistan, l’atteggiamento di Teheran nei confronti d’Israele e di conseguenza la posizione che deciderà di assumere nei trattati di pace israelo-palestinesi e infine i diritti umani. L’esito di queste trattative, fortemente influenzato dai risultati delle elezioni presidenziali che si terranno il prossimo giugno, darà un quadro più completo sull’effettivo ruolo a cui Teheran può ambire nei prossimi anni.

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Il mercato energetico in Sudamerica: l’eccezione brasiliana

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Negli ultimi anni, gli elevati prezzi di gas e petrolio e le crescenti preoccupazioni sul cambiamento climatico hanno spostato l’attenzione dei governi e dell’opinione pubblica internazione (sempre più sensibile a tematiche di tipo ecosostenibile) , sul settore del biocombustibile e sulle possibili alternative da interporre all’utilizzo dei combustibili classici. Alcuni Paesi come il Brasile, il Cile, il Perù e la Colombia si sono contraddistinti dal resto dell’America Latina attuando una politica energetica pragmatica e market-oriented. I brasiliani, in particolare, hanno creato un’ innovativa fonte di energia alternativa sfruttando una delle loro principali fonti di ricchezza : l’etanolo ricavato dalla canna da zucchero. L’utilizzo di questo particolare biocombustibile , non solo consente di contrastare il rincaro del petrolio , ma rappresenta un ‘alternativa sostenibile ai classici combustibili fossili in quanto produce un numero ridotto di emissioni di gas a effetto sera (GES) e permette che il CO2 emesso dal biocarburante venga assorbito dalla coltura a partire dalla quale il biocarburante viene prodotto. Sin dalla crisi energetica degli anni ’70, intuite le miracolose proprietà dell’etanolo, il Brasile ha puntato allo sviluppo del settore dei biocarburanti, e attuando una serie di politiche dette “Pro-alcool” è divenuto il principale produttore ed esportatore di canna da zucchero. (Attualmente il continente oro produce circa 16 miliardi di litri annui, di cui di cui 2,6 miliardi destinati all’esportazione). Per rendere la situazione ancor più vantaggiosa e non rinunciare al combustile classico, i brasiliani hanno inoltre deciso di affidarsi alla tecnologia Flex Fluel ,(ovvero veicoli a doppia carburazione funzionabili con diverse combinazione di gasolio ed etanolo) e sfruttare i due combustibili a seconda del rincaro dei prezzi. Oggigiorno, in Brasile, l’etanolo rappresenta più della metà del carburante (o il 35% dell’energia) consumato dai veicoli leggeri che non utilizzano il gasolio. Il continente verde-oro, è dunque, uno dei pochi Paesi che è riuscito a convertire il proprio sistema produttivo da oil-import dependent a self-sufficient , e nei prossima anni non è escluso possa diventare uno dei maggiori promotori ed esportatori di questa alternativa energetica. Il Governo brasiliano sta seguendo delle politiche energetiche pragmatiche e market-oriented , bilanciando tra interventismo e strategie liberali ed aperte, al fine di non imbattersi nel nazionalismo economico con il rischio di bloccare gli investimenti pubblici e privati. Nel settore degli idrocarburanti, infatti, pur possedendo il 40 % delle partecipazioni della Petrobras (compagnia petrolifera brasiliana per eccellenza) , il governo mantiene un mercato sostanzialmente aperto , astenendosi dall’influenzare le decisioni sugli investimenti della Compagnia. Affinché lo sviluppo di questi biocombustibili vada a buon fine , ed il Brasile divenga un’eccellente esempio di autosufficienza energetica e sostenibile, è necessario puntare a strategie di lungo periodo orientate alla cooperazione regionale ed internazionale,e saldate tramite accordi tra gli attori strategici del settore energetico. Uno dei più significativi esempi di collaborazione è la recente US-Brazil Biofuels Partnership. Dal marzo 2007 Stati Uniti e Brasile (che producono complessivamente il 70 % dell’etanolo presente sul pianeta) hanno firmato un Memorandum of Understanding (MOU) per promuovere una maggiore collaborazione su etanolo e biocombustibili nell’emisfero occidentale. L’accordo in primis prevede un interscambio tecnologico tra i due Paesi, assistenza tecnica congiunta sul biocombustibile e l’etanolo nei paesi terzi e cooperazione multilaterale al fine di promuoverne la diffusione nel mondo. Per raggiungere quest’ultimo obbiettivo, i due Paesi si sono serviti del supporto di altri membri dell’International Biofuels Forum (IBF), come Cina, India, Unione Europea e Sud Africa e mirano a realizzare standard e codici comuni nel settore dei biocombustibili. L’idea di una politica energetica cooperativa ed integrata tra le Americhe, inoltre, sembra essere uno degli obiettivi del neo Presidente americano Barack Obama. L’ Energy partnership for the Americas, sigillata da un serie di importanti conferenze e summit


