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16.10. – 30.10.2009 N˚ 2 Bolzano-Bozen freepress

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Volare O O Rivista sui principi fondamentali della Costituzione Italiana

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ART. 4 Über das Recht auf Arbeit ––– Sul diritto al lavoro ART. 5 Über die Autonomie ––– Sulle autonomie ART. 6 Über den Schutz der sprachlichen Minderheiten ––– Sulla tutela delle minoranze ART. 9 Über die Förderung von Kultur und Wissenschaft ––– Sullo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica

Eine Zeitung über die Grundartikel der italienischen Verfassung

Volare O O è parte del progetto Atti Democratici , una ricerca applicata sul rapporto tra arte e democrazia, sviluppata da un network di artisti, designer, curatori e teorici. un progetto di / ein Projekt von Angelika Burtscher & Daniele Lupo in ambito di / im Rahmen von Atti Democratici Bolzano-Bozen www.lungomare.org/attidemocratici

Art Direction e progetto grafico / Grafisches Konzept Studio Lupo & Burtscher La tiratura del giornale è di 5000 copie. Die Zeitung hat eine Auflage von 5000 Stück.

atti demo cratici

Volare O O ist Teil des Projektes Atti Democratici , eine angewandte Forschungsplattform über die Beziehung zwischen Kunst und Demokratie. Sie besteht aus einem Netzwerk von Künstlern, Designern, Kuratoren und Theoretikern


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Intervista Interview

Un’intervista di Pietro Vertova a Stefano

Art. 4

lavoro in relazione alla crescita continua

Lucarelli e Simone Vecchi sul diritto al della disoccupazione in Italia e ai gesti eclatanti di protesta adottati sempre più spesso in difesa del lavoro, in particolare la vicenda dei lavoratori INNSE di Milano.

Stefano Lucarelli, Simone Vecchi, Pietro Vertova

il lavoro in tempi di crisi a 60 anni dalla nascita della costituzione Pietro Vertova –– L’articolo 4 della Costituzione italiana sancisce il diritto al lavoro e demanda alla Repubblica il compito di promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Si tratta di un “articolo impegnativo”, come disse Calamandrei, una norma programmatica di non facile attuazione… Stefano Lucarelli –– L’articolo 4 assume un significato più ricco se lo si legge insieme agli articoli che lo precedono: l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (art. 1, comma 1); è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2). Secondo Crisafulli negli articoli 1, 3 e 4 della Costituzione è caratterizzato “il regime della comunità statuale e pertanto dei fini e dei compiti istituzionali della persona statale”; gli fa eco Mortati che riconosce in essi “l’elemento fondamentale dell’ideologia politica informatrice dell’intero assetto statale, e perciò costitutivo del tipo di regime”. Toni Negri ha sostenuto che questi articoli provano che “alcuni, fondamentali principi ideologici del socialismo sono penetrati e vigono nella Costituzione”. Se si accetta questa interpretazione, come sono propenso a fare anche io che però non sono un filosofo del diritto, non ci si deve meravigliare del fatto che si tratti di “articoli impegnativi”; l’impegno maggiore consiste nel preservare un equilibrio istituzionale esemplare frutto della mediazione incredibile di cui furono capaci i padri costituenti. Fatto sta che le condizioni materiali che caratterizzano il capitalismo contemporaneo hanno eroso le basi su cui quella mediazione si era retta. Pietro Vertova –– La Costituzione italiana venne redatta in un periodo, quello del dopoguerra, caratterizzato da elevati livelli di miseria e disoccupazione. I nostri tempi, sono caratterizzati in media da benessere e consumismo. Basti pensare che negli ultimi trent’anni il reddito pro-capite è raddoppiato. Che tipo di attualità conserva allora l’articolo 4 della Costituzione? Simone Vecchi –– In realtà quello che abbiamo visto negli ultimi 30 anni è stata una grande redistribuzione di reddito dal lavoro al capitale e alla rendita, ed una fuga dall’obiettivo della piena occupazione: il benessere non è cresciuto nello stesso modo per tutti. E la crisi sociale attuale, figlia di una crisi economica strutturale e non congiunturale, si caratterizza per una crescente disoccupazione che produce, oltre a una riduzione ulteriore dei redditi da lavoro e a un aumento della povertà, anche una pesante e forse irreversibile distruzione di professionalità, legami e saperi socializzati che avrà conseguenze generalizzate su tutto il sistema industriale, oltre che sui destini individuali dei singoli lavoratori. Nella centralità che investe il lavoro, di cui l’art. 4 della Costituzione si fa


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Pietro Vertova spricht mit Stefano Lucarelli und Simone Vecchi über das Recht auf Arbeit in Zeiten der Krise. Der Text thematisiert die ständig wachsende Arbeitslosigkeit in Italien, und die damit verbundenen jüngsten Proteste zur Verteidigung der Arbeit; im Speziellen gibt er Einblick in die Arbeiterproteste der Maschinenfabrik INNSE in Mailand.

portatore, si intravede quindi una lente di lettura ancora attuale dei processi sociali che stiamo affrontando. Il tema della piena occupazione resta aperto anche e soprattutto in un momento di pesante crisi occupazionale come questo. Stefano Lucarelli –– È vero che il reddito pro-capite è raddoppiato, ma questo è un dato che di per sé non basta a sostenere che viviamo nel benessere. La distribuzione dei redditi resta iniqua, anzi l’iniquità va accentuandosi. Negli ultimi venti anni la crescita dell’indice Gini, attraverso il quale si coglie l’ineguale distribuzione dei redditi, è stata molto alta in Italia. Si tratta di dati che segnalano, tra le altre cose, il fatto che la crisi economica che ha colpito l’Italia dopo il crollo finanziario americano del luglio 2008, si è innescata su una struttura economica già debole. Ciò complica tremendamente l’analisi della crisi economica italiana. Vengo a un altro punto sollevato nella domanda: il consumismo non rappresenta di per sé un elemento di benessere. Anche il consumismo, come tanti altri concetti socio-economici, subisce un’evoluzione del suo significato. Questo a mio avviso è un punto fondamentale che gli economisti di qualsivoglia estrazione teorica tendono a trascurare. Nella storia economica occidentale abbiamo assistito ad un consumismo che si è sviluppato nelle fasi di crescita sorretto dagli aumenti salariali e rivolto soprattutto ai beni di massa standardizzati (siamo nella fase matura del regime di accumulazione fordista); abbiamo poi assistito ad un consumismo che si è manifestato soprattutto nell’acquisizione di stili di vita, attraverso lo sviluppo dell’industria del divertimento. Sono questi gli anni delle Lettere Luterane di Pier Paolo Pasolini – siamo nel 1975 - in cui egli riconosce la morte dei valori proletari nell’omologazione dei comportamenti giovanili “sotto il segno e la volontà della civiltà dei consumi”. Il tasso di sostituzione degli status symbol è aumentato col tempo ed il consumismo è diventato un fenomeno pervasivo che tocca i giovanissimi, come anche gli adulti. Quest’ultima fase si è sviluppata ancora in un contesto di crescita economica ma all’interno di un regime di accumulazione finance-led (per usare un’espressione in voga tra gli studiosi della scuola francese della regolazione) in cui i consumi non sono aumentati più grazie all’aumento dei salari (la quota dei salari sul prodotto totale diminuisce), ma grazie agli effetti ricchezza sorretti dal boom delle Borse, in un mondo in cui parte dei salari non in busta paga (le stock options), i salari differiti (i fondi pensione) e i risparmi delle famiglie si spostano massicciamente sulle attività finanziarie. Quando il boom delle Borse ha perso lo slancio degli anni ’90 la struttura psicologica dei consumatori era stata già compromessa. L’attivista e scrittore Alex Foti, nel suo bellissimo Anarchy in the EU movimenti pink, black, green in Europa e grande recessione, riconosce correttamente che negli anni ’90 “tutto il mondo diviene neoliberista (e consumista). Non perché piacciano il darwinismo sociale e il tradizionalismo autoritario di Reagan, Tatcher, Friedman, Hayek, ma perché il neoliberismo alimenta un’evoluzione della società in senso individualista e multiculturale che è fonte di emancipazione per milioni di persone (donne e gay in primis, ma anche minoranze etniche e immigrati). La disuguaglianza avanza, ma se posso fare l’amore con chi voglio, chiamare col telefonino chi voglio e volare low-cost dove voglio alla fine me ne posso anche fregare. O almeno così hanno ragionato in tanti. Erano gli anni ’90, anni di eccessi finanziari e party interminabili in attesa del millennio che doveva essere l’orgasmo perfetto.” Oggi viviamo in una fase del capitalismo in cui la diminuzione dei salari reali si accompagna ad un preoccupante incremento del credito al consumo in svariate forme. Viviamo in un Paese in

cui è assolutamente necessario da un lato ridefinire una regolazione del rapporto salariale, una regolazione che non sia limitata al rapporto di lavoro tradizionale, dall’altro ritornare al dettato costituzionale abolendo tutte quelle norme che hanno contribuito a frammentare il mondo del lavoro diffondendo l’ideologia della formazione permanente. L’articolo 4 della Costituzione italiana resta di per sé attuale. Occorre tuttavia comprendere bene cosa significhi oggi diritto al lavoro. Pietro Vertova –– Il mercato del lavoro ha subito negli ultimi 30 anni una trasformazione drammatica. Siamo passati da un’epoca fordista, centrata sulla grande fabbrica e sulla figura dell’operaio-massa, ad un’epoca post-fordista, in cui il lavoro è sempre più frammentato. Per le nuove generazioni in particolare i percorsi lavorativi sono tutti da inventare, tra studio, formazione continua e lavori precari. È ancora possibile oggi definire cosa sia “il lavoro”? Simone Vecchi –– Per quanto sia molto diffuso, ritengo una forzatura parlare di “passaggio” da una epoca ad un’altra, come se si trattasse dell’attraversamento di un ponte, penso sia frutto di una semplificazione sia di quello che il lavoro era 40 anni fa, della sua etereogeneità, sia di come questo si sia trasformato. Non c’è dubbio alcuno però che le trasformazioni organizzative delle imprese, in particolare l’allungamento delle filiere produttive, e le novità normative in tema di mercato del lavoro degli ultimi 25 anni abbiano frammentato, diviso, precarizzato il lavoro, rendendolo più debole di fronte al potere dell’impresa. Se oggi definire il lavoro, con una formula semplice ed efficace come “operaio massa” risulta più difficile, è forse perchè questa debolezza fatica ad esprimere una soggettiva politica comune. Stefano Lucarelli –– Io non credo che la definizione di lavoro sia una definizione semplice. È difficilmente contestabile quanto scriveva Adam Smith nel 1776: «non le risorse naturali, bensì il lavoro svolto in un anno, è il fondo da cui ogni nazione trae tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma». Tuttavia ciò che è difficile è comprendere davvero in cosa consista oggi la divisione del lavoro. Essa è infatti cambiata sia su scala nazionale che su scala mondiale, e la crisi del fordismo è il segno di questo cambiamento. In questa discussione sul diritto al lavoro, chiedersi perché il fordismo sia entrato in crisi è forse ancora più importante della domanda su cosa ci sia dopo il fordismo? La crisi del fordismo è necessaria innanzitutto al capitale per ristabilire il suo controllo sul lavoro e sulla società. In un bel romanzo del 1989 che Paolo Volponi dedica ad Adriano Olivetti, Le mosche del capitale, le piante di ficus parlano con un terminale. Ficus e computer sono espressioni di quel potere industriale che decide della divisione del lavoro. La differenza è che i primi appartengono al mondo fordista nel pieno della crisi, mentre il secondo rappresenta ciò che verrà. Dicono i ficus: “Noi siamo la creativa cultura industriale. Non abbiamo più legami con natura e climi ancestrali; niente ci inibisce e ci condiziona. Abbiamo lo spirito e il metabolismo dell’impresa… I dirigenti guardano a noi per pensare e decidere.” La sconfitta dei ficus, che in un impeto di rabbia urlano al computer che esso è costruito per la negazione dell’industria e della sua cultura e non ha alcun ruolo dirigenziale, è sancita dalle seguenti lapidarie affermazioni: “Cosa conta più un dirigente? Ormai è solo il suo sostantivo che corre tra i miei flussi, codificato con un rilievo e un carico non molto rilevanti. Debbo spiegarvi ancora che non ci sono più parti? Che esistono ormai solamente i programmi e il sistema che io posso stabilire e svolgere? Conta solo ciò che io

introito codifico collego calcolo trasmetto. Tutto il resto fuori, anche gli impianti l’energia le società di ogni tipo, le persone fisiche e giuridiche, sono solo materiale; figure e volumi del passato, che io a mia discrezione posso immettere nel presente e svolgere nel futuro.” Le imprese, una volta riorganizzato il lavoro sfruttando le scoperte dell’informatica pretendono di accorciare i tempi necessari all’ottenimento dei profitti, ogni mediazione è abolita. Dopo la ristrutturazione tecnologica degli anni ’80 e dopo l’abbandono di buona parte della cultura industriale italiana i lavoratori si presentano frammentati, spaventati e incapaci di esercitare un conflitto nelle forme classiche. Eppure ci sono ancora le morti sul luogo di lavoro, ci sono le nocività (fisiche e mentali) che caratterizzano la produzione e che colpiscono i lavoratori e il contesto sociale in cui la produzione avviene. E si moltiplicano delle professioni che comportano un prolungamento non certificato della giornata lavorativa. Ripeto, non sono un giurista, ma sono convinto che la precarizzazione delle condizioni di lavoro comporta una rilettura con interpretazione storico evolutiva dei principi sanciti nella prima parte della Costituzione. Questi sottolineano come il valore delle condizioni di vita dignitosa risponda a specifiche finalità sociali, imponendo alla Repubblica la rimozione degli ostacoli “di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese” (art. 3, comma 2). Il termine “lavoratore” andrebbe colto nella sua funzione sociale, indipendentemente dallo status di chi presta un’attività lavorativa giuridicamente regolata. Pietro Vertova –– La frammentazione del lavoro e i cambiamenti socio-politici hanno messo in crisi il concetto stesso di rappresentanza dei lavoratori. I sindacati tradizionali non riescono ad intercettare i bisogni e le identità delle nuove generazioni di lavoratori italiani e migranti. Eppure i diritti, la continuità di reddito e la previdenza non sembrano tutelati. La crisi economica evidenzia sempre di più questa impasse. Come se ne può uscire? Sono ancora possibili organizzazioni collettive dei lavoratori? Simone Vecchi –– Non capisco cosa intendi quando parli di “intercettare le identità delle nuove generazioni”, ma se dietro a questa domanda c’è l’allusione ad un ritardo del sindacato nel comprendere le trasformazioni di cui si diceva, interpretarle politicamente e rivedere le propria azione sulla base di analisi nuove, siamo d’accordo. Non concordo sulla crisi del “concetto” di rappresentanza dei lavoratori, per quanto la crisi dei sindacati in Europa e nei paesi cosiddetti occidentali sia un elemento assodato. Continua a essere necessaria l’organizzazione collettiva del lavoro, se non si vuole accettare l’idea che l’unica forma di regolazione sociale dei rapporti di lavoro, e della vita in genere, sia il dominio unilaterale del potere aziendale nei confronti dei singoli lavoratori. Come si esce dall’impasse? Non ci sono ricette; tuttavia è necessario riconoscere la crisi per poterla affrontare, e capirne le ragioni profonde per ipotizzare vie d’uscita credibili. E non sono convinto che il sindacato abbia fatto il suo dovere appieno da questo punto di vista. Se oggi, in Italia, guardiamo al signficato che ha per il sindacato la riforma del modello contrattuale voluta da Confindustria, Cisl e Uil, si intravede una ridefinizione del suo ruolo tradizionale, il superamento della rappresentanza come esistenza di un contropotere a quello aziendale, proponendo il concetto di “sindacato complice”, cioè di fatto subordinato alle scelte di impresa. Si accetta l’idea che


