Siamo cittadini legali

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Abstract Responsabilità individuale, onestà, legalità quanto ci appartengono questi temi o quanto li deleghiamo a una cattiva politica?

Siamo cittadini legali? di Luciana Zanon Pubblicato in Cittàmia 7 febbraio 2014 Qualche anno fa una discussione con un taxista a proposito degli esempi negativi dei nostri politici mi colpì parecchio. Probabilmente eravamo in tempo di elezioni e il confronto era iniziato in modo piuttosto banale discutendo appunto del malessere che la stragrande maggioranza dei cittadini sente nei riguardi delle numerose testimonianze di malcostume da parte di coloro che ci rappresentano in Parlamento. Il taxista iniziò la sua storia raccontandomi di un episodio che aveva vissuto personalmente e che ancora lo disgustava a distanza di anni. In buona sostanza il fatto consisteva in questo: ai tempi in cui c’era ancora il servizio militare, il signore in questione – su sollecitazione della madre e con l’aiuto di una persona amica che l’aveva messo in contatto con un politico di sua conoscenza – aveva chiesto un piccolo aiuto per essere esonerato dall’obbligo di leva. ‘Del resto - argomentava il mio interlocutore – ero in una situazione economica precaria,

avevo appena iniziato a lavorare e quel poco che guadagnavo faceva molto comodo in famiglia…’ Il contatto era giusto, perché effettivamente la sua richiesta era stata accolta e il ragazzo di un tempo aveva evitato il servizio militare. Ma quello che lo colpiva e disgustava era quanto successo a distanza di diversi anni: un giorno ricevette la telefonata della segreteria del signor politico che gli ricordava il favore ricevuto e che in cambio gli chiedeva la disponibilità di qualche giornata per andare a volantinare per la sua campagna elettorale. ‘Ma si rende conto signora – concludeva in modo indignato – di che pasta sono fatti? Questi ti fanno un favore e poi tengono i tuoi contatti in un archivio e dopo anni vengono a reclamare quanto gli è dovuto! Questo le dimostra come il clientelismo sia una vera e propria organizzazione a danno di noi cittadini onesti’. Mi ricordo ancora adesso di come rimasi basita e senza parole nel mio sedile posteriore. Ma - pensavo fra me e me – come è possibile che questa persona mi racconti indignato dell’organizzazione clientelare di un politico a cui si è rivolto per un favore e neanche gli sfiori il pensiero che già la sua richiesta fosse l’atto che aveva innescato il processo clientelare? Com’è possibile dichiarare pubblicamente la propria onestà di cittadino e non avere un benché minimo dubbio che la sua esenzione dal servizio militare fosse già di per sé un atto illegale? Esempi di questo tipo se ne possono citare a centinaia, ma quello che ho imparato con gli anni, è che in genere è molto facile accorgerci della poca onestà altrui, dei politici o di chi amministra la cosa pubblica in primis, ma è quasi impossibile accorgersi o ammettere la propria disonestà, prima di tutto verso se stessi. Perché, cosa succede nella testa della gente, che cosa succede nella nostra testa che ci impedisce di riconoscere le nostre manchevolezze, i nostri atti illegali, piccoli o grandi che siano? È un costume tutto italiano quello di incolpare il sistema e di


sentirsi ‘cittadini onesti’ anche quando chiediamo una raccomandazione o è solo un difetto del nostro taxista romano, e più in generale di noi italiani? Andiamo con ordine e cerchiamo di capire un po’ meglio. Esercizio n.1: propongo di fare un piccolo test e senza dirlo a nessuno prova a recuperare nella tua memoria dei piccoli o grandi atti illegittimi che potresti aver fatto nel corso della tua vita. Per esempio appunto cercare una raccomandazione, oppure non chiedere la fattura di un pagamento, evadere il fisco, truccare un esame, accorgersi di aver ricevuto come resto più soldi di quando dovuto e non restituirli, fare degli abusi edilizi. Gli esempi possono essere infiniti. Dan Ariely, professore alla Duke University negli Stati Uniti, ha studiato molto il tema dell’onestà in termini psicologici e di comportamento1. Lui afferma che l’onestà è una delle caratteristiche che più concorrono a formare un’immagine positiva di sé e dunque qualsiasi individuo, a meno che non si tratti di un criminale o di una personalità border line, ha bisogno di sentirsi onesto per avere una buona immagine di sé. Nel contempo però, molti dei suoi studi hanno dimostrato, che la maggioranza delle persone ha una buona attitudine a ‘barare’ quando ne ha l’opportunità. Ma ammettere a se stesso di aver agito in modo disonesto crea un certo malessere e dunque quello che la nostra mente fa è trovare delle piccole giustificazioni che rimpiccioliscano la nostra disonestà e dunque il nostro disagio. Il professor Ariely ha condotto i suoi studi in tutto il mondo ed è arrivato alla conclusione che questo tratto è universale e non culturale. Dunque, se questo ci può consolare, non siamo solo noi italiani a