internazionale negli prossimi mesi, potrebbe rappresentare infatti una straordinaria opportunità per gli Stati Uniti di proporsi agli occhi nell’opinione pubblica internazionale come leader della cooperazione energetica americana e sarebbe un’eccellente occasione per promuovere la causa dello sviluppo sostenibile e delle energie alternative nell’emisfero occidentale. Oltre al MOU, tre sono le partnership bilaterali che coinvolgono il continente americano in ambito energetico e completano la strategia statunitense. In primis, i progetti di costituzione delle transmission line tra Paesi sudamericani al fine di facilitare l’export di elettricità, come il SIEPAC (Sistema de Interconexion Electrica para America Central or Central American Electrical Interconnection System) che collega via mare Colombia, Portorico e Repubblica Domenicana con Brasile , Argentina, Perù e Uruguay. In secundis, lo sviluppo di joint energy infrastructure projects come quello recentemente proposto tra Brasile e Perù. Ed infine, strategie energetiche regionali quali l’esportazione del gas peruviano in Messico. Nonostante queste notevoli evoluzioni nel settore energetico sudamericano, notevoli sono le difficoltà da superare e le critiche da fronteggiare soprattutto verso paesi produttori di gas e petrolio. La cooperazione interamericana, inoltre, dovrebbe andare oltre il settore del biocombustibile ed estendersi nella sperimentazione di altre forme di energia rinnovabile, come quella eolica, solare, geotermica o oceanica, attenuando la dipendenza di alcuni Paesi latini dall’energia idroelettrica. Inoltre, la recente scoperta di alcuni bacini di petrolio nelle zone di Santos e Campos fa nascere alcune perplessità sulla posizione che il Brasile assumerà in materia energetica nei prossimi anni, e sulle politiche che il governo adotterà nei confronti della Petrobras. Nonostante le preoccupazioni internazionali, le intenzioni espresse dal Presidente Lula sembrano voler confermare una posizione brasiliana ancora favorevole ad un mercato energetico aperto e pragmatico .Il futuro parlerà per noi.

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Agenda 21, Agire globalmente partecipando localmente. E viceversa