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le condizioni di lavoro e di vita delle persona debbano essere una variabile dipendente delle scelte aziendali e al sindacato, una volta tolta di mezzo la contrattazione e limitata la libertà di sciopero, resterebbe la gestione di servizi di welfare non più di stampo universalistico, ma a quel punto di impronta corporativa – come ben visibile dal Libro Bianco di Sacconi. E il fatto che gli accordi stipulati da alcuni sindacati vengano applicati a tutti i lavoratori senza che questi possano democraticamente esprimersi su di essi, dà il segno della deriva autoritaria che occorre combattere. L’uso politico della crisi esercitato da Confindustria e Governo è da manuale, e non va sottovalutato. Stefano Lucarelli –– I sindacati italiani hanno grosse responsabilità rispetto alla situazione che affligge oggi i lavoratori italiani. Non solo perché non riescono ad intercettare i bisogni e le identità dei lavoratori oggi più sfruttati, ma perché hanno contribuito a indebolire i diritti dei lavoratori presenti e futuri (basta citare gli accordi del Luglio 1993 sulla politica dei redditi). I sindacati appaiono sclerotizzati, legati a doppio filo alle politiche di concertazione, sono incapaci di veri momenti di democrazia interna, ma le organizzazioni collettive dei lavoratori restano fondamentali soprattutto per combattere la precarietà dilagante e ricostruire un sapere in grado di resistere al comando sul lavoro. È auspicabile che nel tempo si realizzi la tendenza descritta recentemente da Sergio Bologna nel suo Ceti medi senza futuro: “Il lavoratore autonomo di seconda generazione non deve perdere di vista ciò che accade nel mondo del ‘lavoro precario’, ossia tra i gruppo sociali che, non avendo rinunciato alla prospettiva del lavoro dipendente, rivendicano una stabilità del posto di lavoro e un riconoscimento degli ammortizzatori sociali per i periodi di non lavoro (salario di cittadinanza, salario minimo garantito ecc.). Alcune componenti di questa vastissima area del ‘lavoro precario’ stanno sperimentando nuove simbologie di protesta. Poiché i simboli sono vettori di comunicazione, essi forniscono dei collanti sociali nell’attuale crisi delle ideologie. Benché le prospettive siano diverse e in parte divergenti, tra il lavoro autonomo di seconda generazione e l’universo del ‘lavoro precario’ esiste una base comune di azione all’interno dei processi formativi, esistono interessi comuni nell’affrontare la crisi del sistema scolastico e del sistema universitario.” Purtroppo solo pochi sindacalisti riescono a comprendere l’importanza di questa prospettiva, una prospettiva che comunque sta a fatica diffondendosi. Pietro Vertova –– La crisi dei sindacati si sposa ad un’evoluzione delle forme di lotta sul lavoro. Abbiamo assistito negli ultimi tempi a forme estreme e disperate di lotta, emblematico il caso della INNSE. Cosa ci insegnano questi episodi? Parlano di una debolezza delle lotte dei lavoratori oppure di una loro possibile forza? Simone Vecchi –– Durante l’estate per qualche giorno è esploso un dibattito sui giornali sulle questioni che citi, forse sproporzionato rispetto alle vicende che commentavano. Sulla INNSE penso che ci siano stati diversi equivoci: mi sembra che il gesto dei “gruisti” fosse più simile agli operai Fiat che difendevano le fabbriche durante la ritirata dei nazisti nel ’45 che ad un gesto disperato, ad una minaccia di suicidio, per dirla brutalmente. E non era un gesto individuale, ma deciso nel presidio. Salendo sulla gru quegli operai hanno evitato che venissero portate via le macchine, garanzia necessaria a mantenere il proprio lavoro. E anche in quel modo hanno vinto la loro battaglia. Per quello che ho potuto vedere nella mia

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esperienza, i gesti eclatanti sono più probabili laddove i lavoratori sono più deboli e il sindacato non è presente, o quasi. È un prender parola individuale quando si vede che l’azione collettiva non riesce, o non ha forza sufficiente, quindi sono certamente un sintomo di debolezza. Questo non liquida una necessaria reinvenzione delle forme di lotta, poiché risulta evidente che se la forma e l’organizzazione dell’impresa si sono radicalmente trasformate, anche le lotte si devono trasformare per poter essere davvero efficaci. Stefano Lucarelli –– Questi episodi parlano sia della debolezza che della forza dei lavoratori: i lavoratori sono deboli perché subiscono la frammentazione della produzione e sono spaesati dinanzi alla mobilità dei capitali su cui il regime di accumulazione contemporaneo si struttura. I lavoratori stentano a riconoscersi tra di loro, stentano a concepirsi come un gruppo di interesse coeso. I lavoratori sono soggetti sfruttati, lo sono quando lavorano, e quando non lavorano. Il caso INNSE ci mostra anche la forza che sta nelle soggettività nel momento in cui organizzano la lotta, nel momento in cui mettono in opera la propria intelligenza andando a colpire quegli aspetti della produzione capitalistica che danneggiano gli interessi del capitale. Luciano Gallino ha scritto che trarre indicazioni di carattere generale dalla vicenda INNSE sembra un azzardo. Tuttavia l’arroccamento di pochi operai su alte strutture, con il sostegno di altri lavoratori e la solidarietà di chi si sente partecipe del senso di disperazione e del coraggio di quegli operai, colpisce un dei punti nevralgici del nuovo capitalismo: i media, i processi informativi che hanno assunto un ruolo sempre più incisivo nella messa a valore di una qualsiasi attività produttiva. Con il loro gesto dettato da una lucida disperazione gli operai hanno svelato che una fabbrica in salute sarebbe stata chiusa per trarre un utile dalla chiusura. Sono gli interessi immobiliari, la cessione dei rami d’azienda, le ristrutturazioni, le operazioni di Mergers & Acquisitions che caratterizzano questo capitalismo. Di fronte a queste nuove logiche (finanziarie) di massimizzazione degli utili di impresa, agevolate dalle irresponsabilità dei governi e dei sindacati che hanno accettato l’indebolimento dei diritti dei lavoratori occorre ripensare le forme del conflitto. Sempre Gallino ha avuto l’onestà di riportare le parole di un operaio dell’INNSE che ai microfoni di Radio Popolare dialogava con un altro operaio della CIM di Marcellina: “il vecchio tipo di lotta, lo sciopero, non funziona più. Bisogna utilizzare altre forme di lotta”. Parole che in alcuni ambiti di movimento (penso ai precari che organizzano la May day Parade) sono diffuse da tempo.

E non era un gesto individuale, ma deciso nel presidio. Salendo sulla gru quegli operai hanno evitato che venissero portate via le macchine, garanzia necessaria a mantenere il proprio lavoro. (S. Vecchi) Pietro Vertova –– La crisi economica sta mettendo in evidenza la fragilità del sistema economico e le contraddizioni del capitalismo. In autunno la disoccupazione aumenterà e non

sembrano esserci strategie di sviluppo e di welfare in grado di rispondere a bisogni sociali in aumento. Può ripartire il conflitto dei lavoratori? Con quali obiettivi? Simone Vecchi –– In Italia si vive una condizione speciale all’interno della crisi globale, cioè un Governo e una Confindustria che con l’accordo sulla contrattazione stanno cercando di sfruttare l’oggettiva debolezza che hanno i lavoratori in tempo di crisi e disoccupazione crescente, per cambiare i connotati delle relazioni industriali nell’ottica che sinteticamente descrivevo prima. È un obiettivo che vuole sembrare risolutivo, ed è gravissimo per le conseguenze che comporta per la democrazia di questo paese. Al momento la Cgil ha programmato diverse mobilitazioni, dopo la manifestazione del 4 aprile, per rispondere a questo attacco. Il 9 ottobre c’è lo sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici proclamato dalla Fiom, ed è la prima forte azione di risposta del sindacato italiano al tentivo di affossare il contratto nazionale. Non si tratta solo di resistere all’attacco al lavoro del Governo, ma di proporre un’idea nuova di welfare e di diritti nel lavoro. La crisi sta infatti mostrando che il sistema di ammortizzatori esistenti è più che obsoleto, e troppi lavoratori, a partire dai precari, sono oggi privi di qualsiasi tutela. Stefano Lucarelli –– Nel 2009 tutte le statistiche sono concordi nel segnalare un calo del PIL italiano: secondo l’Istat nel primo trimestre del 2009 il PIL è calato del 5,9% rispetto al 2008; nel secondo trimestre il calo è stato del 6% (la media UE è un calo del 4,7%). Anche i dati Inps sul ricorso alla cassa integrazione sia ordinaria, sia straordinaria vanno nella direzione indicata dalla tua domanda: nel trimestre gennaiomarzo 2009, sommando cassa integrazione ordinaria (cigo) e straordinaria (cigs) si segnala un incremento di +184% rispetto allo stesso trimestre 2008. Ci sono poi quei lavoratori precari che non hanno diritto alla cassa integrazione. Quanti sono? Come definirli? Emiliano Mandrone dell’Isfol ha stimato che in Italia nel 2006 quasi 3,5 milioni di individui (il 15,3% degli occupati) erano coinvolti in forme di lavoro atipiche (considerando i dipendenti a termine e i finti collaboratori). Sono ormai molti gli studi che segnalano l’arretratezza del welfare italiano di fronte all’aumento di soggetti deboli sul mercato del lavoro e, in pericolo di povertà. Prendiamo i dati dell’”Indagine sui bilanci delle famiglie italiane” condotta per il 2006 dalla Banca d’Italia (condotta su 19.551 individui). Se definiamo precari tutti gli intervistati che hanno dichiarato di avere un contratto a tempo determinato, un lavoro interinale o di essere un lavoro autonomo atipico (co.co.co, collaboratore occasionale, lavoro a progetto, associato in partecipazione, o prestazioni accessorie) ricaviamo le seguenti preoccupanti indicazioni: il 63, 85% dei precari intervistati dichiara di non guadagnare un reddito che gli consente di arrivare alla fine del mese; solo il 52,7% dei precari intervistati ritiene di non dover cambiare lavoro nei prossimi 6 mesi; l’8,8% dei precari intervistati ha chiesto un prestito o un mutuo; il 24,9% dei precari intervistati vive in affitto. I dati Istat del 2006 evidenziano che in Italia solo o 0,65% dei disoccupati con meno di 25 anni gode di un sostegno al reddito, contro il 57% in Inghilterra, il 53% in Danimarca, il 51% in Belgio. Non esiste nessuna legge deterministica tale per cui l’aumento della disoccupazione conduca di per sé ad un conflitto nel mondo del lavoro. Eppure segnali in questo senso oggi ci sono: pensiamo alle vicende dell’INNSE di Lambrate e della CIM di Marcellina di cui abbiamo parlato prima. Dal 22 settembre 150 operai hanno occupato l’Ideal Standard di Brescia, di proprietà del gruppo americano Bain Capital con sede a Bruxelles che aveva an-


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nunciato la ricollocazione dell’area per scopi diversi da quelli della cottura di ceramiche. Si tratta di esperienze che sono state condotte grazie alla reazione spontanea dei lavoratori, le rappresentanze sindacali sono intervenute solo in un secondo momento. Il conflitto può ripartire se si sviluppa una coesione tra coloro che subiscono la crisi e si riassume la consapevolezza che la lotta paga. Pietro Vertova –– La categoria di lavoratori più debole è oggi quella dei lavoratori immigrati. Le nuove leggi sulla clandestinità espongono gli immigrati ad un doppio pericolo: se perdono il lavoro perdono non solo il reddito ma anche il diritto a vivere sul territorio italiano. Come rileggere l’articolo 4 della Costituzione per questa categoria di lavoratori? Simone Vecchi –– Fino a quando un immigrato extracomunitario non avrà il diritto ad un permesso di soggiorno anche solo per cercare lavoro, l’art. 4 rappresenterà purtroppo un’utopia lontana, simbolo di un vuoto di diritto che per l’immigrato è rappresentato dalla doppia precarietà del lavoro e della condizione di regolare. L’art. 4 della Costituzione ci dice che la democrazia ruota intorno al lavoro, come diritto alla realizzazione di sé, e come dovere di partecipazione ad un progresso collettivo. Perché questo abbia oggi senso per un lavoratore extracomunitario occorre rivoltare come un calzino le attuali leggi sull’immigrazione e ripensare completamente il concetto di cittadinanza. Stefano Lucarelli –– La tua affermazione è vera: se si guardano i dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane condotta per il 2006 dalla Banca d’Italia si può affermare che: l’83,54% degli immigrati intervistati dichiara di non avere un reddito con cui riescono ad arrivare a fine mese; solo il 43,5% degli immigrati pensa di non cambiare lavoro entro 6 mesi; il 14,7% di loro immigrati ha chiesto un prestito o un mutuo; il 67,1% degli immigrati vive in affitto. Sono tutti dati che segnalano un alto rischio sociale, se si è d’accordo che la situazione reddituale, lavorativa, finanziaria e abitativa rappresentano i principali indicatori in grado di quantificare il pericolo di esclusione sociale. La domanda che poni è una domanda scomoda ma proprio per questo urgente. Non ho le competenze del giurista e del giuslavorista, quindi non sono in grado di dare una risposta tecnica a questo problema. Mi limito a segnalare che è ravvisabile una forte contraddizione fra gli articoli 1, 3 e 4 della Costituzione da un lato e le leggi sulla clandestinità dall’altro. Credo tuttavia che in Italia esista un vuoto nella riflessione politica sugli immigrati. Affrontare il problema inevitabile dell’immigrazione nel nostro Paese non significa limitarsi a riconoscere il diritto di cittadinanza in funzione delle esigenze di produzione espresse dal mercato del lavoro. Certamente occorre dare significato alla cittadinanza. Sull’immigrazione occorre però sollevare un altro problema urgente: stiamo vivendo in un mondo in cui la mobilità dei capitali acuisce l’instabilità delle economie. Ciò si riflette gravemente sul mercato del lavoro. Qui la presenza di lavoratori immigrati disposti a lavorare a salari bassi e senza rivendicare nessun tipo di diritto, fino ad accettare di lavorare in nero, va a formare un esercito industriale di riserva (tanto per utilizzare una categoria marxiana ancora molto potente) che spinge verso il basso salari e i diritti per tutti i lavoratori. Si diffonde così il germe del razzismo. Qui occorre fare un lavoro politico molto complesso: se non lo si fa in tempo c’è il rischio di trovarsi di fronte a condizioni materiali che non permetteranno di costruire nessuna mediazione interculturale. Quindi tirando le fila di questo ragionamento credo che si possano sostenere i seguenti punti: 1) le leggi sulla

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clandestinità sono incostituzionali; 2) la riflessione sulla citta dinanza degli immigrati non può essere affrontata al di fuori di un piano volto a ridare regole vere al capitalismo; 3) tra queste il controllo dei movimenti dei capitali rappresenta un intervento necessario proprio per ridefinire lo spazio delle politiche del lavoro e in generale delle politiche pubbliche, anche laddove queste non siano intese come politiche messe in opera dallo Stato ma come pratiche conflittuali volte alla riappropriazione degli spazi sociali (ho qui in mente il nascente dibattito sulle così dette istituzioni del comune).