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The Honest Truth About Dishonesty: How We Lie to Everyone--Especially Ourselves di Ariely Dan, 2013, Harper Perennial

sentirci dei bravi cittadini anche quando non ci comportiamo proprio eticamente. Che cosa succede dunque dentro alla nostra testa? Chiedo una raccomandazione per essere esonerato dalla leva, ma mi giustifico dicendomi che in quel momento la mia famiglia ha bisogno del mio salario. E dunque non è così grave. Non mi faccio fare la fattura dall’idraulico, ma mi giustifico dicendomi che non mi conviene e che la chiederei sicuramente se solo fosse possibile scaricarla. E dunque non è così grave. Trucco ad un esame ma mi giustifico dicendomi che tanto lo fanno tutti. E dunque non è così grave. Faccio un abuso edilizio ma mi giustifico dicendomi che le regole sono troppo complicate per essere rispettate. E dunque non è così grave. Insomma la nostra mente ha come inserito una specie di software che minimizza le nostre colpe perché altrimenti ci sentiremo male e questo vale sia per i cittadini, sia per i dipendenti pubblici sia per i nostri amministratori. Esercizio n.2: riprendi ora il tuo piccolo test e una volta recuperate le tue illegalità – piccole o grandi che siano – e identifica quali sono le tue giustificazioni, quelle che ti fanno dire che in fondo non è poi così grave. Dal discorso fatto fino a qui possiamo quindi dire che potenzialmente siamo tutti disonesti ma che siamo disposti a riconoscere solo la disonestà altrui. E questa non è una gran bella notizia, in fondo ci dice che appena può l’essere umano si comporta disonestamente. Il professor Ariely, però ha anche scoperto un’altra caratteristica: le persone tendono a comportarsi correttamente o a imbrogliare meno quando i valori morali e i codici d’onore vengono richiamati alla mente nella situazione in cui c’è la tentazione a comportarsi illegalmente, tanto più quanto


questi valori sono riconosciuti dalla comunità a livello sociale. Insomma l’essere umano pur essendo un potenziale imbroglione ha anche bisogno di vivere una funzione etica, di fare le cose giuste che la sua comunità riconosce come tali. Pensiamo banalmente alle community on line: in generale sono regolate da uno statuto e poiché le attività sono visibili a tutti, non appena qualcuno trasgredisce le regole – in genere legate al conflitto d’interesse, facendosi pubblicità - tutta la comunità è pronta a richiamarlo. Questo vale per i gruppi professionali su Linkedin ma vale anche per i gruppi del tempo libero o, che so, quelli dedicati allo Shiba Inu. Come dicono i professionisti del digitale è importante mantenere la reputazione virtuale. E’ evidente a questo punto che l’aspetto culturale – oltre a quello psicologico di cui abbiamo parlato fino ad ora – incide pesantemente sul comportamento etico delle persone e qui purtroppo il nostro Paese non se la cava troppo bene: dai dati di Transparency International2 la misurazione dell’indice di percezione della corruzione indica che l’Italia si trova al 69° posto su un totale di 170 paesi. Ai primi posti dei paesi virtuosi troviamo i paesi del Nord Europa, paesi che sono imbevuti dell’etica protestante, che ha come suo corpo centrale la responsabilità individuale. E’ evidente quindi che se la corruzione è percepita in modo così esteso non può riguardare solo gli amministratori e i politici della Res Publica, ma interessa anche tutti quei cittadini che accettano o addirittura alimentano la piccola corruzione, per esempio dando una bustarella all’impiegato per far andare avanti la propria pratica o al vigile urbano perché chiuda un occhio su un abuso commesso. Esercizio n.3: se venissi a conoscenza di un caso di corruzione saresti disposto a 2 www.transparency.it