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Partecipare dal basso a processi di sostenibilità. Agire come una comunità in ragione del legame che sussiste con il proprio territorio. Realizzare iniziative concrete per migliorare l'ambiente materiale, sociale ed economico in cui si vive. Tutto questo è il cuore locale di Agenda 21, uno strumento di partecipazione guidato dalle istituzioni che mette il cittadino al centro dei processi decisionali e lo rende parte attiva delle scelte pubbliche, delle problematiche e delle possibili soluzioni condivise che riguardano una determinata realtà territoriale. Agenda 21 ha origini brasiliane, nasce a Rio de Janeiro nell'ambito della Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo del 1992, dove viene definita come un “programma globale di azione sullo sviluppo sostenibile”. Nella sua dimensione globale, l'Agenda è un nuovo modo di pensare, un nuovo modo di rapportarsi all'ambiente e alle risorse, un nuovo modo di consumare. Tra i suoi postulati c'è la presa di coscienza di uno stile di vita sbagliato, che va rivisto e migliorato finché si è in tempo, insieme alla necessità di integrare le questioni ambientali, economiche e sociali nei processi decisionali e nel quadro legislativo. Tale obiettivo deve valere soprattutto in quelle realtà – come le grandi metropoli e i Paesi emergenti – in cui la qualità di vita va peggiorando quotidianamente. Il coinvolgimento del cittadino in questo processo è fondamentale, perché solo le azioni concrete di una comunità legata al proprio particolare territorio possono costituire degli antidoti validi contro gli effetti negativi della globalizzazione. Agenda 21 è la perfetta unione di locale e globale, è un programma globale per azioni locali, che vanno differenziate ed applicate in maniera sempre originale in ogni realtà in cui si sviluppano. L’obiettivo è fare in modo che i principi internazionali che animano questa scommessa trovino il loro personale e locale modo di esprimersi a seconda delle peculiarità, uniche ed irripetibili, che caratterizzano un territorio e la comunità che lo vive. Agenda 21 riconosce agli Enti locali un ruolo fondamentale nel conseguimento dell'obiettivo dello sviluppo sostenibile. In particolare, il capitolo 28 rivolge un preciso invito a tutte le Amministrazioni locali affinché realizzino, attraverso un ampio coinvolgimento della comunità, una proprio Agenda 21 Locale che traduca gli obiettivi generali dell'iniziativa delle Nazioni Unite in programmi ed interventi concreti, calati in ogni singola realtà territoriale. Non esiste quindi un set di soluzioni predefinite, ma di certo c'è una metodologia universalmente valida, fondata sul coinvolgimento diretto di tutti gli attori sociali, politici ed economici per la ricerca condivisa di azioni che contribuiscano, in tante piccole parti, a migliorare le condizioni ambientali globali. Sussidiarietà, partecipazione, condivisione di responsabilità, rendono gli interventi più facilmente realizzabili e più efficaci, in una prospettiva di integrazione delle politiche e dei diversi aspetti dello sviluppo. La Commissione Europea raccoglie la sfida lanciata dalle Nazioni Unite ed organizza, a due anni da Rio, la Prima Conferenza Europea sulle Città Sostenibili. L'incontro si tiene in Danimarca, ad Aalborg, dove viene sottoscritta da 80 Amministrazioni locali l'omonima Carta. Prende avvio la “Campagna delle Città Europee Sostenibili” che stimola l'attivazione di processi di Agenda 21 locale e supporta gli Enti nella costruzione di politiche ed interventi miranti ad integrare le dimensioni ambientali, sociali ed economiche dello sviluppo. Ciò attraverso una continua attività di orientamento e di incoraggiamento al confronto tra I partecipanti, ad un diffuso scambio di esperienze e di buone pratiche. La sottoscrizione della Carta di Aalborg diventa così il primo passo per un'Amministrazione locale europea per attivare un processo di Agenda 21, impegnandosi a definire, in maniera partecipata, un concreto Piano d'Azione. Dopo altri due anni, nel 1996 a Lisbona, vengono definite delle linee guide pratiche che possano aiutare gli Enti locali ad imboccare correttamente la strada della sostenibilità. Si promuove il ricorso a strumenti operativi e procedure di gestione e certificazione ambientale, come VIA ed EMAS, e si raccomanda di costruire il consenso mediante la cooperazione e il dialogo. Nel 2000 ad Hannover, nell'ambito della terza Conferenza Europea sulle Città Sostenibili, si tracciano i primi bilanci dei risultati conseguiti, lanciando un appello a tutti i livelli di governance perché si interessino dei processi attivati nel solco di Agenda 21. Dopo 10 anni dalla firma della Carta di Aalborg, nel 2004 gli Enti che l'hanno sottoscritta si ritrovano