Credo tuttavia che in Italia esista un vuoto nella riflessione politica sugli immigrati. (S. Lucarelli) Pietro Vertova –– Il sociologo Luciano Gallino è tornato recentemente sulla proposta del reddito di cittadinanza. Di fronte al dirompente fenomeno della precarietà e alla difficoltà di garantire una piena occupazione, la soluzione di un reddito-base legato alla cittadinanza può avere un suo senso e seguito? È realistico dal punto di vista fiscale? Simone Vecchi –– Penso che in questa fase, con questa crisi, occorra a maggior ragione ripensare completamente il sistema di ammortizzatori sociali esistenti, in senso davvero universalistico, ma nell’ottica di evitare i licenziamenti e la perdita di posti di lavoro, per le ragioni che accennavo sopra: quando i licenziamenti collettivi si trasformano in chiusure di aziende, si disperde un patrimonio incommensurabile di conoscenza ed esperienza individuale, oltre che di legame sociale, che non si può affrontare dal solo punto di vista del reddito. Per farla breve, nella dialettica tra diritti “dentro” il lavoro o “fuori” dal lavoro, cioè nel mercato del lavoro, penso che oggi vada privilegiata la difesa del lavoro, anche come elemento di difesa di quel potere di coalizione dei lavoratori di cui si denuncia la ormai decennale crisi. Stefano Lucarelli –– Si tratta di un tema che mi sta molto a cuore. Dalle pagine di Repubblica Luciano Gallino ha correttamente precisato che il reddito base rappresenta un tentativo di allentare, se non abolire, il legame che esiste tra il reddito e il lavoro salariato. Ha ricordato che esistono calcoli approfonditi che mostrano come il suo costo possa esser reso sostenibile, tenendo conto che il reddito base non sarebbe un’aggiunta, bensì sostituirebbe gli ammortizzatori sociali in vigore (da noi la cassa integrazione e i piani di mobilità, il sussidio di disoccupazione e i pre-pensionamenti, oltre a varie indennità che costano comunque miliardi l’anno). Ha inoltre precisato che nessuno pensa di proporre l’introduzione secca del reddito base, ma che occorrono studi, periodi di sperimentazione, locali, verifiche sui costi effettivi e sulle conseguenze che esso avrebbe sul mercato del lavoro, applicazioni graduali. Gallino non ricorda però che in Italia sono già state fatte due sperimentazioni sul reddito minimo di inserimento (RMI), una misura meno radicale rispetto al reddito-base, a carattere non universale, né incondizionato. Si legge nelle Valutazioni finali redatte dal Ministro competente: “che l’inserimento occupazionale non era e non può essere l’obbiettivo primo della misura, anche perchè si tratta di un obbiettivo che difficilmente una misura come il RMI può pensare di affrontare profittevolmente se non

accompagnata da una serie di altri interventi e politiche capaci di agire in modo più strutturale sul problema occupazionale in particolare in contesti così deficitari quali sono la maggior parte di quelli nei quali è stata sperimentata la misura.” I sindacati italiani diffidano del reddito di base sostenendo che: 1) i padroni ne approfitterebbero per abbassare i salari e spingerebbero per abolire il salario minimo legale laddove venisse introdotto; 2) il reddito di base non verrebbe creato come base di un sistema differenziato di protezione sociale, ma come sostituto integrale dell’insieme dei dispositivi esistenti. In realtà l’introduzione di questa misura rafforzerebbe il potere collettivo dei sindacati: basta pensare alla differenza rappresentata da un reddito minimo universale significativo in termini di rapporti di forza in caso di uno sciopero di lunga durata. Dal punto di vista fiscale un reddito universale e incondizionato su base individuale gestito attraverso il bilancio dello Stato comporterebbe un aumento delle aliquote marginali a tutti i livelli di reddito. Nel contesto italiano la misura dovrebbe essere discussa a mio modo di vedere riferendosi all’ipotesi di federalismo fiscale, quindi introducendo nuove imposte regionali e comunali costruite a partire da un’attenta analisi dei modi di produzione del reddito che caratterizzano il capitalismo contemporaneo.

NOTE BIBLIOGRAFICHE Sui temi trattati nell’intervista il lettore può consultare i seguenti testi, che qui elenco seguendo l’ordine in cui appaiono nella conversazione precedente. 1. Antonio Negri, “Il lavoro nella Costituzione”, nuova edizione con una conversazione con Adelino Zanini, Ombre Corte, 2009. 2. Giorgio Lunghini, Francesco Silva e Renata Targetti Lenti, “Politiche pubbliche per il lavoro”, Il Mulino, 2001. 3. Stefano Perri, “Distribuzione del reddito e disuguaglianza: l’Italia e gli altri”, in “Economia e Politica. Rivista on line di critica dell’economia politica”, 23 Gennaio 2009, www.economiaepolitica.it . 4. Pier Paolo Pasolini, “Lettere Luterane. Il progresso come falso progresso”, con introduzione di Alfonso Berardinelli, Einaudi, 2003. 5. Nanni Balestrini, “Vogliamo tutto”, con una prefazione di Bifo, DeriveApprodi, 2004. 6. Robert Boyer, “Fordismo e Postfordismo. Il pensiero regolazionista”, con un saggio introduttivo di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli, UBE, 2007. 7. Alex Foti, “Anarchy in the EU movimenti pink, black, green in europa e grande recessione”, Agenzia X, 2009. 8. Adam Smith, “La ricchezza delle nazioni”, a cura di A. Roncaglia, Newton Compton, 1995. 9. Paolo Volponi, “Le mosche del capitale”, ora in “Romanzi e prose” vol. 3, a cura di E. Zinato, Einaudi, 2003. 10. Riccardo Bellofiore, ,“Introduzione” a Hyman P. Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, Bollati Boringhieri, 2009. 11. Sergio Bologna, “Ceti medi senza futuro. Scritti, appunti su lavoro e altro”, DeriveApprodi, 2007. 12. Luciano Gallino, “Innse, il nuovo volto della protesta”, in “La Repubblica”, 13 Agosto 2009. 13. Emiliano Mandrone, “Studi Isfol n. 1, 2008” su www.isfol.it. Prot.Com.Dati Isfol Plus 2005/001 14. Vasco Pratolini, “Metello”, Mondadori, 2000. 15. AA. VV., “Trasformazioni del lavoro e nuovi bisogni sociali: il rischio sociale”, “Incontro di presentazione dei rapporti per il Ministero: Costruzione, monitoraggio e valutazione delle politiche sociali: esigenze di standardizzazione, best practice e rispondenza ai nuovi bisogni” (II Rapporto intermedio – Università di Pavia, coordinatore Andrea Fumagalli), Direzione Generale per la Gestione del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali e Monitoraggio della Spesa Sociale, Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, Roma 24 ottobre 2008. 16. Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, “Riconoscimento della figura professionale del Mediatore interculturale”, Roma 8 Aprile 2009, www.schule. provinz.bz.it. 17. Marco Revelli, Alessandro Dal Lago, Emiliano Brancaccio, “Il freddo inverno della sinistra italiana”, conversazione in “Micromega” Aprile 2009, www.emilianobrancaccio.it 18. AA.VV., “Istituzioni del comune”, “Posse”, Giugno 2008, www.posseweb.net 19. Luciano Gallino, “Reddito base e disoccupazione”, in “La Repubblica”, 17 Settembre 2009. 20. Ministro della Solidarietà Sociale, Relazione al Parlamento. “Attuazione della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento e risultati conseguiti”, Direzione Generale per la gestione del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali e monitoraggio della spesa sociale, Giugno 2007, www.solidarietasociale.gov.it . 21. Basic Income Network Italia, “Bin Report”, nn.0 (sett. 2008), 1 (ott.-nov. 2008), 2 (dic.-gen. 2009), 3 (feb.-mar. 2009), 4 (apr. Mag. 2009), 5 (ago.-sett. 2009), coordinatore e curatore Sandro Gobetti, www.bin-italia.org 22. Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght, “Il reddito minimo universale”, UBE, 2006. 23. Andrea Fumagalli, “Sperimentando il reddito di cittadinanza”, in AA.VV., Potere Precario, “Posse”, Novembre 2006.


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Una tavola rotonda Eine Gesprächsrunde

Il 26 settembre 2009 Marco Angelucci, Angelika Burtscher,

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la rotonda con otto esperti e “visionari” altoatesini. Il tema

Marco Angelucci, Angelika Burtscher, Daniele Lupo, Thomas Kager

zioni individuali e collettive sulla base del tema proposto.

il diverso fa paura ? mit / con: Abdel El Abchi, Thomas Benedikter, Stefano Fait, Matthias Fink, Gabriele di Luca, Laura Mautone, Waltraud Mittich, Vanja Zappetti

Thomas Kager, ich habe Politikwissenschaft studiert, und arbeite beim Verlag Edition Raetia. Marco Angelucci, sono giornalista al Corriere dell’Alto Adige. Vanja Zappetti, dottore di ricerca di storia moderna e contemporanea, specialista dell’Impero asburgico, balcani, ottomani, minoranze. Ho scritto la voce minoranze su enciclomedia di Umberto Eco. Abdel El Abchi, ich arbeite als Mediator und interkultureller Konfliktberater in Südtirol. Gabriele Di Luca, faccio l’insegnante di seconda lingua alle professionali di Bressanone, sono traduttore e blogger. Sono editorialista del Corriere dell’Alto Adige. Laura Mautone, sono insegnante al Liceo Pedagogico di Merano, collaboro con il Corriere dell’Alto Adige per la parte culturale, scrivo e mi occupo dei rapporti tra scuola italiana e scuola tedesca. Waltraud Mittich, ich bin eine Schreiberin, schreibe Belletristik, mein letztes Buch ist bei Edition Raetia erschienen, mit dem Titel „Topografie - Topografien“, in tedesco e italiano, il messaggio è la convivenza. Scrivo da 15 anni und hab bis dahin deutsche Sprache, Literatur und Geschichte unterrichtet. Matthias Fink, Mitarbeiter der Südtiroler Volkspartei, betreue die Silvius Magnago Akademie im Bereich der politischen Bildung. Ich möchte aber unterstreichen, dass ich als Privatperson, als politikwissenschaftlich ausgebildeter Mensch hier bin und nicht als offizieller Vertreter der SVP. Stefano Fait, sono un antropologo forestiero. Vengo da fuori e osservo. Sono nato a Trento e da 18 anni vivo in giro per il mondo ma non ho mai vissuto qui in Alto Adige Thomas Benedikter, in Politik- und Sozialforschung tätig, arbeite für verschiedene Institute. Ich befasse mich derzeit vor allem mit vergleichender Autonomieforschung und Minderheitenpolitik weltweit. Derzeit arbeite ich bei der Kampagne für die Volksabstimmung mit, der ersten auf Landesebene zur direkten Demokratie.

Daniele Lupo e Thomas Kager hanno organizzato una tavodella discussione era l’autonomo e in particolare la necessità di una sua più effettiva ricezione e realizzazione a livello sociale. La discussione è stata strutturata attraverso alcune parole chiave a cui si richiedeva di rispondere con associa-

Marco Angelucci –– Partiamo da una parola che ha a che fare con tutta la nostra esistenza di oggi, che ci condiziona giorno e notte, 365 giorni l’anno sia a livello individuale che a livello collettivo: la paura / die Angst. Gabriele Di Luca –– Mi stupisce, ma nemmeno tanto, che la prima parola sia la paura, perché la paura è assolutamente la coordinata prevalente, la Grundstimmung che articola il discorso sull’autonomia. Finché la paura dell’assimilazione rimane la coordinata principale del nostro modo di pensare, l’autonomia sarà l’orizzonte intrascendibile perché, garantisce che non accada ciò che tutti temono, ovvero l’assimilazione. Marco Angelucci –– Questa paura dell’assimilazione esiste veramente nel mondo di lingua tedesca? Vanja Zappetti –– Il rapporto di assimilazione è la paura classica in antropologia. La differenza tra assimilazione e integrazione non è solo semantica, è una differenza di senso forte. Assimilazione ha una connotazione negativa, se sono assimilato sono adeguato alle caratteristiche di chi mi assimila. Se sono integrato invece faccio parte. Nella zona nostrana anche la terminologia è molto calata nella paura, è molto più “paura di assimilazione” che non “opportunità di integrazione”. È una cosa comune a praticamente tutte, o quasi, le minoranze o le zone di confine etnico nel mondo. Laura Mautone –– Oggi, in Italia e in Europa, il tema della paura è di fondamentale attualità. Non so se sia legato solo alle minoranze, ad esempio in Italia oggi c’è la paura del diverso, dell’altro, dello straniero. Qui in Alto Adige c’è paura dell’assimilazione, ma non solo da parte del gruppo di lingua tedesca, in modo diverso e con caratteristiche storiche diverse, c’è anche nel gruppo italiano. È costruita ad arte soprattutto dalle posizioni estreme, estrema destra di lingua italiana ed estrema destra di lingua tedesca. Stando a contatto con i ragazzi a scuola vedo che non c’è paura dell’Altro. C’è una costruzione mentale perché l’elaborazione del lutto del fascismo non è stata ancora veramente sedimentata. I nonni ricordano ancora molto bene. Anche nelle famiglie di lingua italiana è ancora molto presente il discorso che “Siamo in Italia e bisogna parlare italiano”. Adesso, in quarta superiore, c’è la possibilità di frequentare un anno in una scuola dell’altro gruppo linguistico. Sono ancora numeri molto piccoli ma quando i ragazzi si parlano, cominciano a conoscersi, si accorgono che sono uguali: ascoltano la stessa musica, hanno gli stessi gusti. Marco Angelucci –– Ma è solo costruita la paura? Dai media? Dai giornali? Matthias Fink –– Angst ist etwas Menschliches, sie ist nicht von Haus aus schlecht, sie hat etwas mit Vorsicht zu tun, das ist etwas was uns alle prägt, ganz unterbewusst. Angst wird vielfach auch konstruiert und da wird es problematisch. Wenn bei einer Podiumsdiskussion in Brixen ein Pius Leitner der Freiheitlichen zum Thema Freistaat Südtirol einfach nur herunterpalavert und dabei sagt „früher war der Konflikt Deutsche gegen Italiener in Südtirol, heute müssen wir uns zusammentun, um das Ausländerproblem zu lösen“, dann sieht man, dass wieder eine Angst, eine nächste Ausgrenzung usw. wie eine Zwiebelschale hinzugefügt wird. Und das ist sehr bedenklich. Angst ist an und für sich nichts Schlechtes, die Frage ist, wie man mit Angst umgeht, wie man Angst konkret schürt.

Thomas Kager –– Bei diesem Begriff sind wir nur auf der kollektiven Ebene geblieben, wie sieht Angst auf der individuellen Ebene aus? Wo gibt es Anknüpfungspunkte für eine individuelle Angst? Muss man Angst haben, und wie wird sie dann individuell erlebt – von deutscher wie von italienischer Seite? Thomas Benedikter –– Wenn Angst in der Gruppe oder in der Gesellschaft geschürt, benutzt oder konstruiert wird, dann wird sie sich natürlich auch auf die Einzelnen auswirken und mit den dazugehörenden Verhaltensmustern. Ich würde aber gerne noch einen Augenblick auf der kollektiven Ebene bleiben. Gabriele meint, Angst ist eines der bestimmenden Motive auch für Südtirol. Ich stimme da mit Gabriele nicht überein, dass das in Südtirol ein so starkes Phänomen wäre, dass es so stark empfunden wird. Vor allem wenn Gabriele meint, das sei Angst vor der Assimilation. Ich würde sagen, da gibt es auch eine andere Spielart, wir können das Misstrauen nennen, als eine Grundstimmung, die es in der Südtiroler Bevölkerung gibt, in allen Volksgruppen verschieden aber auch in der deutschen Volksgruppe, gegenüber einem Staat, dem man eigentlich wenig oder nicht sehr vertraut und sich deshalb Sicherheiten verschafft. Sicherheiten aufbaut in Form von rechtlichen, politischen Rahmen – Autonomie – wo eben dann die eigene Gesellschaft, Kultur, die eigenen Vorstellungen, das Leben zu gestalten, geschützt werden. Und weil das hier in Südtirol so gut klappt, zumindest in den letzten 40 Jahren – was der Großteil der Bevölkerung auch weiß –, ist dieser Grad der Angst vor Assimilation eigentlich nicht mehr so zu spüren. Gerade wenn man das mit den neuen Ängsten vergleicht, die auch bewusst aufgebaut und dann auch politisch eingesetzt werden: typischerweise die Angst vor Ausländern. Aber auch andere Ängste sind präsent: Zukunftsangst, was die Rente betrifft und die soziale Sicherheit. Auch die Angst im täglichen Leben, die geschürt wird, wenn man z.B. für die Sicherheit der Bürger unnötige Parallelstrukturen mit „Ronde“ und der Privatpolizei aufbaut. Also das sind neue Ängste, die die Angst vor der Assimilation hier in Südtirol in den Hintergrund gedrängt haben.