segnalarlo o a denunciarlo pubblicamente? Chiara Putaturo di Transparency International Italia qualche giorno fa alla bella trasmissione radiofonica ‘Tutta la città ne parla’ di Rai Radio Tre, racconta di un indagine fatta a livello europeo che poneva questa stessa domanda a un campione di cittadini e i dati sono piuttosto sconfortanti. Nel nostro paese solo il 56% dei cittadini intervistati dichiara la propria disponibilità a denunciare pubblicamente un caso di corruzione mentre quasi la metà non è disposta a impegnarsi direttamente nella lotta alla corruzione. Alla stessa domanda in Francia hanno risposto affermativamente l’85% delle persone e in Germania il 94%. Noi italiani per connivenza, per paura, per ‘amicizia’ accettiamo rassegnati la corruzione e in questa rassegnazione ci giustifichiamo sentendoci vittime di un sistema corrotto. Ma così facendo il sistema viene continuamente alimentato. Sempre la dr.ssa Putaturo ricordava che degli strumenti utili per responsabilizzare cittadini e dipendenti alla legalità siano, come per le community on line, proprio la trasparenza e quindi la visibilità e l’accessibilità dei dati. Ma oltre a questo rimane importante anche riflettere su come ciascun cittadino si confronta individualmente con il tema della legalità. E’ ancora tutta colpa della politica? Quanta responsabilità ognuno di noi ha e potrebbe avere per cambiare finalmente le cose, per affermare a tutti i livelli il valore della legalità e per valorizzare le nostre grandi capacità? Spesso alla parola responsabilità è associato il termine colpa: io non ho responsabilità nel linguaggio comune significa non sono io il colpevole, non ci posso fare niente. Ma se ci pensiamo bene, con la frase ‘non ci posso fare niente’ oltre a rassicurarci sulla nostra presunta innocenza


ci attribuiamo anche una bella dose di impotenza: ‘non ci posso fare niente’ vuol dire in questo senso ‘non posso incidere’. Se ribaltiamo quindi il concetto di responsabilità e lo liberiamo dal nesso con la dicotomia colpa/innocenza, lo possiamo invece associare al concetto di potenza, ovvero di capacità e possibilità di incidere nella situazione. E dunque se sono responsabile posso disegnarmi maggiori margini di azione e di libertà. Posso diventare un promotore io stesso di legalità, sia nel ruolo di semplice cittadino, che di dipendente comunale, che di sindaco o di capo del governo. Vorrei a conclusione di queste riflessioni citare una piccola esperienza positiva, come ce ne sono molte altre in Italia, per incoraggiare e alimentare la speranza che anche gli italiani possono lavorare per la legalità. E un’esperienza di collaborazione fra istituzioni, amministratori locali e cittadini per ripristinare una situazione di legalità, ovvero lo smaltimento dell’amianto da tutto il territorio comunale. È un’esperienza che mi è particolarmente cara prima di tutto perché si tratta del mio luogo di origine e poi perché parliamo di un piccolo comune di montagna, Chies d’Alpago in provincia di Belluno, con risorse economiche scarsissime. Il Sindaco è riuscita a coinvolgere tutti i cittadini proprietari di stabili con tetti in amianto per una dismissione congiunta e una sanificazione del territorio. La Regione Veneto è stata coinvolta e ha partecipato con un piccolo contributo, ma ancora prima che ci fosse la certezza di questo contributo i cittadini, animati dallo spirito di comunità che il Sindaco ha saputo stimolare facendo vedere il bene comune, hanno aderito di tasca propria, alcuni stipulando anche dei mutui per poter far fronte alle spese di dismissione. E dunque si può fare!


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