nello stesso luogo per definire 10 azioni concrete, gli Aalborg Commitments, che rappresentino il paradigma e lo spirito di Agenda 21. Vediamo come questi 10 comandamenti vengono applicati dalle diverse Amministrazioni locali italiane. 1) Governance, ovvero rafforzare i processi decisionali tramite una migliore democrazia partecipativa. La provincia di Modena ha pensato di coinvolgere la cittadinanza in 20 focus group tematici intersettoriali per aggiornare, con criteri di sostenibilità, il Piano territoriale di Coordinamento Provinciale. 2) Gestione locale per la sostenibilità, mettere in atto cicli di gestione efficiente e darsi i voti. Il Comune di Ancona ci ha provato misurando, con indicatori ed analisi concrete, la propria performance governativa. La Baseline Review 2006 è una scheda che valuta la città secondo gli impegni ambientali che ha sottoscritto, analizzando le azioni concrete intraprese per rispettarli, gli obiettivi fissati per il 2012 e un'analisi del successo interno all'Amministrazione ed esterno di queste iniziative. 3) Risorse naturali comuni, proteggere e conservare la disponibilità per tutti delle risorse naturali comuni. Roma ha modificato I regolamenti edilizi stabilendo che ogni edificio di nuova costruzione dovrà essere alimentato almeno per un 30% del suo fabbisogno complessivo da fonti rinnovabili. 4) Consumo responsabile e stili di vita, usare con prudenza le risorse evitando sprechi e promuovendo consumo e produzione sostenibili. La Provincia di Cremona ha aderito al progetto europeo della rete degli Acquisti Pubblici Verdi, dandosi dei criteri per le forniture e per valutare l'impatto ecologico dei propri servizi. 5) Pianificazione e progettazione urbana, coinvolgere la cittadinanza nella definizione dei piani di assetto del territorio. Padova lo ha fatto costituendo un gruppo tematico che, informato sulla legge urbanistica regionale, ha elaborato delle linee guida e delle scelte strategiche di assetto del territorio. 6) Migliore mobilità, meno traffico. Promuovere scelte di mobilità sostenibile dando ai cittadini la possibilità e la convenienza di scegliere. A Firenze si è pensato di potenziare ed integrare il trasporto pubblico su rotaia, incentivando allo stesso tempo il car sharing e sviluppando un sistema di piste ciclabili. 7) Azione locale per la salute, promuovere il benessere dei cittadini. La provincia di Modena ha elaborato il Piano per la Salute, un percorso di promozione della salute che coinvolge ampi settori della società, dalle scuole al terzo settore, con il coordinamento delle Aziende Sanitarie locali. 8) Economia locale sostenibile, più occupazione senza danni all'ambiente. La Provincia di Rimini, roccaforte del turismo estivo, su cui si basa l'economia del territorio, ha raccolto la sfida cercando di definire un modello di stabilimento balneare eco-sostenibile. Energia solare, risparmio e riuso dell'acqua delle docce, raccolta differenziata e informazioni sulla qualità delle acque balneabili. 9) Equità e giustizia sociale, costruire comunità solidali aperte a tutti. La Provincia di Ferrara ha elaborato “Benvenuto!”, un manuale per spiegare ai cittadini stranieri ospiti nel ferrarese il funzionamento del sistema di gestione dei rifiuti. 10) Da locale a globale, tutto il mondo è paese. Il consorzio intercomunale Tindari-Nebrodi ha avviato una collaborazione di confronto e di scambio con una piccola realtà locale cubana, Cienfuegos, sui temi del turismo sostenibile e della gestione delle risorse naturali. Tutte queste buone pratiche costituiscono il patrimonio comune del network di Coordinamento Agende 21 Locali Italiane, formato dagli Enti e dagli amministratori che decidono di associarsi alla rete per potenziare gli scambi di esperienze e l'accrescimento delle capacità progettuali dei diversi attori, tramite la creazione di partnership nazionali ed internazionali. Sono esempi significativi di iniziative che ci auguriamo segneranno positivamente il percorso verso un XXI secolo all'insegna della sostenibilità e di una rinnovata, motivata partecipazione.

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Passi verso una politica energetica globale. Concrete azioni dell’Unione Europea per la definizione di standard di regolazione comuni

Lo scorso dicembre il Consiglio europeo ha raggiunto un accordo sul pacchetto clima ed energia, che prevede che entro il 2020 l'Unione Europea riduca del 20% le emissioni di gas serra, aumenti del 20% l'efficienza energetica e porti al 20% il ricorso alle nel mix energetico. Il vertice europeo ha confermato gli obiettivi di riduzione delle emissioni di Co2 entro il 2020, ma sulla strada di questo impegno da “apripista” nella lotta al cambiamento climatico c'è l'appuntamento del marzo 2010 quando i 27 Paesi dell’Unione “valuteranno l'impatto dei risultati del negoziato globale sul clima sulla competitività e i settori dell'economia europea”. Gli sforzi europei dovranno allora essere considerati in relazione a quanto si impegneranno a fare gli altri attori internazionali, in particolare potenze economico-industriali di primissimo rilievo quali gli Stati Uniti, la Cina e l’India. Per reggere in modo adeguato il confronto su scala planetaria su questi temi, e per rendere credibili gli ambiziosi obiettivi, è di assoluta necessità che facciano passi in avanti verso una compiuta armonizzazione delle politiche energetiche. Tale esigenza era sta affermata con estrema chiarezza, in particolare all’interno una comunicazione della Commissione del 10 gennaio 2007, nella quale si diceva come l’obiettivo dell’Unione Europea fosse quello di “essere l’artefice di una nuova rivoluzione industriale”.