...è più “paura di assimilazione” che non “opportunità di integrazione”... (V. Zappetti) Waltraud Mittich –– Vor kurzem haben wir in einer anderen Diskussionsrunde über Sprachen in Südtirol gesprochen, es ging um das Ladinische. Eine Dame hat gesagt, in den Schulen müssten mehr Ladinischstunden dazukommen, das Ladinische gehe unter. Ich habe mir dann erlaubt zu sagen – ich wollte einen generellen Diskurs über Sprachen anregen – Sprachen sind etwas, das entsteht. Sie entstehen, sie entwickeln sich, sie gehen aber auch einmal unter. Latein z.B., oder das Keltische, das Gälische. Wir kennen viele Sprachen, die es einfach nicht mehr gibt und es waren hochentwickelte Kultursprachen. Der Untergang der Sprachen geht einher mit dem Untergang der Nationen, der Völker. Soviel zu den Assimilierungsängsten. Gabriele Di Luca –– Ci tengo molto a quello che ha detto Thomas. Il tema del Todesmarsch, l’articolo di Gamper


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Am 26.09.2009 haben Marco Angelucci, Angelika Burtscher, Daniele Lupo und Thomas Kager acht Experten und Visionäre aus Südtirol zu einer Diskussion über den Südtiroler Autonomiestatus eingeladen. Thema war dabei die Dringlichkeit, in der Gesellschaft Akzeptanz und Verständnis der Autonomie zu stärken, und diese im täglichen Leben umzusetzen. Die Diskussion erfolgte anhand diverser Stichworte und deren Assoziationen auf individueller und kollektiver Ebene.

negli anni 50, Sigmundskron. La retorica è quella della Überfremdung. Questi ci estinguono, vengono, dobbiamo proteggerci. L’autonomia nasce come dispositivo di protezione, come struttura di regole che cercano di mitigare il contatto, di rendere forte il gruppo linguistico tedesco. Questa è la radice della paura. Misstrauen, una sfiducia basata sulla paura, nasce da lì. Anche quando la paura si trasforma in semplice sfiducia conserva le tracce di questa paura originaria. Dall’altro lato l’autonomia ha fatto paura agli italiani, perché ci sfugge il potere di mano, non siamo più padroni in casa nostra. Questi attraverso le leggi ci portano via quello che avevamo, il lavoro nei posti pubblici, ci tocca confrontarci con una cultura locale sempre più visibile, sempre più manifesta, i nostri spazi si riducono. Oswald Ellecosta che non è un personaggio del profondo passato ma dà voce ad un sentimento diffuso. Basta guardare le lettere al Dolomiten: il discorso della paura è abbastanza presente. Thomas Kager –– Das nächste Wort ist Opfer / vittima. Die Angst hängt ja mit der Geschichte zusammen, von der Gabriele gesprochen hat, mit Opfern und Opferrollen. Heute definieren sich fast alle Gruppen in Südtirol als Opfer. Vittimismo, das Wort wird diesbezüglich auch oft gebraucht. Stefano Fait –– Ho vissuto in Canada, un paese con problemi simili, dove oltre al Quebec c’è un movimento indipendentista nello stato dell’Alberta che vorrebbe unirsi agli Stati Uniti. Il fatto interessante è che la paura dei canadesi nei confronti dell’America è anche il collante, l’elemento che tiene insieme il Canada. La paura aiuta i canadesi a marcare una linea di distinzione rispetto a tutto quello che loro pensano sia tipicamente americano. In un certo senso in Canada la paura è un elemento positivo. È un modo di intendere la paura che ho incontrato nell’idea di liberalismo della paura, un liberalismo che nasce non tanto dalla volontà di rispettare le libertà altrui, ma dall’idea di tutto quello che l’umanità può fare se non è inserita in una democrazia liberale. Marco Angelucci –– Paradossalmente la paura di diventare vittime diventa la paura delle vittime. Perchè chi lascia tutto per tentare di venire in Europa è comunque una vittima del nostro sistema. Gli chiedono 5.000 euro e magari lo rispediscono indietro però, paradossalmente, è la vittima che fa paura. Abdel El Abchi –– Prima non ho detto che vengo dal Marocco e che sono qui da 8 anni. Potete immaginare la paura che avevo io quando sono arrivato. Vorrei tornare al discorso sull’assimilazione, penso che l’assimilazione, Anpassung, sia una fase importante per conoscere le altre culture, quando uno apprende gli strumenti per conoscere una cultura si trovano punti di incontro che rendono possibile la convivenza. Die andere Seite der Angst sind Bedürfnisse und diese sind menschlich. Etwa, wie kann ich mein Leben ohne Angst leben? Ich habe in Schulen, Berufsschulen und mit verschiedenen Organisationen gearbeitet und bemerkt, dass die Arbeitsweise von Italienern und Südtirolern total anders ist, d.h. die Denkstrukturen sind anders. Jeder von uns ist kulturell anders geprägt. So spreche ich in diesem Moment eine Angstsprache, ihr verwendet eure Herzsprache. Ich muss überlegen, aufpassen und gute Worte benutzen. Ihr nicht. Wahrscheinlich mache ich auch Grammatikfehler, vielleicht versteht ihr mich falsch und es kommt zu einem Missverständnis, einem Konflikt. Angst hat auch mit Macht zu tun, und damit: Wie kann ich meine Kultur zeigen? In Südtirol gibt es viele Veranstaltungen

...wir können das Misstrauen nennen, als eine Grundstimmung, die es in der Südtiroler Bevölkerung gibt... (T. Benedikter) über die deutsche Südtiroler Kultur, es gibt Speckwochen, Musikkapellen etc. Die Italiener machen weniger. Es gibt keine gemeinsame Kultur. Für die Italiener ist es auch manchmal schwer Gemeinsamkeiten zu finden. Es gibt Orte in Bozen, wo es keine „Dolomiten“-Zeitung in der Bar gibt. Das empfinde ich als Autogettoisierung der Italiener. Das ist in Bozen. Und natürlich gibt es auch Orte in Südtirol, wo der „Alto Adige“ neu bleibt, nicht berührt wird. Angst ist ein Tabuthema. Wenn es Begegnung gibt, ist immer Angst dabei. Die Realität in Südtirol ist, die Angst nicht zu sehen, vor der Angst zu fliehen. Es gibt genug Geld für alle, wir dürfen nicht streiten. Aber was passiert, wenn man keine finanziellen Möglichkeiten hat, dann streiten wir. Thomas Kager –– Bewegen wir uns doch von der Angst weg. Versuchen wir die nächsten beiden Begriffe zusammenzufassen, Opfer, darauf würde ich ganz gerne noch einmal eingehen, und einen „bösen“ Begriff, den wir auch noch dazugenommen haben, das ist der der Rache, la vendetta. Welche Rolle spielt diese im Südtiroler System der Autonomie, sowohl auf kollektiver wie auch individueller Ebene. Vania Zappetti –– La vendetta, nonché vittime, nonché paura sono ovviamente Stichwörter legate in un treno e la cui locomotiva è la violenza. È la violenza che fa si che ci possa sentire potenziali vittime e che ci si possa sentire in diritto di esercitare vendetta. Ogni volta che esiste un cambio di potere nelle zone di confine linguistico, e per cambio di potere intendo quando una delle due parti linguistiche assume il potere, per esempio dopo il crollo dell’impero asburgico quando molti stati nazionali sono stati creati, si sono create più minoranze di quante ce ne fossero durante l’Impero, praticamente ovunque. Quella che era la minoranza succube, vittima, si è trasformata in maggioranza e ha fatto sì che la nuova minoranza venisse trattata almeno male quanto era trattata la nuova maggioranza quando era minoranza. C’è sempre una voglia di far capire chi è al momento il detentore di un certo tipo di potere. Poi, per fortuna, con l’evoluzione della storia, oggi tutto si è inserito in un processo democratizzato che avviene attraverso leggi e non più attraverso squadroni della morte. Rimane la paura atavica di venire visti come un qualcosa di estraneo al nuovo equilibrio, qualcosa da dover essere purgato. A ragion di più in un territorio, il nostro, che ha sofferto di violenze sociali estreme come il fascismo e i due anni di nazionalsocialismo che sono stati comunque un pendolo forte dal punto di vista dell’eredità pesante che hanno lasciato sulla nostra terra. C’è più o meno sempre il bisogno di avere qualcuno che tuteli me, normale essere umano, potenzialmente vittima di un cattivo che può essere quello che fa la vendetta o può essere cattivo di per sé. Il diverso fa paura. Laura Mautone –– Non abbiamo preso in considerazione che la paura c’entra anche con il linguaggio. È attraverso il

linguaggio che conosciamo il mondo. La scelta delle parole non è neutra, orienta già la discussione in una certa direzione. Vorrei capire perché si è partiti da una scelta così orientata. Paura, vittima aggressione, violenza, c’entrano con uno dei temi classici fondamentali, sia nello sviluppo individuale che a livello collettivo, l’identità. Sono nata qui, questa è la mia terra, mi sento sudtirolese, altoatesina, di madrelingua italiana, ma mi sento appartenente a questa terra. Racconto sempre ai ragazzi che quando ero piccola i semafori avevano la scritta “Avanti/Gehen” e che quando andavo in altre città mi chiedevo perché non ci fosse. Il bilinguismo fa parte della mia formazione. Ci sono i gruppi separati, ma che c’è chi si sente ponte. Thomas Benedikter –– Die Diskussion über Identität erfordert einen sehr breiten Rahmen und auch viel Zeit. Aber ich wollte auf das Thema der Rache kommen, also Angst und in Folge dann Rache, Opferrache. Mir scheint, dass das auch wiederum in Südtirol kein so wichtiges Motiv des Fühlens, Denkens, Handelns ist. Ich habe da einen ziemlich konkreten Begriff, ein Eindruck von Rache, weil ich in meiner Zeit als Menschenrechtler, vor allem in den 90er-Jahren, in solchen Krisengebieten viel unterwegs war, wo man Rache und Hass mit Händen greifen und sehen konnte: die brennenden Häuser im Balkan z.B., ich habe die Opfer von Rache in Südasien, Kaschmir, Sri Lanka gesehen. Und dann lernt man ja auch die eigene Vergangenheit und die eigene Gesellschaft mit anderen Augen zu sehen. Und somit scheint mir das Rachemotiv vor allem heute, aber auch in der Generation unserer Eltern nicht stark in Südtirol, und zwar aus verschiedenen Gründen: Einmal, weil das Unrecht und die Gewalt, welche der Südtiroler deutschen und ladinischen Minderheit angetan worden sind, nicht solche Maße angenommen hat, dass sich das so entwickeln konnte. Die Todesopfer unter dem Faschismus von Seiten der Südtiroler sind relativ wenige. Auch der Konflikt in den 60er-Jahren, als es die Attentate gab, und Italiener, also Armeeangehörige, Sicherheitskräfte umgebracht worden sind, und auf der anderen Seite die sog. Freiheitskämpfer. Auch das blieb auf einem relativ geringen Niveau, wenn man es jetzt vergleicht mit dem Baskenland, mit Nordirland und manchen Gegenden in Osteuropa.

...l’autonomia nasce come dispositivo di protezione, come struttura di regole che cercano di mitigare il contatto... (G. di Luca) Und das hat auch dazu geführt, dass Rachegedanken aus Südtirols Sicht kein sehr fruchtbares Feld hatten. Auch mit Hilfe einer wichtigen Institution, die von je her eigentlich Rache nicht zulässt, nämlich mit Bezug auf das neue Testament: Die katholische Kirche ist in Südtirol sehr stark und sie hat sicher auch eine ganz wichtige Wirkung gehabt. Und dass sich Rache nicht so ausbreiten konnte, war vor allem wegen des Autonomiesystems, weil es von 1948 und dann vor allem ab 1972 dafür gesorgt hat, dass die Minderheit sich halbwegs sicher fühlen konnte, und dass andere Begriffe in den Vordergrund gekommen sind, also nicht Revanche, sondern es waren die Prinzipien der Wiedergutmachung und der


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Gleichberechtigung im Vordergrund. Durch den ethnischen Proporz z.B., konnte die ladinische und deutsche Bevölkerung aufholen und bei verschiedenen materiellen Ressourcen teilhaben. Ein Beispiel für die Gleichberechtigung ist die Sprachenpolitik. Und deshalb war auch dieser Impetus zur Rache in diesem juridisch-politischen System nicht verankert. Thomas Kager –– Es ist immer gut, wenn man den größeren Rahmen wieder sieht, das ist sehr wichtig, weil man sonst oft diesen Konflikt in Südtirol als sehr heftig empfindet, und im Vergleich zu anderen Konfliktsituationen auf der Welt er bei Weitem nicht so blutig und so gewalttätig war. Trotzdem, Rache, gibt es eine subtile Form von Rache? Vielleicht ist Revanche wirklich der bessere Begriff. Gibt es eine subtile Form, wo das hineinspielt? Waltraud Mittich –– Ich würde auch nicht von Rache sprechen, aber von einer Aversion. Warum hat unsere deutschsprachige Jugend eine so starke Aversion dagegen Italienisch zu lernen? Und umgekehrt: Warum haben die italienischsprachigen Jugendlichen diese Aversion gegen das Deutsche? Die Aversionen ließen sich fortsetzen gegen die italienische Misswirtschaft generell, aber das ist dann schon eine Aversion, die breitere Kreise in Europa zieht. Hans Magnus Enzensberger hat in den 70er Jahren schon von der Italienisierung der Verhältnisse in Europa gesprochen. Aber diese Aversion, diese Gegenseite die gibt es, nicht die Rache. Und warum es die gibt, darüber müssten wir reden. Gabriele Di Luca –– Slavoj Žižek parla di paradigma della vittimologia come assolutamente centrale nella codificazione dei rapporti di potere degli ultimi 50 anni. Chi sale sulla barca delle vittime ha paradossalmente una chance di farcela. C’è una corsa ad essere considerati vittime. Tra gli emigranti se uno riesce a avere il diritto di asilo, cioè a mostrare che la propria condizione è più grave di un altro, ce la fa, gli altri no. In Sudtirolo esibire ferite è assolutamente centrale. Tutta la politica del gruppo linguistico italiano degli ultimi 20 anni è stata centrata sul “riconosceteci come minoranza”, “siamo la vera minoranza”. Noi siamo le vere vittime. Molte persone leggono il Pariser Vertrag come opera di vendetta. Tanti pensano che l’autonomia sia stata fatta per togliere qualcosa e che sia anche un pò eccessiva e vendicativa. Marco Angelucci –– Non viene mitizzato il vittimismo? Sono una vittima perchè ho la carta di identità verde, il distributore non è bilingue, siamo delle vittime! C’è un eccessso. Abdel El Abchi –– Non ho vissuto la storia dell’Alto Adige ma l’ho letta sia in italiano che in tedesco e penso che sia una storia da rifare. La carta d’identità è un simbolo. Wenn ich fühle, dass die Identitätskarte nichts mit mir zu tun hat, weil sie auf Italienisch ist und ich deutscher Muttersprache bin, dann stört es mich. Ich fühle mich als Opfer, weil mich diese Karte nicht vertritt. Ein Beispiel: Im Buch „Bel paese, cattiva gente“ meint Claus Gatterer, dass die Südtiroler viele ihrer Rituale verloren haben. Während des Faschismus durften die Südtiroler die deutsche Sprache nicht lernen, das geschah dann nur heimlich. Hier geht es um die Angst, dass mir etwas genommen wird. Auch der Film „Verkaufte Heimat“ zeigt das. Was Opfer oder Täter betrifft: Es gibt kein Opfer ohne Täter. Wenn ich mich als Opfer fühle, dann hat das etwas mit mir zu tun. Es ist einfach Opfer zu sein, wenn ich die Verantwortung nicht übernehme. Ich denke da jetzt auch an Algerien und

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Libyen. Algerien hat verlangt, dass Frankreich Geld für die Kolonialisierungszeit zahlt. Devono dare dei soldi per tutto quello che hanno fatto, Reparationsleistungen also. Wir waren Opfer, wir brauchen das Geld um zu vergessen. Wieso lernen die deutschen Jugendlichen nicht Italienisch, wieso lernen die italienischen Jugendlichen nicht Deutsch? Viele Jugendliche in den Schulen sagen: „Abdel, weißt du, wie die Italiener uns behandelt haben? Wir durften unseren Namen nicht behalten.“ Sie haben diese Information von ihren Eltern. Wir müssen jetzt zusammen versuchen eine neue positive Energie zu erarbeiten, damit wir die vorherrschende negative Energie verbessern.