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Un così ambizioso obiettivo vede tra le condizioni indispensabili innanzitutto la necessità di garantire l’effettiva creazione ed il corretto funzionamento di un mercato interno dell’energia, che sia concorrenziale, e realmente integrato e interconnesso. Basti pensare che il mercato interno dell’energia dipende sostanzialmente dalla realtà degli scambi transfrontalieri dell’energia, e che spesso si sono verificate difficoltà in tal senso a causa delle disparità in primo luogo delle norme tecniche nazionali. Alle necessità di un’adeguata armonizzazione della regolamentazione a livello comunitario si affianca l’esigenza di regole più vicine nei settori dell’energia anche con i Paesi non compresi nell’Unione Europea, in virtù dell’importanza strategica di una effettiva collaborazione su scala globale. Nella consapevolezza che anche un mercato dell’energia regolato in modo da essere più aperto, interconnesso e competitivo possa contribuire in ultima analisi ad una utilizzo più razionale dell’energia. In questa direzione si è allora mosso il progetto di formazione-gemellaggio “Regulatory and Legal Capacity Strengthening of Energy Regulation in NERC”, con il quale ci si è prefissi di giungere alla definizione di regole comuni tra il sistema elettrico ucraino e quello europeo. Tale progetto, conclusosi lo scorso aprile con un workshop tenutosi a Kiev, è stato voluto ed interamente finanziato dalla Commissione Europea, Questa ha svolto una gara di selezione internazionale, a seguito della quale è stata assegnata all’autorità di regolazione italiana la guida dell’iniziativa, in consorzio con il regolatore austriaco e ceco. Il progetto, sviluppato in coerenza con gli accordi fra l’Ucraina, la Commissione Europea ed il Governo italiano, ha così cercato di favorire l’armonizzazione della regolazione tra il sistema elettrico ucraino e quello europeo. Ciò che ci si prefigge in prospettiva è il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo delle infrastrutture, miglioramento della qualità del servizio ed apertura del mercato interno. Fattori che permetteranno evidenti vantaggi sia per le imprese, che in ultima analisi per gli stessi cittadiniconsumatori. In successione al gemellaggio per la regolazione elettrica e durante il prossimo maggio, prenderà avvio anche il secondo progetto di gemellaggio tra la NERC e l’Autorità per l’energia italiana (questa volta alla guida di un consorzio con i regolatori di Romania, Grecia ed Ungheria) per la regolazione del settore gas.