Hans Magnus Enzensberger hat in den 70er Jahren schon von der Italienisierung der Verhältnisse in Europa gesprochen. (W. Mittich) Matthias Fink –– Abdel, ich möchte auf deine Aussage eingehen, ich finde es wunderbar, dass du diese Sensibilität aufbringst. Es gibt selten Opfer, wo keine Täter sind. Ich erinnere an die Optionsdiskussion: Wer hat sich denn die Rolle des Völkischen Kampfrings angeschaut und thematisiert? Niemand, weil es unangenehm war. Das ist ein Grundproblem mit Opfern. Die provvedimenti von Tolomei in der Umsetzung durch Mussolini waren natürlich eine perfekte Umvölkerungspolitik. Das ging von den Grabinschriften, welche geändert wurden bis hin zu anderen Absurditäten. Das sitzt natürlich tief in der deutschsprachigen Südtiroler Bevölkerung. Ich komme nicht aus Südtirol, sondern aus Nordtirol und es fällt mir auf, dass das Geschichtsbewusstsein in Südtirol unendlich viel stärker als in Nordtirol ist. Auch weil es in Nordtirol nie solche Konflikte gab.

In Sudtirolo esibire ferite è assolutamente centrale. (G. di Luca) Es gibt selten ein Volk wie die Südtiroler, das so sehr an der eigenen Geschichte interessiert ist und diese auch mittlerweile aufarbeitet. In den letzten 20 Jahren ist wahnsinnig viel passiert in Südtirol. Die Schlagzeile in der heutigen Dolomiten „Nehmt uns wahr und ernst“ nennt das Grundbedürfnis der Italiener in Südtirol beim Namen. Sie möchten dazugehören und mitgestalten. Es gibt viele Faktoren, wo sie das nicht schaffen. Ein Süditaliener, der vor 30 Jahren nach Südtirol gekommen ist, meinte bei der gestrigen Diskussion der SVP mit dem Titel „parliamoci“, er könne sich nicht daran erinnern, dass vor 15 Jahren ein italienischsprachiger Südtiroler das Wort Autonomie in irgendeinem positiven Zusammenhang benutzt hätte oder sich damit identifiziert hätte. Das hat sich jetzt sehr stark geändert. Wir hatten gestern zudem auch Wortmeldungen, wo Italiener von sich aus sagen, dass ihr eigenes Problem darin besteht, dass sie selber zu sehr zersplittert sind, so dass sie zu keinem Grundkonsens kommen und deshalb mit dem überstarken Partner SVP nicht auf einer Ebene sprechen können. Die Italiener

beschäftigen sich mit ihrer Lage, und das ist kein ewiges Lamentieren, sondern eher ein Wir-müssen-was-tun. Und das ist grundsätzlich sehr positiv zu bewerten. Thomas Kager –– Das war jetzt ein guter Punkt, den Abdel gebracht hat. Opfer sein hat immer auch damit zu tun, dass man Verantwortung übernehmen muss für diese Rolle. Also man kann Opfer werden, dafür hat man keine Verantwortung, das kann passieren. Die Aufarbeitung aber, die Überwindung der Opferrolle, liegt in der eigenen Verantwortung. Laura Mautone –– Mi piacerebbe che usassimo le parole in modo più riflessivo: io non mi riconosco nella definizione italiani e tedeschi. Noi e loro, forse meglio di madrelingua italiana e di madrelingua tedesca, allora mi sento più a casa. Quando mio padre racconta o quando vedo un film sulla Resistenza e sento definire tedeschi i nazionalsocialisti, mi si accapona la pelle, non mi riconosco. Mi piacerebbe che dicessimo italienischsprachige und deutschsprachige. Weiters zum Thema, dass die Schüler nicht gerne die Sprache des Anderen lernen. Die Schule ist nicht eine Insel außerhalb der Gesellschaft. Was sie in der Gesellschaft spüren, spüren sie dann auch in der Schule und auch in der Familie. Deshalb kann man nicht einerseits sagen, das müssen wir lernen, es ist schön zu lernen, und dann andererseits alle Tätigkeiten getrennt machen, z.B. kulturelle Veranstaltungen. Deve cambiare anche la società, se in famiglia sento una cultura monolitica è chiaro che non sono aperto verso l’altro. Se invece sento che mi appartiene questa realtà bilingue, mi riconosco in questo territorio. Marco Angelucci –– Lancio un’altra parola: Libertà / Freiheit. Come ci si libera da questo vittimismo? In parte è vero, in parte però abbiamo anche la tendenza a inventarcelo. Magari un graffietto diventa una ferita. Come ci si libera anche dalla vendetta? Gabriele di Luca –– Nella comunità italiana c’è un certo vittimismo, ma è anche vero che da anni non produciamo nulla di interessante. Diciamo che vogliamo essere ascoltati, ma perchè il mondo di madrelingua tedesca dovrebbe interessarsi a noi? In Alto Adige si è istituzionalizzata la pigrizia. Denn die Sprache der Anderen zu lernen ist nicht mehr notwenig. Ich frage meine Schüler immer, wann sie das letzte mal Italienisch sprechen mussten; mussten, weil es keine Alternative gab. Und es fällt ihnen keine Situation ein, weil es auch nicht mehr notwenig ist, und man mit Deutsch allein durchkommt. Es hilft aber nicht vom Wert der anderen Sprache und Kultur zu sprechen, denn in Intellektuellenkreisen stellt dies einen Wert dar, aber nicht in der Allgemeinheit. Es geht darum, ein Bedürfnis zu schaffen, die andere Sprache zu lernen. Das Bedürfnis muss aber von den anderen, also den Italienern geweckt werden. Die Italiener müssen dafür sorgen, dass es attraktiv ist Italienisch zu lernen. Aber das ist das Problem, denn es gibt keine italienische Kultur in diesem Lande. Sie existiert nicht. Es gibt keine Kultur mit Niveau die von Italienern in Südtirol erzeugt worden ist. Es gibt keine Literatur. Auf deutscher Seite gibt es viele Autoren und Verlage. Es gibt auch keine Zeitungen mit Niveau, nicht einmal diese, für die ich arbeite. Es gibt auch keine autocritica. Auf deutscher Seite gibt es mit N. C. Kaser und Langer eine Tradition der kritischen Auseinandersetzung mit der eigenen Kultur, mit der eigenen Gesellschaft. Auf italienischer Seite fehlt das. Laura Mautone –– Non sono d’accordo che non esista una cultura di valore di madrelingua italiana in Alto Adige.


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È vero che Kaser e Langer erano tutti di madrelingua tedesca, ma è anche vero che non volevano essere definiti come appartenenti esclusivamente ad uno dei tre gruppi linguistici e che hanno avuto un cammino molto difficile. Non sono stati riconosciuti come parte della cultura ufficiale, sono stati emarginati. Gabriele Di Luca –– Fammi l’esempio di un dissidente, cioè uno che ha detto al proprio gruppo linguistico “abbiamo delle grosse responsabilità. La nostra politische Führung fa schifo, non abbiamo capito come funziona l’autonomia, abbiamo un ritardo di 40 anni”. Laura Mautone –– Qui si guarda troppo alla realtà locale, Langer non parlava solo di Sudtirolo. Marco Angelucci –– Siamo fermi a parlare dei cartelli bilingui mentre a poche centinaia di chilometri di distanza si scannano. Ma siamo sempre fermi a parlare delle stesse cose. Viviamo in una gabbia dorata ma dobbiamo trovare un modo per superare questi problemi che condizionano la nostra autonomia se vogliamo andare avanti. Passiamo un’altra parola, tradizione. In Alto Adige c’è la tradizione di un conflitto permanente ma di bassa intensità. Non ci facciamo la guerra, però abbiamo bisogno di quel minimo di conflitto. Gabriele Di Luca –– Questo sarà sempre così. Das ist die Kategorie der Endgültigkeit, das muss man wirklich wegradieren. Wir werden ständig Konfrontationen haben, wenn wir zwei oder mehrere Gruppen erhalten wollen. Wenn wir eine Assimilierung wollen, dann wird das Problem endgültig gelöst. Mussolini hat einmal zu recht gesagt: “I problemi delle minoranze non possono mai essere risolti solo ribaltati.” Thomas Benedikter –– Una visione fascista! Gabriele Di Luca –– Sì, ma molto realistica. Wir werden immer neue Probleme haben, wir müssen uns daran gewöhnen damit umzugehen, als eine Conditio. Wir sind unterschiedlich, und wir müssen mit dieser Unterschiedlichkeit umgehen. Laura Mautone –– Sicuramente un passaggio è quello della ricostruzione comune della storia e questo é un tentativo che si sta facendo. Gabriele Di Luca –– C’è tanta gente che dice, vediamo il manuale unico dove finalmente c’è scritta la verità. Laura Mautone –– La verità non esiste, è legata al punto di vista. Perchè parliamo di un problema etnico e non di un problema linguistico, politico, sociale? Troviamo un’altra definizione l’etnia è già un concetto problematico e carico di conseguenze. L’altra cosa importante è che l’autonomia è vista come qualcosa di statico. La proporzionale ha garantito un equilibrio ed era sicuramente necessaria come soluzione dopo la seconda guerra mondiale. Adesso é diventata una forma di garantismo: vado in un ufficio pubblico e so di poter parlare la mia lingua. È un bene ma ciò mi impedisce di parlare l’altra lingua. Forse oggi non ha più senso parlare di proporzionale, perchè la proporzionale è basata sul censimento “etnico”, è basata sulla popolazione, sulla dichiarazione di appartenenza a gruppo linguistico. Sappiamo che chi viene da fuori deve dichiararsi aggregato a un gruppo linguistico se vuole accedere ad un posto pubblico o a dei servizi. Nella

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società di oggi non ha più senso, è solo opportunismo. Mi dichiaro così per trovare più facilmente lavoro.

Es gibt kein Opfer ohne Täter. Wenn ich mich als Opfer fühle, dann hat das etwas mit mir zu tun. Es ist einfach Opfer zu sein, wenn ich die Verantwortung nicht übernehme. (A. El Abchi) Thomas Benedikter –– Per superare la proporzionale bisognerebbe considerare questa capacità linguistica nei concorsi pubblici applicando metodi di assunzione analoghi a quelli già praticati a livello comunitario. A Bruxelles si richiede la conoscenza di almeno 3 lingue e di saperle applicare nel proprio settore professionale. Per noi sarebbe una cosa piuttosto semplice trasformare un concorso monolingue in un concorso bilingue. Thomas Kager –– Wir haben einen Parcour gelegt mit bestimmten Begriffen, um dann doch zu einem Ziel zu kommen, das wir nun gerne ansprechen möchten: Die Autonomie bietet funktionierende Mechanismen – über einige Schwächen haben wir schon gesprochen und viele könnten auch verbessert werden. Das Problem ist aber nicht, dass das institutionelle Gefüge nicht passt, sondern dass wir die Möglichkeiten, die es bietet, nicht ausnutzen. Der letzte Begriff ist daher die Freiheit / la libertà. Welche Freiheiten bietet dieses System und warum ist es bis jetzt nicht möglich gewesen, dass alle Sprachgruppen diese Autonomie als ihre Verfassung, als ihr Statut des Zusammenlebens interpretiert haben. Warum gibt es da so viele verschiedene Interpretationen oder auch Abneigungen? Matthias Fink –– Ich denke, dass wir das bereits in den letzten Stunden aufgearbeitet haben. Ich hätte einen ganz anderen Ansatz. Wenn man den Konflikt in Südtirol auf die Sprache reduziert, dann vergisst man, dass für einen Großteil der Bevölkerung in diesem Land der Staat Italien immer noch sehr weit weg ist, dass sie mit diesem Staat nicht sehr viel anfangen können und dass es unheimlich viele gibt, die auch mit dem Staat gar nichts zu tun haben wollen. Ich würde schon von einer ethnischen Diskussion ausgehen und sagen, dass es viele Südtiroler gibt, die sich nicht als Italiener fühlen. Deshalb ist auch der heute gewählte Ansatz sehr interessant. Der Artikel 5, der zu Beginn vorgelesen wurde, ist für mich reiner Ausdruck des christlich geprägten Subsidiaritätsprinzips. Zurück auf die lokale Ebene. Ob man das machen kann, weniger Macht dem Zentralstaat, hat für mich autonomiepolitisch überhaupt keine Relevanz. Auch der Steuerföderalismus nicht, denn so wie die Diskussion derzeit läuft, ist er ein aufgesetzter Blödsinn. Ich sehe da wenige Fortschritte. Wir entfernen uns hier und heute nicht von der ethnischen Diskussion. Laura Mautone –– È un problema di nazione, che é diverso da quello dell’etnia.

Thomas Benedikter –– Bei uns wird oft dieser feine Unterschied der Volksgruppe, Sprachgruppe oder ethnischen Minderheit gemacht. Jene Staaten, die die Verschiedenheit anderer ethnischer Gruppen nicht anerkannt haben, haben sich auch in Europa nur dazu bereit gefunden, von Sprachminderheiten zu sprechen, wie z.B. Frankreich. In Italien hat man zumindest den Schritt gemacht minoranze linguistiche in der Verfassung zu verankern, nicht minoranze etniche. Bei etniche ist ein nationaler Anspruch damit verbunden. International gesehen ist sowohl das Wort Volksgruppen im deutschsprachigen Raum als auch national minorities im internationalen Völkerrecht immer noch sehr gängig und akzeptiert. Das wichtigste Abkommen zum Schutz der ethnischen Minderheiten heißt also nicht von ungefähr protection of national minorities. Man meint damit eben nicht nur Sprachminderheiten, sondern dieses Konstrukt an ethnischer Identität, das eine Gruppenidentität stiftet. Aber es ist nichts Ewiges, es ist konstruiert, es wird am Leben erhalten. Man muss nicht vor dem Begriff Angst haben, weil eine nationalistische Diskussion draus entstehen könnte. Wir können den Begriff ganz gelassen verwenden.

Es gibt selten ein Volk wie die Südtiroler, das so sehr an der eigenen Geschichte interessiert ist... (M. Fink) Waltraud Mittich –– Wir wissen, dass nur Bildung und Wissen über die andere Gruppe der Lösung der Probleme dienlich ist. Ich habe in den späten 60er-Jahren in Padua Germanistik studiert. Ich hatte Deutsch als Hauptfach und habe bei Prof. Baioni meine Diplomarbeit geschrieben. Als ich dann nach Südtirol zurückgekommen bin, musste ich mich ständig rechtfertigen. „Was, Deutsch an einer italienischen Universität bei einem italienischen Professor?“ Giuliano Baioni war einer der anerkanntesten Kafka-Spezialisten im deutschen Sprachraum. Aber in Südtirol war ich ein rotes Tuch. Ich musste mich jeden Tag rechtfertigen, warum ich überhaupt etwas über die deutsche Literatur zu sagen habe, wenn ich doch nicht in Innsbruck an der Haus- und Hofuniversität studiert habe. Zusammenfassend: Wissen und Bildung kann uns näher bringen und wir sollten unsere jungen Leute dahin bringen, dass sie die Sprachen lernen wollen und wir das in die Familien hineintragen, dass sie etwa den TG3 hören.

In Alto Adige c’è la tradizione di un conflitto permanente ma di bassa intensità. Non ci facciamo la guerra, però abbiamo bisogno di quel minimo di conflitto. (M. Angelucci)


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Thomas Kager –– Herzlichen Dank an alle, vielleicht kurz drei Dinge, die ich mir angestrichen habe. Stichwort Verantwortung in Bezug auf Opfer: Man wird vielleicht Opfer, aber kriegt damit auch die Verantwortung mit, mit dieser Rolle umzugehen, ob man sie weiterträgt oder ob man sie überwindet. Gabriele hat davon gesprochen, dass das Bedürfnis geweckt werden muss, die andere Sprache als interessant zu empfinden und diese auch zu lernen. Dies hängt aber auch mit der anderen Gruppe zusammen, die sich auch öffnen wollen und attraktiv sein wollen. E Laura ha detto che c’è anche chi si sente ponte. Es wäre natürlich schön, wenn wir diese Brückenfunktion auch weiter ausbauen könnten.

Folgende Schlussstatements wurden noch per Mail im Anschluss an die Diskussion geschickt:

Vanja Zappetti –– L’autonomia è un concetto. Ipotizza la capacità di darsi regole senza l’intervento di altri, la capacità di prendere decisioni svincolate da influenza altrui. In ambito politologico, autonomia è divenuto sinonimo di autogoverno di un popolo, in una curiosa operazione nella quale, nel rendere pratico e tangibile un concetto teorico, esso viene abbinato ad un altro concetto teorico (popolo, termine indefinito e indefinibile). Considerando che già Aristotele sentenziò che solo animali o dei possano essere indipendenti dalla comunità (polis), risulta evidente come l’autonomia possa essere una tendenza anche fortissima ma necessariamente irraggiungibile, poiché irrealizzabile: l’essere umano è vincolato ad un mondo di interdipendenze. Così personalmente ritengo che chi, ovunque nel mondo, faccia dell’autonomia un programma politico spacciato per esauriente ed esaustivo null’altro faccia che sbandierare un feticcio, sconfinando nell’autonomismo. Laura Mautone –– “Autonomia” significa sia “dare a se stessi le proprie leggi”, “essere indipendenti”, sia essere in relazione a qualcosa o a qualcuno; si dice “essere autonomi”, “liberarsi da vincoli”, “essere liberi di agire”, “imparare a pensare autonomamente”. In campo educativo l’autonomia si promuove, si favorisce, si sviluppa. Nella nostra terra a livello giuridico-amministrativo la parola “Autonomia” rappresenta un privilegio e una grande responsabilità: sicuramente ha un aspetto dinamico, non è da considerarsi un monolite sempre uguale a se stesso. In fondo, mi sembra che la popolazione (o la politica) del Sudtirolo, almeno in parte, non si sia ancora liberata della propria Storia dopo averla attraversata. Così scriveva Montale a proposito di D’Annunzio: per superarlo bisogna attraversarlo. La sua ombra, l’ombra del lutto di questa Storia, non ancora superato da molti, impedisce di allontanarsi dal passato e dai suoi errori. Invito chi ancora oggi in Sudtirolo parla di “conflitto/problema etnico”, invece che “linguistico”, a camminare tra Marble Arch e Hyde Park e a respirare l’aria multiculturale di Londra. Non tutti vorrebbero vivere a Londra, certo, ma a volte vestire i panni dell’altro può essere salutare. In una società in cui i confini si fanno sempre più evanescenti, in un’Europa in cui non esistono frontiere, in un mondo che viaggia sulla rete a tempo di un click, in un mercato globale che non conosce differen-

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ze linguistiche, in un pianeta sempre in movimento, in cui i viaggi e le migrazioni sono continui, ha ancora senso la dichiarazione di appartenenza linguistica o il censimento della popolazione? E ha ancora senso basare la proporzionale per l’attribuzione dei posti pubblici su un censimento nel quale ci si può dichiarare alternativamente italiani, tedeschi, ladini, o altro? E se fossimo tutti “altro”? Se la nostra fosse un’identità plurima avrebbe ancora senso tutto questo? Forse solo se consideriamo le montagne come dei recinti, delle barricate, dei muri. Forse solo se consideriamo il Sudtirolo/Alto Adige come un’isola alla deriva del mondo. Gabriele Di Luca –– Più che un consuntivo, uno stimolo ulteriore. Uno dei termini che mi sarebbe ancora piaciuto discutere, in questo incontro, è la parola “fiducia”. Una parola ovviamente da proiettare anche sul suo sfondo negativo, ossia sulla “mancanza” di fiducia reciproca che ha portato i gruppi linguistici a “convenire” su un sistema articolato di norme funzionali a definire gli spazi (e nuovamente, in senso negativo, la mancanza di spazi) della loro interazione. Una buona domanda sarebbe questa: l’autonomia (nata dalla sfiducia) è riuscita a far crescere il capitale di fiducia? È possibile immaginarsi una dimensione non tanto extranormativa, quanto piuttosto post-normativa, nella quale le norme perdano quel loro difetto d’origine (l’essersi costituite per regolare una situazione che non poteva essere gestita mediante la spontaneità) e si configurino come un orizzonte completamente introiettato (e dunque anche “superato”, aufgehoben) dalle dinamiche di una convivenza finalmente non bisognosa d’essere irrigimentata mediante procedure d’inclusione ed esclusione?

La sua ombra, l’ombra del lutto di questa Storia, non ancora superato da molti, impedisce di allontanarsi dal passato e dai suoi errori. (L. Mautone) Waltraud Mittich –– Wir schreiben das Jahr 2050, ich bin schon tot, es gibt eine Weltregierung und die Vereinigten Staaten von Europa. In Bozen feiern die religiösen Gruppierungen eine Art Osterfest im Dom. Die Schulen sind dreiund viersprachig, es gibt viersprachige Tageszeitungen. Die Nachrichten werden im Halbstundentakt in vier oder auch in fünf Sprachen gesendet. Was war noch mal die Autonomie, werden die Jugendlichen fragen. Ein Modell für Minderheitenschutz. Ach ja. Mussten die denn geschützt werden? Thomas Benedikter –– Eine Territorialautonomie wie die unsere bietet einen rechtlichen Rahmen für die weitestgehende freie Politikgestaltung durch eine regionale Gemeinschaft. Umfassende Bereiche der zentralen Staatsmacht werden auf Dauer auf autonome Institutionen übertragen, um regionale, möglichst konkordanzdemokratische Selbstregierung zu schaffen und den Schutz besonderer Identitäten von Minderheiten, Sprachgruppen oder kleineren, von der Titularnation verschiedenen Völkern zu gewährleisten. Je besser diese Anliegen durch die Umsetzung der Autonomie erreicht

werden, desto eher glückt die Konfliktlösung, desto stabiler die regionale Demokratie, desto „selbstbestimmter“ fühlen sich die Menschen, ohne Sezession und Grenzveränderungen. Wo hingegen Autonomien beschnitten worden sind, sind erfahrungsgemäß immer ernste Konflikte entstanden. Doch Autonomie ist genausowenig statisch wie eine Staatsverfassung. Sie muss mit den Entwicklungen einer Gesellschaft und der Architektur eines Staates Schritt halten und Antworten auf neue Herausforderungen finden. Marco Angelucci –– L’autonomia non basta più? Vogliamo la Selbstbestimmung? Lo sappiamo che così rischia di scoppiare una guerra? Vogliamo le milizie popolari di Don Bosco? Beh l’unico metodo per evitare tutto questo è proclamare il Los von Brussel. Attacchiamoci alla Svizzera che è già un paese trilingue e tassiamo tutti i camion che vogliono passare sul nostro territorio avvelenandoci con i loro tubi di scappamento. Contemporaneamente però bisogna assolutamente legalizzare ogni genere di droga in questo modo la gente si fumerà l’impossibile e poi non avrà più voglia di imbracciare le armi per fare le milizie popolari. Forse è la volta buona che riusciamo a risolvere in maniera creativa pure la questione della toponomastica: Castelrotto o Castelruth. Castelrutto e avanti un altro.


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Racconto breve Kurzgeschichte

Franco Arminio redige un testo di paesologia

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stiche con la particolare esplorazione di quat-

Franco Arminio

un paesologo in Alto Adige: appunti sparsi Parto da Bisaccia alle sei del mattino, arriverò a Bolzano alle sei del pomeriggio. Attraverso l’Italia in treno, guardo un paesaggio impolverato da un’estate senza pioggia. In treno ognuno è ripiegato tra i suoi bagagli e il suo telefonino. Roma, Firenze, Bologna, Verona, Trento, stazioni che seguono ad altre stazioni senza sentire mai una svolta, senza arrivare mai in un luogo che ha un sapore forte, deciso. Anche Bolzano non si sottrae a questa impressione di sfiatamento dei luoghi e delle persone. Quando scendo dal treno c’è un caro amico ad aspettarmi, un architetto emigrato qui per lavoro, ci sediamo in un ipermoderno bar di fronte alla stazione, dopo poco ci raggiunge un altro amico, è persiano, architetto anche lui, anche lui qui per lavoro. Mi raccontano piccoli dettagli delle loro storie, l’importanza che ha da queste parti il saper parlare il tedesco, i sottili stereotipi sugli italiani che, ogni tanto, saltano fuori e che vanno sfatati faticosamente; mi parlano anche di mitiche partite di pallone tra iraniani e indiani nelle strutture sportive di Bolzano, io mi diverto molto ad immaginare tutti quei colori, quelle razze, quella mescolanza allegra di lingue innestate sotto le montagne dell’Alto Adige. Che qui ci sia benessere lo si avverte subito, le perone hanno tutte un’aria solida ed affaccendata. Il parcheggio vicino alla stazione, quello esterno, non ti permette di sostare più di un quarto d’ora, un tempo impensabile nel sud del mondo, ma sufficiente, da quello che mi appare, per chi abita questi luoghi. Le persone che mi hanno invitato per fare un viaggio nel SudTirolo mi hanno mandato molti libri, in treno ho guardato con attenzione le leggi sullo statuto speciale, mi ha impressionato la mole di norme che regolano questa particolare situazione. Stasera a cena, prima di lasciarmi ai miei giri, mi hanno parlato di tante cose, ho un programma dettagliatissimo, lo esamino con loro e avverto curiosità per ciò che scriverò. A quanto pare, sarà difficile parlare con le persone, io mi sento come uno che sta per affrontare l’Amazzonia e non una parte dell’Europa. La mia impazienza viene tutta fuori, sono curioso di capire perché mai questi luoghi potrebbero apparirmi così impenetrabili, così difficili come mi dicono. In fondo, penso, sono spazi fatti di case, di alberi, di montagne e di persone, in fondo sono paesaggio e paesi, il mio cibo da cinquant’anni. Da quanto capisco a cena, questa zona adesso comincia a sentire la paura della crisi, sente minacciato un benessere materiale conquistato anche grazie ai benefici dell’autonomia. Il mio primo giorno non mi ha detto molto e non mi ha detto granché nemmeno l’Italia che ho attraversato in treno. È stato come attraversare una nazione senz’aria, una nazione dal polso debole e dalla vista annebbiata. Il posto dove sono è una sorta di appendice alberghiera di Merano in cui vengono solo tedeschi. A cena li vedevo silenziosi, coppie tra i cinquanta e i sessanta. Non capisco perché vengono in un posto che si chiama Schenna (Scena, nella traduzione italiana che occupa in basso tutta la cartellonistica stradale), forse perché tutto sembra finto, perché qui la grande assente

che coniuga la tutela delle minoranze linguitro paesi altoatesini compiuta su invito degli editori. Scenna, Santa Gertrude in Val d’Ultimo, Bronzolo e San Martino in Badia i paesi scelti per l’esplorazione che si è tenuta in estate dal 25 al 30 agosto 2009.

è la realtà. Ci sono belle montagne e tanti alberghi, domani cercherò di capire se c’è altro. Forse a questi tedeschi sta a cuore sentirsi all’estero, in fondo arrivano in un’Italia che non ha niente dei mali tipici dell’Italia e questo a loro basta. Qui gli abitanti si sono abbigliati come in un’eterna festa, le donne, nei locali, vestono abiti tipici, con corpetti ricamati e lunghe gonne, qui tutti parlano normalmente tedesco e con molta difficoltà l’italiano. La cucina è un trionfo di carni e di selvaggina. Scopro che addirittura si può ordinare la carne di cervo, io pensavo che fosse una specie in estinzione. Quando chiedo un’indicazione ad un signore che sta potando la siepe di casa sua, quello nemmeno si volta, io, normalmente, la uso come scusa per poter attaccare discorso, ma qui non funziona, come non funzionano altre modalità, mai e poi mai potrei sognarmi di fare una chiacchierata con qualcuno seduto davanti ad un bar, nei bar ci sono i turisti tedeschi e nessun altro. Gli altri sono a lavoro. A Schenna assisto anche ad una festa popolare, mi trovo di fronte ad una banda vestita in abito tradizionale ed a centinaia di turisti di mezza età che la seguono, ci vado anch’io, arriviamo in una piazza con un auditorium, per tre ore si suonano canzoni e balli in tedesco, ad esclusivo utilizzo dei turisti. Io vivo su un’altura, abito nell’Irpinia d’Oriente, sulla dorsale appenninica, a novecento metri di altezza, ma non so cosa sia la montagna, non conosco i misteri dell’agricoltura di montagna, non conosco i grandi pendii. Abito e percorro da sempre la cresta, una cresta ondulata, fessurata, una cresta che si abbassa o che s’impenna appena. Nella provincia di Bolzano senti che sei accerchiato dalle montagne. Ci entri per un tubo pianeggiate che da Verona ti conduce a Trento e poi a Bolzano. Per uscire da questo tubo devi tornare indietro, come se facessi retromarcia da un garage: a est, a ovest, a nord, solo montagne. Un luogo del genere metterà una particolare combustione nella psiche di cui non so dire. Pochi giorni non servono a darti il sangue che hanno quelli che stanno qui da una vita. Un luogo del genere, forse, andrebbe visto nell’unico mese in cui non ci sono turisti, a novembre. Le mele. Ne avevo sentito parlare, come tutti. Immaginavo gli alberi, in fondo molti credono che la nostra storia dannata sia cominciata proprio sotto un albero di mele. Ma qui non ci sono alberi, c’è un una sorta di palo replicato all’infinito a cui stanno appesi i frutti. Le mele e le casse per raccoglierle, i trattori per trasportarle ai capannoni e alle celle frigorifero, difficile eludere queste visioni. Di mele non ne ho mangiata neppure una. A colazione vagheggiavo lo strudel e invece c’erano sempre i soliti cornetti, la solita marmellata. Lo strudel l’ho comprato, buonissimo, in una pasticceria di Bolzano, l’ultimo giorno, giusto per portare qualcosa a casa. Provo a ordinarmi le idee su questi luoghi: fino al 1920 siamo in Austria. Poi ceduti all’Italia. I fascisti cercano di italianizzare ciò che italiano non è. Varie vicende durante l’ultima guerra, poi conferma che l’Alto Adige appartiene all’Italia. Viene assegnato uno statuto speciale ma è realizzato solo in parte. Attentati terroristici tra il 1957 e il 1972, stupore nel leggere che ci sono stati 19 morti. Ulteriori norme che rafforzano le facoltà di autogoverno della provincia di Bolzano. Negli anni settanta garanzie per la popolazione tedesca attraverso la “proporzionale etnica”. I posti di lavoro negli uffici pubblici vengono assegnati in base al censimento in cui ognuno dichiara la propria appartenenza linguistica. Tre comunità linguistiche: l’italiana, la tedesca, la ladina. Io mi sono accorto soprattutto di quella tedesca. Mi pare che ci sia uno scarto da quello che si legge sui libri e quello che si coglie in mezzo alle strade.