L’efficienza energetica: dall’Europa il via alla crescita sostenibile

Tanti la invocano, pochi la sfruttano. Sole, acqua, calore geotermico, biomasse, da un po’ di tempo a questa parte costituiscono l’oggetto principale dei dibattito pubblico intorno ai temi energetici nel nostro paese (e non solo!) ha riguardato il potenziale delle fonti energetiche rinnovabili. Eppure ancora si fatica a diffondere la consapevolezza, perlomeno nell’opinione pubblica, come la fonte energetica alternativa più promettente sia in realtà disponibile fin da subito e a costo zero (in taluni casi addirittura positivi). Parliamo dell’efficienza energetica. Colpa della mancanza d’informazione, di politiche fiscali disincentivanti, di comportamenti standardizzati e modelli di consumo difficilmente modificabili; molto spesso dell’indifferenza e della pigrizia. Eppure, senza voler essere catastrofisti, le prospettive future dovrebbero far crollare alcune nostre ataviche certezze o perlomeno metterci un po’ in crisi. Esaminiamo alcuni dati: nei prossimi venticinque anni, secondo l’International Energy Agency, il consumo globale di energia primaria (ossia le fonti energetiche utilizzate per produrre elettricità, calore,benzine ,etc.) è destinato a raddoppiare. Circa l’80 % di questa domanda addizionale sarà generata dai paesi a forte crescita economica (Cina e India su tutti) e da quelli in via di sviluppo. E’ lecito attendersi che questi paesi rivendichino con forza il loro diritto alla crescita e alla diffusione del benessere economico, a scapito delle possibili catastrofi ambientali e del sovrasfruttamento delle riserve di materie prime energetiche. D’altra parte è ciò che le economie occidentali hanno fatto per decenni. Se nel futuro infatti le innovazioni messe a disposizione dalla ricerca scientifica e tecnologica per sfruttare pienamente il potenziale derivante dalle fonti energetiche alternative saranno determinanti nel garantire un’adeguata crescita economica e garantire al contempo sia una mitigazione degli impatti ambientali dei combustibili fossili sia un’adeguata sicurezza energetica per i paesi più energivori, il presente resta tuttavia profondamente incerto. Si pensi ad esempio al solare fotovoltaico, da molti considerata la fonte più promettente: in Germania (ma vale anche paesi), la produzione di energia elettrica da solare fotovoltaico ha rappresentato appena il 3,4% della produzione nazionale (IEA,2006), sintomo di come gli alti costi e i bassi volumi produttivi pesano ancora in maniera rilevante. L’efficienza energetica è in grado di soddisfare le aspettative di sostenibilità ambientale e sicurezza energetica senza compromettere in maniera radicale le nostre abitudini quotidiane, in attesa della piena maturazione delle future innovazioni tecnologiche. Inoltre la maggior parte delle misure di efficientamento già oggi disponibili, dalla coibentazione alla riconversione all’uso di pneumatici più efficienti, presentano un saldo positivo, ossia permettono all’utente di ottenere un risparmio economico, e non solo energetico, considerevole. In questo senso, è possibile comprendere come l’Unione Europea consideri l’efficienza energetica come uno strumento fondamentale della propria politica energetica. Secondo le stime della Commissione Europea (Memo on Enenrgy Efficiency) negli ultimi anni del abbiamo consumato circa il l’11% in meno dell’energia (primaria) rispetto a 15 anni fa, garantendo al tempo stesso un’adeguata crescita economica. In altri termini, il risparmio di energia primaria calcolabile in conseguenza della riduzione dell’intensità energetica- ossia la q.tà di energia richiesta per produrre un’unità di PIL - è pari al fabbisogno energetico annuale di un paese come l’Italia (180 Mtep circa). A livello politico, sebbene l’approvazione del pacchetto 20-20 Energia/Clima in seno al Consiglio nel marzo 2008 non abbia contemplato tra gli obiettivi vincolati il raggiungimento del 20% di efficienza al 2020, l’attenzione su questo tema rimane alta. Entro la fine di quest’anno è prevista la revisione del Piano Europeo sull’Efficienza Energetica (ottobre 2006), che riprende quando già contenuto nel Libro verde della Commissione, ovverossia la possibilità per le economie europee di ridurre i consumi energetici settoriali del 20 % entro il prossimo decennio. Attualmente in vigore vi è poi una serie di direttive riguardanti l’etichettatura energetica, l’ecodesign, la cogenerazione, la progettazione compatibile, etc. che costituiscono il quadro giuridico di riferimento. Dal momento che tuttavia le analisi d’impatto elaborate a livello europeo evidenziano l’incapacità delle misure oggi in vigore di raggiungere il target del 20% al 2020 in termine di riduzione dei consumi primari (siamo al 13-15%), la Commissione ha presentato nell’ambito del

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Secondo Riesame Strategico della Politica Energetica, un pacchetto “efficienza energetica 2008” allo scopo di realizzare pienamente l’obiettivo originario. Tra queste misure ampio risalto è concesso alla revisione delle direttive sopra citate, in particolare con limiti di emissioni specifici per le autovetture più stringenti (95gCO2/km vs 160 del 2007). Una menzione particolare merita la direttiva 2006/32/Ce su l’efficienza negli usi finali di energia e i servizi energetici. Essa ha imposto l’obbligo in campo a ogni stato membro di elaborare un Piano d’azione nazionale sull’efficienza energetica al fine di conseguire il target prefissato di riduzione dei consumi del 9 % al 2016 (calcolato sulla media dei cinque anni antecedenti l’applicazione della direttiva). Il Piano italiano, considerato tra i più ambiziosi, ha stabilito un obiettivo del 9,6 %, pari a circa 10,8 Mtep, integrando le misure già operanti a livello nazionali (mercato certificati bianchi, detrazioni fiscali, Piano Industria 2015) con nuove disposizioni legislative (limite per le emissioni di autovetture pari a 140gCO2/km a partire da quest’anno). In un contesto politico ed economico in forte mutazione, soprattutto dopo l’attuale crisi finanziaria, riconsiderare il modo in cui ogni giorno utilizziamo l’energia non significa solamente adeguare la sfida energetica dei prossimi decenni alle esigenze di crescita e sostenibilità, ma ripensare alla capacità di un paese, se non un continente, di adeguare la propria struttura industriale. Lo stimolo all’innovazione generato dall’efficienza, nonché le buone prospettive economiche di molti comparti appena sviluppatisi (pensiamo all’edilizia), possono contribuire in via indiretta a diffondere comportamenti virtuosi tra imprese e consumatori sempre più esigenti. In questo campo il tessuto produttivo europeo, seppur in certi casi estremamente variegato, è sempre stato in pieno fermento. Che questa, forse, sia la volta buona....

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