A Santa Gertrude visione di coppie di turisti tedeschi impegnati nello scopo principale della vacanza: camminare. Certo, a vederli con queste aste che sembrano mazze da sci pare di vedere tanti invalidi che fanno fisioterapia A me l’idea di camminare su queste montagne non è che mi avvinca molto. Sarà poco ecologico ma mi sembra che con la macchina riesco a vedere più cose. Non ho parlato con nessuna persona del posto. Dovrei capire come stanno le cose sulla questione delle minoranze linguistiche, ma pare che la gente trovi disdicevole parlare con gli sconosciuti. Anche chiedere un’indicazione stradale è piuttosto difficile. Ho l’impressione di essere un minorato linguistico. In realtà, me ne rendo conto con chiarezza proprio qui, c’è un silenzio quasi ultraterreno, nessuno alza la voce, nessuno chiacchiera rumorosamente. Evidentemente si viene qui per questo, per stare in silenzio ed io, che sono venuto per parlare, quasi sembro stonato rispetto a questo mondo sommesso, immobile, granitico. In questa valle le case non disturbano in nessun modo il paesaggio, la montagna e il cielo sono le sole cose che contano. Due colori, il verde e l’azzurro. Il resto sono dettagli. Per un paesologo questo è un viaggio anomalo, non ci sono i paesi come comunemente li intendo io: paesi fatti di case una attaccata all’altra e con una piazza in mezzo. Qui ancora non ho visto piazze. Forse, mi viene da pensare, un posto del genere ti costringe al lavoro, vai avanti a testa china, perché, se la alzi, hai lo specchio del cielo, un cielo che sembra più piccolo, perché ingombro di montagne. In questa valle l’aria è buonissima e io sono felice di respirarla. Nella pensione si mangia alle sette, dalle finestre vedo solo alberi, sono l’unico italiano eppure siamo in Italia. Non so di cosa parlino i tedeschi ai vari tavoli, parlano comunque a bassissima voce. Dopo cena cala un po’ di fresco, resto in camera a scrivere un testo che non c’entra molto con l’Alto Adige ma che forse non avrei mai scritto se non fossi venuto qui. Ho visto delle valli bellissime, mi sono stupito davanti al verde tenuto tale anche nell’afa di fine agosto. Non ho visto il giallo e il nero che vedo nelle terre dell’Italia d’oriente ad agosto. Qui prati e alberi e poi solo pietre e poi le nuvole e poi gli angeli, se ce ne sono ancora. Ho visto i gerani, i balconi che sembrano dei supporti fatti unicamente per i fiori, non ho visto esseri umani sui balconi ma fiori. Mi pare che la montagna rimpicciolisca di molto l’elemento umano. Anche le case sembrano più piccole di quello che sono, non ti danno mai l’idea di essere ingombranti. Sono case che non denotano i segni della costruzione, come se le avessero calate dall’alto. Forse perché i muri vengono dal legno più che dalle betoniere e perché sono fatte per essere scenografia oltre che abitazione. Ho visto anche belle costruzioni di architettura contemporanea, fuori dalla tipologia tradizionale. Direi che quasi sempre si tratta di azzardi ben riusciti. Gli altoatesini non sono mai fuori misura. Abitano le loro terre e le fanno fruttare con pazienza, senza vaneggiamenti. Questi paesi non sono fatti per il quotidiano teatro della mezz’ora sulle scale di una chiesa fermi a vedere chi passa. Questi paesi sono la resa dell’uomo davanti alla montagna: si sta sotto, si passa quasi tutto il tempo con la terra che ti incombe addosso, con l’orizzonte chiuso. O forse no, forse, sono il punto di partenza per l’arrembaggio all’ultima parte veramente selvatica e incontaminata di questa terra. Il lusso delle cime è per gli sportivi, per i turisti. È dalle cime, dai passi che si ammira l’enorme bellezza di questi luoghi. In questi paesi chi arriva non vuole storie e nessuno gliene viene a raccontare. Sono piattaforme da cui d’estate si parte


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Franco Arminio begibt sich auf Exploration in vier Dörfer in Südtirol: Schenna, Sankt Gertraud im Ultental, Branzoll und Sankt Martin im Gadertal, und beschreibt aus seinem Blickwinkel als Schriftsteller und „Dorfkundler“ den Schutz der Sprachminderheiten in diesem Land. Der Schriftsteller folgt der Einladung der Herausgeber, sich zwischen dem 25. und 30. August 2009 auf Forschungsreise zwischen Stadt und Land zu machen.

per camminare, d’inverno per sciare. Qui la paesologia è una disciplina che mi appare quasi impossibile. Qui non avverto la frattura, la ferita, qui la terra e la carne non sembrano interrogarsi a vicenda, così come accade nei luoghi che sono abituato a vedere, quelli nei quali vado come si va da un vecchio zio malato, quelli a cui vado a fare compagnia, i luoghi del turismo della clemenza. Non vedi il cane solitario che attraversa la strada, non vedi l’anziana che va a comprare il pane, il giovane davanti al bar che si sistema i testicoli o gli occhiali. Tutto quello che accade quotidianamente è come nascosto, sommerso adesso dal grande circo turistico di agosto. Vedi chi è qui per villeggiare. Non chiedi nulla a nessuno, perché parlano un’altra lingua e prima ancora perché li senti solidi, concentrati, senza nessuna voglia di distrarsi, di divagare. Mi pare di vedere un’umanità che sa quello che vuole ad ogni ora della vita, un’umanità così diversa da quella che so io, lamentosa, volubile, decisa a ingarbugliare la vita degli altri più che onorare la propria. Davanti a questi luoghi io posso solo arrendermi. I paesi non sono fatti di case con il giardino intorno. I paesi sono letteralmente piantati dentro un giardino, piccoli giardini sotto le montagne. L’Alto Adige è una terra a più piani. Ogni paese, ogni borgo ha la sua quota e per questo sembra che ci sia poca vita sociale, perché la gente non è mai a portata di mano. Qui, a trent’anni, se sei un agricoltore, possiedi già una casa e almeno una bella macchina, insomma quello che da noi si arriva a possedere in età pensionabile. Qui i giovani fanno almeno due lavori ed escono solo nei fine settimana. Non ho visto nemmeno un bambino in tutti i paesi che ho visitato, un bambino del luogo. Non ho visto famiglie davanti alle case. Ho visto pochissimi anziani, la maggior parte ancora al lavoro nei campi verdissimi delle valli, figurette lontane, impossibili da avvicinare, chine e concentrate sull’obiettivo, abbarbicate sul fianco dei monti. La Val d’Ultimo è il posto che mi è piaciuto di più. Una casa vicina ad un lago mi è parsa la più concreta realizzazione del paradiso sulla terra. Le terme di Merano. Bell’edificio al centro del bel centro cittadino. Da fuori e dall’alto osservo i bagnanti che vagano in un’atmosfera amniotica. In effetti da fuori e dall’alto le attività umane hanno sempre qualcosa di futile. Guardo case solitarie in alta montagna abitate da famiglie solitarie. C’è sempre una linea in cui il paesaggio svela che non è più assistito dalle cure umane. Sono le zone dove cresce solo la neve, è il regno nudo dei sassi. A San Martino in Val Badia alle cinque del pomeriggio sono in giro per trovare qualcuno con cui parlare. Davanti al bar ci sono delle persone che parlano tedesco. Un gruppo di turisti italiani beve birra. Non hanno facce liete. Vado a parlare con alcuni anziani seduti vicini a una casa di riposo, sono i primi anziani che incontro in gruppo, stanno aspettando la cena. Parlano italiano, parole stentate dalla fatica degli anni e dal caldo della giornata. Storie di gente che non si è sposata. Mia naturale simpatia per gli scapoli, per chi non ci ha creduto alle marcette del sentimento coniugale. Non mi va di fare troppe domande, anche questi anziani non hanno la loquacità di quelli meridionali, qui non c’è la teatralità bizantina a cui sono abituato. Il lamento è sommesso, garbato. Mi siedo vicino ad uno di loro, mi sorride mite, ma è sorpreso dal mio interesse, sconcertato dalle mie domande, comprendo il suo imbarazzo, sento che non è abituato a raccontarsi, a narrare se stesso e la sua vita, una vita fatta di lavoro, di montagna, di fatica immensa e silenziosa. San Martino ha la tipica struttura di un piccolo paese di alta montagna. Quelli grandi stanno nel fondo della valle. A quota

mille è difficile trovare un paese di mille abitanti. Il fatto che siano pochi si vede dal cimitero. Come sempre è intorno alla chiesa, ma altre volte le chiese le ho viste in cima al villaggio, come piccole acropoli. Qui è proprio in mezzo al paese, di fronte alla banca, adiacente all’ufficio turistico. Già ci ero entrato un paio d’ore prima, mentre aspettavo che aprisse il vicino negozio di alimentari. Ci entro anche adesso. Guardo le facce dei morti e le date. Sono quasi tutti anziani. Sembrano tutti morti di vecchiaia. Questi cimiteri piccoli sono assai belli, in cinque minuti ti fai tutto il giro dei morti, in un mesto turismo funebre che per me è sempre meglio di un aperitivo al bar. Resto a dormire a San Martino. La sera c’è un coro che fa musica per i turisti. Non c’è l’animazione dei luoghi balneari. In fondo l’Alto Adige è anche una sorta di clinica all’aria aperta. Un centro di riabilitazione per chi vuole porre rimedio in una settimana a una decennale vita sedentaria, per depurarsi, per dimagrire, per fare quello che non si fa di solito a casa propria. Il giorno dopo mi sveglio con l’intenzione di vedere il museo dedicato alla cultura ladina. È nel piccolo castello posto in cima al paese, un po’ staccato dalle case. Sono molto stanco e appena entro in un museo pare che la stanchezza sparsa per il mio corpo si raccolga e si metta davanti a dirmi che non ce la faccio più, che dovevo fare un’altra vita. L’ipocondria non è una malattia che puoi lasciare a casa quando parti per un viaggio, ti assale anche nel posto più bello della terra. Comunque il museo è allestito senza badare a spese e con un cura ammirevole. È un posto dove è bello essere arrivati. Dall’ultimo piano posso vedere tutta la valle e le Dolomiti, è grigio il tempo, ha appena piovuto, l’aria cambia in fretta da queste parti, è l’unica cosa che mi sembra vada in fretta. Nel museo sfoglio album di fotografia, vedo la guerra e lo scempio perpetrato ai danni di questi popoli, vedo visi antichi, segnati dallo sforzo, vedo donne con facce austere, impassibili, mi sembra di poter parlare con loro, mi sembra che loro, così come i morti dei cimiteri, riescano a dirmi qualcosa di questi posti. Ho visto anche un museo in Val Senales incentrato sull’uomo dei ghiacci. Anche qui tutto ben fatto. Nell’ultimo giorno a Bolzano ancora un museo, ancora l’uomo dei ghiacci e altre mummie. È un viaggio nella morte che non ha fatto il suo corso. Corpi che hanno perso il fiato, hanno perso il sangue ma hanno ancora i denti, i capelli, i vestiti. Mi viene da pensare che questi corpi andrebbero fotografati ed esposti un po’ ovunque. Sarebbe un estremo tentativo di ricordare ai vivi che la morte è l’unica cosa che accade sempre, l’unica che sfugge al regno della possibilità, al mondo del fare e dell’avere. Sono giorni che mi riprometto di leggere un giornale locale. Può darsi che attinga un po’ di notizie visto che non posso sentire il mormorio delle piazze. Immagino che un tema preminente siano i turisti. Immagino che ci sia qualcuno che discuta su come attrarne altri, magari quelli che spendono di più. In realtà è così, c’è addirittura un ente che si occupa dell’immagine dell’Alto Adige nel mondo. Pare che, per i prossimi anni, l’obiettivo sia quello di eliminare il turismo a basso costo e di selezionare clienti danarosi. Le Dolomiti, patrimonio dell’UNESCO, dice un esponente della Regione sul giornale che sto leggendo, sono un patrimonio che non può essere fruito gratuitamente, insomma bisogna pagare, e molto, per guardare le montagne tra le più belle d’Europa, come si paga per entrare in un museo. Resto colpito da queste affermazioni e penso a che mondo terribile sarebbe quello in cui si dovesse pagare per ammirare un panorama, per osservare un orso o un ghiacciaio

o un lago, cose che non ci appartengono veramente. Una sera in albergo, dopo una giornata intera di giri per paesini minuscoli, alla televisione trovo un canale Rai dove parlano in tedesco, ma più che parlare cantano, cantano canzoni in un’atmosfera che somiglia molto a quella per gli italiani all’estero, forse, mi viene da pensare, gli altoatesini sono esteri in Italia. O, forse, gli altoatesini stanno nascosti tra i filari delle mele, nei masi d’alta quota, o negli uffici di una provincia speciale in tante cose, compresa la quantità di denaro che riesce ad assicurare ai suoi cittadini. Ero venuto per capire i problemi delle minoranze linguistiche e mi ritrovo a pensare a quello che penso tutti i giorni. Forse fanno bene i turisti. Forse camminando per un giorno intero questa terra ti distrae dal tuo ronzio interiore. Se stai fermo, invece, te lo amplifica. Ti fa sentire che non hai scampo. Nei luoghi dell’incuria ti indigni. In quelli ben curati ti annoi. Non ci sono più luoghi che aiutano il cuore a battere come si deve. Alcuni lo rallentano penosamente, altri lo accelerano. In Alto Adige ho sentito nitidamente che l’Europa degli individui, l’Europa protesa a difendere la sua ricchezza è una terra che non mi convince. Non ci sono posti selvaggi, a parte le cime delle montagne, non ci sono luoghi veramente nascosti, tutto è apparecchiato, tutto è stato già visitato, fotografato e catalogato da altri, tutto è stato raggiunto. Abitiamo un pianeta che sta diventando uno sgabuzzino in cui ognuno accatasta le sue merci. La questione della lingua. È strano che sia un assillo in una terra dove si lavora tanto e si parla poco. Mi pare una questione tenuta in vita da una politica che non sa come tenersi in vita. Se il problema delle minoranze linguistiche non fosse pretesto di battaglia politica forse sparirebbe e, piano piano, ogni lingua troverebbe chi vuole parlarla e chi vuole ascoltarla. Io comunque su questa faccenda non ho niente di originale da dire. Questo non per disattenzione, ma perché penso che il problema dell’Alto Adige non sia la lingua, ma la ricchezza. La ricchezza oggi in occidente porta sempre con sé una sorta di aridità dello spirito. È come se la ricchezza andasse a tappare i buchi attraverso cui le nostre anime sfiatano o accolgono l’aria. Io della questione della lingua ho capito soltanto che dovunque andavo il mio italiano mi sembrava strano, un gingillo rotto, buono solo a ottenere riposte rapide alle mie domande. Il mio italiano non mi è servito a chiacchierare, al massimo sono riuscito a dire che volevo un caffè, che volevo un insalata. La visione dei sassi dolomitici. Quella è la cosa che più mi ha emozionato. La montagna che esibisce l’anima della montagna. In questo lembo d’Italia abitato da italiani portati qui dal fascismo e da gente che non ha niente dei vizi “dell’Italietta laida e meschina” si può vedere chiaramente che chi coltiva la terra, chi rimane attaccato ad essa, alla fine ha più futuro di chi si è andato a buttare nel pozzo delle metropoli. È un’idea che adesso sembra azzardata ma in cui credo fermamente. I territori senza grandi assembramenti umani sono quelli che hanno le carte più in regole. In fondo la montagna è un enorme assegno in bianco, un assegno che qui sfruttano benissimo e che altrove ancora non si curano di incassare. Mie osservazioni poco invasive. Quello che vedo mi pare già abbastanza esemplare. Dice di un grande attaccamento ai propri luoghi, di una tenace capacità di trarre il meglio da essi. La geografia qui è più potente che altrove. Laghi, fiumi, creste, ruscelli, alberi, insomma la natura si impone quasi ovunque sulle cose costruite dall’uomo. Ogni montagna è una cattedrale. Ognuno che a schiena curva la lavora in realtà sta pregando. Questa terra non è mai volgare, chi la abita non è mai invadente, come se la gente fosse nascosta nelle pieghe del paesaggio. Insomma, nel bene e nel male non è Italia.


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Una duplice riflessione sulla lettura dell’articolo 9 in relazione alla censura e all’autocensura nella ricerca artistica. Volare O O presenta un saggio introduttivo di Maria Rosa Sossai e un’intervista di approfondimento a Cesare Pietroiusti sul workshop “Laboratorio permanente per l’abolizione dell’autocensura nella pratica artistica” che l’artista ha tenuto il 7 ottobre 2009 a

Cesare Pietroiusti, Maria Rosa Sossai

Censura e Autocensura Maria Rosa Sossai “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. I bambini fantocci impiccati ai rami di un albero di Maurizio Cattelan “Untitled” (2004), la rana crocifissa di Martin Kippenberg “Prima i piedi” (1990), la fioriera di acciao inox e fiori a forma di svastica di Giovanni Morbin (2008) o l’audioinstallazione con l’inno di Mameli suonato a colpi di sciacquone di Goldi e Chiari “Confine immaginato” (2006), hanno ricevuto l’attenzione della stampa e di conseguenza del grande pubblico, grazie alle esternazioni di dolore di un vescovo, al gesto indignato di un padre, all’accusa di oltraggio alla memoria dell’Olocausto di un gallerista e alla denuncia di reato di vilipendio di un consigliere provinciale di AN. Il moltiplicarsi in Italia di casi di censura nel campo dell’arte ha ristretto gli spazi di democrazia e di libero confronto, disattendendo in maniera palese l’articolo della Costituzione italiana. La scelta da parte delle istituzioni di non esporre opere su temi scottanti o di scoraggiare gli artisti ad assumere posizioni ritenute scomode è l’espressione di un impoverimento della cultura asservita a ragioni politico-strategiche che favoriscono il formarsi di un conformismo culturale. Ne consegue che la ricerca artistica è costretta a confrontarsi con problemi quali l’autolimitazione e l’autocensura. La recente trasformazione dell’arte contemporanea in un luogo privilegiato di formazione di affari pubblici non si è tradotta purtroppo in forme dirette di partecipazione democratica dei cittadini, ma piuttosto in un controllo sociale che, scrive la sociologa Nathalie Heinich, “utilizza l’interazione e i gesti di riappropriazione individuali, come due modi spontanei di gestire un oggetto inclassificabile qual è l’opera d’arte”1. Le polemiche verbali, gli atti di accusa giudiziari, le condanne morali, i ricatti, le chiusure di mostre, i boicottaggi, il ritiro delle opere, hanno spesso come denominatore comune il disagio di fronte ai quesiti che l’arte solleva, i quali non riguardano tanto il valore del singolo lavoro ma la sua circolarità tautologica che mette a nudo un apparente non senso dell’agire artistico. La strategia mediatica e l’enfasi sugli aspetti scandalistici sembrano così avere trasformato l’esperienza estetica in un fatto di cronaca effimero, un accessorio decorativo che, secondo un principio di equivalenza, si consuma come un segno tra i segni. 1

N. Heinich, L’art contemporain exposé aux rejets, Paris, Hachette, 2009, p. 53.

Roma, 02 Ottobre 2009

Lungomare di Bolzano per contribuire alla rivista.

intervista a cesare pietroiusti Angelika Burtscher, Daniele Lupo

AB: Il 7 ottobre si è tenuta la seconda edizione del “Laboratorio permanente per l’abolizione dell’auto-censura nella pratica artistica” qui a Lungomare. Quali sono le tue impressioni? CP: Per me è stata un po’ una sfida. È la seconda volta che faccio questo tipo di laboratorio, quindi non è un’esperienza rodata o provata varie volte. I partecipanti non erano tutti artisti – come è stato per la prima esperienza – e questo fatto ha reso problematica la discussione, che era un po’ diversa nel senso che c’era meno accordo sui problemi da mettere in discussione. In un gruppo di artisti ci sono certe problematiche che vengono in qualche modo condivise e sentite da tutti, quindi si innesca di più quel lavoro di indagine di gruppo, che questa volta è stato un po’ meno facile. Però la sfida sta anche nel fatto che comunque parecchie tematiche, che a me interessano molto, sono venute fuori, per esempio la tematica dell’anti-economicità, la tematica dell’identità e quella del rapporto con la norma. Direi che siccome pochi dei partecipanti erano artisti, sono emersi pochi esempi di lavoro proprio, sui quali poter riflettere. DL: Da dove nasce l’esigenza di organizzare e di promuovere il “Laboratorio permanente per l’abolizione dell’autocensura nella pratica artistica”? CP: Nasce dalla sensazione che nella cultura artistica italiana ci sia una grave e preoccupante debolezza di proposta. Nasce quindi dall’ipotesi (e dalla speranza) che le proposte forti non sono assenti, ma nascoste, poiché mi rifiuto di credere che la cultura italiana in questo momento storico non possa avere proposte artistiche forti. Allora, o sono nascoste in artisti che sono marginali, fuori da ogni giro, invisibili, oppure gli artisti “visibili” non trovano, a livello della loro esperienza soggettiva, i canali per far emergere questi contenuti. Cioè certe forze sono inibite da meccanismi, appunto, di auto-censura. L’ipotesi di lavoro di questo laboratorio è che in una dimensione di gruppo certi meccanismi di inibizione individuali possano essere in qualche modo elaborati o aggirati dallo sguardo e dall’analisi di altre persone. Mi rendo perfettamente conto che è un obiettivo ambizioso e con dei risultati poco prevedibili. Però secondo me vale la pena comunque tentare. AB: Durante il workshop è emersa una tua considerazione sulla ricerca artistica, sostenevi che la parte più interessante della ricerca artistica coincide con la sua parte più scomoda,


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Pietroiusti

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Rahmen

von

Volare O O am 7.10.2009 den Workshop „Ständige Werkstatt zur Abschaffung der Selbstzensur im künstlerischen Schaffen“ gehalten. Ein Gespräch mit Cesare Pietroiusti erläutert die Notwendigkeit dieser Werkstatt im heutigen Italien und die Zusammenhänge mit den Gründsätzen des Artikels 9. Maria Rosa Sossai führt mit einem Essay über die Zensur und Selbstzensur in das Thema ein.

quella che tocca i livelli segreti delle persone. Cosa intendi per proposte forti nell’ambito della ricerca artistica? CP: Le proposte “scomode” sono quelle che mettono in discussione l’ordine dei rapporti fra le cose, per esempio fra mezzi e fini. Allora il rapporto fra lavoro, guadagno, successo ecc. è tutto interpretato secondo logiche che non sono immodificabili e che possono essere messe in discussione. Mettere in discussione le logiche economiche è l’esempio di una proposta forte, perché si tratta di osservare criticamente un comportamento che è accettato universalmente e di cercare di farne un uso, una modalità diversa. Le proposte forti sono legate alle idee e ai comportamenti contro-intuitivi, cioè che appaiono assurdi. Adorno diceva che in arte le cose che a prima vista risultano chiare e semplici sono quasi sempre false. Diceva che la musica leggera, per esempio, riflette uno pseudo-ordine, un’armonia sociale che non esiste, ma che le classi dominanti vogliono far credere esista per potere continuare a sfruttare e a ricavare profitto. Ciò che in arte appare comprensibile, piacevole e gradevole è un inganno che serve a farci sentire felici ingannevolmente (è la funzione dello spettacolo contemporaneo) e a non farci neanche più riconoscere il disagio. Quindi penso che una proposta forte sia spesso una proposta che di primo acchito sembra sbagliata e che in un certo senso costringa a una ristrutturazione delle modalità di pensiero, sia delle convinzioni che delle abitudini. Infine, e forse sopratutto, la proposta forte per me è quella che non nasconde la dimensione del disagio. Ho l’impressione che nella nostra cultura dominata dallo spettacolo il disagio o è completamente occultato oppure, peggio ancora, diventa appunto un elemento dello spettacolo, come un brivido in un film. Questo nega al soggetto la possibilità di esperire in modo significativo il proprio disagio, che invece io credo sia la prima fonte di conoscenza. Sulla base del disagio e del dolore noi impariamo le cose. Quindi rovesciare mezzi e fini, non aver paura di ciò che sembra insensato, non negare il disagio: ciò praticamente consente di entrare in una dimensione in cui il coinvolgimento dell’altro non sta su un piano superficiale di saperi convenzionali sui quali siamo già d’accordo, ma su dei piani interiori che in qualche modo potrei definire come dei piani segreti. Credo che noi comunichiamo, nel senso che mettiamo in comune significati, quando esploriamo delle dimensioni interiori, segrete. AB: L’articolo 9 della costituzione dice che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” Quali associazioni ti vengono in mente collegando l’articolo 9 con i concetti appena detti? CP: Purtroppo mi viene in mente che oggi, in particolare in Italia, la politica è in una situazione completamente dominata dallo spettacolo. La politica è anzi diventata una delle punte di diamante dello spettacolo: i politici sono come i calciatori in questo momento, sono più “spettacolari” dei divi del cinema. Così succede che ogni messaggio, ogni contenuto espresso a livello politico, con un linguaggio politico suona chiaramente falso, palesemente il contrario di ciò che dice. È come la pubblicità che ti vuole convincere della

bontà di un prodotto evidentemente cattivo, della leggerezza di un prodotto evidentemente pesante, della salubrità di un prodotto evidentemente dannoso. Non credo che ci sia nessun politico che direbbe di non essere d’accordo con queste parole della Costituzione, anzi tutti i politici dicono di fare esattamente questo. Purtroppo il livello di falsificazione è tale per cui è difficilissimo dire frasi del genere perché immediatamente suonano come frasi che sono già state impossessate, svuotate e rimesse in circolo come uno slogan pubblicitario finto, da voci che sono molto piú importanti e rumorose delle nostre. E quindi quando noi leggiamo questo (sacrosanto) articolo della costituzione, suoniamo come imitatori di falsificatori: non vorrei suonare cinico, ma secondo me questo va considerato. DL: Quindi il ricorso a parole come “incostituzionalità” in quest’ottica sono svuotate di senso? CP: No. sono convinto che ci siano delle cariche dello stato, dei funzionari che lavorano con onestà per verificare che i politici “professionisti” rispettino questi dettati ed entro certi limiti la loro azione di controllo è lodevole. Io parlo del fatto che la società dello spettacolo ha assunto, si è impossessata, del lessico politico, della “modalità di espressione” di questi contenuti. Ciò è terribile, perché rende l’azione e il convincimento politico svuotati del linguaggio stesso con cui si dovrebbero esprimere. Adorno diceva già negli anni 40, che l’”industria culturale” (cioè i mezzi di comunicazione di massa) ti toglie la parola, perché se ne impossessa e la restituisce amplificata ma svuotata. Quindi ogni volta che tu parli stai in realtà parlando un’imitazione di un linguaggio vuoto. Suoni come un intellettuale che sta in una poltrona di un talk-show, come il presentatore, come il calciatore: a seconda dei casi ciascuno di noi suona come uno di quelli là, che parlano come te, usano lo stesso linguaggio, ma completamente svuotato. Non voglio essere pessimista, però i pessimisti come Adorno o come Pasolini avevano proprio ragione, il nostro problema è che, nonostante tutto, dobbiamo cercare in questo panorama completamente degradato e falsificato degli spazi di osservazione critica. Secondo me c’è una chiave: il riconoscere il disagio e l’errore come una fonte positiva di senso, di significato e di lavoro, perché nella politica-spettacolo il disagio e l’errore mi sembra non siano ancora stati completamente assunti e restituiti svuotati, cioè sono ancora dei tabu. Essendo ancora tabu sono un territorio sul quale si può lavorare per produrre pensiero critico.

Bolzano, 8 Ottobre 2009

Workshop – Partecipanti / Teilnehmer: Elena Santagiustina, Eva Lageder, Fanni Fazekas, Katia Baraldi, Laura Lovatel, Linda Jasmin Mayer, Manuel Chieregato, Massimiliano Mariz, Nuris Isabel Mendoza, Reinhard Frena, Serena Osti, Valerio Del Baglivo


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ATTI DEMOCRATICI, bolzano-Bozen 16.10. – 30.10.2009 Ex magazzino doganale della stazione di Bolzano, via Renon Ex-Zolldepot des Bahnhofs Bozen, Rittnerstraße www.lungomare.org/attidemocratici

16.10. – 30.10.2009

16 Marco Angelucci, 1975, Bolzano, laureato in Scienze politiche a Bologna dopo studi in Africa, Sudamerica, Germania e Francia. Tornato a Bolzano collabora con il Mattino e con Radio Tandem Popolare Network. Ora redattore de Il Corriere dell’Alto Adige, edizione locale del Corriere della Sera. (geboren 1975, lebt und arbeitet in Bozen). Studium der Politikwissenschaft an der Universität Bologna, Studienaufenthalte in Somalia, Argentinien, Deutschland und Frankreich. Er hat mit Il Mattino und Radio Tandem Popolare Network zusammengearbeitet. Derzeit ist er Redakteur beim Corriere dell’Alto Adige-Bozen, die lokale Ausgabe des Corriere della Sera. Franco Arminio, 1960, scrittore / paesologo, vive in Irpinia, provincia che ha centodiciannove paesi. Ha pubblicato alcune raccolte di versi. Suoi racconti sono stati pubblicati in “il Manifesto”, “Diario”, “Il Semplice” e in altre riviste e antologie. Collabora con diversi giornali locali, organizza eventi culturali ed è animatore di numerose battaglie civili. Una raccolta di articoli è uscita con il titolo Diario civile. Insieme a Paolo Muran ha realizzato il film Viaggio in Irpinia d’oriente.

(geboren 1960, lebt und arbeitet in Irpinia) ist Schriftsteller und „Dorfkundler“. Arminio hat mehrere Vers-Sammlungen veröffentlicht, und Erzählungen in Zeitungen und Anthologien wie „Il Manifesto”, „Diario” und „Il Semplice”. Er organisiert Kulturveranstaltungen und hat mehrere Bürgerkämpfe geführt. Eine Artikelsammlung ist unter dem Titel „Diario civile” (Bürgertagebuch) erschienen. Mit Paolo Muran hat er den Film „Viaggio in Irpinia d’Oriente” veröffentlicht.

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Angelika Burtscher (lebt und arbeitet zwischen Bozen und Maastricht) und Daniele Lupo (lebt und arbeitet in Bozen) sind Designer und Kuratoren. 2003 haben sie die Projektplattform Lungomare gegründet, ein Jahr später das Designstudio für Produktdesign und visuelle Gestaltung Lupo & Burtscher.

Art. 4 La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Art. 5 La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Art. 6 La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. Art. 9 La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

XVIII La presente Costituzione è promulgata dal Capo provvisorio dello Stato entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea Costituente, ed entra in vigore il 1°gennaio 1948. Il testo della Costituzione è depositato nella sala comunale di ciascun Comune della Repubblica per rimanervi esposto, durante tutto l’anno 1948, affinché ogni cittadino possa prenderne cognizione. La Costituzione, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica. La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come Legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato. Data a Roma, addì 27 dicembre 1947. ENRICO DE NICOLA Controfirmano Il Presidente dell’Assemblea Costituente UMBERTO TERRACINI Il Presidente del Consiglio dei Ministri DE GASPERI ALCIDE

Angelika Burtscher (vive e lavora tra Bolzano e Maastricht) e Daniele Lupo (vive e lavora a Bolzano) sono designer e curatori. Nel 2003 hanno avviato la piattaforma progettuale Lungomare e nel 2004 lo studio di progettazione Lupo & Burtscher. Thomas Kager vive a Cornaiano. Ha studiato Scienza politiche a Salisburgo e a Denver negli Stati Uniti. Per diversi anni insegna alle scuole medie e superiori e dal 2004 lavora alla casa editrice Raetia per la quale segue le pubbliche relazioni e la revisione dei testi. (geboren 1974 in Bozen, lebt in Girlan) Studium der Politikwissenschaft und Publizistik, Studienjahr an der University of Denver in den USA. Mehrjährige Lehrtätigkeit an Mittel- und Oberschule, seit 2004 Mitarbeiter der Edition Raetia im Bereich Öffentlichkeitsarbeit und Lektorat. Stefano Lucarelli (1975, Marsciano) é ricercatore in economia politica all’Universitá di Bergamo. Membro del BIEN, collabora con ATTAC e al progetto Uninomade. (1975, Marsciano) ist Forscher an der Universität Bergamo im Bereich der Volkswirtschaft, Mitglied von BIEN und Mitarbeiter von ATTAC. Cesare Pietroiusti (artista, vive e lavora a Roma) ha sempre dimostrato un interesse specifico per le situazioni paradossali o apparentemente insensate, comunemente non considerate o considerate troppo insignificanti per diventare motivo di analisi o di auto-rappresentazione. Pietroiusti ha contribuito alla creazione dei “progetti Oreste”, gruppo variabile di artisti e curatori il cui scopo è stato quello di creare spazi operativi autonomi per lo sviluppo di idee, progetti e mostre attraverso incontri e esperienze di scambio tra persone. (Künstler, lebt und arbeitet in Rom) zeigt seit jeher ein besonderes Interesse für paradoxe und augenscheinlich unsinnige Situationen, die gemeinhin unbeachtet bleiben oder als nicht der weiteren Untersuchung wert erachtet werden. Pietroiusti hat bei der offenen Künstlergruppe „Oreste Projekte” mitgearbeitet, deren Zweck es ist, durch Gespräche und Begegnungen Freiund Arbeitsräume zur Entwicklung von Ideen, Projekten und Ausstellungen zu schaffen. Maria Rosa Sossai (vive e lavora a Roma) è critica d’arte e curatrice e lavora nell’ambito del video artistico e del film. (lebt und arbeitet in Rom) ist Kunstkritikerin im Bereich Video und Film. Sie hat zahlreiche Ausstellungen kuratiert. Simone Vecchi (1978, Reggio Emilia) é sindacalista a Bologna per la Filcams Cgil. (1978, Reggio Emilia) ist Gewerkschaftler für Filcams Cgil in Bologna. Pietro Vertova (1977, Trescore Balneario) é ricercatore in economia pubblica presso l’Universitá di Bergamo e dal 2009 Consigliere comunale a Bergamo. (1977, Trescore Balneario) ist Forscher an der Universität Bergamo im Bereich der Volkswirtschaft und seit 2009 Mitglied des Stadtrates in Bergamo. Die drei Kulturabteilungen der Autonomen Provinz Bozen-Südtirol Le ripartizioni alla cultura della Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige Formazione professionale italiana – Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige


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